«E' NECESSARIA UNA STRATEGIA DI USCITA DALL'EURO»
Merkel smentisce Monti: altri cinque anni di crisi. Ma questa colpisce duro in maniera diseguale. L'euro accresce i fattori di squilibrio. Chi pensa che a causa della calma apparente dello spread la moneta unica l'abbia scampata si sbaglia. Per essere più precisi: l'euro è tenuto in piedi, prima ancora che dalla Bce, dal fatto che i popoli subiscono i programmi di austerità e affamamento. L'euro sembra dire, anzitutto al popolo lavoratore italiano: mors tua, vita mea.
L’aspetto più inquietante dell’ultimo rapporto ISTAT non risiede nella notizia che la disoccupazione in Italia ha fatto registrare l’ennesimo picco. L’allarme principale riguarda il 2013: per l’anno prossimo l’istituto nazionale di statistica prevede ancora recessione e un incremento ancor più accentuato dei senza lavoro. L’ISTAT conferma così lo scenario depressivo che era stato già evocato ad ottobre dal Fondo Monetario Internazionale, con una pesante revisione al ribasso delle previsioni future di crescita della zona euro e soprattutto dell’Italia. Il quadro che si prospetta è dunque dei più funesti, ma in fondo non dovrebbe meravigliare. Due anni e mezzo fa, ai primi cenni della crisi europea, duecentocinquanta economisti pubblicarono una “Lettera” che lanciava l’allarme sui pesantissimi effetti recessivi che le politiche di austerity avrebbero determinato. Un appello profetico, che rimase inascoltato. Il risultato è che oggi precipitiamo nella depressione senza nemmeno intravederne il pavimento.
Le stime degli istituti di ricerca appaiono particolarmente impietose per il governo italiano. Esse ci dicono che tra il professor Monti, che con voce sempre più incerta tuttora favoleggia su una fantomatica «luce in fondo al tunnel», e la signora Merkel, che brutalmente ci comunica che non usciremo dalla crisi prima di cinque anni, la cancelliera tedesca appare molto più in sintonia con la realtà dei dati economici.
Del resto non è la sola, dalle sue parti: a Berlino in tanti ormai riconoscono che le politiche di taglio della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale deprimeranno i redditi e l’occupazione molto più a lungo e più intensamente di quanto si fosse disposti ad ammettere qualche mese fa. Sbagliano però i commentatori che interpretano questa presa d’atto della Merkel come un sintomo di ripensamento sugli effetti dell’austerity. Questa speranza è diffusa soprattutto tra le file della sinistra francese e nostrana, ma sembra mal riposta.
Le stime degli istituti di ricerca appaiono particolarmente impietose per il governo italiano. Esse ci dicono che tra il professor Monti, che con voce sempre più incerta tuttora favoleggia su una fantomatica «luce in fondo al tunnel», e la signora Merkel, che brutalmente ci comunica che non usciremo dalla crisi prima di cinque anni, la cancelliera tedesca appare molto più in sintonia con la realtà dei dati economici.
Del resto non è la sola, dalle sue parti: a Berlino in tanti ormai riconoscono che le politiche di taglio della spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale deprimeranno i redditi e l’occupazione molto più a lungo e più intensamente di quanto si fosse disposti ad ammettere qualche mese fa. Sbagliano però i commentatori che interpretano questa presa d’atto della Merkel come un sintomo di ripensamento sugli effetti dell’austerity. Questa speranza è diffusa soprattutto tra le file della sinistra francese e nostrana, ma sembra mal riposta.
Gli europeisti speranzosi dovrebbero infatti rammentare che questa crisi ricade in modo asimmetrico sul continente. La Germania la subisce in misura molto meno accentuata di noi e degli altri paesi del Sud Europa, e per molti versi riesce persino a sfruttarla a proprio vantaggio. Basti notare che dal 2007 ad oggi in Italia abbiamo perso settecentomila posti di lavoro, mentre l’economia tedesca ha fatto registrare un milione e seicentomila nuovi occupati. Anche la distribuzione sul continente dei fallimenti aziendali riflette questa profonda asimmetria europea. Ma soprattutto, sembra sfuggire ai più che la crisi sta determinando una caduta del valore relativo dei capitali industriali e bancari dei paesi del Sud Europa. I grandi possessori di liquidità, in buona parte situati in Germania, potranno sfruttare in misura crescente questi deprezzamenti per fare shopping a buon mercato alle nostre latitudini, col risultato di depauperarle ulteriormente.
