Chiarezza nel baillame di cifre, indiscrezioni e smentite |
di Leonardo Mazzei*
«Ho come l'impressione che ci rivedremo presto»: così Tremonti, accommiatandosi dai giornalisti presenti all'ennesima conferenza stampa di sabato 13 agosto. Più che una minaccia, una certezza. Vedremo fino a che punto il varo della manovra bis soddisferà i vampiri della finanza internazionale, vedremo se la Bce si sentirà garantita. Vedremo. Quel che è certo è che l'Italia ha ormai contratto la sindrome greca, e non se ne libererà facilmente.
Questi sono stati i giorni del diluvio delle cifre. Spesso confuse, spesso contraddittorie. Difficile dire se in questo bailamme ci sia solo improvvisazione (e ce n'è molta) o anche intelligenza. Di sicuro la lettura dei giornali non aiuta: i più sono concentrati sulla cosiddetta «super Irpef», il contributo richiesto per tre anni a chi denuncia un reddito superiore a 90mila euro. Si discute più di questo provvedimento a termine, che avrà un'incidenza marginale (1 miliardo?), che ridà almeno un minimo di progressività all'imposizione fiscale, che interessa solo una persona su 100 (quelle con i redditi più elevati), piuttosto che del massacro sociale per le fasce di reddito medio-basse contenuto nei numeri nascosti della manovra.
Un massacro che però non è fatto di soli numeri. Il governo ha infatti approfittato della manovra per inserirvi norme che niente hanno a che vedere con i problemi del debito pubblico. Si tratta della fine dei contratti collettivi di lavoro, attraverso il riconoscimento dell'efficacia erga omnes dei contratti aziendali in deroga a quelli nazionali; della possibilità (più esattamente, della certezza) di derogare allo Statuto dei lavoratori, specie per quel che riguarda i licenziamenti; ma si tratta anche delle norme vessatorie sul pubblico impiego, basti pensare all'erogazione della tredicesima legata al raggiungimento degli obiettivi economici assegnati ai dirigenti del settore in cui si lavora.
Di queste enormità ben poco si parla, così pure come delle due proposte di modifica costituzionale. La prima volta a cancellare l'articolo 41, quello che recita che l'iniziativa economica «Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Articolo ovviamente disatteso, ma pur sempre urticante la sensibilità di lorsignori. La seconda pensata per «costituzionalizzare» l'obbligo del pareggio di bilancio. Una duplice assurdità, sia dal punto di vista costituzionale che da quello economico. Un'assurdità importata dalla Germania, al pari dei wurstel e delle feste della birra.
Ma prima di occuparci dei numeri - ed in particolare di quelli «nascosti», cioè messi in ombra dai media - vanno sottolineati altri aspetti privi di una ricaduta immediata sui conti pubblici, ma non per questo meno importanti. In primo luogo la spinta alle privatizzazioni delle ex municipalizzate, alla faccia del referendum di giugno; in secondo luogo l'ennesima marcia indietro sulla liberalizzazione delle professioni (qui le lobby contano e si vede); in terzo luogo l'abolizione dei «ponti»; in quarto luogo la pagliacciata sui «costi della politica», che alla fine ha preso la forma del taglio - anche questo «lineare» - dei Comuni e delle Province con meno abitanti.
Quest'ultimo taglio non deve essere affatto sottovalutato. Se da un lato si tratta di un provvedimento demagogico, dall'altro non bisogna minimizzare per niente gli effetti antisociali che produrrà. La misura è demagogica nel momento in cui serve al governo per dire che si sono tagliate 54mila poltrone. In realtà si tratta per lo più di «poltrone» da consigliere comunale a meno di 20 euro a presenza, ed il risparmio stimato per l'abolizione dei consigli dei piccoli comuni è di 19 (diciannove) milioni di euro. Un niente, al quale corrisponderà invece un peggioramento dei servizi, basti pensare al fatto che il grosso di questi comuni si trova in zone di montagna, disagevoli e spesso mal collegate al comune limitrofo.
Un discorso a parte andrebbe fatto per le province, perché se in generale gli accorpamenti possono avere un senso, è il criterio - demografico ed emergenzialista - che è inaccettabile. Le province, come del resto i comuni, non sono mere espressioni demografiche. In genere hanno una storia e corrispondono ad un territorio con caratteristiche e peculiarità definite. Ogni accorpamento dovrebbe partire da questi elementi. Qui invece siamo solo di fronte ad un'operazione di taglio, che in questo caso assumerà la forma di consistenti tagli occupazionali. Altro che «tagli alla politica»!
