Per la formazione di un nuovo soggetto politico che governi la transizione.
di Maurizio Pallante*
Riceviamo e pubblichiamo
«La decrescita è primo pilastro su cui si è basato il percorso sin qui svolto tra i soggetti proponenti. In questa sede viene proposto per la prima volta pubblicamente come elemento fondativo di un progetto politico aperto a tutte le realtà associative e a tutti i soggetti che ne riconoscono l’imprescindibilità per superare la crisi di sistema che l’umanità sta vivendo».
L’incontro di oggi è il primo momento pubblico di un percorso avviato da un coordinamento di liste civiche e movimenti di cittadinanza attiva che operano nella provincia di Torino su posizioni radicalmente contrapposte alle scelte di politica economica, amministrativa e ambientale sostenute, senza sostanziali differenze, da un sistema di potere in cui confluiscono i partiti politici che amministrano, seppure con maggioranze diverse, la regione, la provincia e la città capoluogo, in accordo con i centri del potere economico e finanziario. Una sfida impari, con i rapporti di forza resi ancor più sfavorevoli dalla mancanza di collegamenti con altri gruppi e movimenti operanti con modalità analoghe e per gli stessi obbiettivi in altre aree del Paese.
L’incontro di oggi è il primo momento pubblico di un percorso avviato da un coordinamento di liste civiche e movimenti di cittadinanza attiva che operano nella provincia di Torino su posizioni radicalmente contrapposte alle scelte di politica economica, amministrativa e ambientale sostenute, senza sostanziali differenze, da un sistema di potere in cui confluiscono i partiti politici che amministrano, seppure con maggioranze diverse, la regione, la provincia e la città capoluogo, in accordo con i centri del potere economico e finanziario. Una sfida impari, con i rapporti di forza resi ancor più sfavorevoli dalla mancanza di collegamenti con altri gruppi e movimenti operanti con modalità analoghe e per gli stessi obbiettivi in altre aree del Paese.
Per favorire il confronto tra queste realtà e verificare la possibilità di realizzare forme di coordinamento tra di loro, la rete torinese delle liste civiche e dei movimenti di cittadinanza attiva ha invitato il 16 ottobre scorso a Torino sette esponenti di movimenti culturali e politici diffusi sul territorio nazionale a discutere un documento in cui riassumeva le sue riflessioni e le sue proposte sulla situazione economica, politica, ambientale. Una sorta di manifesto che definiva le coordinate e i criteri della discussione. Quattro dei sette testimoni invitati si sono ritrovati sostanzialmente d’accordo sull’impostazione del documento e lo hanno integrato con l’apporto delle loro specifiche sensibilità. Essendo state condivise le integrazioni apportate, i quattro testimoni e gli esponenti della rete torinese le hanno formalizzate in due riunioni successive e hanno deciso di sottoporre il documento così integrato a dibattito pubblico con l’obbiettivo di verificare se possa costituire la base del processo di aggregazione di un nuovo soggetto politico. Questa è la finalità dell’incontro di oggi.
A coloro che, tra i partecipanti a questo incontro a titolo personale o a nome di una lista civica, associazione, movimento, si riconosceranno nelle analisi e nelle proposte scritte in questo documento, o condividendolo nelle sue linee generali proporranno integrazioni per renderlo più completo, i promotori propongono di avviare un percorso comune di una durata non definibile a priori, ma che dovrà comunque essere sufficiente a delineare le linee guida di un progetto di futuro condiviso e le sue tappe intermedie, una struttura organizzativa democratica, partecipata e scevra da ogni personalismo, proposte politiche concrete, documentate, realizzabili, finalizzate a superare la crisi ambientale, a creare occupazione in attività che riducano il consumo di risorse, la produzione di rifiuti e l’impatto ambientale, a favorire la pace eliminando le cause dei conflitti, in particolare l’iniqua distribuzione delle risorse tra i popoli, a consentire la piena esplicazione delle potenzialità di ogni essere umano, a realizzare forme di democrazia che favoriscano la piena attuazione del dettato costituzionale, sia dal punto di vista della partecipazione dei cittadini alla gestione delle scelte che li riguardano direttamente, sia dal punto di vista della pluralità dell’informazione.
Il documento che accomuna i promotori e che invitiamo oggi a discutere, implementare, correggere, tenendo conto che non è una summa in cui inserire l’elenco e i titoli di tutte le tematiche, ma un manifesto generale da cui dovranno scaturire nei prossimi mesi una serie di contributi settoriali approfonditi, definisce a grandi linee l’identità del soggetto politico che proponiamo di costruire, indica i punti di riferimento imprescindibili del tragitto che proponiamo di seguire, sintetizza i riferimenti culturali in cui riteniamo sia indispensabile riconoscersi se si vuol partecipare alla costruzione del progetto a cui oggi contiamo di dare avvio. Non intendiamo chiudere la discussione a chi non si riconosce in tutti gli elementi fondanti della nostra proposta, ma l’obbiettivo con cui abbiamo convocato questa riunione non è avviare un confronto di questo tipo perché non saremo in grado di farlo fino a quando non avremo definito almeno con una certa approssimazione la nostra identità. L’obbiettivo della discussione di oggi è individuare gli elementi di fondo di una identità condivisa tra chi si riconosce nelle linee di fondo indicate nel documento che ci accingiamo a discutere. In gruppi di lavoro nella mattinata. In seduta plenaria il pomeriggio. Una volta che avremo superato questo passaggio non ci sottrarremo al confronto con chi ce lo chiederà.
Il primo punto che accomuna i promotori di questo incontro, un punto da cui derivano tutti gli altri e su cui intendiamo dare una forte caratterizzazione al soggetto politico che ci proponiamo di costituire, deriva dalla valutazione che la crisi in corso da più di due anni nei paesi industrializzati è una crisi di sistema, determinata dalla convergenza e dai feed back reciproci di più crisi, tutte causate dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci e dal raggiungimento del limite oltre il quale questa crescita comincia a distruggere i suoi stessi fondamenti vitali, così come accade nelle neoplasie.
Il documento che accomuna i promotori e che invitiamo oggi a discutere, implementare, correggere, tenendo conto che non è una summa in cui inserire l’elenco e i titoli di tutte le tematiche, ma un manifesto generale da cui dovranno scaturire nei prossimi mesi una serie di contributi settoriali approfonditi, definisce a grandi linee l’identità del soggetto politico che proponiamo di costruire, indica i punti di riferimento imprescindibili del tragitto che proponiamo di seguire, sintetizza i riferimenti culturali in cui riteniamo sia indispensabile riconoscersi se si vuol partecipare alla costruzione del progetto a cui oggi contiamo di dare avvio. Non intendiamo chiudere la discussione a chi non si riconosce in tutti gli elementi fondanti della nostra proposta, ma l’obbiettivo con cui abbiamo convocato questa riunione non è avviare un confronto di questo tipo perché non saremo in grado di farlo fino a quando non avremo definito almeno con una certa approssimazione la nostra identità. L’obbiettivo della discussione di oggi è individuare gli elementi di fondo di una identità condivisa tra chi si riconosce nelle linee di fondo indicate nel documento che ci accingiamo a discutere. In gruppi di lavoro nella mattinata. In seduta plenaria il pomeriggio. Una volta che avremo superato questo passaggio non ci sottrarremo al confronto con chi ce lo chiederà.
