(prima parte)
di Moreno Pasquinelli
Neo-liberisti e neo-keynesiani
Torniamo, ce lo eravamo ripromessi, sull’Appello dei cento economisti del giugno scorso. I seguaci a vario titolo delle dottrine liberiste, demonizzandolo come un “appello marxista” hanno eretto un pirotecnico fuoco di sbarramento, di cui si trova traccia nei giornali, in rete ma il cui epicentro risiede nel mondo accademico e universitario. In prima linea contro i Cento si sono schierate le truppe dei bocconiani (tipo Tito Boeri, Giavazzi, Ichino, e Perotti) supportati dagli “emigrati” in USA (orfani del loro mito che gli Stati Uniti sarebbero la patria del puro capitalismo o liberismo) ma molto influenti in italia (Bolbrin, Bisin, Alesina).
E’ degno di nota che tali soggetti, in barba alla loro fede liberista per cui occorre che lo Stato eviti di ficcare le mani nel mercato (che da solo si auto-riparerebbe superando ogni crisi) siano tutti ferventi sostenitori delle misure di rigore adottate in Europa dalle autorità politiche e monetarie. Qui casca così penosamente l’asino liberista: l’intervento dello Stato, a parole esecrato, è ora auspicato e perorato dal momento che deve spostare ricchezza dal lavoro al capitale. Non l’interventismo statale in quanto tale è dunque condannato di liberisti, ma solo quello che sposta ricchezza dal capitale al lavoro.
Per questo verrebbe d’istinto arruolarsi dalla parte dei Cento, che almeno criticano le misure rigoriste europee a causa del loro indiscutibile “segno di classe” capitalistico. Tuttavia non possiamo farlo, e non soltanto (l’abbiamo già accennato), perché il loro appello ci ripropone la solita minestra socialdemocratica, o perché non recepisce alcuna critica anticapitalistica. Non ci intruppiamo, come invece hanno fatto numerosi intellettuali e politici sinistra-ti, sia perché non ci interessa discettare su quale sia la terapia da suggerire al capitalismo per affinché esca dalla sua crisi, sia perché non condividiamo la lettura sottoconsumistica che essi danno delle sue cause.
Cosa sia la chiave di lettura sottoconsumistica, i Cento, lo scolpiscono proprio nel loro appello:
«Come è stato riconosciuto da più parti, questa crisi vede tra le sue principali spiegazioni un allargamento del divario mondiale tra una crescente produttività del lavoro e una stagnante o addirittura declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori. [...] Siamo insomma di fronte alla drammatica realtà di un sistema economico mondiale senza una fonte primaria di domanda, senza una "spugna" in grado di assorbire la produzione». Viene da sé la cura per uscire dalla crisi: accrescere la capacità di consumo dei lavoratori, spostare reddito dal capitale al lavoro, stimolare con spesa pubblica la domanda et voilà, il capitalismo verrà fuori dalle secche della recessione tornerà a crescere.
Questa tesi, se è keynesiana a lato della terapia —non lo è del tutto dal lato delle cause della crisi, dato che Keynes individuava queste ultime (giusto all’opposto di Marx) nella carenza di investimenti e non anzitutto nel consumo delle masse, per cui la spesa pubblica per Keynes, prima ancora che il consumo, doveva stimolare gli investimenti— non è marxista né dall’uno né dall’altro.
Che i liberisti abbiano tacciato l’Appello di “marxismo”, non solo per la tesi che il mercato da solo non raggiunge alcun equilibrio ma, appunto, proprio per quella del sottoconsumo, non accade a caso. Si è consolidata, anche a causa di un “cattivo” marxismo (1) l’idea che la crisi per sottoconsumo sia propria di Carlo Marx. Non è vero, e proveremo a spiegarlo. Marx non ha mai condiviso in ciò, né Malthus né Sismondi, i quali alla fine non hanno fatto che teorizzare ciò che Mandeville aveva scritto un secolo e mezzo prima (1705) nel suo racconto La favola delle api, dove sostenne che il risparmio e la frugalità portano appunto alla rovina della comunità (idea che per certi versi sarà fatta loro anche dai keynesiani). Marx ha raccolto piuttosto l’eredità dei classici Smith e Ricardo, per cui le crisi sono anzitutto crisi di sovrapproduzione, solo che al contrario dei primi sosteneva non solo la possibilità, ma l’inevitabilità della crisi generale o assoluta di sovrapproduzione.
Il valore di scambio
Marx ricava la teoria della crisi anzitutto concettualmente, procedendo dall’analisi della cellula prima dell’organismo capitalistico: dalla merce, dal valore di scambio.
Il capitalismo non inventa il valore di scambio, ovvero la trasformazione dei prodotti del lavoro umano, in merci. Nelle società pre-capitalistiche questo scambio, che i prodotti del lavoro umano-sociale fossero merci, esistevano già. Solo che veniva scambiato solo il surplus creato in singole sfere della produzione, diventavano cioè merci una parte quantitativamente poco significante dei prodotti, solo quelli che eccedevano l’economia di autoconsumo.