I grandi numeri della manovra
Abbiamo già detto che sui veri numeri della manovra il caos è notevole. Sulle cifre si imbroglia e si incespica alla grande. Questa volta tutto è aggravato dal mix con la manovra di luglio, la quale era di per sé indefinita proprio nella sua parte più sostanziosa, quella della cosiddetta delega assistenziale e fiscale, ripresa anche nel decreto d'agosto. In questo strano paese non c'è giornale che offra una tabella riepilogativa con tanto di cifre in chiaro. Tutti i giornali riportano elenchi parziali, che enfatizzano questa o quella misura, ma niente di esaustivo sul complesso della manovra. Peggio, ad oggi sul sito del Mef (Ministero economia e finanza) non esiste lo straccio di un comunicato riepilogativo. Chiara è la scelta di impedire una visione d'assieme, meglio che la gente resti confusa e frastornata da orde di giornalisti non si sa se più ignoranti o più servili.
Venerdì sera Tremonti dichiarava che le misure d'agosto erano quasi tutte aggiuntive rispetto a quelle di luglio. In realtà così non è. Forse l'ansia di rassicurare la Bce l'ha indotto ad esagerare. E ieri ha fornito cifre ben diverse ed in linea con l'obiettivo del pareggio al 2013 (se invece le due manovre fossero davvero da sommare, avremmo allora un consistente attivo).
Quali sono queste cifre? Stando al ministro dell'economia (citiamo dal Sole 24 Ore del 14 agosto) la manovra apporterà 2 miliardi nel 2011, 20 nel 2012, 25,5 nel 2013. La correzione totale dei conti ammonterebbe dunque a 47,5 miliardi entro due anni, con una coda (dovuta appunto alla tempistica iniziale della manovra di luglio) di altri 8 miliardi nel 2014. Quarantasette miliardi e mezzo sono una bella cifra, ma sufficiente a raggiungere il pareggio solo a due condizioni: la prima è che i tassi di interesse tornino ad essere quelli che erano due mesi fa, la seconda è che il Pil cresca secondo le previsioni del governo (+1,3% nel 2012, +1,5% nel 2013).
Se la prima condizione è altamente improbabile, la seconda è un sogno al quale Tremonti è ovviamente il primo a non credere.
Se nell'immediato non possiamo certo escludere una pausa fisiologica nella corsa dello spread dei Btp, nei prossimi mesi essa riprenderà di certo. E questo per un motivo evidente, che è lo stesso che ha fatto lievitare i titoli greci come quelli portoghesi dopo i piani di salvataggio europei. Chi specula vuole il rischiodefault di un Paese, ma non il default. Con il rischio rastrella soldi, con il default perderebbe tutto. Ne consegue che se il debito di un paese x viene in qualche modo tutelato dalla Bce, esso sarà ancora più appetibile per la speculazione, mentre solo la minaccia (si badi, anche solo la semplice minaccia) deldefault costringerebbe quantomeno gli speculatori (che altri non sono che i cosiddetti «investitori istituzionali») a più miti consigli. Ovviamente quest'ultimo scenario richiederebbe un governo popolare (definizione certamente un po' grossolana, ma utile a capirsi), in uno stato sovrano. Inutile dire che oggi mancano sia l'uno che l'altro e dunque i vampiri della finanza avranno vita assai facile.
Quanto al Pil il discorso è semplice. Due giorni fa la Grecia ha diffuso i dati del secondo trimestre: meno 6,9%, mentre era atteso un pur pesante -5,1%. Questo giusto per ricordarci che se il debito era la droga che ancora faceva in qualche modo camminare l'economia, ci vuol poco a capire che la crisi d'astinenza, dovuta ai tagli, provocherà una depressione di enorme portata. Nel 2012 e nel 2013 dovranno scordarsi il segno più. E questo non solo per i tagli. Ci sono infatti altri tre fattori da considerare: 1) la recessione internazionale già annunciata dagli ultimi dati Usa, 2) la stasi degli investimenti dei grandi gruppi, resi prudenti dalla crisi finanziaria, 3) la diminuzione di quelli delle famiglie (casa ecc.) a causa della crisi, delle difficoltà del credito, della riduzione dei risparmi. E' pensabile che il combinato disposto di questi elementi dia una risultante diversa da una recessione profonda e prolungata? Sinceramente ci pare di no.