Il primo punto che accomuna i promotori di questo incontro, un punto da cui derivano tutti gli altri e su cui intendiamo dare una forte caratterizzazione al soggetto politico che ci proponiamo di costituire, deriva dalla valutazione che la crisi in corso da più di due anni nei paesi industrializzati è una crisi di sistema, determinata dalla convergenza e dai feed back reciproci di più crisi, tutte causate dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci e dal raggiungimento del limite oltre il quale questa crescita comincia a distruggere i suoi stessi fondamenti vitali, così come accade nelle neoplasie.
Nel determinare questa crisi di sistema confluiscono:
1. La crisi economica: che è essenzialmente una crisi di sovrapproduzione determinata dal fatto che le innovazioni tecnologiche finalizzate ad aumentare la produttività e la competitività, riducono la domanda riducendo l’occupazione e contestualmente accrescono l’offerta. La saturazione dei mercati dei prodotti su cui la crescita si è fondata dal secondo dopoguerra a oggi (in particolare l’automobile e l’edilizia) ha aggravato questo divario a tal punto che le tradizionali misure di politica economica finalizzate all’aumento della domanda attraverso la spesa pubblica in deficit non hanno avuto gli esiti espansivi sperati e hanno soltanto aggravato i debiti pubblici di molti paesi fino all’insolvenza.
2. La crisi ecologica, che è determinata:
- dal progressivo esaurimento di molte risorse non rinnovabili (in particolare, ma non solo, le fonti fossili di energia);
- da un incremento esponenziale degli scarti liquidi, solidi e gassosi derivanti dai processi produttivi, dall’uso di molti prodotti e dai rifiuti in cui si trasformano i prodotti quando vengono dismessi; molte di queste emissioni hanno superato le capacità dell’ecosistema terrestre di metabolizzarle, in particolare i gas climalteranti e i rifiuti solidi nelle aree urbane e negli oceani (dove galleggiano agglomerati di pezzi plastica di un’estensione pari a un continente);
- da un progressivo esaurimento della fertilità dei suoli agricoli in conseguenza del loro supersfruttamento chimico, da una perdita esponenziale di biodiversità, da una rarefazione preoccupante delle risorse alieutiche;
3. La crisi sociale, che nei paesi industrializzati si manifesta con un aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, con la distruzione dei legami sociali, con la diffusione della povertà e di nuove forme di povertà.
4. La crisi morale, che deriva sostanzialmente dal fatto che finalizzando l’organizzazione economica e produttiva alla crescita della produzione di merci, il denaro è diventato il principale riferimento del sistema dei valori condivisi e ha subordinato a sé tutti gli altri che regolano la convivenza civile.
5. La crisi della politica, che dalla parte degli elettori si manifesta con una progressiva riduzione delle percentuali dei votanti, da parte degli eletti con la sottrazione agli elettori della possibilità di scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni, con la trasformazione dei partiti in oligarchie di superprivilegiati, con la sottomissione della sfera politica a quella economica e finanziaria, con la riduzione della dimensione temporale delle scelte alla durata delle legislature e la mancanza di una visione del futuro, col monopolio dell’informazione ridotta sempre più a propaganda.
6. La crisi internazionale, che si manifesta con l’aumento del divario tra i popoli poveri e i popoli ricchi, con le guerre per il controllo delle risorse, non solo energetiche, ma di altri minerali strategici come, per esempio, il coltan, con la minaccia di altre guerre di dimensione più vasta dove non si esclude l’uso di armi nucleari, con l’avvio di tensioni internazionali destinate a sfociare in altre guerre per il controllo dell’acqua.
Le cause di questa crisi di sistema e di tutte le crisi settoriali che contribuiscono a determinarla sono insite nella crescita della produzione di merci che caratterizza il modo di produzione industriale. I tentativi di superare le crisi indotte dalla crescita della produzione di merci rilanciando la crescita della produzione di merci attraverso un incremento della domanda e dei consumi hanno dimostrato di non essere più efficaci, perché non ci sono più margini per accrescere ulteriormente il prelievo delle risorse e la terra non è più in grado di metabolizzare ulteriori quantità di rifiuti liquidi, solidi e gassosi. Finché si continua a perseguire l’obbiettivo della crescita, tutti gli aspetti della crisi sono destinati ad aggravarsi. Possono essere superati solo se si abbandona questo obbiettivo. Dopo 250 anni si sta chiudendo la fase storica avviata dalla rivoluzione industriale. Per fare in modo che questo tornante della storia non sia contrassegnato da una serie di disastri e da un regresso dell’umanità verso una conflittualità diffusa e dalla lotta di tutti contro tutti, occorre aprire una nuova fase storica, contrassegnata da una riduzione controllata e guidata della produzione di merci, del prelievo di risorse e dell’emissione di scarti a livelli sopportabili dal pianeta. Affinché ciò si possa realizzare senza introdurre pesanti restrizioni nel tenore di vita dei popoli occidentali, perché ne deriverebbero reazioni negative nei confronti dei proponenti, consentendo anzi di ampliare la quota delle risorse a disposizione dei popoli poveri, occorre una rivoluzione culturale capace non solo di definire e rendere desiderabili nuovi stili di vita più sobri e più responsabili, ma anche di promuovere un grande sviluppo di tecnologie capaci di accrescere l’efficienza con cui si usano le risorse, di attenuare l’impatto ambientale dei processi produttivi e di riutilizzare i materiali già utilizzati eliminando il concetto stesso di rifiuto. Solo una decrescita guidata lungo queste direttive può aprire una nuova fase più evoluta nella storia dell’umanità, trasformando la crisi che stiamo vivendo in una grande e irrepetibile occasione di cambiamento e miglioramento.
La decrescita è primo pilastro su cui si è basato il percorso sin qui svolto tra i soggetti proponenti. In questa sede viene proposto per la prima volta pubblicamente come elemento fondativo di un progetto politico aperto a tutte le realtà associative e a tutti i soggetti che ne riconoscono l’imprescindibilità per superare la crisi di sistema che l’umanità sta vivendo. Lo scopo del confronto che proponiamo a questi soggetti è ricavarne una serie di obbiettivi concreti, a livello di politica economica, industriale, occupazionale, amministrativa, di cambiamenti negli stili di vita, di valori e modelli di comportamento, di relazioni sociali, di relazioni internazionali.