Insomma, le autorità tedesche e i gruppi d’interesse prevalenti in Germania leggono i dati della crisi con più onestà del nostro establishment, ma non sembrano per questo intenzionati a modificare l’orientamento della politica economica europea. La Merkel e i suoi ammettono che la traversata nel deserto della crisi sarà lunga. Essi tuttavia sembrano concepirla come una sorta di passeggiata “purificatrice”, che lascerà un bel po’ di vittime per strada ma che proprio per questo favorirà il processo di egemonizzazione tedesca dell’economia europea. Al di là delle scaramucce nel consiglio direttivo della Bce, lo stesso Draghi ha assecondato questa visione, considerando la minaccia dello spread il più efficace propulsore delle “riforme” imposte da Berlino. Di fronte a queste poco rassicuranti evidenze, l’europeista speranzoso tuttora confida in una svolta keynesiana guidata dai socialdemocratici tedeschi. Ma a ben guardare nemmeno questi sembrano desiderosi di prender le distanze dall’attuale concezione “imperiale” della ristrutturazione europea. Anzi, talvolta tendono ad attaccare la Merkel proprio sul versante del “rigore”, esigendo dalla cancelliera una fedeltà se possibile ancor più cristallina alla dottrina dell’austerity.
Forse, anziché limitarsi a sperare, la sinistra europeista potrebbe iniziare a interrogarsi. Per esempio: se le buone intenzioni di riforma dell’Unione europea indicate nella “carta d’intenti” delle primarie si scontreranno con l’indifferenza dei compagni e amici tedeschi da un lato e con la realtà di una crisi produttiva e occupazionale senza freni dall’altro, la sinistra italiana farà bene a rassegnarsi o dovrà piuttosto cominciare a elaborare una strategia di uscita dalla moneta unica e una revisione critica del mercato unico europeo? La questione, per quanto scomoda, inizia a farsi urgente.
Insomma, le autorità tedesche e i gruppi d’interesse prevalenti in Germania leggono i dati della crisi con più onestà del nostro establishment, ma non sembrano per questo intenzionati a modificare l’orientamento della politica economica europea. La Merkel e i suoi ammettono che la traversata nel deserto della crisi sarà lunga. Essi tuttavia sembrano concepirla come una sorta di passeggiata “purificatrice”, che lascerà un bel po’ di vittime per strada ma che proprio per questo favorirà il processo di egemonizzazione tedesca dell’economia europea. Al di là delle scaramucce nel consiglio direttivo della Bce, lo stesso Draghi ha assecondato questa visione, considerando la minaccia dello spread il più efficace propulsore delle “riforme” imposte da Berlino. Di fronte a queste poco rassicuranti evidenze, l’europeista speranzoso tuttora confida in una svolta keynesiana guidata dai socialdemocratici tedeschi. Ma a ben guardare nemmeno questi sembrano desiderosi di prender le distanze dall’attuale concezione “imperiale” della ristrutturazione europea. Anzi, talvolta tendono ad attaccare la Merkel proprio sul versante del “rigore”, esigendo dalla cancelliera una fedeltà se possibile ancor più cristallina alla dottrina dell’austerity.
Forse, anziché limitarsi a sperare, la sinistra europeista potrebbe iniziare a interrogarsi. Per esempio: se le buone intenzioni di riforma dell’Unione europea indicate nella “carta d’intenti” delle primarie si scontreranno con l’indifferenza dei compagni e amici tedeschi da un lato e con la realtà di una crisi produttiva e occupazionale senza freni dall’altro, la sinistra italiana farà bene a rassegnarsi o dovrà piuttosto cominciare a elaborare una strategia di uscita dalla moneta unica e una revisione critica del mercato unico europeo? La questione, per quanto scomoda, inizia a farsi urgente.
* Fonte: Pubblico Quotidiano del 6 novembre 2012
5 commenti:
Se esiste una differenza oggettiva tra economia e politica, allora sarebbe bene che ognuno facesse il proprio mestiere, autolimitandosi alle analisi proprie, sia pur reciprocamente propedeutiche. L'analisi dell'economista dev'essere pre-politica e l'analisi del politico dev'essere pre-economica, altrimenti si fa una grande confusione che non giova a nessuno.
Io, che non son nessuno e perciò dico quel che mi pare di volta in volta, mi limito qui ad un osservazione tecnica, pre-politica, che mi pare stia sfuggendo in questo contesto.
