SE CI SI METTE ANCHE IL CENSIS...
«La montagna partorisce il suo topolino. Tornare a desiderare (sic!) per uscire dal pantano, per respingere la freudiana pulsione di morte che affligge la società. Sembra quasi la ripresa del discorso radicalmente soggettivista e bio-politico sulle moltitudini desideranti di Toni Negri. Sullo sfondo si intravedono anche le suggestioni dei sostenitori della "decrescita". E quali sarebbero i tre vettori di questo "rilancio del desiderio", le forze motrici desideranti? In poche parole gli strati di nuova borghesia, o di borghesia incipiente, che questa crisi sistemica e la globalizzazione porterebbero in seno. Non si esce insomma dal capitalismo, che resta la sola fonte alla quale i "desideri" individuali e collettivi dovrebbero abbeverarsi. I decenni a venire ci diranno se è vero quanto pensiamo: che questa fonte è oramai rinsecchita, e che il capitalismo è la gabbia di ferro della nostra civiltà».
Giuseppe De Rita è un intellettuale di vecchio stampo. Ha avuto il merito, nei decenni, di non aver creduto troppo alle trombette, ormai sfiatate, del post-modernismo, di aver percepito per tempo quali sarebbero state le conseguenze del nichilismo valoriale imperante, dell'implosione delle tradizionali comunità politiche. Vale la pena ricordare le sue recenti e suggestive analisi sulla "società coriandolare o corpuscolare", ovvero sullo sfascio sociale, il disincanto individualistico, l'edonismo consumistico, la fuga dalla sfera politica. Tutti gli ingredienti, insomma, che spiegano il "berlusconismo" e la sua inarrestabile avanzata. Anche De Rita porta una parte di responsabilità per aver a suo tempo esultato per la chiusura del capitolo degli anni '70, per la derubricazione della "lotta di classe". Ma fu tra i primi a cogliere, a fine anni '80, il mostro che stava avanzando.
Il rapporto del Censis 2010 sulla società italiana si muove sul questo solco. Riportiamo qui sotto una sintesi della prima parte del rapporto (clicca qui per leggerlo tutto). Non è certo un'indagine di tipo marxista, quella appena sfornata dal Censis (nessun riferimento alle dinamiche della crisi del capitale, alle trasformazioni profonde della sua struttura economica e di classe). Essa è un ibrido tra sociologismo e un crocianesimo in salsa catto-comunista. Tuttavia è il meglio di quanto possa sfornare l'attuale classe dominante, quanto di nobile riesce ancora a produrre la sua spompata intellighentia.
E dunque percepiamo una certa nostalgia, proprio dei "maledetti settanta": «Siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto, visto che ad un ciclo storico pieno di interessi e di conflitti sociali, si va sostituendo un ciclo segnato dall’annullamento e dalla nirvanizzazione degli interessi e dei conflitti».
Il Censis segnala che siamo di fronte ad un tornante storico, ad una crisi sistemica, non solo economica, ma sociale, ideale, culturale. Un cupo pessimismo. C'è solo il vuoto, e oltre il vuoto apparentemente il nulla. Sottolineiamo questa serie di concetti: «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e futuro». «Declino della soggettività». «Sregolazione pulsionale». «Egoismo autoreferenziale e narcisistico». Tutto assolutamente vero. Tutto assolutamente inquietante.
Tuttavia, il Censis, ad un certo punto, come il mago dal cappello, tira fuori un sorprendente coniglietto. Ci sarebbe infatti un flebile barlume di speranza: «Più utile è il richiamo a un rilancio del desiderio, individuale e collettivo, per andare oltre la soggettività autoreferenziale, per vincere il nichilismo dell’indifferenza generalizzata. Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita. Attualmente tre sono i processi in cui sono ravvisabili germi di desiderio: la crescita di comportamenti «apolidi» legati al primato della competitività internazionale (gli imprenditori e i giovani che lavorano e studiano all’estero), i nuovi reticoli di rappresentanza nel mondo delle imprese e il lento formarsi di un tessuto federalista, la propensione a fare comunità in luoghi a misura d’uomo (borghi, paesi o piccole città)».
La montagna partorisce il suo topolino. Tornare a desiderare (sic!) per uscire dal pantano, per respingere la freudiana pulsione di morte che affligge la società. Sembra quasi la ripresa del discorso radicalmente soggettivista e bio-politico sulle moltitudini desideranti di Toni Negri. Sullo sfondo si intravedono anche le suggestioni dei sostenitori della "decrescita". E quali sarebbero i tre vettori di questo "rilancio del desiderio", le forze motrici desideranti? In poche parole gli strati di nuova borghesia, o di borghesia incipiente che questa crisi sistemica e la globalizzazione porterebbero in seno. Non si esce insomma dal capitalismo, che resta la sola fonte alla quale i "desideri" individuali e collettivi dovrebbero abbeverarsi. I decenni a venire ci diranno se è vero quanto pensiamo: che questa fonte è oramai rinsecchita, e che il capitalismo è la gabbia di ferro della nostra civiltà.
Roma, 3 dicembre 2010 - Censis
Un inconscio collettivo senza più legge, né desiderio
La società slitta sotto un’onda di pulsioni sregolate. Viene meno la fiducia nelle lunghe derive e nell’efficacia delle classi dirigenti. Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare le dinamiche sociali
Abbiamo resistito.
