sui redditi delle famiglie italiane ("consumi e povertà")
di P.M.
L’Istat, si sa, è l’Istituto italiano delle statistiche, e le statistiche occorre prenderle cum grano salis che, come diceva Trilussa, se Tizio mangia due polli e Caio nessuno, per la statistica ne avremmo mangiato uno a testa.
Tuttavia sarebbe sbagliato snobbare i dati che l’Istat ci fornisce, che sono come le elezioni, consegnano un’immagine infedele della realtà, ma pur sempre un’immagine che all’ingrosso restituisce la realtà medesima.
Parliamo dell’ultimo caso, dall’inchiesta recentissima sui redditi e le condizioni di vita degli italiani, resa nota a fine ottobre 2009, quindi dopo due anni di recessione e ad un anno dal collasso bancario americano.
I dati indicano che tra l’ottobre 2008 e il settembre 2009, i consumi hanno subito un calo del 1,5%, mentre il poter d’acquisto delle famiglie sarebbe sceso nello stesso periodo dell’1,6%. Secondo la Federcomsumatori le cose sarebbero andate un po’ peggio ( -1,9% del potere d’acquisto, pari a 565 euro annui in media). Uno scostamento comunque non decisivo.
L’Istat segnala poi che lo scostamento tra potere d’acquisto e reddito disponibile si spiega con un aumento del risparmio: “La paura del futuro ha portato le famiglie ad aumentare il risparmio dello 0,4% su base annuale”. Una quisquilia che certo non giustifica i commenti euforici del ministro Brunetta, ma che attesta che la recessione economica non si è tramutata in un collasso o una catastrofe generale del sistema economico e del tessuto sociale, che le grandi masse non hanno ancora subito un tracollo delle loro condizioni di vita. E questo concorre a spiegare come mai non abbiamo avuto generalizzati conflitti sociali.
Questi dati, inseriti nel frullatore dei software di statistica, come una nutella spalmata indistintamente, dietro al dato omogeneo, nascondono tuttavia le differenze, le eterogeneità, le fratture sociali che si vanno inesorabilmente producendo. Differenze che se la “scienza statistica” considera “discrepanze”, sono invece decisive per capire quanti sono e chi sono coloro che la crisi sistemica getta, se non nella miseria, o nell’emarginazione, in una situazione di forte disagio sociale. Per essere più precisi: nell’area della esclusione sociale.
Dagli stessi dati Istat emerge infatti un fenomeno che viene avanti da alcuni anni, ovvero che, a fronte di una tenuta dei livelli di vita dei lavoratori dipendenti (un tempo si sarebbe detto “garantiti”, noi diciamo “inclusi”, inclusi nel sistema consumistico e assistenzialistico del welfare paternalistico e familistico all’italiana), assistiamo ad un peggioramento drastico delle condizioni di vita e delle aspettative di benessere di strati sociali che vengono, appunto, lentamente gettati nell’area dell’esclusione, una zona grigia sempre più ampia sotto cui sta chi vive sotto la ufficiale soglia di povertà.
Coloro che hanno subito pesantemente il contraccolpo della recessione sono anzitutto, non tutti i salariati, ma i lavoratori dipendenti licenziati o messi in Cassa integrazione e, ovviamente lo stuolo dei precari. In altre parole, oltre alla parcellizazioni che frantumano il lavoro dipendente si è aggiunta una frattura serissima tra chi ha un reddito garantito e chi non ce l’ha più e non vede come possa ottenerlo o rioettenerlo.
Dai dati Istat emerge infine un secondo dato eclatante. Chi ha visto taglieggiato il proprio reddito e quindi la propria capacità di consumo, non sono tanto i lavoratori a reddito fisso, bensì i cosiddetti “autonomi”, i titolari di Partita Iva, i cui incassi hanno risentito infatti in modo molto pesante degli effetti della recessione. Il “popolo delle Partite Iva”, vero vanto del capitalismo italiano e del berlusconismo, è stato azzoppato e decimato dalla crisi, è stato lo strato sociale letteralmente falcidiato dalla recessione.
Se questa situazione continuasse, se l’economia enrasse nella tanto esorcizzata “depressione” (recessione prolungata), milioni di “autonomi” verrebbero gettati in massa nell’area della esclusione sociale e della nuova povertà, mentre non è detto che questo accada al grosso dei lavoratori dipendenti a reddito fisso (che quindi resterebbero tra gli “inclusi”).
Questa peculiare fratturazione sociale quali conseguenze avrà sulla stabilità sociale e sul piano politico?
L’Italia già conobbe un precedente simile, dopo la prima Grande guerra. Allora la pauperizzazione di quella che veniva chiamata “piccola borghesia” causò, in ultima istanza, la vittoria del fascismo, il quale aizzò i piccolo borghesi inferociti contro il movimento operaio organizzato e la “minaccia bolscevica”.
Andiamo verso una ripetizione? Difficile dirlo. Certo viene a mancare, affinché una radicalizzazione extraparlamentare e antioperaia della piccola borghesia possa assumere una forma fascista, il bersaglio ideologico e sociale, il collante simbolico, ovvero la minaccia del comunismo dilagante. Non abbiamo più un movimento operaio forte che difenda accanitamente i suoi propri interessi, con le relative e strutturate organizzazioni di massa. Lo spappolamento del movimento operaio, la narcosi dei salariati è oggi talmente seria, che non si vede come una radicalizzazione dell’accozzaglia degli “autonomi” (molto spesso “autonomi” camuffati, perché spesso reali proletari) possa indirizzarsi verso l’ombra sbiadita che ne resta. Certo è che questa radicalizzazione, se dalla recessione il capitalismo non uscirà presto, è pressoché inevitabile.
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