[ 11 gennaio 2010 ]
Come cambia, dentro la crisi
l'umore popolare
di Leonardo Mazzei*
«Mi auguro che tutte le fabbriche del disfattismo e del pessimismo la smettano di produrre un’atmosfera che non è solo di odio e di violenza nella politica, ma è anche negativa sul piano del consumo e degli investimenti.»
Chi non ha riconosciuto in queste righe la prosa del Cavaliere, per l’occasione (vigilia di Natale) nella versione incerottata e “amorosa”?
Da tempo il cosiddetto “dibattito politico”, cioè il teatrino quotidiano che ha la funzione di ridurre ogni tema rilevante a chiacchiera da ballatoio, tende a ricondurre l’analisi della crisi ad una questione di umore, di ottimismo piuttosto che di pessimismo.
Da tempo il cosiddetto “dibattito politico”, cioè il teatrino quotidiano che ha la funzione di ridurre ogni tema rilevante a chiacchiera da ballatoio, tende a ricondurre l’analisi della crisi ad una questione di umore, di ottimismo piuttosto che di pessimismo.
Ovviamente ottimismo e pessimismo esistono, ma non dovrebbe essere difficile comprendere, ad esempio, le ragioni del pessimismo di un lavoratore appena licenziato, come non dovrebbe essere particolarmente arduo capire l’ottimismo di un finanziere che ha messo a segno un’importante speculazione.
Nello stesso periodo natalizio è uscito un interessante sondaggio di Demos & Pi, pubblicato da la Repubblica. Naturalmente i sondaggi vanno presi con le molle, ma ci dicono sicuramente di più, perlomeno a grandi linee, delle profezie degli economisti. E questo sondaggio ci parla dell’umore degli italiani, ma non solo.
Nello stesso periodo natalizio è uscito un interessante sondaggio di Demos & Pi, pubblicato da la Repubblica. Naturalmente i sondaggi vanno presi con le molle, ma ci dicono sicuramente di più, perlomeno a grandi linee, delle profezie degli economisti. E questo sondaggio ci parla dell’umore degli italiani, ma non solo.
Gli effetti della crisi
La prima domanda sottoposta ai 1310 intervistati è rigorosamente oggettiva: «Ci può dire se nella sua famiglia, nell’ultimo anno, qualcuno ha perso il lavoro?» Ha risposto di sì il 17,5%, contro il 13,3% del novembre 2008. E – trattandosi dello stesso campione – è proprio il confronto con le risposte date un anno prima l’aspetto più interessante del sondaggio.
La stessa tendenza è rilevabile nelle risposte alla domanda sui familiari finiti in cassa integrazione od in mobilità nell’ultimo anno. Una situazione che nel dicembre 2009 è stata registrata nel 20,4% dei casi, contro il 12,5% del novembre 2008.
Ma non si tratta solo di occupazione – e del resto il sondaggio non era rivolto ai soli lavoratori dipendenti – ma anche della situazione finanziaria delle famiglie in generale. Il 50,1% degli intervistati dichiara infatti di aver visto diminuire, sempre nell’ultimo anno, il valore dei propri risparmi e/o investimenti. Nel novembre 2008 (nel pieno della crisi finanziaria) la percentuale era del 43,9.
Questi dati, del resto sostanzialmente in linea con le statistiche ufficiali, ci sembrano difficilmente confutabili ed assai indicativi della ricaduta concreta della crisi sui lavoratori e le loro famiglie. Possono sembrare perfino ovvi, e tuttavia sono utili perché ci indicano una tendenza che spiega anche la percezione della crisi e le aspettative per il futuro.
La stessa tendenza è rilevabile nelle risposte alla domanda sui familiari finiti in cassa integrazione od in mobilità nell’ultimo anno. Una situazione che nel dicembre 2009 è stata registrata nel 20,4% dei casi, contro il 12,5% del novembre 2008.
Ma non si tratta solo di occupazione – e del resto il sondaggio non era rivolto ai soli lavoratori dipendenti – ma anche della situazione finanziaria delle famiglie in generale. Il 50,1% degli intervistati dichiara infatti di aver visto diminuire, sempre nell’ultimo anno, il valore dei propri risparmi e/o investimenti. Nel novembre 2008 (nel pieno della crisi finanziaria) la percentuale era del 43,9.
