25 maggio. Tra le diverse critiche che noi rivolgiamo a M5S c'è quella di svolgere un'opposizione, coerente e tenace sì, ma tutta istituzionale, attenta ad evitare che questa trascenda e si materializzi nella mobilitazione sociale. L'ostentato distacco dei 5 Stelle dalle proteste del 9 dicembre (protesta che in un certo senso era una spuria forma sociale del "grillismo") ne è stata una plastica conferma. Barison [nella foto], mette in evidenza come l'opposizione dei 5 Stelle sia in radicale discontinuità con le pratiche consociative di prima e seconda repubblica. Non solo questo è vero. Noi riteniamo che quello che potremmo definire il "disfattismo anticonsociativo di M5S", lungi dal rappresentare un "tappo" alla lotta diretta, aiuterà l'opposizione sociale ancora latente ad irrompere sulla scena.
«M’è capitato spesso, in questi giorni, d’interrogarmi sui motivi del successo politico del M5S. Indipendentemente dall’esito dell’imminente consultazione, infatti, è indubbio che il Movimento di Grillo ha già determinato uno spartiacque nient’affatto trascurabile sulla scena italiana, raccogliendo un quantitativo di consensi tale da imporsi come protagonista nell’attuale panorama politico. È lecito domandarsi, allora, quale sia la ragione di un simile successo. Si può dire ‒ ed è elemento non certo secondario ‒ che il M5S, intralciando gli intrallazzi del malaffare con l’atipica figura dell’“onesto curioso”, si sia affermato per discontinuità rispetto ai Lanzichenecchi di Stato che hanno depredato il Paese. Tuttavia, come ammonisce Tolstoj, “l’onestà non è che una qualità negativa”, condizione necessaria ma non sufficiente per organizzare un’effettiva strategia politica. Qual è allora il punto?
La risposta, a mio parere, sta nel fatto che il M5S ha reintrodotto, in un ambiente politico debilitato, stagnante e sostanzialmente uniforme, un elemento di aperta conflittualità, dunque, ad un tempo, di differenziazione, polarizzazione, radicalizzazione del confronto sociale. Il senso di questa nuova forma di lotta, per essere adeguatamente compreso, necessita però di un inquadramento storico preliminare.
È il 1976 quando s’insedia il Governo Andreotti III ‒ un Governo monocolore di Solidarietà Nazionale che si avvale dell’appoggio esterno dei Comunisti, appoggio che viene rinnovato anche per il Governo successivo (sempre presieduto da Andreotti) che rimarrà in carica fino al 20 marzo 1979. Negli anni della contestazione e delle ‘autonomie’ extraparlamentari, quando, sia nel mondo operaio che in quello studentesco, prende forma un’alternativa radicale schierata apertamente a sinistra, il PCI, anziché sostenerla, l’avverte come minaccia e reagisce facendo fronte comune col potere costituito ‒ illudendosi così di poter finalmente ottenere quella legittimità istituzionale che gli permettesse, in un secondo momento, di costituirsi come vera e propria alternativa intra-atlanticaalla monocrazia biancoscudata. Il caso Moro (16 marzo-9 maggio 1978) non è che il suggello di quest’abbraccio mortale ‒ il capolavoro politico di Andreotti ‒ per cui il PCI, pur di non concedere nulla a sinistra, è costretto al paradosso di sostenere istituzionalmente il cappio politico abilmente allacciato dai democristiani che, senza nemmeno agire, guardano i ‘compagni’ che, dimenandosi, se lo stringono da soli.
Si consolida in quegli anni quella che a mio parere rappresenta una sindrome endemica alla democrazia italiana e che definirei moderatismo istituzionale. (Va detto per inciso che massimo responsabile di tutto ciò è stato proprio il PCI di Berlinguer, a dimostrazione del fatto che anche essere “una brava persona” è qualità certo apprezzabile, ma nient’affatto sufficiente per realizzare un progetto politico).