Se questo è vero, non solo la manovra bis risulterà insufficiente, ma i problemi economici e sociali che si presenteranno - disoccupazione in primo luogo - saranno ben più gravi di quelli attuali. Non abbiamo la sfera di cristallo, e dunque non sappiamo se gli attori di questa tragedia continentale (Ue, Bce, singoli stati) continueranno a muoversi così come hanno fatto fino ad oggi, ma alla luce di quanto sopra ben si comprende il tremontiano «ci rivedremo presto».
Di cosa è fatta davvero la manovra?
Torniamo ora alla manovra, alla sua vera composizione. Cerchiamo cioè di capire, al di là degli annunci, da dove verranno veramente i soldi. Bene, per comodità espositiva, riconduciamo il tutto a quattro voci: 1) Tagli a ministeri ed enti locali, 2) Tagli all'assistenza ed alle detrazioni fiscali, 3) Tagli alle pensioni ed ai lavoratori pubblici, 4) Tasse varie.
Analizzando queste voci più da vicino risulta chiaro come il grosso della manovra (diciamo un 70% circa) consisterà alla fine in tasse che verranno pagate in larghissima parte da lavoratori e pensionati, mentre il restante 30% di tagli andrà a scaricarsi inevitabilmente sulle fasce di reddito medio-basse. Questa la realtà delle cose, altro che pianti sul contributo di solidarietà applicato come specchietto per le allodole sui redditi più alti! Entriamo nel merito di questi quattro capitoli.
1. Taglio ai ministeri ed agli enti locali.
«Ho come l'impressione che ci rivedremo presto»: così Tremonti, accommiatandosi dai giornalisti presenti all'ennesima conferenza stampa di sabato 13 agosto. Più che una minaccia, una certezza. Vedremo fino a che punto il varo della manovra bis soddisferà i vampiri della finanza internazionale, vedremo se la Bce si sentirà garantita. Vedremo. Quel che è certo è che l'Italia ha ormai contratto la sindrome greca, e non se ne libererà facilmente.
Questi sono stati i giorni del diluvio delle cifre. Spesso confuse, spesso contraddittorie. Difficile dire se in questo bailamme ci sia solo improvvisazione (e ce n'è molta) o anche intelligenza. Di sicuro la lettura dei giornali non aiuta: i più sono concentrati sulla cosiddetta «super Irpef», il contributo richiesto per tre anni a chi denuncia un reddito superiore a 90mila euro. Si discute più di questo provvedimento a termine, che avrà un'incidenza marginale (1 miliardo?), che ridà almeno un minimo di progressività all'imposizione fiscale, che interessa solo una persona su 100 (quelle con i redditi più elevati), piuttosto che del massacro sociale per le fasce di reddito medio-basse contenuto nei numeri nascosti della manovra.
Un massacro che però non è fatto di soli numeri. Il governo ha infatti approfittato della manovra per inserirvi norme che niente hanno a che vedere con i problemi del debito pubblico. Si tratta della fine dei contratti collettivi di lavoro, attraverso il riconoscimento dell'efficacia erga omnes dei contratti aziendali in deroga a quelli nazionali; della possibilità (più esattamente, della certezza) di derogare allo Statuto dei lavoratori, specie per quel che riguarda i licenziamenti; ma si tratta anche delle norme vessatorie sul pubblico impiego, basti pensare all'erogazione della tredicesima legata al raggiungimento degli obiettivi economici assegnati ai dirigenti del settore in cui si lavora.
Di queste enormità ben poco si parla, così pure come delle due proposte di modifica costituzionale. La prima volta a cancellare l'articolo 41, quello che recita che l'iniziativa economica «Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». Articolo ovviamente disatteso, ma pur sempre urticante la sensibilità di lorsignori. La seconda pensata per «costituzionalizzare» l'obbligo del pareggio di bilancio. Una duplice assurdità, sia dal punto di vista costituzionale che da quello economico. Un'assurdità importata dalla Germania, al pari dei wurstel e delle feste della birra.
Ma prima di occuparci dei numeri - ed in particolare di quelli «nascosti», cioè messi in ombra dai media - vanno sottolineati altri aspetti privi di una ricaduta immediata sui conti pubblici, ma non per questo meno importanti. In primo luogo la spinta alle privatizzazioni delle ex municipalizzate, alla faccia del referendum di giugno; in secondo luogo l'ennesima marcia indietro sulla liberalizzazione delle professioni (qui le lobby contano e si vede); in terzo luogo l'abolizione dei «ponti»; in quarto luogo la pagliacciata sui «costi della politica», che alla fine ha preso la forma del taglio - anche questo «lineare» - dei Comuni e delle Province con meno abitanti.