Tutti i partiti esistenti pongono al centro delle loro scelte politiche la crescita della produzione di merci. Tutte le formazioni politiche di destra e di sinistra sono accomunate da questo obbiettivo. E non poteva essere diversamente perché la loro cultura e la loro storia, le loro classi sociali di riferimento - imprenditori, professionisti, commercianti, lavoratori dipendenti – si sono sviluppate nell’epoca dell’industrializzazione. La differenza di fondo tra destra e sinistra consiste nei diversi criteri di distribuzione tra gli attori sociali del reddito monetario generato dalla crescita della produzione di merci. La destra ritiene che le parti debba farle il mercato. La sinistra sostiene che se le parti le fa il mercato, i più forti prendono le quote più grandi lasciando ai più deboli solo il necessario per la sopravvivenza. È quindi compito dello Stato realizzare una più equa redistribuzione del reddito monetario prodotto mediante la tassazione progressiva e i servizi sociali. Ma l’equità sociale e la difesa dei più deboli sono valori universali e atemporali, non un patrimonio esclusivo della sinistra. Sono precedenti alla sinistra e non verranno meno con la sua fine. Possono essere condivisi, e noi li condividiamo, anche senza essere schierati a sinistra. Ciò precisato, un soggetto politico che ponga la decrescita a fondamento della sua elaborazione teorica e delle proposte politiche concrete che se ne possono ricavare, è costituzionalmente alternativo sia alla destra, sia alla sinistra. Non perché si ponga in una posizione di equidistanza tra di esse, ma perché si muove in un piano definito da altre coordinate rispetto al piano in cui si collocano le opzioni di destra e di sinistra. Perché non si propone di agire all’interno della cornice storica del modo di produzione industriale, ma di uscirne. Perché non pone il “sempre di più” a fine del fare, ma il “sempre meglio” a fine di un fare connotato qualitativamente, con la consapevolezza che spesso il meglio coincide col meno. Una casa ben costruita consuma meno energia di una casa mal costruita, perché non ne disperde. Richiede una tecnologia più evoluta, quindi un progresso scientifico e tecnologico, riduce le emissioni di CO2 e la crescita del pil. Contribuisce, per poco che sia, a migliorare il mondo e la qualità della vita non solo di chi ci vive, ma anche di chi ci vivrà proprio perché comporta una decrescita del consumo di merci che non solo non hanno un’utilità effettiva, ma generano danni ambientali e alla salute.
Se il movimento politico che ci proponiamo di costruire è costituzionalmente alternativo alla destra e alla sinistra, non potrà stringere alleanze strategiche con nessuno dei due schieramenti. Ammesso che riceva i voti necessari per entrare nelle assemblee elettive, ed escludendo, come è sensato pensare, che possa avere maggioranze assolute, non potrà far parte di nessuna coalizione di maggioranza. Non potrà avere rappresentanti in nessun esecutivo di coalizione con partiti che si propongono di sostenere la crescita con i piccoli poteri conferiti dal ruolo istituzionale. Ma pur rimanendo all’opposizione dovrà sempre agire con un’ottica di governo. Non potrà limitarsi a contrastare le decisioni altrui, ma dovrà formulare sempre proposte propositive. Non potrà limitarsi nemmeno a formulare proposte propositive in alternativa a decisioni altrui, perché in questo modo si limiterebbe comunque ad agire di rimessa. Dovrà prendere l’iniziativa e formulare proposte coerenti con il progetto di futuro fondato sulla decrescita di cui si fa portatore, cercando di volta in volta le alleanze che consentono di farle passare. Chi ha l’ambizione di farsi portatore di una concezione del mondo alternativa a quella dominante deve utilizzare le assemblee elettive per realizzare passi concreti in quella direzione, dimostrandone la fattibilità e la desiderabilità, coinvolgendo chi milita in organizzazioni politiche diverse con onestà d’intenzioni e facendo venire allo scoperto chi vi si oppone per altre ragioni. Per fare un esempio: l’opposizione al nucleare, se sostenuta da un programma realistico e rigoroso di riduzione degli sprechi accompagnato da una progressiva sostituzione delle fonti fossili con fonti rinnovabili in piccoli impianti per autoconsumo, può farci trovare alleati non solo tra coloro che temono i pericoli insiti nella irresponsabile scelta energetica nucleare, ma anche in un vasto fronte di imprenditori che posseggono le tecnologie per realizzare queste alternative e in una vasta area di opinione pubblica che comunque desidera una soddisfazione adeguata delle proprie esigenze energetiche senza eccessive rinunce. Tuttavia le proposte di una politica energetica nell’ottica della decrescita non possono essere formulate come alternativa alla proposta di costruzione di centrali nucleari, come hanno fatto e continuano a fare i verdi italiani (e questa è una delle ragioni per cui sono scomparsi dalla scena politica). Devono essere formulate e sostenute di per sé, perché sono tasselli essenziali del nostro progetto di futuro, anche se nessuno ponesse all’ordine del giorno il rilancio del nucleare.
La radicale alterità a un sistema politico incentrato sulla dialettica tra due schieramenti contrapposti che perseguono la stessa finalità della crescita con metodi sempre meno diversificati, comporta anche una gestione del ruolo istituzionale con metodi radicalmente differenti. Per il soggetto che proponiamo di costituire l’impegno politico nelle istituzioni è inteso come servizio pro tempore e non come professione. La permanenza in un organismo elettivo non può superare i due mandati, senza nessuna eccezione. Le retribuzioni e i benefit degli eletti devono essere drasticamente ridotti. Bisogna coinvolgere la società civile, cioè tutte le forme aggregative in cui si riuniscono sulla base di una qualche affinità gruppi di persone per perseguire un fine comune, nella discussione e nella formulazione delle scelte politiche che le riguardano. La democrazia, per usare una formulazione che ha trovato in Giorgio Gaber il suo cantore, è partecipazione. Pertanto i nostri referenti privilegiati sono tutti i movimenti che si contrappongono alle scelte devastanti per i luoghi in cui vivono, proposte-imposte dal sistema di potere economico-finanziario-politico-mediatico in base alla necessità della crescita. Perché in quelle forme aggregative la partecipazione democratica si è già realizzata.
