5 dicembre
TUTTI A CASA PRIMA POSSIBILE!
La maxi-inchiesta sulla cupola affaristica romana impone alcune riflessioni.
1. Un simbolo della politica oligarchica
C'è in primo luogo un errore da evitare: quello di considerare questa inchiesta come una delle tante. Non è così. Siccome la quantità modifica anche la qualità delle cose, è evidente come questa vicenda sia destinata a diventare uno dei simboli più rappresentativi di cosa sia diventata la politica in un paese come l'Italia. Si può anche discutere di quanto questa degenerazione sia figlia dell'impronta lasciata dal berlusconismo, ma sarebbe del tutto fuorviante limitarsi a ciò.
C'è infatti una verità ben più profonda che va colta, ed essa consiste nel rapporto tra «politica» e «politici», questi ultimi intesi come «uomini delle istituzioni». Se la politica si fa sempre più oligarchica, e dunque a-democratica, è naturale che gli corrisponda un tipo di «politico» e di amministratore espresso direttamente dai vari gruppi di potere, dalle varie lobby in cui si struttura il blocco dominante.
2. Le differenze tra la corruzione della prima repubblica e quella attuale
Siamo ormai a ventidue anni da Tangentopoli, a ventuno dal referendum che portò alla cancellazione del sistema proporzionale, a venti dall'introduzione di quello maggioritario. A nessuno sfugge il nesso causale tra questi eventi. La corruzione di allora, o meglio la sua emersione pilotata, servì ad aprire la strada al lungo processo controriformatore che oggi Renzi si propone di portare a degna conclusione. Ma la corruzione della prima repubblica era diversa da quella attuale.
Ovviamente anche allora si registravano innumerevoli casi di corruzione individuale, ma il grosso del fenomeno si collocava nella cornice di un sistema imperniato sui partiti e sulle correnti interne ad essi. La tangente, al netto del lucro personale, anche all'epoca previsto, serviva spesso a finanziare partiti e correnti che avevano ancora un discreto radicamento sociale. Non che questo le rendesse eticamente accettabili, ma sta qui la differenza fondamentale con quanto avviene oggi. Se allora la tangente era (anche) uno strumento per finanziare il partito, oggi è quello che del tutto impropriamente viene ancora chiamato «partito» che serve ad ottenere la tangente.
3. La fine dei partiti e la selezione del personale politico
Il lungo processo che ha preso le mosse agli inizi degli anni '90 del secolo scorso ha portato alla fine dei partiti come luogo della partecipazione alla politica. Un luogo dove, naturalmente con mille difetti, si selezionava la classe politica. Non che allora i gruppi di potere, in alcuni casi di natura sostanzialmente mafiosa, non contassero. Contavano eccome, ma erano una parte del tutto, non il tutto come nella politica senza (veri) partiti di oggi. Per capire che i partiti intesi nel senso tradizionale non esistono più, basta pensare a quanto affermato dal segretario del Pd. Davanti ai dati del tracollo verticale degli iscritti, Renzi ha detto che queste sono cose del passato, che oggi l'importante è guardare ai voti. Ed a questi ultimi, come ha twittato sfacciatamente dopo le regionali emiliane, non in termini assoluti ma percentuali, perché l'unica cosa che conta è vincere.
Un'idea della democrazia alla «Ruota della fortuna», il quiz televisivo di Mike Bongiorno che portò per la prima volta l'attuale premier in tv. Ma un'idea tipicamente americana ed oligarchica il cui succo è che la politica è una cosa per specialisti, tutti comunque chiamati a perseguire gli stessi obiettivi, tutti rispondenti agli stessi interessi, in cui i cittadini possono mettere becco - se proprio lo vogliono, ma se non lo fanno è pure meglio - solo ed esclusivamente in occasione delle elezioni. E' chiaro che in un sistema del genere i partiti sono solo macchine elettorali, peraltro strettamente controllate da gruppi di potere assolutamente inattaccabili. Ed è proprio in questa direzione, quella della sua americanizzazione, che il sistema politico italiano si sta dirigendo da oltre vent'anni.
