20 settembre. Mimmo Porcaro (nella foto) è un fine intellettuale marxista. Da tempo tuona contro la moneta unica e l'Unione europea sottolineandone la natura liberista, oligarchica e imperialista. Per questo striglia la cosiddetta "sinistra radicale" che non si decide a rompere con l'inganno europesista.
Porcaro si spinge oltre e si chiede quali siano le forze sociali che romperanno la gabbia eurista, e spiega perché la vecchia classe operaia non potrà giocare un ruolo guida del fronte ampio che ci auspichiamo.
A fine primavera eravamo in pochi, a sinistra, a sostenere la necessità di rompere con l’euro, se non con l’Ue in quanto tale, facendo finalmente eco a coloro che già dall’inizio – onore al merito – avevano capito che l’euro era una iattura per i lavoratori europei.
A fine estate il numero dei critici della moneta unica di colpo si è accresciuto: sarà la presa di posizione di un leader come Lafontaine e di alcuni dirigenti spagnoli, sarà la rottura delle reticenze da parte di Le Monde Diplomatique, sarà la durezza della realtà, fatto sta che ormai anche tenaci europeisti come Alfonso Gianni sono costretti ad immaginare, quantomeno, una pur improbabile via di mezzo tra euro e no. E fatto sta che, pur prendendo garbatamente le distanze dalle posizioni anti-euro, Mario Candeias – figura di spicco della Fondazione Rosa Luxemburg – deve dichiarare che nulla ci si può attendere dai lavoratori tedeschi (alleati agli esportatori del loro Paese) e che una riforma dell’Ue può partire solo dal sud Europa: che è come dire implicitamente che un “movimento europeo” è impossibile e che si deve ripartire da un’alleanza tra nazioni che rivendicano almeno una parte della loro sovranità.
Questo coro di critiche all’Unione (tanto ampio da includere anche studi di provenienza bocconiana: si veda, in Costituzionalismo.it, il recente lavoro di Luca Fantacci ed Andrea Papetti) ci esime, almeno per questa volta, dal tornare sui motivi che le legittimano; così come ci riserviamo di analizzare in seguito le diverse proposte di uscita totale o parziale dalla situazione attuale. Per adesso vorremmo solo indicare alcune conseguenze di questo improvviso “disamore” verso l’euro, ossia alcune implicazioni di quelle proposte, spesso sottovalutate dai loro stessi autori.
Prima implicazione: ogni seria, pur se moderata, riforma della situazione attuale porterebbe alla dissoluzione della zona euro e quindi probabilmente alla fine dell’Unione. E ciò per il semplice fatto che la frazione dominante del capitalismo europeo (quella bancaria) ed il Paese dominante dell’Unione (la Germania) sono certamente convinti fautori dell’euro, ma solo dell’euro così com’è: perché la sua stabilità garantisce i creditori; perché la sua netta sottovalutazione rispetto ai valori dell’economia tedesca (una vera e propria svalutazione stabile) avvantaggia gli esportatori di quel Paese; perché l’impoverimento indotto nei paesi debitori, anche se da una parte fa diminuire la domanda di merci tedesche, dall’altra favorisce nettamente la centralizzazione del capitale nel nucleo forte d’Europa. Quindi questo euro va bene, ma ogni altra forma no. Per conseguenza anche chi non se la sente di proporre decisamente la rottura e pensa piuttosto ad una riforma dei trattati o ad una moneta comune deve prepararsi a gestire, in caso di vittoria, la crisi ed il collasso dell’intera costruzione comunitaria. E se non lo fa è un irresponsabile. Siamo troppo netti, troppo dogmatici?
Escludiamo a priori tendenze riformiste nel capitalismo tedesco? No: diciamo soltanto che al momento non si vede nessuna, ma proprio nessuna di queste tendenze (nemmeno, per intenderci, nei socialdemocratici tedeschi), che al momento dalla Germania possono venire solo alcune concessioni tattiche e che una tendenza riformista potrebbe eventualmente mostrarsi solo di fronte ad una decisa posizione dell’Europa del sud, del tipo “O si cambia o ce ne andiamo”. Siamo in grado di fare una proposta del genere, magari anche in sede di elezioni europee?