La nascita di questi movimenti negli anni ottanta è stata contrassegnata da un atteggiamento che è stato spregiativamente definito Nimby (not in my back yard). Non nel mio giardino. Questo atteggiamento era indubbiamente criticabile perché non finalizzato a perseguire alternative ecologicamente accettabili a problemi ambientali che creavano preoccupazioni (la costruzione di un inceneritore, di una discarica, di una centrale termoelettrica, di un’autostrada), ma a spostarli da un’altra parte. Tuttavia è stato il primo segnale con cui si è manifestata la crisi dell’egemonia culturale esercitata dall’industria in nome della crescita e dell’occupazione. Nei decenni precedenti ogni impianto industriale, per nocivo che fosse, era salutato come una benedizione perché portatore di reddito, di modernità, di progresso, di lavoro. Questa fase iniziale dei movimenti ha inoltre avuto il merito di aver avviato forme di coinvolgimento diretto delle popolazioni nelle decisioni che influiscono pesantemente sulla propria vita. È stata l’incubatrice di forme di democrazia diretta, di confronti a muso duro con le pretese dei politici di avocare a sé il potere decisionale, di prese di coscienza collettive. In questo contesto è maturata la seconda fase dei movimenti, in cui l’opposizione ai progetti devastanti è stata accompagnata dall’elaborazione di controproposte finalizzate a contemperare le esigenze del lavoro con le esigenze dell’ambiente, il reddito monetario con la salute, l’occupazione con la bellezza del paesaggio, l’innovazione col rispetto del passato. La punta più alta di questa seconda fase è stata ed è la resistenza intransigente, tenace, documentata, del movimento No Tav in Val di Susa, che ha coinvolto tutta la popolazione locale, riuscendo a respingere con la mobilitazione di massa anche l’occupazione militare del territorio. L’esempio dei No Tav valsusini è stato contagioso e ha dato coraggio ad altri movimenti di resistenza territoriali alla realizzazione di grandi opere devastanti. Si è anche costituita una forma di coordinamento tra i movimenti locali in un’ottica di mutuo soccorso. Un’iniziativa importante, che però non consente di uscire da un ambito difensivo. Noi crediamo che sia matura una terza fase, che dovrà essere caratterizzata dalla consapevolezza che tutte le opere con un impatto devastante sui luoghi e sulla vita delle persone che li abitano rispondono alla stessa logica di sostegno alla crescita, a uno stesso allucinante progetto di futuro senza futuro, alla vera e propria utopia negativa di una crescita che utilizza tecnologie sempre più potenti per apportare modifiche sempre più devastanti alla crosta terrestre, che consuma quantità sempre maggiori di risorse in tempi sempre più accelerati e in tempi sempre più accelerati le trasforma in quantità sempre maggiori di rifiuti, che mercifica progressivamente gli elementi naturali, i rapporti tra le persone, le stesse basi della vita. Alle follie che si proporranno nell’ambito di questa visione distopica del futuro occorre contrapporre una visione del futuro realistica, possibile e desiderabile, fondata sulla riduzione dell’impronta ecologica. L’unica prospettiva di futuro possibile. E il passaggio indispensabile che i movimenti devono compiere è l’inserimento delle loro controproposte locali in un progetto complessivo in grado di trasformarle in altrettanti tasselli di un futuro possibile alla cui realizzazione tutti concorrono. Non possono più limitarsi a un gioco di rimessa, a risposte colpo su colpo, caso per caso. Devono assumere l’iniziativa. Essere i protagonisti, non più soltanto i deuteragonisti.
Il progetto politico su cui proponiamo di lavorare da oggi è stato avviato da alcune liste civiche e movimenti locali, proprio nell’ottica appena descritta. Non è un caso. È un segno che i tempi di questo passaggio sono maturi. È stata la consapevolezza che non basta organizzare la società civile su un obbiettivo difensivo specifico, per esempio la lotta a un inceneritore o la difesa del territorio da piani regolatori che favoriscono la speculazione edilizia. È stata la consapevolezza che è indispensabile collegarsi con gli altri movimenti di cittadinanza attiva e con le altre liste civiche che in altre aree del territorio nazionale perseguono obbiettivi analoghi. Ed è bastato lanciare un invito al confronto perché si moltiplicassero le adesioni, le richieste di coinvolgimento. È bastato confrontarsi per capire che le opere devastanti contro cui tutti i movimenti locali si battono sono motivate dalla stessa esigenza di rilanciare la crescita economica con lo specchietto per le allodole dell’occupazione, che dalla parte opposta sono schierati tutti i partiti, col sostegno dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali, con la copertura dei mass media. Forse non è sbagliato pensare che in questi movimenti è attiva la parte più consapevole della crescente percentuale degli aventi diritto al voto che non la esercitano o annullano la scheda. Chi vota una lista civica nel suo comune perché è una presenza alternativa ai partiti, oggi non ha un referente analogo ai livelli sovra comunali. Non gli resta che non votare o votare a malincuore il partito che valuta il meno peggiore degli altri. Per quanto ancora saremo condannati a questa inaccettabile alternativa? Dal confronto tra le molte realtà di questo tipo sparse sul territorio nazionale e per lo più isolate anche se hanno in comune ciò che rifiutano, ciò che vorrebbero e gli avversari, non può scaturire un nuovo soggetto politico in grado di rappresentarli ai livelli istituzionali più alti? È questa la domanda a cui vorremmo dare una risposta positiva avviando oggi un processo che ci porti a verificarne la possibilità.
Il ruolo dei promotori di questo incontro finisce sostanzialmente con questo convegno che chiude la fase iniziale del percorso e ne apre una seconda. Dopo aver verificato l’esistenza di una comune base politico-culturale e la complementarietà degli approfondimenti specifici sviluppati da ciascuno nella propria associazione, abbiamo elaborato un documento unitario, una sorta di manifesto, che come tutti i manifesti sintetizza gli elementi caratterizzanti e rimanda a documenti specifici per gli approfondimenti settoriali. Su questo documento abbiamo invitato a discutere le liste civiche e i movimenti di cittadinanza attiva che ne condividono l’impostazione generale, sono interessati a colmarne le lacune e ad apportarvi integrazioni, a trovare forme organizzative snelle, funzionali a sviluppare nei prossimi mesi un impegno operativo sulle tematiche su cui hanno svolto riflessioni e fatto esperienze. Il presupposto per partecipare a questa fase è la condivisione dei tre punti fondanti che caratterizzano la nostra proposta: la decrescita, l’alterità rispetto ai partiti esistenti in quanto varianti dell’ideologia della crescita che li accomuna, la valorizzazione della democrazia partecipativa che ha trovato la massima espressione nei movimenti contro le opere devastanti in cui si realizza la fase dell’economia della crescita che stiamo vivendo. I contributi di chi accetterà di inserirsi in questo percorso non potranno essere soltanto approfondimenti teorici, ma dovranno tradursi in un forte impegno a coinvolgere altri movimenti presenti nell’ambito territoriale in cui operano. Solo se saremo capaci di coinvolgere il maggior numero di queste realtà il progetto di un nuovo soggetto politico potrà realizzarsi. Dalla discussione odierna dovrà scaturire un gruppo di coordinamento che avrà il compito di gestire la fase del processo costituente del soggetto politico. Oggi non si costituisce nessun partito e, quindi, non si elegge nessun organo politico. Oggi, se lo riterremo opportuno, si organizzano i gruppi tematici che avranno il compito di comporre i tasselli della nostra identità culturale e politica; che studieranno una struttura organizzativa democratica, partecipativa, flessibile, scevra da ogni forma di personalismo; che si doteranno di un agile organismo di coordinamento per favorire la circolazione delle informazioni e organizzare le fasi del lavoro costituente. Una struttura di servizio che decadrà nel momento in cui questa seconda fase di lavoro sia finita e saremo pronti a dare vita a un soggetto politico con una identità forte e riconoscibile, un progetto di futuro, un programma d’azione, una capacità di dialogare con le realtà sociali di riferimento, una struttura organizzativa regolata da procedure condivise. A quel punto si eleggeranno gli organi dirigenti ai termini dello statuto che avremo elaborato.