Il moderatismo istituzionale prevede sostanzialmente questo: le istituzioni ‒ quindi il Parlamento, la Presidenza della Repubblica, la Corte Costituzionale, ecc. ‒ possono tollerare solo un grado diconflittualità minima, essenzialmente fittizia, che, pur acconsentendo a qualche fisiologico assestamento, non intacchi mai alcuni capisaldi fondamentali, su tutti: la ridistribuzione del reddito, il metodo criminale che governa l’assegnazione degli appalti pubblici, il sistema istituzionale delle tangenti, l’evasione fiscale, la connivenza tra potere mafioso e potere politico, gli interessi del Vaticano, il baronato clientelare accademico, la lottizzazione della RAI, il potere bancario e di alcuni grossi gruppi industriali, l’impunibilità sostanziale dei colletti bianchi, ecc. Insomma, sotto il paravento di una moderazione politica inclusiva, i raggruppamenti partitici più rappresentativi ‒ DC, PSI e PCI prima, FI e DS, PdL e PD poi ‒, hanno sempre e comunque garantito che, quanto alle questioni succitate, non si verificassero mutamenti di sorta. È un tacito accordo che vige ormai da quasi quarant’anni, che ha i suoi riti, una sua retorica (che il Renzi imbonitore nazionalpopolare interpreta peraltro benissimo) e pratiche istituzionali precise, tutte tese da un lato alla conservazione dello status quo, dall’altra all’esclusione sistematica di ogni forma di conflittualità politica che possa incrinare l’omertoso patto sottostante. Basta ascoltare un ‘monito’ a piacere di Napolitano, oppure un’omelia moralizzatrice di Laura Boldrini ‒ o ancora: leggere un editoriale a scelta tra Scalfari, Mieli o Romano ‒ per capire di cosa si parli.
Ebbene, Grillo e il M5S, sia nei modi che nei fatti, rappresentano per questi signori l’inatteso: una forza oggi istituzionalmente determinante la quale, anziché accettare il moderatismo bipartisan ed entrarne a far parte, si propone invece di sovvertirlo. Lo slancio anti-istituzionale che connota l’agire del Movimento non è disprezzo per le istituzioni, bensì la necessaria conseguenza del fatto che, dopo quarant’anni di consociativismo, le istituzioni stesse sono incancrenite, organizzate in modo tale da garantire sempre e solo una difesa ad oltranza dell’assetto socio-economico vigente.
Ecco allora che affinché si determini una rottura di quest’ordine immobilista, è necessaria una tonificante inserzione di conflittualità: rompere lo stallo tramite una politica della discordia produttiva che identifichi in modo chiaro chi sono i nemici senza instaurare con essi alcun tipo di mediazione moderatrice.
L’aveva compreso egregiamente Carl Schmitt quando scriveva che “la possibilità reale della lotta [...] dev’essere sempre presente affinché si possa parlare di politica [...]”. Come a dire: non c’è politica senza conflitto, senza che siano chiari i nemici contro cui schierarsi. “Infatti solo nella lotta reale” ‒ continua Schmitt ‒ “si manifesta la conseguenza estrema del raggruppamento politico di amico e nemico. È da questa possibilità estrema che la vita dell’uomo acquista la sua tensione specificamentepolitica”. Altro che ‘antipolitica’: rispristinando la conflittualità come elemento fondativo e strategico, dopo quarant’anni di moderazione conservatrice, il M5S ha riportato in auge la politica sic et simpliciter».