Seconda implicazione: è ora che il nostro Paese ripensi radicalmente la propria collocazione internazionale, affrancandosi dal rapporto servile con l’occidente neoliberista e rivolgendosi all’area mediterranea ed ai Brics, Paesi che per amore o per forza devono puntare su economie semi-regolate e sulla limitazione di quella libera circolazione dei capitali che ha distrutto la forza dei lavoratori. Altrimenti passeremmo dalla padella dell’Ue alla brace della zona atlantica di libero scambio, divenendo terreno di conquista del capitale Usa. L’uscita da sinistra dall’euro richiede l’uscita dalla subordinazione atlantica e dunque anche dalla Nato: ogni diversa soluzione sarebbe peggiorativa. Quello che si prospetta è insomma un tornante assai serio e pericoloso, ma ineludibile. E, per coloro che sventolano la bandiera rossa, è una grande occasione per superare le condizioni strutturali che hanno reso impossibile, in Italia, ogni seria ipotesi socialista. Ma anche per coloro che si attestano sulla difesa della Costituzione la scelta è inevitabile, giacché i più grandi insulti alla Carta fondamentale sono venuti proprio dall’alleanza atlantica, con la guerra, e dall’Unione europea che eliminando la sovranità nazionale ha distrutto il presupposto elementare della democrazia e della Costituzione stessa. Saremo consapevoli della necessità e della durezza della scelta? Sapremo costruire la forza politica ed il consenso popolare necessari a gestire questo passaggio davvero epocale?
Terza implicazione: come i preti che, per tener buoni borghigiani e villici, facevano affrescare le chiese medievali con truculente immagini dell’inferno, i fanatici dell’euro ci terrorizzano con l’elencazione delle infauste conseguenze della rottura, ossia svalutazione galoppante, crollo di tutti gli indicatori interni, salari falcidiati, miseria, fame. Si tratta di palesi esagerazioni contro le quali è doveroso polemizzare sempre, senza però cadere in una opposta e colpevole faciloneria. L’uscita dall’euro implicherebbe davvero, in un primo momento, seri problemi, ed è anche per questo che il Paese sceglierà questa soluzione solo quando sarà disperato. Tali problemi potrebbero essere risolti o attenuati solo da misure di tipo semi-socialista: la limitazione dei movimenti del capitale, la protezione dei salari, la nazionalizzazione delle imprese strategiche e soprattutto delle banche (che altrimenti sarebbero facile preda di acquisizioni ostili in quanto colpite dalla rivalutazione del loro debito con l’estero); la centralizzazione della politica industriale. Insomma: una pur parziale prospettiva socialista non è più un pio desiderio di alcuni di noi ma una necessità imposta dalle esigenze di sopravvivenza del Paese. Il che ci costringe a fare sul serio e a non parlare più solo di diritti e reddito, ma anche di proprietà e di organizzazione della produzione. Ne saremo capaci?