Due precisazioni finali. Il confronto che proponiamo di avviare oggi non ha come scadenza temporale la partecipazione alle prossime elezioni italiane, anticipate o fisiologiche che siano. Il nostro riferimento è il tornante storico che l’umanità si trova davanti, caratterizzato dagli ultimi colpi di un sistema economico e produttivo finalizzato alla crescita della produzione e del consumo di merci: la fine dell’epoca storica iniziata 250 anni fa con la rivoluzione industriale. La prossima scadenza elettorale italiana, pur non avendo un’importanza trascurabile, è piccola cosa in confronto. Credo che non si debba mai dimenticare che questo è l’orizzonte in cui ci dobbiamo muovere. Ciò non vuol dire che escludiamo la partecipazione alla prossima scadenza elettorale italiana. Valuteremo, quando la scadenza si presenterà, se saremo pronti, sia dal punto di vista delle proposte, sia dal punto di vista organizzativo, a raccogliere il consenso di una percentuale significativa del nostro elettorato di riferimento, a cui comunque dobbiamo rivolgerci non limitandoci a sollecitarne l’indignazione o raccoglierne lo scontento, ma offrendo indicazioni propositive concrete, realizzabili e desiderabili. Bisogna uscire dalla politica gridata, dalle contrapposizioni, dagli schieramenti, dalle semplificazioni, dalle personalizzazioni. Dobbiamo parlare alla testa e non alla pancia degli elettori, stimolandoli a uscire dalla logica della delega.
Questi elementi di fondo ci differenziano da altri tentativi in corso di aggregare i movimenti e le realtà sociali che non si riconoscono nel sistema dei partiti in un nuovo soggetto politico pensato in funzione della prossima scadenza elettorale. Pur apprezzando i tentativi di favorire il confronto tra questi progetti e il nostro per il valore insito nel superamento delle frammentazioni, dobbiamo evitare il pericolo che gli elementi fondanti nella nostra proposta vengano annacquati e si confondano in un coacervo indistinto che verrebbe percepito dall’opinione pubblica come un ennesimo tentativo di rimescolamento di spezzoni di una sinistra più o meno radicale unita soprattutto dall’esigenza di raggiungere il quorum elettorale e dalla contrapposizione agli altri schieramenti politici. Se questa fosse l’immagine che viene percepita, l’esito sarebbe un fallimento in termini elettorali, la perdita della prospettiva storico-politica che caratterizza la nostra analisi della crisi come di sistema delle società industriali, l’allontanamento della possibilità di realizzare un confronto costruttivo con strati sociali determinanti per la realizzazione del nostro progetto. Meglio avviare defatiganti trattative con gruppetti ultra politicizzati collocati in nicchie sociali marginali che perseguono sostanzialmente l’obbiettivo di una presenza parlamentare, o un confronto serrato con le componenti del mondo produttivo orientate a sviluppare tecnologie che riducono il consumo di energia, il consumo di risorse e le quantità dei rifiuti, e non hanno alcun interesse a rapportarsi con una ennesima minima formazione politica di sinistra impegnata a definire le percentuali relative di ognuna delle sue componenti nella formazione delle liste elettorali? La domanda è retorica e sottende l’invito a concentrarci sui temi che ci possono consentire di tradurre in termini concreti le premesse teoriche su cui siete stati invitati a discutere dagli organizzatori di questo incontro.
1. La crisi economica: che è essenzialmente una crisi di sovrapproduzione determinata dal fatto che le innovazioni tecnologiche finalizzate ad aumentare la produttività e la competitività, riducono la domanda riducendo l’occupazione e contestualmente accrescono l’offerta. La saturazione dei mercati dei prodotti su cui la crescita si è fondata dal secondo dopoguerra a oggi (in particolare l’automobile e l’edilizia) ha aggravato questo divario a tal punto che le tradizionali misure di politica economica finalizzate all’aumento della domanda attraverso la spesa pubblica in deficit non hanno avuto gli esiti espansivi sperati e hanno soltanto aggravato i debiti pubblici di molti paesi fino all’insolvenza.
2. La crisi ecologica, che è determinata:
- dal progressivo esaurimento di molte risorse non rinnovabili (in particolare, ma non solo, le fonti fossili di energia);
- da un incremento esponenziale degli scarti liquidi, solidi e gassosi derivanti dai processi produttivi, dall’uso di molti prodotti e dai rifiuti in cui si trasformano i prodotti quando vengono dismessi; molte di queste emissioni hanno superato le capacità dell’ecosistema terrestre di metabolizzarle, in particolare i gas climalteranti e i rifiuti solidi nelle aree urbane e negli oceani (dove galleggiano agglomerati di pezzi plastica di un’estensione pari a un continente);
- da un progressivo esaurimento della fertilità dei suoli agricoli in conseguenza del loro supersfruttamento chimico, da una perdita esponenziale di biodiversità, da una rarefazione preoccupante delle risorse alieutiche;
3. La crisi sociale, che nei paesi industrializzati si manifesta con un aumento della disoccupazione, soprattutto giovanile, con la distruzione dei legami sociali, con la diffusione della povertà e di nuove forme di povertà.
4. La crisi morale, che deriva sostanzialmente dal fatto che finalizzando l’organizzazione economica e produttiva alla crescita della produzione di merci, il denaro è diventato il principale riferimento del sistema dei valori condivisi e ha subordinato a sé tutti gli altri che regolano la convivenza civile.
5. La crisi della politica, che dalla parte degli elettori si manifesta con una progressiva riduzione delle percentuali dei votanti, da parte degli eletti con la sottrazione agli elettori della possibilità di scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni, con la trasformazione dei partiti in oligarchie di superprivilegiati, con la sottomissione della sfera politica a quella economica e finanziaria, con la riduzione della dimensione temporale delle scelte alla durata delle legislature e la mancanza di una visione del futuro, col monopolio dell’informazione ridotta sempre più a propaganda.
6. La crisi internazionale, che si manifesta con l’aumento del divario tra i popoli poveri e i popoli ricchi, con le guerre per il controllo delle risorse, non solo energetiche, ma di altri minerali strategici come, per esempio, il coltan, con la minaccia di altre guerre di dimensione più vasta dove non si esclude l’uso di armi nucleari, con l’avvio di tensioni internazionali destinate a sfociare in altre guerre per il controllo dell’acqua.