Quest'ultimo taglio non deve essere affatto sottovalutato. Se da un lato si tratta di un provvedimento demagogico, dall'altro non bisogna minimizzare per niente gli effetti antisociali che produrrà. La misura è demagogica nel momento in cui serve al governo per dire che si sono tagliate 54mila poltrone. In realtà si tratta per lo più di «poltrone» da consigliere comunale a meno di 20 euro a presenza, ed il risparmio stimato per l'abolizione dei consigli dei piccoli comuni è di 19 (diciannove) milioni di euro. Un niente, al quale corrisponderà invece un peggioramento dei servizi, basti pensare al fatto che il grosso di questi comuni si trova in zone di montagna, disagevoli e spesso mal collegate al comune limitrofo.
Un discorso a parte andrebbe fatto per le province, perché se in generale gli accorpamenti possono avere un senso, è il criterio - demografico ed emergenzialista - che è inaccettabile. Le province, come del resto i comuni, non sono mere espressioni demografiche. In genere hanno una storia e corrispondono ad un territorio con caratteristiche e peculiarità definite. Ogni accorpamento dovrebbe partire da questi elementi. Qui invece siamo solo di fronte ad un'operazione di taglio, che in questo caso assumerà la forma di consistenti tagli occupazionali. Altro che «tagli alla politica»!
I grandi numeri della manovra
Abbiamo già detto che sui veri numeri della manovra il caos è notevole. Sulle cifre si imbroglia e si incespica alla grande. Questa volta tutto è aggravato dal mix con la manovra di luglio, la quale era di per sé indefinita proprio nella sua parte più sostanziosa, quella della cosiddetta delega assistenziale e fiscale, ripresa anche nel decreto d'agosto. In questo strano paese non c'è giornale che offra una tabella riepilogativa con tanto di cifre in chiaro. Tutti i giornali riportano elenchi parziali, che enfatizzano questa o quella misura, ma niente di esaustivo sul complesso della manovra. Peggio, ad oggi sul sito del Mef (Ministero economia e finanza) non esiste lo straccio di un comunicato riepilogativo. Chiara è la scelta di impedire una visione d'assieme, meglio che la gente resti confusa e frastornata da orde di giornalisti non si sa se più ignoranti o più servili.
Venerdì sera Tremonti dichiarava che le misure d'agosto erano quasi tutte aggiuntive rispetto a quelle di luglio. In realtà così non è. Forse l'ansia di rassicurare la Bce l'ha indotto ad esagerare. E ieri ha fornito cifre ben diverse ed in linea con l'obiettivo del pareggio al 2013 (se invece le due manovre fossero davvero da sommare, avremmo allora un consistente attivo).
Quali sono queste cifre? Stando al ministro dell'economia (citiamo dal Sole 24 Ore del 14 agosto) la manovra apporterà 2 miliardi nel 2011, 20 nel 2012, 25,5 nel 2013. La correzione totale dei conti ammonterebbe dunque a 47,5 miliardi entro due anni, con una coda (dovuta appunto alla tempistica iniziale della manovra di luglio) di altri 8 miliardi nel 2014. Quarantasette miliardi e mezzo sono una bella cifra, ma sufficiente a raggiungere il pareggio solo a due condizioni: la prima è che i tassi di interesse tornino ad essere quelli che erano due mesi fa, la seconda è che il Pil cresca secondo le previsioni del governo (+1,3% nel 2012, +1,5% nel 2013).
Se la prima condizione è altamente improbabile, la seconda è un sogno al quale Tremonti è ovviamente il primo a non credere.
Se nell'immediato non possiamo certo escludere una pausa fisiologica nella corsa dello spread dei Btp, nei prossimi mesi essa riprenderà di certo. E questo per un motivo evidente, che è lo stesso che ha fatto lievitare i titoli greci come quelli portoghesi dopo i piani di salvataggio europei. Chi specula vuole il rischiodefault di un Paese, ma non il default. Con il rischio rastrella soldi, con il default perderebbe tutto. Ne consegue che se il debito di un paese x viene in qualche modo tutelato dalla Bce, esso sarà ancora più appetibile per la speculazione, mentre solo la minaccia (si badi, anche solo la semplice minaccia) deldefault costringerebbe quantomeno gli speculatori (che altri non sono che i cosiddetti «investitori istituzionali») a più miti consigli. Ovviamente quest'ultimo scenario richiederebbe un governo popolare (definizione certamente un po' grossolana, ma utile a capirsi), in uno stato sovrano. Inutile dire che oggi mancano sia l'uno che l'altro e dunque i vampiri della finanza avranno vita assai facile.