4. Lobbisti delle multinazionali e delinquenza alla romana
Giunti a questo punto del ragionamento, mi aspetto l'obiezione: se negli Usa comandano i lobbisti, qui siamo al dominio della delinquenza allo stato puro. Obiezione non accolta. E' vero, se nel Campidoglio di Washington (sede del parlamento americano) si muovono solo farabutti in giacca e cravatta, in quello romano nuotano come pesci nell'acqua affaristi di bassa lega e delinquenti di lungo corso, a volte vestiti male ed in almeno un caso pure senza un occhio.
Capisco che la differenza estetica possa avere la sua importanza, specie per chi ama le apparenze e non vuole andare al succo del problema. In realtà i lobbisti ben vestiti all'americana pullulano nei palazzi romani, per non parlare di quelli europei, ma poi esistono i livelli più bassi (ma non necessariamente meno lucrosi) di un malaffare che è comunque funzionale al sistema.
5. La politica (e la democrazia) nel tempo della globalizzazione capitalistica
Il fatto è che nel tempo della globalizzazione capitalistica, nel regno del capitalismo assoluto, ogni forma di democrazia deve essere in qualche modo sterilizzata. Da qui i sistemi elettorali ed istituzionali che tendono a cancellare il principio della rappresentanza per assolutizzare quello della governabilità, mentre agli amministratori locali si chiede solo l'esercizio della cosiddetta governance, cioè della mera amministrazione di politiche sempre uguali a se stesse. Tutto quanto dovesse andar oltre a questo compito verrebbe visto come pericoloso e disdicevole.
C'è da stupirsi se da una politica finita su questo binario morto, dominata dall'economia e, peggio, dalle oligarchie che la governano, vengono fuori i Carminati, i Buzzi od i Di Stefano (leggi QUI)? I politici del tipo di quelli coinvolti nell'inchiesta romana hanno parecchi vizi, ma un paio di virtù fondamentali: non disturbano il manovratore e sono sempre ricattabili. Loro chiedono solo di far cassa. Che poi, facendola grazie all'ormai famoso «mondo di mezzo» - quello dove potere politico, imprenditoria e delinquenza allo stato puro si incontrano - una parte ritorna anche a chi sta più in alto. Il che non guasta.
6. La politica (e la democrazia) in uno Stato senza sovranità
Ma non c'è solo il generale processo di globalizzazione capitalistica. Al suo interno, nel caso specifico dell'Italia, c'è anche il peso della progressiva perdita di sovranità. Ora qualcuno storcerà il naso pensando che siamo un po' fissati. Ma è così? Penso proprio di no.
Una politica che delega le scelte fondamentali ai centri del potere europeo, che mette nei posti decisivi i tecnocrati della peggior specie, che vincola in maniera rigida anche le scelte degli enti locali, non è forse destinata a veder prevalere i lestofanti della peggior specie? Può sembrare una semplificazione, ma è un fatto che i due processi - di perdita della sovranità e di progressivo degrado del ceto politico - sono andati avanti di pari passo.
7. Né moralismo né indifferenza: analisi concreta dei palazzi della politica
L'enorme questione della corruzione non può essere affrontata con il moralismo, ma neppure può essere sottovalutata, considerandola un mero fenomeno fisiologico. Trattandosi invece, in buona parte, di un sottoprodotto dell'attuale strutturazione a-democratica del capitalismo iper-finanziarizzato, altrimenti detto capitalismo-casinò, è da lì che si deve partire. Il modo corretto di affrontare questo tema è dunque quello dell'analisi concreta delle odierne modalità di funzionamento della politica e dei suoi palazzi.
L'approccio moralista, quello che fu dominante ai tempi di Tangentopoli, conduce (almeno in teoria) alla condanna dei singoli, ma sempre con la volontà di preservare il sistema. Per costoro, anzi, alcune condanne sono indispensabili proprio per salvare il sistema. Il tentativo è quello di separare le cosiddette «mele marce» da un sistema che ci si ostina a voler giudicare sano. Quanta buona fede vi sia in questo atteggiamento lo giudichino i lettori.