Quarta implicazione: tutto quello che si è detto sopra presuppone un significativo ampliamento e mutamento del nostro fronte sociale. Bisogna prendere atto che i lavoratori stabilmente occupati, anche se sono un elemento essenziale per la trasformazione del Paese, sono al momento alleati col capitale europeista e che le strutture sindacali e politiche a cui essi fanno normalmente riferimento sono vere e proprie cinghie di trasmissione dei desideri di quel capitale. Questa frazione di lavoratori non può più, almeno per adesso, essere considerata come la guida del nostro fronte, ed il rapporto col mondo del lavoro non può risolversi tutto nella relazione con questo o quel sindacato maggioritario, fosse anche quello più “di sinistra”. Pur continuando la nostra battaglia politica all’interno del lavoro stabile e dentro/contro i sindacati maggioritari, la nostra principale cura deve essere quella di aggregare lavoratori precari, atipici ed autonomi, e comunque tutti coloro che sono costretti a proporre soluzioni radicali della crisi attuale. E deve essere quella di sfondare il blocco sociale della destra aggregando (oltre a parti non irrilevanti della piccola-media impresa esportatrice) le frazioni più deprivate del proletariato e i piccoli imprenditori già berlusconiani attorno ad un programma che, pur mantenendo fermo il valore della lealtà fiscale, rimandi il pieno recupero della piccola evasione ad una futura fase di ripresa economica, e riduca sensibilmente le sanzioni attuali. In un primo momento i soldi non vanno rastrellati tra i (numerosi) piccoli evasori, ma presi ai grandi evasori e alle banche (nazionalizzazione) e sottratti al capitale finanziario internazionale (ridefinizione del debito e nuovo ruolo della Banca d’Italia). Solo dopo si potrà procedere ad una graduale regolarizzazione fiscale e ad un graduale superamento delle arretratezze della piccola impresa. Sapremo uscire dalle vecchie abitudini mentali ed immaginare un fronte sociale davvero nuovo, capace di farci divenire, potenzialmente, forza maggioritaria nel Paese?
Se risponderemo positivamente a tutte queste domande la fine dell’euro segnerà la nascita di una vera e nuova sinistra italiana, inevitabilmente orientata al socialismo. Altrimenti sarà gestita da qualche capopopolo avventurista o rimandata sine die dall’ineffabile PD: in ogni caso la conseguenza sarà la rovina dell’Italia.
Porcaro si spinge oltre e si chiede quali siano le forze sociali che romperanno la gabbia eurista, e spiega perché la vecchia classe operaia non potrà giocare un ruolo guida del fronte ampio che ci auspichiamo.
A fine primavera eravamo in pochi, a sinistra, a sostenere la necessità di rompere con l’euro, se non con l’Ue in quanto tale, facendo finalmente eco a coloro che già dall’inizio – onore al merito – avevano capito che l’euro era una iattura per i lavoratori europei.
A fine estate il numero dei critici della moneta unica di colpo si è accresciuto: sarà la presa di posizione di un leader come Lafontaine e di alcuni dirigenti spagnoli, sarà la rottura delle reticenze da parte di Le Monde Diplomatique, sarà la durezza della realtà, fatto sta che ormai anche tenaci europeisti come Alfonso Gianni sono costretti ad immaginare, quantomeno, una pur improbabile via di mezzo tra euro e no. E fatto sta che, pur prendendo garbatamente le distanze dalle posizioni anti-euro, Mario Candeias – figura di spicco della Fondazione Rosa Luxemburg – deve dichiarare che nulla ci si può attendere dai lavoratori tedeschi (alleati agli esportatori del loro Paese) e che una riforma dell’Ue può partire solo dal sud Europa: che è come dire implicitamente che un “movimento europeo” è impossibile e che si deve ripartire da un’alleanza tra nazioni che rivendicano almeno una parte della loro sovranità.
Questo coro di critiche all’Unione (tanto ampio da includere anche studi di provenienza bocconiana: si veda, in Costituzionalismo.it, il recente lavoro di Luca Fantacci ed Andrea Papetti) ci esime, almeno per questa volta, dal tornare sui motivi che le legittimano; così come ci riserviamo di analizzare in seguito le diverse proposte di uscita totale o parziale dalla situazione attuale. Per adesso vorremmo solo indicare alcune conseguenze di questo improvviso “disamore” verso l’euro, ossia alcune implicazioni di quelle proposte, spesso sottovalutate dai loro stessi autori.