Stiamo assistendo ad uno squilibrio accumulato in tempi brevi, dell'ordine del singolo decennio, per "colpa" (mi è impossibile dire "in virtù") del Target2, una forzatura inaudita tutta interna ad una vasta area valutaria mal progettata. Ma come è possibile che un singolo paese membro accumuli a livello di BC un credito sulle altre BC di 700 miliardi di euri???!!! E chi c... dovrebbe pareggiare questo squilibrio che si è consentito in barba a qualunque legge di mercato? E questo è solo un sintomo della malattia, che è ben più grave, e si chiama "indebitamento prima strisciante e poi coercitivo" del sistema privato di interi paesi, o in parole povere "strozzinaggio".
La crisi dei "debiti sovrani" (sovrani sta m....) è solo una inevitabile conseguenza del delitto primario, e questo il buon Bagnai lo ha spiegato benissimo, mi pare.
Allora qual'è il giudizio analitico sulla politica della troika (che mi pare un gradino più su nell'abiezione morale rispetto al maiale semplice), dal punto di vista tecnico, ripeto, cioè pre-politico (per cui ritiro la battutaccia precedente).
E' che non si può adottare pesi e misure così diametralmente opposti tra politiche economiche private (commerciali) e politiche economiche pubbliche (economia politica, o monetaria).
Le prime per il mondo delle cicale, le seconde per il mondo delle formiche (meglio dire le formiche-maschio, quelle con le ali che finito il loro compito si suicidano in massa). Il motivo "tecnico" è semplicissimo, questi due mondi coincidono, son fatti dalle stesse milionate di persone in carne ed ossa!
Tutte le più pazze "libertà" da una parte, e tutti i più pazzi "obblighi" dall'altra! Ma per chi ci han preso, per un manicomio di schizzofrenici? O semplicemente per coglioni in quanto popolo bue che si abbevera ai TG?
Tecnicamente questa gestione dell'economia è bocciata, come la più contradditoria e folle tra quelle possibili, a prescindere dal resto della crisi mondiale, essendo un "valore aggiunto" di quest'ultima.
Forse non so spiegarmi bene, ma questa evidenza non mi sembra poi così difficile da capire per non doverne parlare al posto di tante microanalisi parziali di cui ci stanno sfregugliando gli zebedei.
Alberto Conti
Anonimo Gaspare
L'Europa unita non era un obiettivo detestabile per gli europei, ma lo era forse per qualcun altro . Per esempio per le forze che nel '92 - 93 hanno provocato la svalutazione della lira e la sua uscita dallo SME. La guerra pare sia cominciata allora (l'URSS era appena caduta) e l'Unione Europea sembrava porsi come qualcosa che avrebbe potuto ostacolare un'egemonia che doveva rimanere incontestabile (sul piano economico, soprattuto) . L'Euro forse ce l'hanno fatto odiare per indurci a buttarlo fuori a calci come, almeno mi pare, appaia ora l'unica soluzione per tentare di vedere la fine del tunnel in cui ci ha abilmente e protervamente infilati la gestione G.S. In quanto alla Germania era forte anche prima dell'Euro, ma con l'Euro ha accresciuto le differenze rispetto agli altri componenti dell'Unione. La ciambella, comuque, per chi desiderava non avere impicci fra i piedi in Occidente (Euro contro Dollaro) sembra sul punto di essere riuscita col buco.
Anonimo Geremia
Ricordo che oltre sessant''anni or sono (sì: purtroppo sono piuttosto vecchio), su di un bollettino intitolato "La Voce dell'America" che veniva distribuito gratis ai richiedenti, gli editoriali che parlavano di problemi economici dicevano che l'economia di un paese, qualora si verifichi una recessione, nel caso i responsabili intervengano con severe misure di austerity, si comporta come un asse rotante su cui venga applicato un freno a nastro: girando aggiunge la propria inerzia di rotazione alla forza del freno trascinandolo e serrandolo sempre di più con disastroso effetto autofrenante. E insistevano sulle misure che una gestione saggia della cosa pubblica dovrebbe invece prendere (mi pare di ricordare che citassero contromisure di tipo heynesiano). Sessant'anni e più dopo é toccato a noi essere curati con la medicina sbagliata. E adesso ci stiamo autofrenando in maniera micidiale come sarebbe stato prevedibile. La medicina somministrataci è quella che manda in rovina gli stati e i popoli. Alla faccia dei terapeuti specialisti che ci hanno imposto con il plauso di certe forze politiche, per giunta.
Anonimo QUATTRO
Io penso che se un genitore chiama un medico a curare il proprio figlio ammalato si preoccupa pure di fargli prendere le medicine prescritte. I medici studiano anche farmacologia, mi pare.
Anonimo T. Gigio
Sì, ma se gli capita il dottor Mengele?
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