[ 22 dicembre 2009 ]
riceviamo e volentieri pubblichiamo
«La reazione spontanea contro l'impossibilità di vivere come serialità é il gruppo , in quanto prassi intenzionale di soggetti umani collegati tra loro allo scopo di rovesciare questa situazione storica, sfuggendo alla passività e all'inerzia. Esso é movimento che nasce da un pericolo comune, al quale intende reagire mediante una prassi comune. Nel momento caldo iniziale si realizza una integrazione reale degli individui, che si scoprono capaci di agire secondo fini e liberi membri di un insieme organico, in cui nessuno comanda e nessuno obbedisce, ma tutti sono pervasi da una comune volontà di lotta contro comuni nemici. E' il gruppo in fusione , quale si costituisce nelle fasi iniziali dei movimenti rivoluzionari. Quando però viene meno la pressione del pericolo esterno, l'evidenza di scopi e la necessità di una prassi comune tendono a sparire. Per impedire che l'individuo ricada in forme di prassi meramente individuali, il gruppo, che prima era il mezzo per il raggiungimento di fini comuni, propone se stesso come fine. La cosa importante diventa salvaguardare l'esistenza del gruppo e a questo provvedono l'organizzazione e poi l'istituzionalizzazione del gruppo, ma, così facendo, il gruppo ricade nella serialità».
Ho riprodotto questo passo non solo perché lo ritengo una ricostruzione alquanto fedele di uno dei ragionamenti più noti di J. P. Sartre, in quanto esso ci offre una possibile spiegazione dello stato di catalessi in cui paiono precipitati tutti i gruppi rivoluzionari. Può apparire un paradosso ma proprio mentre è sopraggiunta una delle crisi più serie e dagli esiti ignoti del sistema capitalistico, nell'area dei gruppi rivoluzionari, oramai tutti ridotti al lumicino, pare scomparso il senso del nemico esterno, e quindi, per dirla con Sartre, si sfalda il vincolo di solidarietà, si dedica sempre meno energie alla lotta, si scappa nel privato, si riduce l'impegno verso la conoscenza e aumenta spropositatamente il tempo dedicato al cazzeggio, quello che passa per il labirinto internettaro anzitutto. Non si sta più assieme, non si vuole più patire e com-patire insieme, ognuno si costruisce un suo proprio mondo e ci si barrica dentro illudendosi che li sia protetto. La fiducia nell'altro, nel compagno di lotta svanisce, se non si sta in cagnesco ci si tiene a distanza. Ogni idea di comunità è polverizzata e con essa s'ingessa la comunicazione. Alla fine, come sosteneva Sartre, il gruppo si atrofizza, perde le sue capacità performative, e ricade nella serialità. I pochi che resistono vengono a trovarsi in un vicolo cieco, tutti i tentativi posti in essere per rivitalizzare il gruppo paiono vani. Per citare ancora Sartre, alla fine, c'è lo scacco.
Spiegare questo processo di spappolamento del movimento rivoluzionario con la crisi del marxismo e del movimento comunista non è sufficiente. Il difetto principale di questa spiegazione è che essa è intimamente e profondamente razionalista. La crisi del militante rivoluzionario è la crisi della sua propria ragione, ovvero che la sua ragione non è più sufficiente a sorreggerlo, malgrado proprio la ragione dica che oggi più che mai sarebbe importante lottare e attrezzarsi in vista delle decisive prove future. Al militante gli viene a mancare la Volontà e la Passione, questo è il punto.
Per questo, pur sentendomi distante dalla corrente empirista di pensiero, mi è venuto in mente David Hume il quale contestò radicalmente l'idea razionalistica per cui i comportamenti umani fossero anzitutto determinati dalla ragione. Hume considerava invece i sentimenti la principale forza motrice delle azioni umane. Penso non avesse torto. «La ragione, da sola, non può mai essere motivo di una qualsiasi azione di volontà, la ragione non può mai contrapporsi alla passione nella guida della volontà. (...) La ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni e non può rivendicare in nessun caso una funzione diversa da quella di servire e obbedire a esse».
Se questo paradigma è corretto dobbiamo chiederci da cosa dipenda questo crollo della passione rivoluzionaria. E com'è che mentre alcuni restano appasionatamente rivoluzionari (pur portandosi appresso tanti difetti), i più hanno il gigantesco difetto di perdere proprio la passione rivoluzionaria. Non nascondo che me lo sono chiesto svariate volte, cercando di darmi una risposta.
L'imborghesimento generalizzato, ovvero il riferimento alle condizioni economiche e alle concrete relazioni sociali, l'accettazione della vita seriale, risponderanno alcuni. Certo questo conta, ma non è sufficiente. Occorre andare più a fondo, più dentro le correnti culturali che predominano di questi tempi e, perché no, in fondo all'animo umano.
Da tempo hanno preso il sopravvento correnti utilitaristiche ed eudomonistiche, per cui ognuno cerca la felicità e la soddisfazione dei suoi propri bisogni. Quando l'individuo non trova né felicità né soddisfazione nello scambio relazionale con gli altri, allora egli ripiega, cerca entrambi nella sfera egotica del personale. Il proprio Io prima di tutto.
Non si tratta solo di una tendenza momentanea, essa risponde a precise caratteristiche antropologiche, oso dire a costanti bio-psichiche dell'essere umano. Solo in eccezionali circostanze sociali infatti, gli uomini mettono da parte il loro egoismo, e sono in grado di vivere slanci altruistici straordinari e commoventi. In questi frangenti l'Io si dissolve nel Noi, la solidarietà comunitaria viene prima dei propri interessi, ovvero, i più realizzano che solo nella comunità l'uindividuo riconosce se stesso e realizza volontà passioni e sentimenti. L'individuo riesce in questi momenti a slanciarsi verso l'altro proprio perché mette da parte la ragione, poiché la ragione è spesso il rivestimento sofisticato del realismo e dell'egoismo.
Il cuore, diceva B. Pascal, ha le sue ragioni, che la Ragione non riconosce.
Questi sono tempi in cui siamo tutti schiacciati dalla Ragione, anzi una Ragione calcolante e onnivora, in cui l'Amore per gli altri che soffrono è considerato un lusso, una follia. L'Amore è degenerato perché sprofondato nel personalismo (brutta bestia). Alla fine un "amore" senza cuore e senza passione, atomizzato, di specie inferiore.
Come può amare davvero, nel senso più spirituale e integrale, anche un solo essere, chi non con-patisce anzitutto i tanti oppressi che soffrono e combattono perché ogni Amore gli viene negato? Certo, si dirà che questi tanti non sono qui, che sono distanti da noi, o forse non vogliamo vederli e giriamo la faccia dall'altra parte, ma solo questo Amore, prima ancora che la ragione, sorregge un "rivoluzionario". Se vien meno questo il militante è come "un cerchio che abbia perso il suo centro", il senso stesso della sua missione. E che una comunità politica ricada nella serialità perché non può resistere a lungo in un habitat ostile, come surrogato di una più vasta comunità sociale solidale, non è che una triste consolazione.
L.S.
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