[ 26 settembre 2010 ]
COSA SI CELA OLTRE
“LA PORTA DEL DIALOGO”
Se questi tre rappresentano gli interessi dei lavoratori... |
«Riforme oggi contro l'odio di domani», così titola il suo editoriale Gianni Riotta su Il Sole 24 ore di ieri, a significare il timore che serpeggia tra le fila di certa borghesia che la crisi, avvitandosi su se stessa, produca sconquassi e tensioni sociali. Un appello accorato agli oligarchi della politica affinché cessino di bisticciare sul “niente” e facciano causa comune —dato che nuovi populismi eversivi bussano alle porte e, chissà, pure una rinascita di forme inedite di lotta di classe, troppo presto data per defunta.
Si capisce lo sconforto del Riotta, anzi, il cupo pessimismo sulla “classe politica”, per cui l’accento cade subito sui sindacati, chiamati a stringere un “Patto”, tra loro e con il Capitale, per salvare il paese, non solo dalla competizione globale, ma dal rischio delle temute turbolenze sociali prossime venture. Un evidente appello al pompieraggio sociale, rivolto anzitutto alla CGIL.
Riotta non è sceso in campo a caso, ma per sostenere i desiderata di Confindustria, ben espressi dalla Marcegaglia al convegno svoltosi a Genova questo fine settimana. Quali desiderata? Dopo il pugno in faccia ricevuto a Pomigliano e i segnali di resistenza operaia giunti da diverse parti, Confindustria cambia registro: vuole ricucire con la CGIL, non solo per sterilizzare il dissenso della FIOM e del sindacalismo di base, ma per siglare un nuovo patto strategico “tra i produttori”.
Sentiamo Riotta:
«È il contesto dell'appello di Emma Marcegaglia, ieri a Genova. Dopo le aperture al dialogo di Alberto Bombassei, che i giornali di solito definiscono "un duro", la presidente degli industriali alza i toni perché sente che il tempo stringe. Riforme, raziocinio, un patto tra produttori, relazioni industriali per la nostra fase terribile e globale non per i Tempi Moderni di Chaplin, è sfida anche per la Cgil della segretaria in pectore Camusso».
Non sfugge a nessuno che non si tratta di resipiscenza. Confindustria è riuscita a tenere una linea dura, di rottura con la CGIL, fino a quando glielo ha consentito il quadro politico, segnato dalla tenuta e dalla forza del governo Berlusconi. Ora che il governo è alle corde e il berlusconismo al tramonto, Confindustria non può che rivolgere il suo sguardo a sinistra, chiedere il soccorso di Epifani. Il quale, spalleggiato dal PD di Bersani, l’ha offerto prontamente.
I giornali hanno subito titolato: «Epifani apre la porta al dialogo», oppure, «Disgelo tra i sindacati». L’inviata del Il Sole chiosa: «Se c’era bisogno di una conferma questa è arrivata. Il clima tra sindacati e imprenditori è cambiato. Questo passaggio è avvenuto a Genova.»
Sorvoliamo per carità di patria sul fulgido esempio di cesarismo sindacal-berlusconiano per cui un Segretario generale può dare la linea, anzi come vedremo addirittura cambiarla, scavalcando tutte le istanze della sua confederazione, per non parlare della “base”, che nei sindacati conta come il due di briscola.
Di che “passaggio” si tratta?
Come tutti sanno la CGIL non firmò il famigerato “Accordo separato” del 22 gennaio del 2009, siglato invece da CISL e UIL. La CGIL tuonò contro quell’Accordo perché, introducendo il criterio della “derogabilità dei contratti nazionali” a favore del “secondo livello”, ovvero accordi a livello aziendale o territoriale, demoliva di fatto il Contratto nazionale stesso, consegnando salario e erogazione della forza-lavoro alla mercè delle aziende. Per quasi due anni la CGIL aveva fatto del rifiuto di quell’Accordo la sua propria Linea del Piave.
Cosa è successo a Genova? Che Epifani ha «… espresso disponibilità a riprendere il dialogo e, nel ricordare che “dall’inizio della crisi la CGIL ha firmato 12mila accordi”, ha rilanciato: “Bisogna innovare il sistema contrattuale, l’accordo di due anni fa non ha avuto abbastanza coraggio sul secondo livello. Servono contratti nazionali più grandi, inclusivi di settori che si modificano, con norme meno prescrittive per l’inquadramento e l’orario in modo da lasciare più spazio alla contrattazione aziendale». (Il Corriere della Sera del 26 settembre)
In una frase, addirittura rinunciando al solito peloso linguaggio sindacalese, Epifani ha così azzerato la posizione della CGIL, di fatto sancendo l’allineamento a CISL e UIL, e spianando la strada alla proposta della Confindustria di un “grande Patto tra le parti sociali”. La CGIL non perde né pelo né vizio: siamo in presenza dell’eterno ritorno alla “concertazione”, ovvero al sindacato che si concepisce, non come controparte del Capitale, ma come suo socio in affari.
Angeletti, buffo segretario di un sindacato improbabile, ha immediatamente ed efficacemente rappresentato il senso del passaggio in questione: «Servono modelli contrattuali su misura, proprio come gli abiti». (Il Sole 24 Ore del 26 settembre) Come dire: “Ben ritornato, figliol prodigo Guglielmo, nella comune ditta dei servi del Capitale denominata triplice sindacale”.
Come se non bastasse Epifani ha poi compiuto una vergognosa apertura anche sul terreno della cosiddetta “democrazia sindacale”. Sentiamo: «Quando si fa un accordo aziendale si mette la responsabilità della firma e bisogna chiedere ai lavoratori di sostenerla. Una volta che i lavoratori hanno deciso, è giusto chiedere ad un sindacato che non condivide l’intesa di rispettare il voto dei lavoratori». (Il Sole 24 Ore, ibidem).
Avete capito bene: delegittimata su tutta la linea la FIOM e, semmai ce ne fosse stato bisogno, convalidato il diktat di Marchionne su Pomigliano. La strada alla Camusso segretaria è spianata, Bonanni ha addirittura dato la benedizione all’avvicendamento: “Sarà più facile dialogare, essendo una donna” (sic!).
La strada al “Patto dei produttori” è spianata. Il 4 ottobre, quando partirà il tavolo sulla produttività, la CGIL ci sarà, e sarà molto difficile che se ne possa tornare indietro. Ora staremo a vedere cosa farà l’opposizione nella CGIL. Non parliamo solo della FIOM, che ha indetto la meritoria manifestazione del 16 ottobre. L’opposizione interna si trova ora davanti ad un dilemma: fare marcia indietro, adeguarsi, dicendo ai lavoratori, “scusate, fino ad ora abbiamo scherzato”, oppure tenere il punto, ribadire che i diritti dei lavoratori non sono negoziabili e l’idea della intangibilità del contratto nazionale. In ballo c’è la natura stessa del sindacato, la sua definitiva trasformazione, mentre il capitalismo annaspa, da organismo, pur burocratico, di rappresentanza del lavoro salariato, a cinghia di trasmissione diretta degli interessi padronali.
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