Altrettanto sbagliato, e da respingere, è un atteggiamento assai simile all'indifferenza, che da un lato viene motivato con la presunta «inevitabilità» della corruzione, dall'altro con la sua scarsa incidenza economica. Ora, a parte il fatto che in molti casi, come quello romano, tanto scarsa questa incidenza non è, su questo punto non si può davvero scadere nell'economicismo di bassa lega. Certo, a chi vorrebbe far credere che il debito pubblico sia principalmente figlio della corruzione, occorre dire che così non è, che ben altri sono stati i guasti provocati dai santerelli che decisero di darlo in pasto alla speculazione, affidandolo di fatto ai notoriamente purissimi mercati finanziari. Ma detto questo, come non vedere nella crescente corruzione un mezzo per sottomettere la politica a quegli stessi potentati economici?
8. Che fare allora?
Per chi vuole opporsi allo stato di cose presente ci sono da fare soltanto due cose. La prima consiste nel lavoro di analisi, nella denuncia continua di quanto il malaffare sia sistemico. Non una deviazione dei singoli, ma un aspetto non secondario dell'insieme che ci opprime.
La seconda cosa da fare si chiama politica, ed essa impone intanto un chiaro obiettivo: lo scioglimento immediato del consiglio comunale di Roma. Per molto meno si sono rapidamente sciolti consigli comunali del sud del Paese. Sarebbe intollerabile se qualcuno - dal sindaco Marino in giù - resistesse a questa esigenza minimale di pulizia.
Certo, tra i sindaci che si sono succeduti le responsabilità maggiori vanno sicuramente ad Alemanno, colui che ha messo tante leve del potere in mano agli amici della cupola nera di Carminati e soci. Ma le cronache, e le stesse carte dell'inchiesta, parlano di un meccanismo perfettamente bipartisan. Si dice che Marino fosse all'oscuro di tutto. Ma se così fosse meglio per lui cambiare rapidamente mestiere. In ogni caso non pare proprio che i traffici della cupola nera abbiano trovato qualche intralcio nel consiglio comunale eletto nel 2013, come vorrebbe invece sostenere il patetico «commissario» Pd, Orfini.
Dunque, tutti a casa ed il prima possibile. Un atto certo non sufficiente ad estirpare la corruzione, ma di sicuro un passaggio assolutamente necessario.
La maxi-inchiesta sulla cupola affaristica romana impone alcune riflessioni.
1. Un simbolo della politica oligarchica
C'è in primo luogo un errore da evitare: quello di considerare questa inchiesta come una delle tante. Non è così. Siccome la quantità modifica anche la qualità delle cose, è evidente come questa vicenda sia destinata a diventare uno dei simboli più rappresentativi di cosa sia diventata la politica in un paese come l'Italia. Si può anche discutere di quanto questa degenerazione sia figlia dell'impronta lasciata dal berlusconismo, ma sarebbe del tutto fuorviante limitarsi a ciò.
C'è infatti una verità ben più profonda che va colta, ed essa consiste nel rapporto tra «politica» e «politici», questi ultimi intesi come «uomini delle istituzioni». Se la politica si fa sempre più oligarchica, e dunque a-democratica, è naturale che gli corrisponda un tipo di «politico» e di amministratore espresso direttamente dai vari gruppi di potere, dalle varie lobby in cui si struttura il blocco dominante.
2. Le differenze tra la corruzione della prima repubblica e quella attuale
Siamo ormai a ventidue anni da Tangentopoli, a ventuno dal referendum che portò alla cancellazione del sistema proporzionale, a venti dall'introduzione di quello maggioritario. A nessuno sfugge il nesso causale tra questi eventi. La corruzione di allora, o meglio la sua emersione pilotata, servì ad aprire la strada al lungo processo controriformatore che oggi Renzi si propone di portare a degna conclusione. Ma la corruzione della prima repubblica era diversa da quella attuale.