Le cause di questa crisi di sistema e di tutte le crisi settoriali che contribuiscono a determinarla sono insite nella crescita della produzione di merci che caratterizza il modo di produzione industriale. I tentativi di superare le crisi indotte dalla crescita della produzione di merci rilanciando la crescita della produzione di merci attraverso un incremento della domanda e dei consumi hanno dimostrato di non essere più efficaci, perché non ci sono più margini per accrescere ulteriormente il prelievo delle risorse e la terra non è più in grado di metabolizzare ulteriori quantità di rifiuti liquidi, solidi e gassosi. Finché si continua a perseguire l’obbiettivo della crescita, tutti gli aspetti della crisi sono destinati ad aggravarsi. Possono essere superati solo se si abbandona questo obbiettivo. Dopo 250 anni si sta chiudendo la fase storica avviata dalla rivoluzione industriale. Per fare in modo che questo tornante della storia non sia contrassegnato da una serie di disastri e da un regresso dell’umanità verso una conflittualità diffusa e dalla lotta di tutti contro tutti, occorre aprire una nuova fase storica, contrassegnata da una riduzione controllata e guidata della produzione di merci, del prelievo di risorse e dell’emissione di scarti a livelli sopportabili dal pianeta. Affinché ciò si possa realizzare senza introdurre pesanti restrizioni nel tenore di vita dei popoli occidentali, perché ne deriverebbero reazioni negative nei confronti dei proponenti, consentendo anzi di ampliare la quota delle risorse a disposizione dei popoli poveri, occorre una rivoluzione culturale capace non solo di definire e rendere desiderabili nuovi stili di vita più sobri e più responsabili, ma anche di promuovere un grande sviluppo di tecnologie capaci di accrescere l’efficienza con cui si usano le risorse, di attenuare l’impatto ambientale dei processi produttivi e di riutilizzare i materiali già utilizzati eliminando il concetto stesso di rifiuto. Solo una decrescita guidata lungo queste direttive può aprire una nuova fase più evoluta nella storia dell’umanità, trasformando la crisi che stiamo vivendo in una grande e irrepetibile occasione di cambiamento e miglioramento.
La decrescita è primo pilastro su cui si è basato il percorso sin qui svolto tra i soggetti proponenti. In questa sede viene proposto per la prima volta pubblicamente come elemento fondativo di un progetto politico aperto a tutte le realtà associative e a tutti i soggetti che ne riconoscono l’imprescindibilità per superare la crisi di sistema che l’umanità sta vivendo. Lo scopo del confronto che proponiamo a questi soggetti è ricavarne una serie di obbiettivi concreti, a livello di politica economica, industriale, occupazionale, amministrativa, di cambiamenti negli stili di vita, di valori e modelli di comportamento, di relazioni sociali, di relazioni internazionali.
Tutti i partiti esistenti pongono al centro delle loro scelte politiche la crescita della produzione di merci. Tutte le formazioni politiche di destra e di sinistra sono accomunate da questo obbiettivo. E non poteva essere diversamente perché la loro cultura e la loro storia, le loro classi sociali di riferimento - imprenditori, professionisti, commercianti, lavoratori dipendenti – si sono sviluppate nell’epoca dell’industrializzazione. La differenza di fondo tra destra e sinistra consiste nei diversi criteri di distribuzione tra gli attori sociali del reddito monetario generato dalla crescita della produzione di merci. La destra ritiene che le parti debba farle il mercato. La sinistra sostiene che se le parti le fa il mercato, i più forti prendono le quote più grandi lasciando ai più deboli solo il necessario per la sopravvivenza. È quindi compito dello Stato realizzare una più equa redistribuzione del reddito monetario prodotto mediante la tassazione progressiva e i servizi sociali. Ma l’equità sociale e la difesa dei più deboli sono valori universali e atemporali, non un patrimonio esclusivo della sinistra. Sono precedenti alla sinistra e non verranno meno con la sua fine. Possono essere condivisi, e noi li condividiamo, anche senza essere schierati a sinistra. Ciò precisato, un soggetto politico che ponga la decrescita a fondamento della sua elaborazione teorica e delle proposte politiche concrete che se ne possono ricavare, è costituzionalmente alternativo sia alla destra, sia alla sinistra. Non perché si ponga in una posizione di equidistanza tra di esse, ma perché si muove in un piano definito da altre coordinate rispetto al piano in cui si collocano le opzioni di destra e di sinistra. Perché non si propone di agire all’interno della cornice storica del modo di produzione industriale, ma di uscirne. Perché non pone il “sempre di più” a fine del fare, ma il “sempre meglio” a fine di un fare connotato qualitativamente, con la consapevolezza che spesso il meglio coincide col meno. Una casa ben costruita consuma meno energia di una casa mal costruita, perché non ne disperde. Richiede una tecnologia più evoluta, quindi un progresso scientifico e tecnologico, riduce le emissioni di CO2 e la crescita del pil. Contribuisce, per poco che sia, a migliorare il mondo e la qualità della vita non solo di chi ci vive, ma anche di chi ci vivrà proprio perché comporta una decrescita del consumo di merci che non solo non hanno un’utilità effettiva, ma generano danni ambientali e alla salute.
Se il movimento politico che ci proponiamo di costruire è costituzionalmente alternativo alla destra e alla sinistra, non potrà stringere alleanze strategiche con nessuno dei due schieramenti. Ammesso che riceva i voti necessari per entrare nelle assemblee elettive, ed escludendo, come è sensato pensare, che possa avere maggioranze assolute, non potrà far parte di nessuna coalizione di maggioranza. Non potrà avere rappresentanti in nessun esecutivo di coalizione con partiti che si propongono di sostenere la crescita con i piccoli poteri conferiti dal ruolo istituzionale. Ma pur rimanendo all’opposizione dovrà sempre agire con un’ottica di governo. Non potrà limitarsi a contrastare le decisioni altrui, ma dovrà formulare sempre proposte propositive. Non potrà limitarsi nemmeno a formulare proposte propositive in alternativa a decisioni altrui, perché in questo modo si limiterebbe comunque ad agire di rimessa. Dovrà prendere l’iniziativa e formulare proposte coerenti con il progetto di futuro fondato sulla decrescita di cui si fa portatore, cercando di volta in volta le alleanze che consentono di farle passare. Chi ha l’ambizione di farsi portatore di una concezione del mondo alternativa a quella dominante deve utilizzare le assemblee elettive per realizzare passi concreti in quella direzione, dimostrandone la fattibilità e la desiderabilità, coinvolgendo chi milita in organizzazioni politiche diverse con onestà d’intenzioni e facendo venire allo scoperto chi vi si oppone per altre ragioni. Per fare un esempio: l’opposizione al nucleare, se sostenuta da un programma realistico e rigoroso di riduzione degli sprechi accompagnato da una progressiva sostituzione delle fonti fossili con fonti rinnovabili in piccoli impianti per autoconsumo, può farci trovare alleati non solo tra coloro che temono i pericoli insiti nella irresponsabile scelta energetica nucleare, ma anche in un vasto fronte di imprenditori che posseggono le tecnologie per realizzare queste alternative e in una vasta area di opinione pubblica che comunque desidera una soddisfazione adeguata delle proprie esigenze energetiche senza eccessive rinunce. Tuttavia le proposte di una politica energetica nell’ottica della decrescita non possono essere formulate come alternativa alla proposta di costruzione di centrali nucleari, come hanno fatto e continuano a fare i verdi italiani (e questa è una delle ragioni per cui sono scomparsi dalla scena politica). Devono essere formulate e sostenute di per sé, perché sono tasselli essenziali del nostro progetto di futuro, anche se nessuno ponesse all’ordine del giorno il rilancio del nucleare.
