mercoledì 25 settembre 2013

la sinistra e l'euro (4) «LA DOPPIA ILLUSIONE» di Emiliano Brancaccio


25 settembre. L'intervento di Emiliano Brancaccio al convegno della CGIL "Produzione di lavoro a mezzo di lavoro", svoltosi a Roma il 19 settembre scorso. Brancaccio mette in guardia, visto il rischio di deflagrazione dell'eurozona, da due illusioni, entrambi di natura liberista: l'invocazione del  "vincolo esterno" e quella sul potere taumaturgico del "cambio flessibile".

«Probabilmente Guido Carli non avrebbe gradito il titolo di questo convegno: “Un grande piano del lavoro per uscire dalla crisi”. E’ noto infatti che Carli fu uno dei più accaniti oppositori delle logiche di “piano”; un oppositore tenace, in un’epoca in cui la “pianificazione” andava indubbiamente di moda. Carli tuttavia non somigliava molto ai rozzi propagandisti del nostro tempo. Anzi, egli ammise in più occasioni, in termini più o meno espliciti, che il piano può costituire una modalità di governo dell’economia assolutamente moderna. 

Carli in particolare sosteneva che una politica fondata su una legislazione vincolista, sul controllo amministrativo, sull’azione di governo finalizzata alla gestione degli scambi e della produzione, in ultima istanza una politica ispirata da una logica di piano, per essere attuata necessita di uno Stato efficiente, di uno Stato ben strutturato, di uno Stato moderno. Come per esempio egli riteneva che fosse l’apparato statale francese. Al contrario, per Carli, una politica liberista, di completa liberalizzazione dei mercati, costituisce l’unica soluzione possibile per gli apparati statali inefficienti, antiquati, disastrati. Come egli riteneva essere lo Stato italiano [1]. Dunque, potremmo dire: il piano come possibilità dei moderni. E il liberismo come necessità degli antiquati. 

La tesi di Carli in Italia è stata pervasiva. Una logica di piano, o anche solo una logica di politica economica che vagamente evocasse il piano, in Italia è stata quasi sempre messa ai margini del discorso politico con argomentazioni simili a quelle di Carli: si è ritenuto cioè che il nostro Stato fosse troppo inefficiente, e che dunque persino il più blando dei piani da noi non avrebbe mai funzionato. 


Il fatto che in Italia vi sia stata tutta questa sfiducia nella possibilità di mettere realmente in funzione la macchina dello stato, il fatto che sia maturato una sorta di tabù verso qualsiasi ipotesi che potesse rafforzare lo Stato, che potesse anche solo lontanamente evocare una logica di piano, questo fatto ha generato un vuoto. Un vuoto che è stato colmato da una serie di pie illusioni. 


Una tipica illusione di successo è stata la grande fiducia nel cosiddetto “vincolo esterno”. Si tratta di una espressione guarda caso ancora una volta di Carli, che è stata poi declinata in termini talvolta raffinati, talvolta estremamente rozzi, da vari protagonisti della vita istituzionale e politica italiana. Protagonisti al governo del paese, così come ai vertici di Bankitalia. I fautori del vincolo esterno ci dicevano in buona sostanza che i vincoli imposti dall’Europa sul governo della moneta, sui bilanci pubblici, sui tassi di cambio, eccetera, avrebbero miracolosamente trasformato i piccoli ranocchi del frammentato stagno capitalistico italiano in algidi principi della modernità, in vere e proprie avanguardie del capitalismo moderno. Insomma, modernizzare il capitalismo italiano, renderlo più centralizzato e quindi più forte: alcuni padri della patria si sono sinceramente illusi che il vincolo esterno potesse fare tutto questo. 


Oggi possiamo affermare che non è andata esattamente così. Anzi, per certi versi la dinamica del capitalismo italiano è andata in direzione esattamente opposta. I piccoli proprietari, i ranocchi, anziché evolvere, anziché diventare principi, si sono in realtà difesi dal vincolo esterno rafforzando un blocco sociale fautore delle prebende dello Stato, del lassismo in campo fiscale e contributivo, della precarizzazione del lavoro. In chiave più strettamente politica, potremmo affermare che la resistenza, la virulenza del blocco sociale berlusconiano – che naturalmente sopravviverà a Berlusconi – è esattamente il prodotto del fallimento dell’ideologia del vincolo esterno. 