Ovviamente anche allora si registravano innumerevoli casi di corruzione individuale, ma il grosso del fenomeno si collocava nella cornice di un sistema imperniato sui partiti e sulle correnti interne ad essi. La tangente, al netto del lucro personale, anche all'epoca previsto, serviva spesso a finanziare partiti e correnti che avevano ancora un discreto radicamento sociale. Non che questo le rendesse eticamente accettabili, ma sta qui la differenza fondamentale con quanto avviene oggi. Se allora la tangente era (anche) uno strumento per finanziare il partito, oggi è quello che del tutto impropriamente viene ancora chiamato «partito» che serve ad ottenere la tangente.
3. La fine dei partiti e la selezione del personale politico
Il lungo processo che ha preso le mosse agli inizi degli anni '90 del secolo scorso ha portato alla fine dei partiti come luogo della partecipazione alla politica. Un luogo dove, naturalmente con mille difetti, si selezionava la classe politica. Non che allora i gruppi di potere, in alcuni casi di natura sostanzialmente mafiosa, non contassero. Contavano eccome, ma erano una parte del tutto, non il tutto come nella politica senza (veri) partiti di oggi. Per capire che i partiti intesi nel senso tradizionale non esistono più, basta pensare a quanto affermato dal segretario del Pd. Davanti ai dati del tracollo verticale degli iscritti, Renzi ha detto che queste sono cose del passato, che oggi l'importante è guardare ai voti. Ed a questi ultimi, come ha twittato sfacciatamente dopo le regionali emiliane, non in termini assoluti ma percentuali, perché l'unica cosa che conta è vincere.
Un'idea della democrazia alla «Ruota della fortuna», il quiz televisivo di Mike Bongiorno che portò per la prima volta l'attuale premier in tv. Ma un'idea tipicamente americana ed oligarchica il cui succo è che la politica è una cosa per specialisti, tutti comunque chiamati a perseguire gli stessi obiettivi, tutti rispondenti agli stessi interessi, in cui i cittadini possono mettere becco - se proprio lo vogliono, ma se non lo fanno è pure meglio - solo ed esclusivamente in occasione delle elezioni. E' chiaro che in un sistema del genere i partiti sono solo macchine elettorali, peraltro strettamente controllate da gruppi di potere assolutamente inattaccabili. Ed è proprio in questa direzione, quella della sua americanizzazione, che il sistema politico italiano si sta dirigendo da oltre vent'anni.
4. Lobbisti delle multinazionali e delinquenza alla romana
Giunti a questo punto del ragionamento, mi aspetto l'obiezione: se negli Usa comandano i lobbisti, qui siamo al dominio della delinquenza allo stato puro. Obiezione non accolta. E' vero, se nel Campidoglio di Washington (sede del parlamento americano) si muovono solo farabutti in giacca e cravatta, in quello romano nuotano come pesci nell'acqua affaristi di bassa lega e delinquenti di lungo corso, a volte vestiti male ed in almeno un caso pure senza un occhio.
Capisco che la differenza estetica possa avere la sua importanza, specie per chi ama le apparenze e non vuole andare al succo del problema. In realtà i lobbisti ben vestiti all'americana pullulano nei palazzi romani, per non parlare di quelli europei, ma poi esistono i livelli più bassi (ma non necessariamente meno lucrosi) di un malaffare che è comunque funzionale al sistema.
5. La politica (e la democrazia) nel tempo della globalizzazione capitalistica
Il fatto è che nel tempo della globalizzazione capitalistica, nel regno del capitalismo assoluto, ogni forma di democrazia deve essere in qualche modo sterilizzata. Da qui i sistemi elettorali ed istituzionali che tendono a cancellare il principio della rappresentanza per assolutizzare quello della governabilità, mentre agli amministratori locali si chiede solo l'esercizio della cosiddetta governance, cioè della mera amministrazione di politiche sempre uguali a se stesse. Tutto quanto dovesse andar oltre a questo compito verrebbe visto come pericoloso e disdicevole.