MIMMO PORCARO: «LA SINISTRA DEVE DIRE NO ALL'EURO»
La prolusione di Mimmo Porcaro nell'ambito del convegno
sulla crisi promosso dal Prc, svoltosi a Roma il 4 maggio 2013
Prima implicazione: ogni seria, pur se moderata, riforma della situazione attuale porterebbe alla dissoluzione della zona euro e quindi probabilmente alla fine dell’Unione. E ciò per il semplice fatto che la frazione dominante del capitalismo europeo (quella bancaria) ed il Paese dominante dell’Unione (la Germania) sono certamente convinti fautori dell’euro, ma solo dell’euro così com’è: perché la sua stabilità garantisce i creditori; perché la sua netta sottovalutazione rispetto ai valori dell’economia tedesca (una vera e propria svalutazione stabile) avvantaggia gli esportatori di quel Paese; perché l’impoverimento indotto nei paesi debitori, anche se da una parte fa diminuire la domanda di merci tedesche, dall’altra favorisce nettamente la centralizzazione del capitale nel nucleo forte d’Europa. Quindi questo euro va bene, ma ogni altra forma no. Per conseguenza anche chi non se la sente di proporre decisamente la rottura e pensa piuttosto ad una riforma dei trattati o ad una moneta comune deve prepararsi a gestire, in caso di vittoria, la crisi ed il collasso dell’intera costruzione comunitaria. E se non lo fa è un irresponsabile. Siamo troppo netti, troppo dogmatici?
Escludiamo a priori tendenze riformiste nel capitalismo tedesco? No: diciamo soltanto che al momento non si vede nessuna, ma proprio nessuna di queste tendenze (nemmeno, per intenderci, nei socialdemocratici tedeschi), che al momento dalla Germania possono venire solo alcune concessioni tattiche e che una tendenza riformista potrebbe eventualmente mostrarsi solo di fronte ad una decisa posizione dell’Europa del sud, del tipo “O si cambia o ce ne andiamo”. Siamo in grado di fare una proposta del genere, magari anche in sede di elezioni europee?
Seconda implicazione: è ora che il nostro Paese ripensi radicalmente la propria collocazione internazionale, affrancandosi dal rapporto servile con l’occidente neoliberista e rivolgendosi all’area mediterranea ed ai Brics, Paesi che per amore o per forza devono puntare su economie semi-regolate e sulla limitazione di quella libera circolazione dei capitali che ha distrutto la forza dei lavoratori. Altrimenti passeremmo dalla padella dell’Ue alla brace della zona atlantica di libero scambio, divenendo terreno di conquista del capitale Usa. L’uscita da sinistra dall’euro richiede l’uscita dalla subordinazione atlantica e dunque anche dalla Nato: ogni diversa soluzione sarebbe peggiorativa. Quello che si prospetta è insomma un tornante assai serio e pericoloso, ma ineludibile. E, per coloro che sventolano la bandiera rossa, è una grande occasione per superare le condizioni strutturali che hanno reso impossibile, in Italia, ogni seria ipotesi socialista. Ma anche per coloro che si attestano sulla difesa della Costituzione la scelta è inevitabile, giacché i più grandi insulti alla Carta fondamentale sono venuti proprio dall’alleanza atlantica, con la guerra, e dall’Unione europea che eliminando la sovranità nazionale ha distrutto il presupposto elementare della democrazia e della Costituzione stessa. Saremo consapevoli della necessità e della durezza della scelta? Sapremo costruire la forza politica ed il consenso popolare necessari a gestire questo passaggio davvero epocale?
Terza implicazione: come i preti che, per tener buoni borghigiani e villici, facevano affrescare le chiese medievali con truculente immagini dell’inferno, i fanatici dell’euro ci terrorizzano con l’elencazione delle infauste conseguenze della rottura, ossia svalutazione galoppante, crollo di tutti gli indicatori interni, salari falcidiati, miseria, fame. Si tratta di palesi esagerazioni contro le quali è doveroso polemizzare sempre, senza però cadere in una opposta e colpevole faciloneria. L’uscita dall’euro implicherebbe davvero, in un primo momento, seri problemi, ed è anche per questo che il Paese sceglierà questa soluzione solo quando sarà disperato. Tali problemi potrebbero essere risolti o attenuati solo da misure di tipo semi-socialista: la limitazione dei movimenti del capitale, la protezione dei salari, la nazionalizzazione delle imprese strategiche e soprattutto delle banche (che altrimenti sarebbero facile preda di acquisizioni ostili in quanto colpite dalla rivalutazione del loro debito con l’estero); la centralizzazione della politica industriale. Insomma: una pur parziale prospettiva socialista non è più un pio desiderio di alcuni di noi ma una necessità imposta dalle esigenze di sopravvivenza del Paese. Il che ci costringe a fare sul serio e a non parlare più solo di diritti e reddito, ma anche di proprietà e di organizzazione della produzione. Ne saremo capaci?