Eppure, il palesato fallimento dell’ideologia del vincolo esterno non ci sta affatto portando a discutere della necessità di superare i vecchi tabù e di riprendere il tema della modernizzazione e del rafforzamento dell’apparato dello stato ai fini dell’avvio di una seria politica industriale, di programmazione, di una pur accennata logica di piano. Non sta avvenendo nulla di tutto questo. Piuttosto, in Italia rischiamo di passare dalla illusione del vincolo esterno a una illusione esattamente speculare: quella secondo cui il ritorno ai cambi flessibili costituirà la panacea di tutti i nostri mali. In fin dei conti è sempre il vecchio liberismo secondo Carli: una idea disincantata di liberismo come necessità degli antiquati, come unica chance per il nostro capitalismo un po’ straccione, e per il nostro Stato disastrato. Solo che ora si tratta di un liberismo speculare, che alla ideologia del vincolo esterno potrebbe sostituire l’ideologia del cambio flessibile. Del resto, che la tesi del cambio flessibile sia destinata a recuperare gli antichi fasti, che sembri destinata ad avere rinnovato successo politico nel nostro paese, lo si deve a un motivo in fondo semplice: l’attuale assetto della zona euro resta tuttora tecnicamente insostenibile. 


Dunque, anche per cercare di uscire da questa diatriba tra illusioni speculari, per cercare di smarcare il discorso politico da questo liberismo duale, un po’ maniacale, oserei dire un po’ italiota, io credo sia positivo che la CGIL, la principale organizzazione sindacale del paese, si faccia carico di recuperare un discorso sul “piano”. Sul “piano del lavoro” [2].
Questa idea, di modernità di una logica di “piano” – sia pure, beninteso, un piano morigerato, tra molte virgolette – questa idea rappresenta io credo una opportunità per cercare di produrre un avanzamento dialettico rispetto a una discussione che altrimenti rischia di rimanere totalmente prigioniera delle illusioni speculari del vincolo esterno da un lato e del cambio flessibile dall’altro. 


Ovviamente, qualsiasi discorso che possa anche solo vagamente accennare a una logica di piano, o quanto meno a una logica che miri alla messa in funzionamento dell’amministrazione dello stato per fini di politica economica, qualsiasi discorso del genere non può prescindere dai legami con l’assetto macroeconomico [3]. 


Sotto questo aspetto io vedo due rischi. 

Uno è quello di pretendere di restare nei vincoli dati. Illustri colleghi hanno suggerito negli ultimi tempi linee di indirizzo di politica economica che in quanto tali sono senz’altro innovative, modernizzatrici, ma che pretendono di dispiegarsi nell’ambito angusto e mortifero dei vincoli di bilancio del Fiscal Compact. Ecco, io mi permetto di nutrire un certo scetticismo nei confronti di queste pretese, e in generale di qualsiasi tentativo di modernizzare il capitalismo italiano entro quei vincoli. Questo modo di ragionare rischia in realtà di affossare qualsiasi tentativo di superamento della dicotomia liberista tra l’illusione del vincolo esterno e l’illusione del cambio flessibile. 


C’è tuttavia anche un altro rischio. E’ il rischio di trascurare dei vincoli che esistono di fatto, e che possono piombarci addosso da un momento all’altro. In tal caso non mi riferisco tanto al vincolo di bilancio pubblico. Mi riferisco piuttosto al vincolo della bilancia delle partite correnti. A questo proposito mi pare di rilevare che le stime del CER relative all’applicazione del piano del lavoro della CGIL segnalino almeno nel breve periodo un’impennata del disavanzo verso l’estero [4]. Ecco, questo mi sembra un problema. Nell’attuale assetto dell’eurozona, qualsiasi eventuale impennata del disavanzo verso l’estero, anche se solo temporanea, potrebbe creare grande instabilità. Si capisce allora che il piano del lavoro della CGIL, per essere credibile, deve essere affiancato a un chiarimento sull’eurozona, sul nostro ruolo in Europa. 


A questo riguardo leggo, sempre nel piano, che la CGIL avanza alcune proposte di riforma della politica monetaria europea. Sono proposte senz’altro ragionevoli, che si aggiungono alle molte altre discusse in varie sedi in questi anni. Io credo tuttavia che il principale sindacato italiano dovrebbe forse soffermarsi in primo luogo su quelle criticità della zona euro che più direttamente si ricollegano al tema della contrattazione. Per esempio, sarebbe opportuno rimarcare il fatto che tra il 2000 e il 2010 in Germania la crescita dei salari nominali è stata di 15 punti percentuali inferiore rispetto alla crescita salariale media dell’eurozona. 