Quanto al Pil il discorso è semplice. Due giorni fa la Grecia ha diffuso i dati del secondo trimestre: meno 6,9%, mentre era atteso un pur pesante -5,1%. Questo giusto per ricordarci che se il debito era la droga che ancora faceva in qualche modo camminare l'economia, ci vuol poco a capire che la crisi d'astinenza, dovuta ai tagli, provocherà una depressione di enorme portata. Nel 2012 e nel 2013 dovranno scordarsi il segno più. E questo non solo per i tagli. Ci sono infatti altri tre fattori da considerare: 1) la recessione internazionale già annunciata dagli ultimi dati Usa, 2) la stasi degli investimenti dei grandi gruppi, resi prudenti dalla crisi finanziaria, 3) la diminuzione di quelli delle famiglie (casa ecc.) a causa della crisi, delle difficoltà del credito, della riduzione dei risparmi. E' pensabile che il combinato disposto di questi elementi dia una risultante diversa da una recessione profonda e prolungata? Sinceramente ci pare di no.
Se questo è vero, non solo la manovra bis risulterà insufficiente, ma i problemi economici e sociali che si presenteranno - disoccupazione in primo luogo - saranno ben più gravi di quelli attuali. Non abbiamo la sfera di cristallo, e dunque non sappiamo se gli attori di questa tragedia continentale (Ue, Bce, singoli stati) continueranno a muoversi così come hanno fatto fino ad oggi, ma alla luce di quanto sopra ben si comprende il tremontiano «ci rivedremo presto».
Di cosa è fatta davvero la manovra?
Torniamo ora alla manovra, alla sua vera composizione. Cerchiamo cioè di capire, al di là degli annunci, da dove verranno veramente i soldi. Bene, per comodità espositiva, riconduciamo il tutto a quattro voci: 1) Tagli a ministeri ed enti locali, 2) Tagli all'assistenza ed alle detrazioni fiscali, 3) Tagli alle pensioni ed ai lavoratori pubblici, 4) Tasse varie.
Analizzando queste voci più da vicino risulta chiaro come il grosso della manovra (diciamo un 70% circa) consisterà alla fine in tasse che verranno pagate in larghissima parte da lavoratori e pensionati, mentre il restante 30% di tagli andrà a scaricarsi inevitabilmente sulle fasce di reddito medio-basse. Questa la realtà delle cose, altro che pianti sul contributo di solidarietà applicato come specchietto per le allodole sui redditi più alti! Entriamo nel merito di questi quattro capitoli.
1. Taglio ai ministeri ed agli enti locali.
L'importo complessivo dovrebbe essere - il condizionale deriva dalle diverse cifre messe in circolazione dagli stessi esponenti del governo - di 23 miliardi. Di questi, ben 10,5 verranno tagliati a Comuni, Province e Regioni. Questa misura produrrà sicuramente tagli e peggioramenti dei servizi, peraltro già oggi allo stremo, ai quali si cercherà di far fronte - ecco le nuove tasse - con l'aumento delle addizionali Irpef. Per i ministeri si dice che non verranno toccate scuola e sanità, mentre sembra certo il taglio ai fondi FAS che avrebbero dovuto essere spesi in opere per la difesa del suolo. Ed a proposito di ambiente, non ci è stato spiegato a quale risparmio si vorrebbe legare l'abolizione del Sistri (il sistema di tracciabilità dei rifiuti in tempo reale), anch'esso cassato con un ministeriale tratto di penna nel decreto di Ferragosto... E pensare che avrebbe dovuto diventare operativo il 1° settembre, quando si dice la Provvidenza...!