C'è da stupirsi se da una politica finita su questo binario morto, dominata dall'economia e, peggio, dalle oligarchie che la governano, vengono fuori i Carminati, i Buzzi od i Di Stefano (leggi QUI)? I politici del tipo di quelli coinvolti nell'inchiesta romana hanno parecchi vizi, ma un paio di virtù fondamentali: non disturbano il manovratore e sono sempre ricattabili. Loro chiedono solo di far cassa. Che poi, facendola grazie all'ormai famoso «mondo di mezzo» - quello dove potere politico, imprenditoria e delinquenza allo stato puro si incontrano - una parte ritorna anche a chi sta più in alto. Il che non guasta.
6. La politica (e la democrazia) in uno Stato senza sovranità
Ma non c'è solo il generale processo di globalizzazione capitalistica. Al suo interno, nel caso specifico dell'Italia, c'è anche il peso della progressiva perdita di sovranità. Ora qualcuno storcerà il naso pensando che siamo un po' fissati. Ma è così? Penso proprio di no.
Una politica che delega le scelte fondamentali ai centri del potere europeo, che mette nei posti decisivi i tecnocrati della peggior specie, che vincola in maniera rigida anche le scelte degli enti locali, non è forse destinata a veder prevalere i lestofanti della peggior specie? Può sembrare una semplificazione, ma è un fatto che i due processi - di perdita della sovranità e di progressivo degrado del ceto politico - sono andati avanti di pari passo.
7. Né moralismo né indifferenza: analisi concreta dei palazzi della politica
L'enorme questione della corruzione non può essere affrontata con il moralismo, ma neppure può essere sottovalutata, considerandola un mero fenomeno fisiologico. Trattandosi invece, in buona parte, di un sottoprodotto dell'attuale strutturazione a-democratica del capitalismo iper-finanziarizzato, altrimenti detto capitalismo-casinò, è da lì che si deve partire. Il modo corretto di affrontare questo tema è dunque quello dell'analisi concreta delle odierne modalità di funzionamento della politica e dei suoi palazzi.
L'approccio moralista, quello che fu dominante ai tempi di Tangentopoli, conduce (almeno in teoria) alla condanna dei singoli, ma sempre con la volontà di preservare il sistema. Per costoro, anzi, alcune condanne sono indispensabili proprio per salvare il sistema. Il tentativo è quello di separare le cosiddette «mele marce» da un sistema che ci si ostina a voler giudicare sano. Quanta buona fede vi sia in questo atteggiamento lo giudichino i lettori.
Altrettanto sbagliato, e da respingere, è un atteggiamento assai simile all'indifferenza, che da un lato viene motivato con la presunta «inevitabilità» della corruzione, dall'altro con la sua scarsa incidenza economica. Ora, a parte il fatto che in molti casi, come quello romano, tanto scarsa questa incidenza non è, su questo punto non si può davvero scadere nell'economicismo di bassa lega. Certo, a chi vorrebbe far credere che il debito pubblico sia principalmente figlio della corruzione, occorre dire che così non è, che ben altri sono stati i guasti provocati dai santerelli che decisero di darlo in pasto alla speculazione, affidandolo di fatto ai notoriamente purissimi mercati finanziari. Ma detto questo, come non vedere nella crescente corruzione un mezzo per sottomettere la politica a quegli stessi potentati economici?
8. Che fare allora?
Per chi vuole opporsi allo stato di cose presente ci sono da fare soltanto due cose. La prima consiste nel lavoro di analisi, nella denuncia continua di quanto il malaffare sia sistemico. Non una deviazione dei singoli, ma un aspetto non secondario dell'insieme che ci opprime.
La seconda cosa da fare si chiama politica, ed essa impone intanto un chiaro obiettivo: lo scioglimento immediato del consiglio comunale di Roma. Per molto meno si sono rapidamente sciolti consigli comunali del sud del Paese. Sarebbe intollerabile se qualcuno - dal sindaco Marino in giù - resistesse a questa esigenza minimale di pulizia.