Quarta implicazione: tutto quello che si è detto sopra presuppone un significativo ampliamento e mutamento del nostro fronte sociale. Bisogna prendere atto che i lavoratori stabilmente occupati, anche se sono un elemento essenziale per la trasformazione del Paese, sono al momento alleati col capitale europeista e che le strutture sindacali e politiche a cui essi fanno normalmente riferimento sono vere e proprie cinghie di trasmissione dei desideri di quel capitale. Questa frazione di lavoratori non può più, almeno per adesso, essere considerata come la guida del nostro fronte, ed il rapporto col mondo del lavoro non può risolversi tutto nella relazione con questo o quel sindacato maggioritario, fosse anche quello più “di sinistra”. Pur continuando la nostra battaglia politica all’interno del lavoro stabile e dentro/contro i sindacati maggioritari, la nostra principale cura deve essere quella di aggregare lavoratori precari, atipici ed autonomi, e comunque tutti coloro che sono costretti a proporre soluzioni radicali della crisi attuale. E deve essere quella di sfondare il blocco sociale della destra aggregando (oltre a parti non irrilevanti della piccola-media impresa esportatrice) le frazioni più deprivate del proletariato e i piccoli imprenditori già berlusconiani attorno ad un programma che, pur mantenendo fermo il valore della lealtà fiscale, rimandi il pieno recupero della piccola evasione ad una futura fase di ripresa economica, e riduca sensibilmente le sanzioni attuali. In un primo momento i soldi non vanno rastrellati tra i (numerosi) piccoli evasori, ma presi ai grandi evasori e alle banche (nazionalizzazione) e sottratti al capitale finanziario internazionale (ridefinizione del debito e nuovo ruolo della Banca d’Italia). Solo dopo si potrà procedere ad una graduale regolarizzazione fiscale e ad un graduale superamento delle arretratezze della piccola impresa. Sapremo uscire dalle vecchie abitudini mentali ed immaginare un fronte sociale davvero nuovo, capace di farci divenire, potenzialmente, forza maggioritaria nel Paese?
Se risponderemo positivamente a tutte queste domande la fine dell’euro segnerà la nascita di una vera e nuova sinistra italiana, inevitabilmente orientata al socialismo. Altrimenti sarà gestita da qualche capopopolo avventurista o rimandata sine die dall’ineffabile PD: in ogni caso la conseguenza sarà la rovina dell’Italia.
11 commenti:
Quello che più mi ha colpito di questo rimarchevole articolo è il periodo: "Bisogna prendere atto che i lavoratori stabilmente occupati, anche se sono un elemento essenziale per la trasformazione del Paese, sono al momento alleati col capitale europeista e che le strutture sindacali e politiche a cui essi fanno normalmente riferimento sono vere e proprie cinghie di trasmissione dei desideri di quel capitale."