Questi dati, del resto sostanzialmente in linea con le statistiche ufficiali, ci sembrano difficilmente confutabili ed assai indicativi della ricaduta concreta della crisi sui lavoratori e le loro famiglie. Possono sembrare perfino ovvi, e tuttavia sono utili perché ci indicano una tendenza che spiega anche la percezione della crisi e le aspettative per il futuro.
Un’aspettativa sempre più incerta
Arriviamo qui alla questione del famoso “pessimismo” tanto evocato da Berlusconi. Citiamo sempre dal suo discorso natalizio (Radio Anch’io del 24 dicembre, tanto per cambiare in diretta dall’Aquila...): «Il fatto di insistere sempre su questa crisi e di creare paura in tutti produce la crisi perché a furia di dire una cosa alla fine si avvera.»
Questo disco incantato del Paperone di Arcore è in verità assai penoso, ed in ogni caso non sembra che risulti troppo convincente. Vediamo infatti qual è stata la risposta degli intervistati alla domanda: «Secondo lei, quando finirà l’attuale crisi economica?»
Il sondaggio proponeva quattro possibili risposte: entro sei mesi, entro un anno, entro due anni, tra più di due anni. I dati, confrontati questa volta con quelli registrati nel giugno scorso, sono estremamente interessanti. Mentre i superottimisti (fine della crisi entro sei mesi) sono rimasti stabili ma su una percentuale bassissima (7,5%), i moderatamente ottimisti (fine entro un anno) sono calati dal 25,7 al 21,0%. Andamento speculare tra i “pessimisti”, tra i quali quelli che pensano che la crisi finirà entro due anni sono rimasti stabili poco sotto il 27%, mentre coloro che ne collocano la fine oltre i due anni è salita in sei mesi dal 31,1 al 38,0%.
Naturalmente i sostenitori della bizzarra tesi della genesi psicologica della crisi potrebbero leggere questi risultati come il frutto del lavorio «delle fabbriche del disfattismo e del pessimismo», ma queste «fabbriche» hanno in realtà una modesta potenza di fuoco rispetto al messaggio trasmesso da tutti i centri del potere capitalistico, e ripreso dall’intero sistema mediatico negli ultimi mesi, quello secondo il quale «il peggio è alle nostre spalle» e «si intravede l’uscita dal tunnel».
Che sia proprio questo messaggio a non funzionare? Che il pensiero unico dell’ottimismo forzato faccia cilecca? Dal sondaggio sembrerebbe proprio che sia così. Maledetti pessimisti...
Questo disco incantato del Paperone di Arcore è in verità assai penoso, ed in ogni caso non sembra che risulti troppo convincente. Vediamo infatti qual è stata la risposta degli intervistati alla domanda: «Secondo lei, quando finirà l’attuale crisi economica?»
Il sondaggio proponeva quattro possibili risposte: entro sei mesi, entro un anno, entro due anni, tra più di due anni. I dati, confrontati questa volta con quelli registrati nel giugno scorso, sono estremamente interessanti. Mentre i superottimisti (fine della crisi entro sei mesi) sono rimasti stabili ma su una percentuale bassissima (7,5%), i moderatamente ottimisti (fine entro un anno) sono calati dal 25,7 al 21,0%. Andamento speculare tra i “pessimisti”, tra i quali quelli che pensano che la crisi finirà entro due anni sono rimasti stabili poco sotto il 27%, mentre coloro che ne collocano la fine oltre i due anni è salita in sei mesi dal 31,1 al 38,0%.
Naturalmente i sostenitori della bizzarra tesi della genesi psicologica della crisi potrebbero leggere questi risultati come il frutto del lavorio «delle fabbriche del disfattismo e del pessimismo», ma queste «fabbriche» hanno in realtà una modesta potenza di fuoco rispetto al messaggio trasmesso da tutti i centri del potere capitalistico, e ripreso dall’intero sistema mediatico negli ultimi mesi, quello secondo il quale «il peggio è alle nostre spalle» e «si intravede l’uscita dal tunnel».
Che sia proprio questo messaggio a non funzionare? Che il pensiero unico dell’ottimismo forzato faccia cilecca? Dal sondaggio sembrerebbe proprio che sia così. Maledetti pessimisti...