Fonte: il Fatto Quotidiano
4 commenti:
D'accordo su tutto,ottimo ritratto storico,ma su un punto dissento:il Pci NON FU COSTRETTO al consociativismo per legittimarsi agli occhi dell'Alleanza Atlantica,cioè agli americani,semplicemente perchè non ne aveva bisogno.La scelta di campo interna alla borghesia l'aveva già compiuta nel '46 in quella che molti ancora ricordano come "la svolta di Salerno".Il percorso successivo analizzato molto bene dall'autore è stato conseguente a quella DIRIMENTE opzione che,di fatto, escludeva qualsiasi possibiltà e sostegno all'inevitabile conflitto capitale/lavoro,in base al quale è stato il più inflessibile interprete,agendo in maniera CONSAPEVOLE e COSCIENTE,soffocandone SEMPRE la radicalità oppositiva,assumendo pertanto quel ruolo storico INTERNO ALLE STRATEGIE DEL CAPITALE e fra le masse, che ha consentito alle classi dominanti di restare in sella fino ad ora. Luciano
Egregio Signor Barison il fatto che il M5S "la convinca" è un problema suo, che le lascio volentieri.
La prego però di essere più preciso nelle sue dichiarazioni riguardo alla conflittualità portata dal M5S. In effetti, per usare le sue parole, più che di "aperta conflittualità" io credo si possa parlare di apparente conflittualità, finalizzata più che a diventare una seria alternativa all'attuale sistema di potere, un catalizzatore di quella voglia di cambiamento più o meno inconscia che esiste nell'italiano medio. Conflittualità che però non va mai fino in fondo alle problematiche, pur in molti casi condivisibili, ma si ferma a raccoglierne il consenso. Naturalmente non c'è nulla di male a raccogliere il consenso popolare da parte di un movimento/partito, quello che invece è grave sta nell'inganno al popolo che è implicito in questo atteggiamento di "finto cambiamento", di "finto scontro" con il sistema, che ha come principale fine proprio l'opposto di quello che il M5S vuol fare apparire e cioè FAR APPARIRE CHE SI VUOLE CAMBIARE TUTTO AL PRECISO E PREDETERMINATO SCOPO DI NON CAMBIARE NULLA
Egregio Sig. Barison mi sembra che lei nel 2014 non capisca ancora quello che Berlinguer gia' nel 76 aveva capito ovvero che per cambiare la vita delle persone bisogna necessariamente entrare nella stanza dei bottoni,ed in Italia per varie ragioni che non sto' qui ad elencare qualsiasi movimento che si ponga su un piano di di lotta politica radicale non potra' mai e poi mai entrare nella stanza dei bottoni ovvero nel governo.A questo punto esistono due strade o continuare a rimanere all'opposizione riempire le piazze ecc.. ma non contare nulla nelle decisioni della politica governativa oppure sporcarsi le mani e cercare di entrare nella stanza dei bottoni magari cercando l'appoggio della parte piu' sana della compagine di maggioranza cosa che Berlinguer fece cercando l'appoggio dell'ala sx della DC e di Moro ( morto in circostanze molto dubbie come la riapertura delle indagini testimonia)il problema dell'allora PCI fu' che il governo aveva i numeri per governare senza di lui per cui non riusci' in nessun modo ad incidere nell'azione di governo.Il M5S ha scelto il radicalismo per cui si e' autodestinato ad urlare e sbraitare senza contare niente per i prossimi 50 anni.Ora la scelta del movimento e' legittima ma forse con il senno di poi cercare un intesa di governo con il PD che allora non era stato ancora Renzizzato e in cui l'ala che proviene dal vecchio PCI non era ancora stata messa in un angolo ed emarginata tanto da far pronunciare all'arrogante Fiorentino Fassina chi?forse non era poi cosi' da buttare.Comunque visto il risultato finale delle Europee potremo trarne due differenti conclusioni la prima:Grillo e Casaleggio hanno sbagliato completamente la linea politica perdendo circa 2,5 milioni di voti in poco tempo ed in questo caso in un qualsiasi partito il segretario rimetterebbe il mandato ma come sappiamo i due leader non hanno ricevuto nessuna investitura democratica quindi non possono rimettere il mandato,seconda conclusione la linea era quella voluta dai due leadere mantenere il dissenso in recinto ad urlare e sbraitare ed allora i due leader rimarranno.
Beppe Grillo ha commentato così: http://www.beppegrillo.it/2014/05/vinciamopoi.html
E la redazione che dice dei risultati elettorali? Non sarebbe ora di commentare?
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