La radicale alterità a un sistema politico incentrato sulla dialettica tra due schieramenti contrapposti che perseguono la stessa finalità della crescita con metodi sempre meno diversificati, comporta anche una gestione del ruolo istituzionale con metodi radicalmente differenti. Per il soggetto che proponiamo di costituire l’impegno politico nelle istituzioni è inteso come servizio pro tempore e non come professione. La permanenza in un organismo elettivo non può superare i due mandati, senza nessuna eccezione. Le retribuzioni e i benefit degli eletti devono essere drasticamente ridotti. Bisogna coinvolgere la società civile, cioè tutte le forme aggregative in cui si riuniscono sulla base di una qualche affinità gruppi di persone per perseguire un fine comune, nella discussione e nella formulazione delle scelte politiche che le riguardano. La democrazia, per usare una formulazione che ha trovato in Giorgio Gaber il suo cantore, è partecipazione. Pertanto i nostri referenti privilegiati sono tutti i movimenti che si contrappongono alle scelte devastanti per i luoghi in cui vivono, proposte-imposte dal sistema di potere economico-finanziario-politico-mediatico in base alla necessità della crescita. Perché in quelle forme aggregative la partecipazione democratica si è già realizzata.
La nascita di questi movimenti negli anni ottanta è stata contrassegnata da un atteggiamento che è stato spregiativamente definito Nimby (not in my back yard). Non nel mio giardino. Questo atteggiamento era indubbiamente criticabile perché non finalizzato a perseguire alternative ecologicamente accettabili a problemi ambientali che creavano preoccupazioni (la costruzione di un inceneritore, di una discarica, di una centrale termoelettrica, di un’autostrada), ma a spostarli da un’altra parte. Tuttavia è stato il primo segnale con cui si è manifestata la crisi dell’egemonia culturale esercitata dall’industria in nome della crescita e dell’occupazione. Nei decenni precedenti ogni impianto industriale, per nocivo che fosse, era salutato come una benedizione perché portatore di reddito, di modernità, di progresso, di lavoro. Questa fase iniziale dei movimenti ha inoltre avuto il merito di aver avviato forme di coinvolgimento diretto delle popolazioni nelle decisioni che influiscono pesantemente sulla propria vita. È stata l’incubatrice di forme di democrazia diretta, di confronti a muso duro con le pretese dei politici di avocare a sé il potere decisionale, di prese di coscienza collettive. In questo contesto è maturata la seconda fase dei movimenti, in cui l’opposizione ai progetti devastanti è stata accompagnata dall’elaborazione di controproposte finalizzate a contemperare le esigenze del lavoro con le esigenze dell’ambiente, il reddito monetario con la salute, l’occupazione con la bellezza del paesaggio, l’innovazione col rispetto del passato. La punta più alta di questa seconda fase è stata ed è la resistenza intransigente, tenace, documentata, del movimento No Tav in Val di Susa, che ha coinvolto tutta la popolazione locale, riuscendo a respingere con la mobilitazione di massa anche l’occupazione militare del territorio. L’esempio dei No Tav valsusini è stato contagioso e ha dato coraggio ad altri movimenti di resistenza territoriali alla realizzazione di grandi opere devastanti. Si è anche costituita una forma di coordinamento tra i movimenti locali in un’ottica di mutuo soccorso. Un’iniziativa importante, che però non consente di uscire da un ambito difensivo. Noi crediamo che sia matura una terza fase, che dovrà essere caratterizzata dalla consapevolezza che tutte le opere con un impatto devastante sui luoghi e sulla vita delle persone che li abitano rispondono alla stessa logica di sostegno alla crescita, a uno stesso allucinante progetto di futuro senza futuro, alla vera e propria utopia negativa di una crescita che utilizza tecnologie sempre più potenti per apportare modifiche sempre più devastanti alla crosta terrestre, che consuma quantità sempre maggiori di risorse in tempi sempre più accelerati e in tempi sempre più accelerati le trasforma in quantità sempre maggiori di rifiuti, che mercifica progressivamente gli elementi naturali, i rapporti tra le persone, le stesse basi della vita. Alle follie che si proporranno nell’ambito di questa visione distopica del futuro occorre contrapporre una visione del futuro realistica, possibile e desiderabile, fondata sulla riduzione dell’impronta ecologica. L’unica prospettiva di futuro possibile. E il passaggio indispensabile che i movimenti devono compiere è l’inserimento delle loro controproposte locali in un progetto complessivo in grado di trasformarle in altrettanti tasselli di un futuro possibile alla cui realizzazione tutti concorrono. Non possono più limitarsi a un gioco di rimessa, a risposte colpo su colpo, caso per caso. Devono assumere l’iniziativa. Essere i protagonisti, non più soltanto i deuteragonisti.
Il progetto politico su cui proponiamo di lavorare da oggi è stato avviato da alcune liste civiche e movimenti locali, proprio nell’ottica appena descritta. Non è un caso. È un segno che i tempi di questo passaggio sono maturi. È stata la consapevolezza che non basta organizzare la società civile su un obbiettivo difensivo specifico, per esempio la lotta a un inceneritore o la difesa del territorio da piani regolatori che favoriscono la speculazione edilizia. È stata la consapevolezza che è indispensabile collegarsi con gli altri movimenti di cittadinanza attiva e con le altre liste civiche che in altre aree del territorio nazionale perseguono obbiettivi analoghi. Ed è bastato lanciare un invito al confronto perché si moltiplicassero le adesioni, le richieste di coinvolgimento. È bastato confrontarsi per capire che le opere devastanti contro cui tutti i movimenti locali si battono sono motivate dalla stessa esigenza di rilanciare la crescita economica con lo specchietto per le allodole dell’occupazione, che dalla parte opposta sono schierati tutti i partiti, col sostegno dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali, con la copertura dei mass media. Forse non è sbagliato pensare che in questi movimenti è attiva la parte più consapevole della crescente percentuale degli aventi diritto al voto che non la esercitano o annullano la scheda. Chi vota una lista civica nel suo comune perché è una presenza alternativa ai partiti, oggi non ha un referente analogo ai livelli sovra comunali. Non gli resta che non votare o votare a malincuore il partito che valuta il meno peggiore degli altri. Per quanto ancora saremo condannati a questa inaccettabile alternativa? Dal confronto tra le molte realtà di questo tipo sparse sul territorio nazionale e per lo più isolate anche se hanno in comune ciò che rifiutano, ciò che vorrebbero e gli avversari, non può scaturire un nuovo soggetto politico in grado di rappresentarli ai livelli istituzionali più alti? È questa la domanda a cui vorremmo dare una risposta positiva avviando oggi un processo che ci porti a verificarne la possibilità.