La Germania, insomma, ha attivato una feroce competizione al ribasso sui salari relativi. Questo è stato senza dubbio uno dei fattori chiave della crescita degli squilibri nei conti esteri intra-europei, e costituisce probabilmente uno dei fattori che potrebbe condurre alla distruzione della zona euro. In questi anni sono state avanzate varie proposte per cercare di affrontare questo problema. Tra di esse c’è lo “standard retributivo europeo” [5], che è stato inserito in vari manifesti politici e che la stessa CGIL ha fatto proprio in una recente audizione al CNEL. Ad ogni modo, la scelta della specifica modalità tecnica di risoluzione del problema non è il punto essenziale. L’importante, io credo, è che il sindacato affronti a viso aperto il nodo che più direttamente lo coinvolge: la contrattazione salariale è uno dei fattori chiave della crisi dell’unione monetaria europea.

Infine, sempre allo scopo di tenere ben saldo il legame tra piano del lavoro e quadro macroeconomico, occorre tener presente che ognuna delle proposte di riforma avanzate, siano esse nel campo della politica monetaria o della contrattazione salariale, oggi non trovano alcuno spazio politico per essere sviluppate. La Germania si oppone alle riforme, e vi si opporrà anche nel prossimo futuro, temo. Ciò significa che la zona euro continuerà a muoversi lungo un sentiero insostenibile. Per questo motivo credo sia bene tenere a mente che, in caso di deflagrazione dell’Unione, esistono modalità alternative di affrontarla. 


Adoperando espressioni che ultimamente sembrano infastidire alcuni apologeti di un ingenuo interclassismo ma che restano oggettivamente valide ed efficacemente sintetiche, potremmo dire che esistono modi “di destra” e modi “di sinistra” di gestire una uscita dall’euro. Ma di questo, credo, avremo modo di riparlare».

NOTE:

[1] Carli, G. (1996). Cinquant’anni di vita italiana. Laterza, Roma-Bari.

[2] CGIL (2013). Il piano del lavoro. Conferenza di programma, 25-26 gennaio.

[3] Gruppo di lavoro del CER (2013). Simulazioni di impatto di politiche fiscali alternative, in Pennacchi, L. (a cura di). Tra crisi e “grande trasformazione”. Libro bianco per il Piano del lavoro 2013, Ediesse (p. 602).

[4] Brancaccio, E., Passarella, M. (2012). L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa. Il Saggiatore, Milano.

[5] Brancaccio, E. (2012). Current account imbalances, the Eurozone crisis and a proposal for a ‘European wage standard’, International Journal of Political Economy, 2.

26 commenti:

Anonimo ha detto...

Il discorso di Brancaccio è condivisibile. Anche quando, di passata, fa riferimento al capitalismo italiano "straccione", che ha fatto del "piccolo è bello" una relgione, mentre la polverizzazione del tessuto industriale è una delle ragioni del declino italiano. Non reggi la competizione globale se non con economie di scala, le sole che ti consentono di fare grandi investimenti, di aumentare la produttività e di non sottostare al giogo delle banche.
Qui uno dei punti sostanziali di differenza con Bagnai, che invece, demagogicamente secondo me, liscia il pelo ai Brambilla --oltre evidentemente all'attacco sul mito dei cambi flerssibili.
Semmai il problema è perché mai Brancaccio se ne stia alla finestra e poco faccia affinché a sinistra emerga un polo politico, sovranista e anticapitalista.
Andrea Bellini

Fiorenzo Fraioli ha detto...

Scusa anonimo, ma come si può essere sovranisti e porsi il problema delle economie di scala per reggere la competizione globale? Essere sovranisti significa (io credo) sganciarsi dal sistema globale, che implica libertà di movimento dei capitali, per scegliere una scala più piccola, controllata dallo Stato, possibilmente decrescista.

Anonimo ha detto...

non mi piace il discorso di brancaccio. va a un convegno di una forza vicina al pd e guarda caso fa capire che in fondo si può anche rimanere nell'euro.
antonio.

Anonimo ha detto...

Secondo me Brancaccio non scende in campo perchè lui non è tenuto a farlo. Il suo lavoro è quello di fare lo studioso, non il politico, ed è giusto che continui a farlo. Brancaccio ritengo faccia il ragionamento "a ciascuno il suo mestiere" e poichè il suo mestiere è quello di fare il "tecnico" e lui da quello che capisco i tecnici in politica non li vede molto bene (a ragione direi), se poi qualcun altro che fa il tecnico vuole scendere in politica è libero di farlo, la costituzione lo permette.

Landru

Anonimo ha detto...

In un mondo popolato da confusionari attorucoli di quart'ordine come Bagnai, bisognerebbe avere rispetto per un vero scienziato della critica dell'economia politica come Brancaccio. Il quale discute con tutti e non si vende a nessuno, a differenza di altri. Mauro

marxista ha detto...