In contesto precapitalistico, affermava Marx, non esistevano dunque crisi, se non come effetto di calamità naturali, guerre o fattori comunque non afferenti alla sfera economica. Ciò che veniva barattato aveva in prevalenza la forma di valore d’uso immediato, il quale non dipendeva dalla quantità di lavoro in essa incorporato. In questo contesto sì c’era un equilibrio tra domanda e offerta, nel senso che ognuno produceva quanto bastava per soddisfare i propri bisogni, scambiava solo quanto strettamente necessario, e non era dunque decisivo, come lo è invece nello scambio capitalistico, il calcolo del tempo di lavoro, che è appunto alla base del valore di scambio e della creazione di plusvalore. (2)
Il capitalismo si distingue dai sistemi sociali precedenti per due cose essenziali: 1. esso getta nel mercato, ovvero afferra e trasforma in merce, non solo l’eccedenza ma ogni prodotto del lavoro e il lavoro stesso, per cui non il valore d’uso, non il fatto di soddisfare un determinato bisogno umano, ma il valore di scambio conta anzitutto, ovvero conta il produrre merci per soddisfare l’innato bisogno del capitale di valorizzarsi. 2. Esso fa dunque, di ciò ciò che prima era solo eccedente (il lavoro e la produzione eccedenti) l’assolutamente necessario, la condicio sine qua non, la sua stessa essenza.
Mutano così scopo della produzione, modo di produrre, rapporti sociali.
Ora, cos’è che costituisce il valore (di scambio) di una merce? La sua sostanza è costituita dal lavoro umano, la sua grandezza è la quantità di lavoro sociale necessaria a produrla (e solo quella) in base alla produttività media del lavoro —il denaro essendo la misura del valore.
Lo scambio di merci, mediato dal denaro (che è un simbolo sociale, l’equivalente generale), non è quindi altro, per Marx, che scambio di lavoro, di quantità di lavoro. Decisiva precisazione: quando Marx sostiene che il valore di scambio è quantitativamente misurato dal tempo di lavoro, egli non si riferisce solo al lavoro vivo specificamente consumato per creare una singola merce finale, ma pure quello “oggettivato”, ossia al lavoro complessivamente incorporato nella merce. Così, quando Marchionne anni addietro era per la sinistra l’esempio fulgido del capitalista illuminato, affermò che il costo del lavoro incideva in FIAT non più dell’8%, egli si riferiva al costo del monte salari degli operai in dote all’azienda. Ma ciò non significa affatto che nel prezzo finale di una vettura il costo del lavoro rappresenti solo l’8%. Per dedurre il costo complessivo del capitale variabile per unità di prodotto va tenuto in considerazione anche il “lavoro oggettivato” non solo nelle materie prime necessarie a produrre un veicolo, ma pure quello della componentistica oramai del tutto esternalizzata, quello dei macchinari e della robotica, della progettazione, ecc.
Perché (siamo ancora nel campo teoretico astratto) la produzione interamente dedicata allo scambio contiene connaturata la possibilità della crisi? Per la ragione che la merce è sì unità di due momenti, di produzione e valorizzazione, ma questa unità non è immediata, si realizza solo nella circolazione. (3) La merce, dal momento che esce dall’opificio, ha sì valore di scambio ma solo in potenza. E’ nell’atto dello scambio, passando per il mercato, ex-post, che essa realizza il suo valore. Al di fuori dello scambio la merce è ancora solo un mero prodotto del lavoro, non ha ancora valore. Il capitale produce per vendere e vende per produrre su scala allargata. Ove lo scambio non avvenisse, ove il capitale non riuscisse a piazzare le sue merci, scoprirà suo malgrado che esse non avranno alcun valore, così che esso non potrà valorizzarsi. Questo appunto è ciò che deve intendersi per crisi. «Il plusvalore creato in un punto richiede la creazione di plusvalore in un altro punto, con il quale possa scambiarsi. (…) Una condizione della produzione fondata sul capitale è quindi la produzione di un cerchio della circolazione costantemente allargato, o direttamente, oppure creando in esso più punti di produzione». (4)
La crisi, o sproporzione, è connaturata al capitalismo
Il ciclo del capitale produttivo non conosce intoppi a due condizioni: che la merce sia venduta integralmente al suo proprio valore (capitale variabile, costante e plusvalore) e, in secondo luogo che il denaro ricavato non se ne stia fermo ma sia reimpiegato come capitale monetario nell’acquisto dei mezzi di produzione e della forza lavoro consumati.
Quello che appare come mero scambio di merci mediato dal denaro, è in verità sempre uno scambio di capitali (di merce-capitale).