Certo, tra i sindaci che si sono succeduti le responsabilità maggiori vanno sicuramente ad Alemanno, colui che ha messo tante leve del potere in mano agli amici della cupola nera di Carminati e soci. Ma le cronache, e le stesse carte dell'inchiesta, parlano di un meccanismo perfettamente bipartisan. Si dice che Marino fosse all'oscuro di tutto. Ma se così fosse meglio per lui cambiare rapidamente mestiere. In ogni caso non pare proprio che i traffici della cupola nera abbiano trovato qualche intralcio nel consiglio comunale eletto nel 2013, come vorrebbe invece sostenere il patetico «commissario» Pd, Orfini.
Dunque, tutti a casa ed il prima possibile. Un atto certo non sufficiente ad estirpare la corruzione, ma di sicuro un passaggio assolutamente necessario.
3 commenti:
Aggiungo una postilla per rimarcare il messaggio di questo articolo e in parte per confermare il commento che ieri ho pubblicato nell'articolo precedente a questo.
CHI HA DIMESTICHEZZA CON L'ANALISI STORICA capisce al volo che queste dinamiche sono l'EVOLUZIONE NATURALE dei PRINCIPI FONDANTI IL CAPITALISMO,e questa affermazione ne sottintende un altra cruciale in questo momento di riformulazione dell'identità della sinistra in ambito sociale e cioè il bisogno di una metodo di indagine "aperto" che si basi su fondamenta razionali.
Riguardo questo invito alla lettura di "apologia della storia" di Marc Bloch un testo un pò datato ma che spiega lucidamente l'interconnessione oggettiva tra i processi storici e la realtà attuale vissuta dagli uomini,in contrapposizione alla concezione oggi dominante di un distaccamento progressivo dell'attualità rispetto la storia e lo studio di questa.
L'oggettività di questi processi comprovati empiricamente dallo studio della storia scongiurerebbe,in ambito analitico, il manifestarsi di risposte di tipo moralistico e attitudinale(l'indifferenza) che troppe volte bivaccano nelle analisi di una sinistra che ormai non può più permettersi di perdere tempo.
"l'interconnessione oggettiva tra i processi storici e la realtà attuale vissuta dagli uomini, in contrapposizione alla concezione oggi dominante di un distaccamento progressivo dell'attualità rispetto la storia e lo studio di questa."
II discorso è abbastanza nebuloso. Si potrebbe dire, in risposta. "La storia siamo noi". Cioè la "storia" non è qualcosa di estraneo alla realtà dell'attualità, la STORIA è il processo dinamico della realtà sociale ed umana e si costruisce automaticamente minuto dopo minuto, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Gli "autori ed interpreti del processo storico" siamo ciascuno di noi e non è assolutamente necessario e indispensabile essere Re o Grandi uomini per fare storia. Certamente i "grandi personaggi" influiscono in modi diversi sull'andamento della Storia. C'è che ha un grande peso sugli eventi e chi ne ha meno. Tutto qua. Anche chi non va a votare fa storia, in maniera minuscola e minima, ma è anche lui un attore "responsabile".
Ennesimo articolo che dimostra come le contraddizioni dell'Unione Europea stiano venendo al pettine da sole.
Ora queste contraddizioni europee sono anche le contraddizioni del capitalismo, quella "tendenza oggettiva" di cui parlava Brancaccio.
Se l'Europa salta il tema del "no euro" si sgonfierà all'istante, se invece vince Draghi ci saranno politiche espansive che per un certo periodo (non lungo) miglioreranno la situazione almeno in borsa e sul cambio eur/usd per cui la gente non sarà disposta a seguire proposte di rottura.
Bisogna ricreare l'unità della sinistra con Tsipras, con Civati, eventualmente con SEL se si decide a "capire" e con quelle forze sociali e politiche non di sinistra che stanno ripensando le loro posizioni per tornare (più o meno) alla socialdemocrazia.
Dopodiché le cose vanno da sole nella nostra direzione e lo dice anche un economista molto borghese come Evans Pritchard.
http://www.telegraph.co.uk/finance/comment/11275746/Draghis-authority-drains-away-as-half-ECB-board-joins-mutiny.html
P.S.: Da notare che Pasquinelli e Mazzei lo dicono da molto tempo che si sarebbe arrivati a un mexican standoff fra la BCE e la Bundesbank, non è che se le inventa oggi l'economista l'inglese.
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