In esso vedo molte assonanze con quest'altro: "In Italia ci sono due blocchi sociali. Il primo, che chiameremo blocco A, è fatto da milioni di giovani senza un futuro, con un lavoro precario o disoccupati, spesso laureati, che sentono di vivere sotto una cappa, sotto un cielo plumbeo come quello di Venere. Questi ragazzi cercano una via di uscita, vogliono diventare loro stessi istituzioni, rovesciare il tavolo, costruire una Nuova Italia sulle macerie. A questo blocco appartengono anche gli esclusi, gli esodati, coloro che percepiscono una pensione da fame e i piccoli e medi imprenditori che vivono sotto un regime di polizia fiscale e chiudono e, se presi dalla disperazione, si suicidano. Il secondo blocco sociale, il blocco B, è costituito da chi vuole mantenere lo status quo, da tutti coloro che hanno attraversato la crisi iniziata dal 2008 più o meno indenni, mantenendo lo stesso potere d'acquisto, da una gran parte di dipendenti statali, da chi ha una pensione superiore ai 5000 euro lordi mensili, dagli evasori, dalla immane cerchia di chi vive di politica attraverso municipalizzate, concessionarie e partecipate dallo Stato." (Da http://www.beppegrillo.it/2013/02/gli_italiani_non_votano_mai_a_caso.html)
Secondo me il blocco sociale per l'uscita è indicato molto chiaramente nel secondo.
Ricordo al signor Rauzino che l'altro ieri Grillo ha dichiarato che il M5S è contro l'uscita dall'euro, e che comunque sta storia del blocco sociale A e il blocco sociale B non porta da nessuna parte, perchè continua a perpetrare la stessa ipocrita guerra tra poveri e meno poveri che la politica asservita al capitale di tutte le fazioni ha sempre adoperato per creare il capro espiatorio: il problema non è il capitalismo, il problema è che per avere una società più giusta dovete tutti crepare. Perchè giustamente è facile prendersela con l'impiegato e il muratore invece di prendersela col riccone con lo yacht, eh? Nooooooooo, ma cheeee? Briatore brav'uomo, da lavoro a tanti ggiovani. La ricchezza è giusta? Siiiiiiiii, se rispetti le leggi (fatte dai borghesi per i borghesi)
Ricordo inoltre che quando ci fu la rivoluzione russa i bolscevichi non aspettarono che il 100% della popolazione russa condividesse video su youtube sui film spagnoli che parlano di economia, ma agirono, è vero che già avevano un discreto consenso ma andarono da soli ad assaltare il palazzo d'inverno, e non accadde nulla, non si rivoltò nessuno, anzi.
Perchè dico questo? Perchè io in famiglia ho mia madre che fa la maestra elementare, e si rompe il "c..." ogni giorno, ogni santo giorno subendosi le minacce dei genitori e il mobbing delle colleghe, e mia madre ha (scandalo! sventura!) il posto fisso. E come ce l'ha lei ce l'ha, se non sbaglio, anche parecchi intellettuali ed economisti che da tempo denunciano la truffa dell'euro. Io mi sono stufato di questa guerra ipocrita, io ho 23 anni e non mi piace che si faccino queste suddivisioni tra blocco sociale A e B, quando il vero problema è il blocco sociale AAA.
Io sono contro l'euro e sono contro la globalizzazione. Ma se ancora si continua a prendersela con chi è più facile prendersela, mentre i Briatore, i Montezemolo, i B. i C. i D., ecc... ecc.... se ne restano a casa a bersi il mojito non va bene. Non va bene. Se questo è l'andazzo generale non ci sarà futuro per nessuno. Soprattutto per quelli come me. E visto che non ci sarà futuro sarò costretto ad andarmene. Vedo molto bene la Bielorussia, almeno la c'è gente seria. O le Chiapas, dove lì c'è la vera umanità.
PS: questo discorso non è perchè ce l'abbia contro Rauzino, ma vale per chiunque.
BLOCCO SOCIALE
A noi invece il discorso di Porcaro convince.
Entravamo nel merito di quali fossero la forze sociali antagoniste in questo articolo del dicembre 2012:
LA CATASTROFE SOCIALE E LA SOLLEVAZIONE
@Redazione: nessuno vi impedisce di convincervi di quello che volete.
Tuttavia, dobbiamo stare attenti in questi tipi di analisi, perchè alla fine rischiano di distoglierci dal problema reale. Per carità, le aristocrazie operaie sono un problema, ma esse sono conseguenze di uno sviluppo del sistema capitalista, non la causa.