Tu dici:

--Secondo me Brancaccio non scende in campo perchè lui non è tenuto a farlo. Il suo lavoro è quello di fare lo studioso, non il politico, ed è giusto che continui a farlo. Brancaccio ritengo faccia il ragionamento "a ciascuno il suo mestiere" e poichè il suo mestiere è quello di fare il "tecnico"...--

Ma non era proprio quest'aura da "tecnico", da "neutrale econometrista", da supposto "scenziato neutrale" ciò che metodologicamente si contestava a Bagnai?

Non sarebbe invece doveroso, in questo casino che regna a sinistra, che proprio colui che teorizza la "uscita da sinistra dall'euro" sciogliesse la sua riserva e ingaggiasse la battaglia politica?

Non posso credere che un compagno come Brancaccio creda a questa barzelletta dei "tecnici"...





Anonimo ha detto...

mauro e landru,
brancaccio muta abilmente la propria "tecnicità" a seconda dell'auditorio che ha davanti.
il cambio fluttuante è liberista? beh, il cambio fisso lo è elevato al cubo.
antonio.

Alberto ha detto...

A me non sembra affatto che il "vincolo esterno" sia speculare al ritorno alla flessibilità dei cambi.

Il primo impone un'ideologia, esattamente quella contenuta nella natura stessa dei vincoli sottoscritti da Maastricht in poi.

Il secondo è invece una delle misure "naturali" di autodifesa dai paesi troppo forti in un regime di globalizzazione liberalizzata. Naturali in quanto autostabilizzanti dei sistemi, al contrario dei vincoli esterni fatti di prescrizioni arbitrarie e di sanzioni ridicole (del tipo: se l'asino non ce la fa più, puniscilo togliendoli la biada).

Cambi flessibili, vincoli alla mobilità di capitali e risorse, dazi compensativi, "aiuti" di Stato (meglio sarebbe chiamarle scelte strategiche), ecc. sono tutte misure a difesa degli effetti destabilizzanti e sperequativi della finanza globalizzata, il vero cancro del XXI secolo.

Alberto Conti

SOLLEVAZIONE ha detto...

LIBERISMI E SVALUTAZIONI

Politiche liberiste, ovvero antipopolari e di deflazione salariale possono combinarsi perfettamente con una politica di cambi flessibili delle valute.
Un caso plateale ce lo abbiamo sotto gli occhi, ed è proprio quello degli Stati Uniti.
Il "quantitative easing" della Fed di Ben Bernanke non è che una svalutazione sotto mentite spoglie.
ovvero stampando dollari a gogò, ha portato ad un deprezzamento del dollaro, com'è noto anzitutto sulle valute dei Brics, ma pure dell'euro. Dal grande crack del 2008 la rivista Forbes calcola che il dollaro si è deprezzato del 33%!.
vedi: The Federal Reserve's Explicit Goal: Devalue The Dollar 33%
Nello stesso tempo negli Usa abbiamo avuto i raddoppio della disoccupazione e un generale diminuzione della quota salari.
Un'uscita dall'euro con lira svalutata può, ça va sans dire, sposarsi con politiche liberiste e antipopolari.
Bagnai puà starnazzare fin che gli pare, ma questa sarebbe una "uscita da destra", a tutto vantaggio del capitale e a spese del lavoro salariato.
Che non solo non va auspicata ma combattuta.

Moreno Pasquinelli

Anonimo ha detto...

alberto,
concordo. tranne sull'efficacia del blocco dei movimenti di capitale (vedi argentina).

moreno,
tutto POTREBBE sposarsi con politiche liberiste, ma il cambio fisso E' SICURO una politica ultraliberista antipopolare. infatti i liberisti più estremi, gli "austriaci", vogliono il cambio fisso par exellence, il gold standard.
e non solo è sicuro, ma anche maggiore nel grado di distruzione.
insomma tra le 2 opzioni:
- forse mi danno un pugno e forse no
- sicuramente mi sparano un tomahawk,
preferisco la 1a.
e chi preferisce la 2a o è masochista o lavora per il nemico.
antonio.

SOLLEVAZIONE ha detto...

VON HAYEK O L'ALTRO LIBERISMO
caro Conti,

siamo d'accordo che un governo popolare dovrebbe porre limiti stringenti ai movimenti dei capitali (sia in uscita che in entrata). Questo non era tuttavia il punto.
E' un grave errore, in punto di teoria, ritenere che l'eurismo o il dogma della moneta unica sia il liberismo per antonomasia.