Il ruolo dei promotori di questo incontro finisce sostanzialmente con questo convegno che chiude la fase iniziale del percorso e ne apre una seconda. Dopo aver verificato l’esistenza di una comune base politico-culturale e la complementarietà degli approfondimenti specifici sviluppati da ciascuno nella propria associazione, abbiamo elaborato un documento unitario, una sorta di manifesto, che come tutti i manifesti sintetizza gli elementi caratterizzanti e rimanda a documenti specifici per gli approfondimenti settoriali. Su questo documento abbiamo invitato a discutere le liste civiche e i movimenti di cittadinanza attiva che ne condividono l’impostazione generale, sono interessati a colmarne le lacune e ad apportarvi integrazioni, a trovare forme organizzative snelle, funzionali a sviluppare nei prossimi mesi un impegno operativo sulle tematiche su cui hanno svolto riflessioni e fatto esperienze. Il presupposto per partecipare a questa fase è la condivisione dei tre punti fondanti che caratterizzano la nostra proposta: la decrescita, l’alterità rispetto ai partiti esistenti in quanto varianti dell’ideologia della crescita che li accomuna, la valorizzazione della democrazia partecipativa che ha trovato la massima espressione nei movimenti contro le opere devastanti in cui si realizza la fase dell’economia della crescita che stiamo vivendo. I contributi di chi accetterà di inserirsi in questo percorso non potranno essere soltanto approfondimenti teorici, ma dovranno tradursi in un forte impegno a coinvolgere altri movimenti presenti nell’ambito territoriale in cui operano. Solo se saremo capaci di coinvolgere il maggior numero di queste realtà il progetto di un nuovo soggetto politico potrà realizzarsi. Dalla discussione odierna dovrà scaturire un gruppo di coordinamento che avrà il compito di gestire la fase del processo costituente del soggetto politico. Oggi non si costituisce nessun partito e, quindi, non si elegge nessun organo politico. Oggi, se lo riterremo opportuno, si organizzano i gruppi tematici che avranno il compito di comporre i tasselli della nostra identità culturale e politica; che studieranno una struttura organizzativa democratica, partecipativa, flessibile, scevra da ogni forma di personalismo; che si doteranno di un agile organismo di coordinamento per favorire la circolazione delle informazioni e organizzare le fasi del lavoro costituente. Una struttura di servizio che decadrà nel momento in cui questa seconda fase di lavoro sia finita e saremo pronti a dare vita a un soggetto politico con una identità forte e riconoscibile, un progetto di futuro, un programma d’azione, una capacità di dialogare con le realtà sociali di riferimento, una struttura organizzativa regolata da procedure condivise. A quel punto si eleggeranno gli organi dirigenti ai termini dello statuto che avremo elaborato.
Due precisazioni finali. Il confronto che proponiamo di avviare oggi non ha come scadenza temporale la partecipazione alle prossime elezioni italiane, anticipate o fisiologiche che siano. Il nostro riferimento è il tornante storico che l’umanità si trova davanti, caratterizzato dagli ultimi colpi di un sistema economico e produttivo finalizzato alla crescita della produzione e del consumo di merci: la fine dell’epoca storica iniziata 250 anni fa con la rivoluzione industriale. La prossima scadenza elettorale italiana, pur non avendo un’importanza trascurabile, è piccola cosa in confronto. Credo che non si debba mai dimenticare che questo è l’orizzonte in cui ci dobbiamo muovere. Ciò non vuol dire che escludiamo la partecipazione alla prossima scadenza elettorale italiana. Valuteremo, quando la scadenza si presenterà, se saremo pronti, sia dal punto di vista delle proposte, sia dal punto di vista organizzativo, a raccogliere il consenso di una percentuale significativa del nostro elettorato di riferimento, a cui comunque dobbiamo rivolgerci non limitandoci a sollecitarne l’indignazione o raccoglierne lo scontento, ma offrendo indicazioni propositive concrete, realizzabili e desiderabili. Bisogna uscire dalla politica gridata, dalle contrapposizioni, dagli schieramenti, dalle semplificazioni, dalle personalizzazioni. Dobbiamo parlare alla testa e non alla pancia degli elettori, stimolandoli a uscire dalla logica della delega.
Questi elementi di fondo ci differenziano da altri tentativi in corso di aggregare i movimenti e le realtà sociali che non si riconoscono nel sistema dei partiti in un nuovo soggetto politico pensato in funzione della prossima scadenza elettorale. Pur apprezzando i tentativi di favorire il confronto tra questi progetti e il nostro per il valore insito nel superamento delle frammentazioni, dobbiamo evitare il pericolo che gli elementi fondanti nella nostra proposta vengano annacquati e si confondano in un coacervo indistinto che verrebbe percepito dall’opinione pubblica come un ennesimo tentativo di rimescolamento di spezzoni di una sinistra più o meno radicale unita soprattutto dall’esigenza di raggiungere il quorum elettorale e dalla contrapposizione agli altri schieramenti politici. Se questa fosse l’immagine che viene percepita, l’esito sarebbe un fallimento in termini elettorali, la perdita della prospettiva storico-politica che caratterizza la nostra analisi della crisi come di sistema delle società industriali, l’allontanamento della possibilità di realizzare un confronto costruttivo con strati sociali determinanti per la realizzazione del nostro progetto. Meglio avviare defatiganti trattative con gruppetti ultra politicizzati collocati in nicchie sociali marginali che perseguono sostanzialmente l’obbiettivo di una presenza parlamentare, o un confronto serrato con le componenti del mondo produttivo orientate a sviluppare tecnologie che riducono il consumo di energia, il consumo di risorse e le quantità dei rifiuti, e non hanno alcun interesse a rapportarsi con una ennesima minima formazione politica di sinistra impegnata a definire le percentuali relative di ognuna delle sue componenti nella formazione delle liste elettorali? La domanda è retorica e sottende l’invito a concentrarci sui temi che ci possono consentire di tradurre in termini concreti le premesse teoriche su cui siete stati invitati a discutere dagli organizzatori di questo incontro.
*Relazione introduttiva di Maurizio Pallante all’Assemblea nazionale Uniti e diversi - Bologna, 18 dicembre 2010.
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