Perchè questi generi di analisi mi ricordano quelle che si facevano in tema di evasione fiscale, quando si dava sempre la colpa all'idraulico o all'avvocato che non rilasciava la fattura. Per carità, la lotta all'evasione è un principio sacrosanto, ma questi tipi di evasori sono formichine insignificanti in confronto ai macelli che compiono le multinazionali e le grandi banche (i veri evasori fiscali).
Questo lo dico non perchè voglia screditare le analisi, ma perchè ritengo bisogna mettere la cose nella giusta prospettiva. Tutto qua.
"L’uscita dall’euro implicherebbe davvero, in un primo momento, seri problemi, ed è anche per questo che il Paese sceglierà questa soluzione solo quando sarà disperato."
Vero o falso che sia, questa è una percezione diffusa, troppo diffusa, ed è questa la tragedia che stiamo vivendo da struzzi, sopportando un Letta.
La realtà è che ogni minuto, ogni ora, ogni giorno e ogni mese (oltre è inutile andare, perchè non c'è altro orizzonte), la trappola del debito si stringe a cappio sempre di più, facendo autoavverare la percezione di cui sopra.
Qui (in questa seconda puntata) si sta giustamente analizzando la realizzabilità politica, il rapporto di forze per uscirne o meno nel migliore dei modi (sottinteso), ma credo che sia ancora più opportuno sfatare questa percezione in tutte le sue componenti false e irrealistiche, con uno studio comparato costi/benefici tra l'attuale situazione attendista e una coraggiosa quanto drastica terapia intensiva. Rivoluzione? Certo che sì, a prescindere dalla colorazione che ognuno vorrà attribuirle.
Alberto Conti
Desidero contribuire alla discussione sull'identificazione del blocco sociale che romperà la gabbia eurista: esso potrebbe essere composto "da milioni di giovani senza un futuro, con un lavoro precario o disoccupati, spesso laureati, che sentono di vivere sotto una cappa, sotto un cielo plumbeo come quello di Venere. Questi ragazzi cercano una via di uscita, vogliono diventare loro stessi istituzioni, rovesciare il tavolo, costruire una Nuova Italia sulle macerie. A questo blocco appartengono anche gli esclusi, gli esodati, coloro che percepiscono una pensione da fame e i piccoli e medi imprenditori che vivono sotto un regime di polizia fiscale e chiudono e, se presi dalla disperazione, si suicidano.".Aggiungo personalmente, per integrare quanto scritto da Massimo Fini nell'articolo citato precedentemente, e affinché altri non si sentano esclusi, i dipendenti pubblici con stipendi da fame.Se questo non è il blocco sociale che potrebbe rompere la gabbia eurista, a maggior ragione non può esserlo il cosiddetto blocco B, costituito da chi vuole mantenere lo status quo, da tutti coloro che hanno attraversato la crisi iniziata dal 2008 più o meno indenni, mantenendo lo stesso potere d'acquisto, da una gran parte di dipendenti statali, da chi ha una pensione superiore ai 5000 euro lordi mensili, dagli evasori, dalla immane cerchia di chi vive di politica attraverso municipalizzate, concessionarie e partecipate dallo Stato.
E' la solita triste storia dei "galli di Renzo" (Tramaglino, non Matteo Renzi) che schiavizzati, a zampe legate e pronti per avviarsi alla pentola, continuavano a beccarsi tra loro attribuendosi l'un l'altro la responsabilità e la colpa per la condizione penosa in cui stavano e nella quale li aveva messi qualcuno che non era della razza gallina.
E' la solita storia dei "galli di Renzo"(Tramaglino) i quali, legati tra loro da un comune destino, trovandosi a disagio così incaprettati e pronti per essere avviati alle pentole, continuavano a beccarsi crudamente tra loro perché convinti che la penosa situazione in cui stavano fosse da attribuirsi al vicino di mazzo che dava di speroni alla cieca per cercare di liberarsi , anziché prendersela con qualcuno di razza non gallina che li teneva appesi a testa in giù serrando nel pugno il loro mazzo di zampe impotenti.
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