Di liberismi ce ne sono almeno due: quello di stampo eurista e quello vonhayekiano.

Proprio tu hai infatti tirato in ballo Hayek, che è uno dei Maître à pensée del pensiero liberista nella sua variante austriaca.

Nel 1976 Hayek pubblicò per la prima volta un saggio che fece scalpore e molto discutere, intitolato “The Denationalization of Money: An Aalysis of the Theory and Pratice of Concurrent Currencies”.

Hayek sostenva i benefici della libera concorrenza tra monete. Infatti Hayek, nella sua opera, dimostra come una libera concorrenza tra monete, prima quelle statali e poi anche coniate dai privati, può rendere stabili le stesse, facendo “sparire” il fenomeno dell’inflazione.

Hayek negli anni Trenta del secolo scorso era stato un teorico del federalismo europeo, e vedeva nella sua proposta una maniera per giungere ad una completa libertà di circolazione monetaria in Europa, e successivamente tra questi e i Paesi dell’America del Nord. La competizione tra monete private, preceduta ovviamente dalla libera circolazione delle monete statali, era per Hayek una soluzione non soltanto preferibile, ma più realistica di una “utopica” moneta comune europea.

Mi perdonerai questo pistolotto, era solo per ribadire la legittimità e la correttezza delle mie critiche al Bagnai e al Manifesto di solidarietà europea che ha firmato assieme a compagni di merende liberisti vonhayekiani.

Per dirti che il liberismo va combattuto in tutte le sue varianti, non solo in quella eurista.

Moreno Pasquinelli

Anonimo ha detto...

moreno,
aggiungo: negli usa, senza stampa e svalutazione, disoccupazione e taglio salari sarebbero stati mooooolto peggiori.
"da dx" o "da sx" sono cose che non devono essere giudicate in base a CHI le propugna, ma in base agli effetti obiettivi. non è detto che se una cosa la dice forza nuova e un altra il manifesto deve essere per forza esatta la 2a. perchè può essere che al manifesto siano tutti ricchini radical chic che si DICONO di sx ma in realtà vogliono solo difendere il loro gruzzoletto. con l'effetto obiettivo di appoggiare politiche deleterie per i lavoratori.
antonio.

Anonimo ha detto...

Vedete di scendere tutti dal piedistallo della scienza, che vi vengono le vertigini. Se non fosse stato per Emiliano Brancaccio, e per la sua brutale ma efficace distinzione tra uscita "di sinistra" e uscita "di destra" dall'euro, saremmo già tutti finiti tra le braccia dei nipoti di Milton Friedman, naturalmente senza capire un cazzo.

Bisogna farsi il mazzo a leggere e studiare prima di potersi misurare con un gigante come Brancaccio, che da un pezzo conduce una guerriglia con stupende incursioni nelle linee nemiche, e fa praticamente da solo, mentre tanti di noi stanno su feisbuc e scaldano le sedie coi deretani:

http://www.emilianobrancaccio.it/2013/09/26/la-nazionalita-delle-banche-e-i-rischi-della-unione-bancaria/

Red Wolf




Alberto ha detto...

@lupo rosso: l'economia politica non è "una scienza", altrimenti non sarebbe "politica". E non basta parlare di economia e basta per farla sembrare una scienza.
D'altra parte l'economia funziona anche secondo logiche interne proprie, nei vari casi concreti, che in quanto logiche sono razionalizzabili in modelli più o meno "scientifici". Quindi non ci sono piedistalli o autorità indiscusse, c'è solo il confronto tra diverse logiche intrecciate a diversi punti di vista, questi sì ideologici o politici.

Tutti viviamo o moriamo di economia, pertanto abbiamo il diritto-dovere di ragionarci sopra e farcene le nostre ragioni.

In tal senso sono preziosi tutti i contributi storici rilevanti, non foss'altro che per imparare dagli errori riconoscibili col più facile senno di poi.

Ad es. la scuola austriaca è estremamente interessante in certe sue analisi, ma trovo che sia affetta da un peccato originale che ne denuncia le aberrazioni conclusive: la definizione di denaro e di moneta, che dal 1971 il tribunale stesso della storia conferma non essere merce (come la logica può facilmente riconoscere, ma con ben più scarsa autorevolezza presso il grande pubblico).

Ed è sempre sulla definizione di moneta (cui la MMT da un contributo teoretico a mio avviso rilevante, il che non significa scevro da errori interpretativi) che si gioca la comprensione più approfondita della moderna economia per orientarla ai diversio fini politici.