La sfiducia nella politica e nel sindacato
In questa situazione così fosca, chi difende i lavoratori? In risposta a questa domanda il sondaggio propone una griglia assai ampia, e dunque un po’ troppo dispersiva, di opinioni. Tuttavia non mancano anche qui alcune indicazioni interessanti.
Ecco i risultati più significativi, ed i relativi scostamenti, in questo caso raffrontati con le risposte avute nell’ottobre 2004.
Come “difensore” degli interessi dei lavoratori scende il sindacato (dal 29,9 al 24,6% attuale), mentre salgono le famiglie (dal 10,3 al 17,2%) e lo Stato (dal 4,4 al 9,3%). Com’era facilmente prevedibile, la credibilità del sindacato è sempre più bassa, mentre i dati sulle famiglie – pure in un’epoca di crisi della famiglia! – attestano quanto il nucleo familiare continui in qualche modo a funzionare come luogo di compensazione e redistribuzione del reddito. Il raddoppio di coloro che hanno indicato lo Stato va probabilmente inteso non come una valutazione positiva delle attuali politiche statali, quanto piuttosto come l’emersione di una nuova consapevolezza sulla necessità del ruolo dello Stato. Un’interpretazione del resto confermata dal calo (dal 6,7 al 4,2%) di coloro che pensano che il lavoratore possa difendersi solo individualmente.
Come “difensori” dei lavoratori i partiti giustamente godono di una credibilità vicina allo zero. Sono tuttavia interessanti le variazioni avvenute in cinque anni. Se nel 2004 solo il 2,1% degli intervistati indicava come “difensori” dei lavoratori i partiti del centro-destra, contro il 4,8% del centro-sinistra, cinque anni dopo il rapporto si è invertito. I partiti del centro-sinistra vengono indicati ancora dal 5,2%, ma sono stati sorpassati da quelli del centro-destra (6,3%). Un dato, quest’ultimo, che può stupire solo chi abbia sottovalutato gli studi sui flussi elettorali realizzati negli ultimi anni; studi che assegnano alla destra un netto vantaggio tra i lavoratori dipendenti del settore privato, mentre il centro-sinistra regge soltanto nel settore pubblico e tra i pensionati.
Ecco i risultati più significativi, ed i relativi scostamenti, in questo caso raffrontati con le risposte avute nell’ottobre 2004.
Come “difensore” degli interessi dei lavoratori scende il sindacato (dal 29,9 al 24,6% attuale), mentre salgono le famiglie (dal 10,3 al 17,2%) e lo Stato (dal 4,4 al 9,3%). Com’era facilmente prevedibile, la credibilità del sindacato è sempre più bassa, mentre i dati sulle famiglie – pure in un’epoca di crisi della famiglia! – attestano quanto il nucleo familiare continui in qualche modo a funzionare come luogo di compensazione e redistribuzione del reddito. Il raddoppio di coloro che hanno indicato lo Stato va probabilmente inteso non come una valutazione positiva delle attuali politiche statali, quanto piuttosto come l’emersione di una nuova consapevolezza sulla necessità del ruolo dello Stato. Un’interpretazione del resto confermata dal calo (dal 6,7 al 4,2%) di coloro che pensano che il lavoratore possa difendersi solo individualmente.
Come “difensori” dei lavoratori i partiti giustamente godono di una credibilità vicina allo zero. Sono tuttavia interessanti le variazioni avvenute in cinque anni. Se nel 2004 solo il 2,1% degli intervistati indicava come “difensori” dei lavoratori i partiti del centro-destra, contro il 4,8% del centro-sinistra, cinque anni dopo il rapporto si è invertito. I partiti del centro-sinistra vengono indicati ancora dal 5,2%, ma sono stati sorpassati da quelli del centro-destra (6,3%). Un dato, quest’ultimo, che può stupire solo chi abbia sottovalutato gli studi sui flussi elettorali realizzati negli ultimi anni; studi che assegnano alla destra un netto vantaggio tra i lavoratori dipendenti del settore privato, mentre il centro-sinistra regge soltanto nel settore pubblico e tra i pensionati.