Abbiamo resistito ai mesi più drammatici della crisi, seppure con una «evidente fatica del vivere e dolorose emarginazioni occupazionali». Al di là dei fenomeni congiunturali economici e politico-istituzionali dell’anno, adesso occorre una verifica di cosa è diventata la società italiana nelle sue fibre più intime. Perché sorge il dubbio che, anche se ripartisse la marcia dello sviluppo, la nostra società non avrebbe lo spessore e il vigore adeguati alle sfide che dovremo affrontare.
Una società appiattita.
Sono evidenti manifestazioni di fragilità sia personali che di massa: comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e futuro. Si sono appiattiti i nostri riferimenti alti e nobili (l’eredità risorgimentale, il laico primato dello Stato, la cultura del riformismo, la fede in uno sviluppo continuato e progressivo), soppiantati dalla delusione per gli esiti del primato del mercato, della verticalizzazione e personalizzazione del potere, del decisionismo di chi governa. E una società appiattita fa franare verso il basso anche il vigore dei soggetti presenti in essa.«Una società ad alta soggettività, che aveva costruito una sua cinquantennale storia sulla vitalità, sulla grinta, sul vigore dei soggetti, si ritrova a dover fare i conti proprio con il declino della soggettività, che non basta più quando bisogna giocare su processi che hanno radici e motori fuori della realtà italiana».
Un’onda di pulsioni sregolate.
Non riusciamo più a individuare un dispositivo di fondo (centrale o periferico, morale o giuridico) che disciplini comportamenti, atteggiamenti, valori. Si afferma così una «diffusa e inquietante sregolazione pulsionale», con comportamenti individuali all’impronta di un «egoismo autoreferenziale e narcisistico»: negli episodi di violenza familiare, nel bullismo gratuito, nel gusto apatico di compiere delitti comuni, nella tendenza a facili godimenti sessuali, nella ricerca di un eccesso di stimolazione esterna che supplisca al vuoto interiore del soggetto, nel ricambio febbrile degli oggetti da acquisire e godere, nella ricerca demenziale di esperienze che sfidano la morte (come ilbalconing). «Siamo una società pericolosamente segnata dal vuoto, visto che ad un ciclo storico pieno di interessi e di conflitti sociali, si va sostituendo un ciclo segnato dall’annullamento e dalla nirvanizzazione degli interessi e dei conflitti».
Il declino parallelo della legge e del desiderio nell’inconscio collettivo.
Bisogna scendere più a fondo nella personalità dei singoli e nella soggettività collettiva per verificare come funziona l’inconscio. Qui si confrontano la legge (l’autorità esterna o interiorizzata) e il desiderio (che esprime il bisogno e la volontà di superare il vuoto acquisendo oggetti e relazioni). Ogni giorno di più il desiderio diventa esangue, indebolito dall’appagamento derivante dalla soddisfazione di desideri covati per decenni (dalla casa di proprietà alle vacanze) o indebolito dal primato dell’offerta di oggetti in realtà mai desiderati (con bambini obbligati a godere giocattoli mai chiesti e adulti al sesto tipo di telefono cellulare). «La strategia del rinforzo continuato dell’offerta è uno strumento invincibile nel non dare spazio ai desideri». Così, all’inconscio manca oggi la materia prima su cui lavorare, cioè il desiderio. Al tempo stesso, la desublimazione di archetipi, ideali, figure di riferimento rende labili i riferimenti alla legge (del padre, del dettato religioso, della stessa coscienza). «Si vive senza norma, quasi senza individuabili confini della normalità, per cui tutto nella mente dei singoli è aleatorio vagabondaggio, non capace di riferirsi ad un solido basamento».
Tornare a desiderare.
Di fronte ai duri problemi attuali e all’urgenza di adeguate politiche per rilanciare lo sviluppo, viene meno la fiducia nelle lunghe derive su cui evolve spontaneamente la nostra società. Ancora più improbabile è che si possa contare sulle responsabilità della classe dirigente, sulle leadership partitiche o su un rinnovato impegno degli apparati pubblici. La tematica rigore-ripresa è ferma alle parole, la riflessione sullo sviluppo europeo è flebile, i tanti richiami ai temi all’ordine del giorno (la scuola, l’occupazione, le infrastrutture, la legalità, il Mezzogiorno) sono solo enunciati seriali. La complessità italiana è essenzialmente complessità culturale. Nella crisi che stiamo attraversando c’è quindi bisogno di messaggi che facciano autocoscienza di massa. Non esistono attualmente in Italia sedi di auctoritas che potrebbero ridare forza alla «legge». Più utile è il richiamo a un rilancio del desiderio, individuale e collettivo, per andare oltre la soggettività autoreferenziale, per vincere il nichilismo dell’indifferenza generalizzata. «Tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita». Attualmente tre sono i processi in cui sono ravvisabili germi di desiderio: la crescita di comportamenti «apolidi» legati al primato della competitività internazionale (gli imprenditori e i giovani che lavorano e studiano all’estero), i nuovi reticoli di rappresentanza nel mondo delle imprese e il lento formarsi di un tessuto federalista, la propensione a fare comunità in luoghi a misura d’uomo (borghi, paesi o piccole città).
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