L'esperienza euro credo abbia insegnato molto sulla definizione di moneta, che va ben oltre le elemetari regole bancarie di emissione e gestione tramite tassi d'interesse e loro discrezionalità applicativa. La moneta è soprattutto fatta di trattati, veri e propri contratti sociali impliciti, dalle conseguenze dirimenti per l'armonia o la sperequazione, l'alienazione o la civiltà, ecc. ecc.

E' ovvio che l'alternativa all'euro, inteso come moneta in senso lato ed esaustivo del termine, può essere interpretata in tanti modi, anche opposti per quanto accomunati dalla volontà di correggerne i difetti ormai palesati. E la caratterizzazione di queste nuove interpretazioni alternative all'euro è comunque fatta da un insieme di caratteristiche opportunamente amalgamate, per cui non significa niente di per sè concordare o discordare su una sola di esse avulsa dal contesto, non è questo che fa la differenza tra politiche e ideologie d'ogni colore.

Mi pare comunque che i nodi nevralgici dell'intera faccenda siano notevolmente chiariti e messi a fuoco, grazie anche a queste discussioni, stimolate indubbiamente dal precipitare della situazione complessiva.

A.Conti

Anonimo ha detto...

alberto,
i più gravi errori degli austriaci sono i loro assiomi antropologici, dai quali poi deriva tutta la loro costruzione (con questo non voglio dire che tutti gli assiomi antropologici degli altri siano esatti).

red wolfe,
qua c'è gente che studia e parecchio. e studiando (e depurandosi da pregiudizi ideologici) ci si accorge di cose interessanti. un esempio? in italia per gli imprenditori la pressione fiscale si situa tra il 70 e l'85% del reddito, praticamente s'è realizzata la "proprietà comune dei mezzi di produzione", l'unione sovietica (ma senza dirlo chiaro).
quindi dov'è sto "dio mercato", sto dominio neoliberista?
p.s. io non sono imprenditore nè ricco e sono "di sinistra", tuttavia:
1) non mi piace mentire
2) posseggo sapere e... una calcolatrice.

siccome non sono tedesco nè manager di multinazionali, ritengo l'euro il più grande attacco agli interessi della classe lavoratrice e delle piccole/medie imprese, senza se e senza ma. e per combattere ciò sono disposto, tatticamente, ad allearmi pure con belzebù.
antonio.

SOLLEVAZIONE ha detto...

Chi ci segue sa bene che sulle questioni fondamentali riguardanti la crisi dell'eurozona, ma pure della cause specifiche della crisi del capitalismo italiano, non abbiamo esitato a dare ragione a Brancaccio.
Ora però non facciamo con Emiliano, ciò che han fatto i "fedeli" con il loro Bagnai, che non solo lo hanno incensato, ma lo hanno incoraggiato nella sua pretesa di stare al di fuori dell'agone politico.
Lo capiamo dai seguaci di Bagnai, che venendo da ogni dove non troverebbero mai un punto di sintesi politica; non lo capiremmo da compagni che sanno bene quanto necessario sia a sinistra costruire un soggetto politico anticapitalista.

Pigghi ha detto...

Sono convinto che le osservazioni di Brancaccio siano veritiere,è chiaro che siamo in un problema più complesso del semplice ripristino del cambio flessibile, però mi trovo d'accordo con antonio e la sua provocazione, anch'io da queste parole potrei notare un po' di cerchiobottismo e un'eccessiva cautela nel giudicare euro e ue.
Capisco che non sia tenuto a prendere una posizione politica, ma anche sul lato teorico è necessaria una risposta chiara e dicisa, di parte.

Anonimo ha detto...

Antonio scrive:

"....in italia per gli imprenditori la pressione fiscale si situa tra il 70 e l'85% del reddito, praticamente s'è realizzata la "proprietà comune dei mezzi di produzione", l'unione sovietica (ma senza dirlo chiaro).
quindi dov'è sto "dio mercato", sto dominio neoliberista?
p.s. io non sono imprenditore nè ricco e sono "di sinistra", tuttavia: 1) non mi piace mentire
2) posseggo sapere e... una calcolatrice...."


Se possiedi una calcolatrice devi avere perso il libretto di istruzioni. Sappi, bello caro, che il sistema di welfare italiano lo paghiamo in larghissima parte con l'Irpef e che questa è finanziata per oltre l'80% DAI LAVORATORI DIPENDENTI. Voi imprenditori, se volete fare un'alleanza coi lavoratori, dovete prima dire COSA SIETE DISPOSTI A CEDERE alla classe lavoratrice in termini di recupero dei diritti e delle tutele.

Altrimenti potete anche mettere i vostri bei soldi nelle valige e andarvene a fanculo all'estero. Tanto lo avete fatto sempre e lo sapete fare.