2. Tagli all'assistenza ed alle detrazioni fiscali.
2. Tagli all'assistenza ed alle detrazioni fiscali.
Da questa voce, che rappresenta un anticipo di quanto già deciso il mese scorso, dovrebbero arrivare - anche in questo caso le cifre sono ballerine - 17 miliardi. E' la parte di cui meno si parla, un po' perché proviene dal decreto di luglio, un po' perché le idee sembrano ancora confuse, ma soprattutto perché è la parte più scomoda. La volontà è quella di ridurre le prestazioni assistenziali, in particolare tagliando le pensioni di invalidità ed accompagnamento sopra una certa soglia di reddito, idem per le pensioni di reversibilità. Nel mirino sono dunque gli invalidi e le vedove, obiettivi un po' troppo comodi e soprattutto un po' troppo vergognosi. Ecco perché se ne parla poco. Quanto verrà rastrellato da queste categorie non è dato sapere. Si ipotizzano 4/5 miliardi. Il resto, dunque 12/13 miliardi, verrà dai tagli lineari alle detrazioni fiscali (vedi Raschiando il fondo), tagli che colpiranno soprattutto le fasce più basse del lavoro dipendente e dei pensionati.
3. Tagli alle pensioni ed ai lavoratori pubblici.
3. Tagli alle pensioni ed ai lavoratori pubblici.
L'importo di queste voci può apparire modesto (1 miliardo), ma in effetti non lo è, dato che si tratta dei due settori dove da anni si accanisce la mannaia governativa. Gli ultimi tagli ci sono stati a luglio, ma altri se ne sono voluti aggiungere. Sulle pensioni con l'anticipo del percorso che porterà le lavoratrici del settore privato verso i 65 anni, nel pubblico impiego con l'incredibile e già citata norma sulle tredicesime, cui si aggiunge il posticipo del pagamento della buonuscita addirittura a 24 mesi. Un atteggiamento vessatorio che ci indica come questi settori verranno rimessi sotto attacco già alla prossima occasione.
4. Tasse varie.
4. Tasse varie.
Per arrivare alla somma prevista il governo è ricorso alle tasse più diverse, per un totale di circa 6 miliardi e mezzo. Vediamo le principali. Due miliardi dovrebbe essere l'importo della tassa imposta ai produttori e distributori di energia (quella che, sprezzante del ridicolo, Tremonti chiama pomposamente «Robin Hood Tax»), altri 2 dall'uniformazione delle tasse sulle rendite finanziarie, che come si vede non piangono poi troppo. Un miliardo e mezzo verranno invece da giochi, lotterie e tabacchi, una sorgente che non si prosciuga mai. L'ultimo miliardo, infine, è quello che ha prodotto lo «scandalo» del «ceto medio» colpito a morte che inorridisce la stampa benpensante, e che magari darà a qualcuno l'illusione ottica di una «manovra equa»... Ma per favore!
Concludendo
Nella speranza di aver fatto almeno un po' di ordine, pur nella certezza che le carte verranno ancora rimescolate in Parlamento, le cifre attuali già ci danno un'idea del massacro compiuto. E come si è già detto, non di sole cifre si tratta. Vedremo se, e come, una risposta prenderà forma.
Quel che al momento possiamo dire è che il caos regna sovrano nel mondo della politica. Se Berlusconi e Tremonti hanno pasticciato, altrettanto ha fatto l'opposizione. Nella maggioranza vistose sono le crepe. Abbiamo sentito parlare Formigoni ed Alemanno come leader di opposizione, mentre nel Pdl si è ormai coagulata una frazione ultraliberista che minaccia una battaglia a colpi di emendamento. Non escludiamo affatto che il parlamento possa finire per peggiorare ulteriormente la manovra, tagliando le pensioni d'anzianità per ridurre le tasse a lorsignori.
Vanno in questa direzione tanto le dichiarazioni della Marcegaglia, che quelle di Montezemolo. Un problema in più per un Pd del «vorrei, ma non posso», che per trarsi d'impaccio ha presentato una sua «finanziaria», in verità più adatta al 1° aprile che al 15 agosto. Forse pensando che gli italiani, assuefatti a quasi vent'anni di berlusconismo, riescano davvero a bersi tutto, ecco la «finanziaria» di Bersani: 20 miliardi da tasse sui capitali «scudati» da Tremonti (si tratta di 100 miliardi fatti rientrare dall'estero con una tassa del 5%), 25 miliardi dalla vendita di beni immobiliari dello stato.
Semplice no? Forse un po' troppo. Difficilmente i capitali «scudati» sono lì in graziosa attesa di farsi beccare da Bersani, l'esattore. In quanto al Bersani immobiliarista, potrebbe farsi consigliare da D'Alema per una consulenza del vecchio amico Ricucci, ma in ogni caso 25 miliardi vogliono dire vendere 10 milioni di metri quadri a 2500 euro al metro, o, se preferite, 5 milioni a 5000 euro al metro. Un bell'impegno, comunque grazie per l'idea e passiamo alle cose serie.