Il consenso alle lotte
Rispetto alle conseguenze della crisi le lotte in corso sono ancora troppo deboli ed isolate. La letargia delle masse non è ancora finita, anche se i primi segnali di un risveglio ci sono. In questo quadro ancora incerto, è interessante il consenso rilevato dal sondaggio alle azioni di resistenza degli ultimi mesi.
Si dichiara favorevole alle proteste davanti alle aziende contro i licenziamenti il 79,9% degli intervistati, il 64,7% approva l’occupazione di queste stesse aziende, mentre il 24,7% è d’accordo anche con il sequestro dei dirigenti delle aziende che licenziano.
Sono dati chiari, che sembrano attestare la consapevolezza della necessità di innalzare il livello dello scontro. Naturalmente lo scarto tra opinioni e realtà, tra parole e fatti, potrebbe far sorgere il dubbio che si tratti dell’italico atteggiamento del tipo «armiamoci e partite».
Senza voler escludere la presenza di questo atteggiamento, non è difficile però scorgere un’altra ragione di questo scarto: la difficoltà che permane ad immaginare una prospettiva strategica in cui inserire le lotte. La prudenza potrebbe insomma essere il frutto non solo, e non tanto, del peggioramento dei rapporti di forza degli ultimi decenni, quanto piuttosto la conseguenza di quella sorta di «cancellazione del futuro» perseguita tenacemente dalla cultura dominante nello stesso periodo.
In ogni caso il sondaggio ci parla di un grande consenso alle lotte. Il consenso non è ancora la lotta, ma è il mare nel quale i pesci possono nuotare ed organizzarsi. Non è poco.
Si dichiara favorevole alle proteste davanti alle aziende contro i licenziamenti il 79,9% degli intervistati, il 64,7% approva l’occupazione di queste stesse aziende, mentre il 24,7% è d’accordo anche con il sequestro dei dirigenti delle aziende che licenziano.
Sono dati chiari, che sembrano attestare la consapevolezza della necessità di innalzare il livello dello scontro. Naturalmente lo scarto tra opinioni e realtà, tra parole e fatti, potrebbe far sorgere il dubbio che si tratti dell’italico atteggiamento del tipo «armiamoci e partite».
Senza voler escludere la presenza di questo atteggiamento, non è difficile però scorgere un’altra ragione di questo scarto: la difficoltà che permane ad immaginare una prospettiva strategica in cui inserire le lotte. La prudenza potrebbe insomma essere il frutto non solo, e non tanto, del peggioramento dei rapporti di forza degli ultimi decenni, quanto piuttosto la conseguenza di quella sorta di «cancellazione del futuro» perseguita tenacemente dalla cultura dominante nello stesso periodo.
In ogni caso il sondaggio ci parla di un grande consenso alle lotte. Il consenso non è ancora la lotta, ma è il mare nel quale i pesci possono nuotare ed organizzarsi. Non è poco.
Conclusioni
Sarebbe errato trarre da un semplice sondaggio delle conclusioni troppo positive sulla consapevolezza popolare rispetto alla crisi. Quel che è certo è che il sentire del paese reale sembra distante anni luce dalla propaganda delle oligarchie economiche e dai loro servitori del sistema mediatico.
Il bombardamento quotidiano teso ad infondere ottimismo evidentemente non funziona. Berlusconi continuerà di certo ad inveire contro i disfattisti, ma probabilmente con risultati assai inferiori a quelli immaginati.
Solo il tempo ci dirà dove scoppierà effettivamente l’incendio, ma è sempre più chiara la crescita di un malessere sociale profondo che prima o poi finirà per esplodere.
Meglio prima che poi, ma quel che conterà davvero sarà la direzione dell’esplosione. E’ questa la vera partita alla quale prepararsi, la vera scommessa dei prossimi anni.
Il bombardamento quotidiano teso ad infondere ottimismo evidentemente non funziona. Berlusconi continuerà di certo ad inveire contro i disfattisti, ma probabilmente con risultati assai inferiori a quelli immaginati.
Solo il tempo ci dirà dove scoppierà effettivamente l’incendio, ma è sempre più chiara la crescita di un malessere sociale profondo che prima o poi finirà per esplodere.
Meglio prima che poi, ma quel che conterà davvero sarà la direzione dell’esplosione. E’ questa la vera partita alla quale prepararsi, la vera scommessa dei prossimi anni.
* da: http://www.campoantimperialista.it/
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