Io mi fido di Brancaccio perché sa bene cosa significa la divisione in classi sociali. Solo chi non trascura quella divisione può darci le coordinate per realizzare, al limite, anche un'alleanza tattica tra classi. Gli altri, che dicono che gli imprenditori pagano troppe tasse e sono "vittime" del sistema, sono solo i soliti magliari che piangono per fottere ancora indisturbati. Per me possono anche andarsene all'inferno.

Su Bagnai, poi, ma veramente la redazione di Sollevazione pensa che quel cozzaro voglia stare fuori dalla mischia? ma che cazzo avete capito, quello si sta preparando la via per Montecitorio: ndo' coglie coglie, un colore come un altro gli andrà bene (l'ho visto perfino a una conferenza di Monarchici!!! I monarchici!!!). E voi vi mettete a paragonare queste merdate con la scelta di Brancaccio di non aderire a uno specifico partito? Per favore... E meno male che c'è uno che dà il suo contributo di chiarezza senza partecipare alla corsa ai seggi. In un momento come questo lui è il migliore partigiano della causa dei lavoratori.

Red Wolf




Red Wolf








Anonimo ha detto...

"bello caro", "fanculo", "cazzo" sono solo DEMAGOGIA volta a depotenziare l'interlocutore. con me non attacca.
l'irpef ammonta a 180mld su una spesa pubblica di 810, quindi tu hai una calcolatrice che va a pedali (arrugginiti).
e ti ho detto che non sono un imprenditore.
antonio.

Anonimo ha detto...


Sulle fonti di gettito del bilancio dello Stato basta guardare qui:

http://www.rgs.mef.gov.it/_Documenti/VERSIONE-I/Bilancio-s/Ottobre-2011/Bilancio-semplificato_DLB2011-14_Ottobre.pdf

Che siano i lavoratori dipendenti a pagare la parte preponderante, in termini di imposte dirette e indirette, contributi e balzelli vari, mi sembra ovvio. Che gli imprenditori paghino il dovuto mi sembra a dir poco dubbio. Se Antonio afferma il contrario è a lui che spetta l'onere della prova.

Se fossi un 'amico' degli imprenditori ci penserei non due ma dieci volte prima di sfidare i lavoratori a chi paga di più il fisco...

Saluti
Emanuele

Anonimo ha detto...

1) dove ho detto che non sono i dipendenti a pagare più tasse (come sommatoria)? grazie al cavolo che pagano di più: sono l'85% del totale!
2) è stato detto che il welfare viene pagato per la maggior parte con l'irpef e questo è falso.
3) ma il singolo imprenditore paga una % maggiore di tasse (se non evade) del dipendente. inoltre ci sono imprenditori da 1000 al mese, altri sotto zero e falliscono, tanti. come ci sono dipendenti da 100.000 al mese.
4) le imposte indirette (iva soprattutto) sono più alte sui beni di lusso, quindi i ricchi (imprenditori o dipendenti) pagano di più.
5) secondo me fate malissimo a pensare imprenditore=cattivo dipendente=buono. gli imprenditori se ne vanno o falliscono e tutti rimangono senza lavoro. e i soldi non crescono sugli alberi. chi sostituisce gli imprenditori andati via o falliti? lo stato? e con quali soldi? e con quale abilità? quella dei funzionari dell'ospedale pubblico che paga 2 euro una siringa che costa normalmente 30cent? quella di chi in calabria assume 10.000 forestali mentre in tutto il canada ce ne sono la metà?
dite a brancaccio che se continuate a pensarla così tornerete tutti negli stazzi in abruzzo ad allevare pecore e con lo stato che vi toglie l'80% (perchè sarete... imprenditorikattivi).
perfino cuba sta riaprendo all'imprenditoria...
p.s. anche il centro sociale che vende birre è imprenditore (paga tasse? seeee...).
antonio.

Anonimo ha detto...

Cari amici, ci si lamenta della tassazione usandolo quasi come dogma che differenzia comunismo con liberismo. Ma vi ricordo che la discriminante + tasse/- tasse è una questione speculare al capitalismo e alle sue due facce: socialdemocrazia e liberismo. Mi permetto infatti di rammentarvi che l'unico paese fra le grandi potenze in cui non esisteva la tassazione era l'Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. E di certo tutto si può dire sull'URSS ma non di certo che fosse un paese liberista, visto che perfino in USA esistono le tasse.
Landru

Anonimo ha detto...


Antonio è la rappresentazione plastica della ipocrisia dei piccoli proprietari.