Il fatto è che Bersani è voluto sgattaiolare via da un tema ben preciso: la patrimoniale. Questo tema si ripresenterà inevitabilmente al prossimo turno - ricordatevi: «ci rivedremo presto» - ma intanto il segretario del Pd ha scelto di fare il furbo. E che furbo, ragassi! Per adesso si berranno la manovra bis. Protesteranno, voteranno contro, ma al pari di quel che han fatto a luglio, non andranno certo contro né alla Bce, né tantomeno all'autore della dettagliata letterina firmata con Trichet, quel Mario Draghi che tanto piace al Pd quanto a Vendola, che lo ha nominato addirittura «Papa laico». Saranno disciplinati, reciteranno la loro particina, ma non faranno certo opposizione. Così si sono certo impegnati con il regista Napolitano e così faranno. Un atteggiamento che aprirà la strada a nuovi peggioramenti della manovra in parlamento.
Se dalle camere non verrà niente di positivo, cosa accadrà nel paese? Il tempo della passività sta forse per giungere al termine? Noi pensiamo di sì, anche se è difficile capire da chi e da dove arriverà il segnale della lotta. Non pensiamo che la forma sindacale possa essere quella prevalente. Senza sottovalutarla, escludiamo comunque che possa essere quella decisiva. C'è piuttosto da aspettarsi una varietà di rivoli, che potranno congiungersi solo attorno ad un progetto. Che per essere credibile dovrà essere necessariamente di rottura.
Su questo ci limitiamo a dire due cose. La prima: come non chiedere conto del disastro ai suoi artefici? Da almeno vent'anni dominano il mondo in lungo e largo. Le loro ricette ultra-liberiste non hanno incontrato veri ostacoli. Hanno modellato il lavoro, la fabbrica, la società, il diritto, la cultura a loro immagine e somiglianza. Se disastro è stato, è stato il loro disastro. Quel «loro» include l'intera classe dirigente, e - venendo all'Italia - va ben oltre il solo berlusconismo. «Tutti a casa!», dovrà essere allora la parola d'ordine.
La seconda cosa riguarda l'Europa. La crisi del capitalismo è sistemica, siamo i primi a dirlo. Il vortice della tempesta avvolge l'intero Occidente, Usa in primis. Ma c'è un ma grande come una casa: come mai i cinque paesi a rischio insolvenza (gli ormai arcinoti PIIGS) appartengono tutti all'area euro? D'accordo, la crisi è fondamentalmente dell'occidente, ma i paesi Ocse (che all'incirca coincidono con il corrente concetto di «occidente») sono 34, di questi solo la metà (17) appartengono all'Eurozona. In questa metà i «malati» da debito sono 5, pari al 29,4%, nell'altra metà nessuno è «malato» nella stessa misura, benché alcuni abbiano debiti pubblici più elevati.
Può essere un caso? Solo gli euro-ostinati della neuro-sinistra possono continuare a crederlo. Giusto quindi battersi contro i massacri sociali del governo, ancora più giusto indicare nell'Europa, e nella cancellazione della sovranità nazionale (e dunque di quella monetaria), il problema di fondo. Solo capendo le cause della malattia sarà possibile vincerla.
Concludendo
Nella speranza di aver fatto almeno un po' di ordine, pur nella certezza che le carte verranno ancora rimescolate in Parlamento, le cifre attuali già ci danno un'idea del massacro compiuto. E come si è già detto, non di sole cifre si tratta. Vedremo se, e come, una risposta prenderà forma.
Quel che al momento possiamo dire è che il caos regna sovrano nel mondo della politica. Se Berlusconi e Tremonti hanno pasticciato, altrettanto ha fatto l'opposizione. Nella maggioranza vistose sono le crepe. Abbiamo sentito parlare Formigoni ed Alemanno come leader di opposizione, mentre nel Pdl si è ormai coagulata una frazione ultraliberista che minaccia una battaglia a colpi di emendamento. Non escludiamo affatto che il parlamento possa finire per peggiorare ulteriormente la manovra, tagliando le pensioni d'anzianità per ridurre le tasse a lorsignori.
Vanno in questa direzione tanto le dichiarazioni della Marcegaglia, che quelle di Montezemolo. Un problema in più per un Pd del «vorrei, ma non posso», che per trarsi d'impaccio ha presentato una sua «finanziaria», in verità più adatta al 1° aprile che al 15 agosto. Forse pensando che gli italiani, assuefatti a quasi vent'anni di berlusconismo, riescano davvero a bersi tutto, ecco la «finanziaria» di Bersani: 20 miliardi da tasse sui capitali «scudati» da Tremonti (si tratta di 100 miliardi fatti rientrare dall'estero con una tassa del 5%), 25 miliardi dalla vendita di beni immobiliari dello stato.
Semplice no? Forse un po' troppo. Difficilmente i capitali «scudati» sono lì in graziosa attesa di farsi beccare da Bersani, l'esattore. In quanto al Bersani immobiliarista, potrebbe farsi consigliare da D'Alema per una consulenza del vecchio amico Ricucci, ma in ogni caso 25 miliardi vogliono dire vendere 10 milioni di metri quadri a 2500 euro al metro, o, se preferite, 5 milioni a 5000 euro al metro. Un bell'impegno, comunque grazie per l'idea e passiamo alle cose serie.
Il fatto è che Bersani è voluto sgattaiolare via da un tema ben preciso: la patrimoniale. Questo tema si ripresenterà inevitabilmente al prossimo turno - ricordatevi: «ci rivedremo presto» - ma intanto il segretario del Pd ha scelto di fare il furbo. E che furbo, ragassi! Per adesso si berranno la manovra bis. Protesteranno, voteranno contro, ma al pari di quel che han fatto a luglio, non andranno certo contro né alla Bce, né tantomeno all'autore della dettagliata letterina firmata con Trichet, quel Mario Draghi che tanto piace al Pd quanto a Vendola, che lo ha nominato addirittura «Papa laico». Saranno disciplinati, reciteranno la loro particina, ma non faranno certo opposizione. Così si sono certo impegnati con il regista Napolitano e così faranno. Un atteggiamento che aprirà la strada a nuovi peggioramenti della manovra in parlamento.
Se dalle camere non verrà niente di positivo, cosa accadrà nel paese? Il tempo della passività sta forse per giungere al termine? Noi pensiamo di sì, anche se è difficile capire da chi e da dove arriverà il segnale della lotta. Non pensiamo che la forma sindacale possa essere quella prevalente. Senza sottovalutarla, escludiamo comunque che possa essere quella decisiva. C'è piuttosto da aspettarsi una varietà di rivoli, che potranno congiungersi solo attorno ad un progetto. Che per essere credibile dovrà essere necessariamente di rottura.
Su questo ci limitiamo a dire due cose. La prima: come non chiedere conto del disastro ai suoi artefici? Da almeno vent'anni dominano il mondo in lungo e largo. Le loro ricette ultra-liberiste non hanno incontrato veri ostacoli. Hanno modellato il lavoro, la fabbrica, la società, il diritto, la cultura a loro immagine e somiglianza. Se disastro è stato, è stato il loro disastro. Quel «loro» include l'intera classe dirigente, e - venendo all'Italia - va ben oltre il solo berlusconismo. «Tutti a casa!», dovrà essere allora la parola d'ordine.
La seconda cosa riguarda l'Europa. La crisi del capitalismo è sistemica, siamo i primi a dirlo. Il vortice della tempesta avvolge l'intero Occidente, Usa in primis. Ma c'è un ma grande come una casa: come mai i cinque paesi a rischio insolvenza (gli ormai arcinoti PIIGS) appartengono tutti all'area euro? D'accordo, la crisi è fondamentalmente dell'occidente, ma i paesi Ocse (che all'incirca coincidono con il corrente concetto di «occidente») sono 34, di questi solo la metà (17) appartengono all'Eurozona. In questa metà i «malati» da debito sono 5, pari al 29,4%, nell'altra metà nessuno è «malato» nella stessa misura, benché alcuni abbiano debiti pubblici più elevati.
Può essere un caso? Solo gli euro-ostinati della neuro-sinistra possono continuare a crederlo. Giusto quindi battersi contro i massacri sociali del governo, ancora più giusto indicare nell'Europa, e nella cancellazione della sovranità nazionale (e dunque di quella monetaria), il problema di fondo. Solo capendo le cause della malattia sarà possibile vincerla.
Diamoci da fare
22-23 ottobre
assemblea nazionale
* Fonte: Campo Antimperialista
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