1) Pensare che l'iva sia un'imposta progressiva è la più grande castroneria che si sia concepita in tema fiscale. Tutti gli studi di scienza delle finanze ricordano che spostare la tassazione dalle imposte dirette a quelle indirette favorisce i ricchi.

2) Dire che i lavoratori pagano di più il welfare semplicemente perché "sono di più" è l'affermazione più ridicola che abbia sentito in tema di fisco italiano. Basta prendere i dati dell'Agenzia delle entrate sulle dichiarazioni dei redditi dei dipendenti e sulle dichiarazioni medie di un commerciante, di un gioielliere, di un professionista e di un piccolo imprenditore per farci tutti quattro risate.

I piccoli imprenditori adesso piangono miseria, ma hanno sempre avuto il coltello tra i denti quando sentivano il minimo odore di sindacato in azienda. Non è dalla loro mentalità opportunista che uscirà una nuova soluzione per la politica economica nazionale.

Emanuele

Anonimo ha detto...

emanuele,
tu sei al 100% "proletario"? non possiedi proprio niente niente? almeno un pc lo possiedi! non hai una macchina, un cellulare, una cucina, un frigo? cacchio ti facciamo una colletta!
1) ufficialmente l'iva non è progressiva. però è alta sui prodotti di lusso e bassa sui prodotti di prima necessità. questi ultimi hanno un peso % maggiore per i poveri, o no?
2) tutti sono opportunisti. lo era anche il mio amico ferroviere-buono-compagno quando lo andavo a trovare nell'orario di lavoro e passavamo tutto il pomeriggio a rimorchiare commesse di negozi. o quello dell'inps che nel suo ufficio passavamo il giorno a fare sistemi totocalcio.
antonio.

Anonimo ha detto...

landru,
grazie al ciufolo che l'urss non aveva tasse, era tutto una tassa a priori (tranne il mercato nero, che corrisponde alla nostra evasione fiscale dei kattivimprenditori)!
lo stato già gestiva tutto il prodotto a priori... e il risultato non sembra che fu positivo.
io, nella sfera ideale, sarei anche comunista, ma purtroppo mi tocca ammettere che la gestione "comune" disincentiva la gente a lavorare e produrre le cose che servono. a meno che non la si costringa con la forza o con un certosino indottrinamento, nel qual caso la gente cessa di sentirsi libera. QUESTO è l'errore antropologico fondamentale del comunismo: la non considerazione della parte istintuale dell'uomo che è "egoista", che vuole un ritorno individuale per ciò che fa. è un istinto ineliminabile e chi pretende l'eliminazione di un istinto fallisce inesorabilmente.
c'è anche l'istinto comunitario e gli ultraliberisti che non lo riconoscono anche loro falliranno.
entrambi gli istinti sono strumenti per la sopravvivenza e li usiamo alla bisogna. nessuno può eliminare milioni di anni di evoluzione.
in economia c'è un livello ottimale, che massimizza prodotto e benessere, di gestione comune-statale-tasse, sorpassato il quale si produce meno e si sta tutti peggio. non solo: oltre un certo limite di tasse il prodotto cala tanto che diminuisce perfino lo stesso gettito fiscale e con lui l'attività statale (curva di laffer).
questi processi hanno prima distrutto i paesi comunisti e ora stanno distruggendo l'europa.
antonio.

Anonimo ha detto...

Vero che in Urss era tutto di proprietà dello stato, ma la costituzione stabiliva che la proprietà privata era ammessa ed era ammessa dalla legge. Se poi queste leggi non erano rispettate o no, beh, purtroppo i paradisi in terra non esistono. E forse ho fatto intendere questo, ma non era mia intenzione. Detto questo, è vero che c'erano limitazioni delle libertà individuali ma se vai oggi in molti di quei paesi ti dicono che il problema maggiore era che i beni di consumo erano poco disponibili. ma questo no per una mancanza di produttività ma perchè la pianificazione economica sbagliava a dare preferenze all'industria pesante. Ma oltre a questo avevano l'orario di lavoro più basso, e la paga garantita, che però non potevano spendere perchè appunto non c'era nulla su cui spendere. Ogni paese, ogni ideologia o ideale ha le sue luci e ombre, ma ricordo un saggio in cui misurava come il livello d'istruzione e di cultura era molto più diffuso nei paesi socialisti che negli USA.
Poi riguardo alla produttività mi sembra curioso ( ma non lo dico per insolenze, sia chiaro) che si accusi l'Urss di avere bassa produttività, quando l'accusa più grave che si muove al capitalismo è la sua ossessione per la produttività del lavoro.

Landru

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