Non esiste infatti nella realtà che il produttore capitalistico venda il suo prodotto direttamente al singolo consumatore finale. Prima che sia nella disposizione del singolo consumatore, la merce, passa per la mani di molti capitali (circolazione e distribuzione). Ciò vale tanto più oggi, quando la gran parte dei prodotti destinati al consumo di massa non giunge al consumatore se non alla fine di una lunga filiera. Apple o Barilla non vendono i loro telefonini o i loro spaghetti al consumatore, ma ad altri grandi capitalisti (ça va sans dire: ciò vale a maggior ragione nello scambio di componenti per la produzione tra aziende).
Quando questo ciclo si interrompe, quando in un certo punto della filiera dello scambio tra capitali avviene una interruzione, abbiamo la crisi.
L’effetto —che questo o quel settore non riescano a scambiarsi sul mercato con altre merci-capitale — ha per causa quindi non il sottoconsumo, ma il fatto che in quei settori è stato speso “troppo lavoro sociale; ossia una parte di quel lavoro è inutile”. (5)
Ma se lo scambio è sempre scambio di quote di lavoro sociale, che esso non avvenga, altro non significa che siamo in presenza della contraddizione potenziale che la produzione per il valore di scambio si porta appresso: che essendo il capitale non uno solo ma molti e in competizione fra loro, che essi non producono alle medesime condizioni e ai medesimi costi, che impiegano per produrre quantità diverse di capitale variabile e costante, che conoscono diversi livelli di produttività, ovvero diversi saggi di plusvalore e di profitto. Ciò significa che squilibrio e sproporzione sono connaturati alla produzione capitalistica, mentre l’equilibrio inter-settoriale è solo un’eccezione.
Merci-capitale per la cui produzione sia stato speso troppo tempo di lavoro rispetto alla media sociale, quale che possa essere il loro valore d’uso, si trovano dunque spogliate del valore di scambio.
Abbiamo dunque che ove il singolo capitale o settore capitalistico scopra di non poter vendere le proprie merci al loro valore (ad un prezzo che riconsegni, oltre al captale variabile e a quello costante, l’atteso plusvalore); che sono state sprecate, per unità di prodotto, un’eccessiva quantità di lavoro e di capitale rispetto alla media, ciò che determina la caduta del saggio di profitto (fenomeno che non dobbiamo confondere con la cosiddetta "legge della caduta tendenziale del saggio di profitto").(6)
Come possono pretendere di scambiarsi (e lo scambio è sempre scambio di equivalenti quote di lavoro sociale) queste merci con altre che invece contengano una minore quantità di lavoro se non al prezzo di venir vendute al di sotto del loro valore? Va da sé che ove il capitale debba vendere al di sotto del valore, esso non raggiungerà il suo scopo (trasformare plusvalore in profitto) e invece di valorizzarsi si svalorizzerà.
In ultima istanza, come sosteneva Marx, la legge del valore si impone, e si impone con la forza della crisi, la quale caccia a pedate dal mercato chi estorce meno plusvalore della media, chi non riesce ad accrescere la capacità di produrre più merci con tempi di lavoro minori della media, mentre premia quei vampiri che hanno saputo succhiare fino all’ultima goccia il sangue dal corpo proletario (spietata selezione che i liberisti chiamano enfaticamente destructive creation).
Non per sottoconsumo è causata quindi la crisi ma per sovrapproduzione. Per precisione abbiamo sin qui qui trattato delle cause della sovrapproduzione parziale (o relativa), causata dalla sproporzione o disarmonia tra diversi settori economici connaturata al sistema capitalistico, che è contraddistinto dalla presenza di molti capitali in concorrenza fra loro, ognuno proteso a sfornare a priori merci, senza che riceveranno solo a posteriori l’imprimatur di valori.
E dipende dal fatto che quest’ultima si manifesti nella sfera dello scambio l’inversione dell’effetto con la causa, l’illusione ottica dei sottoconsumisti che ritengono essa sorga ove affiora, nello scambio, e non piuttosto nella sfera produttiva.
Come sosteneva Marx, offrendoci uno squarcio sulla crisi attuale:
«Finché il prodotto viene venduto, dal punto di vista del produttore capitalistico, tutto segue il suo corso regolare. Il ciclo di valore del capitale non viene interrotto. (…)
E tuttavia una gran parte delle merci solo in apparenza è entrata nel consumo, in realtà giace invece invenduta nelle mani dei rivenditori, e di fatto si trova ancora sul mercato. Flusso di merci segue ora flusso di merci, e finalmente viene ala luce il fatto che il flusso precedente solo in apparenza è stato inghiottito dal consumo. I capitali-merce si contendono reciprocamente il loro posto sul mercato. Per vendere gli ultimi arrivati vendono al di sotto del prezzo. I flussi precedenti non sono stati ancora resi liquidi, mentre scadono i termini di pagamento. I loro possessori devono dichiararsi insolventi, ovvero vendere a qualunque prezzo per pagare.
Questa vendita non ha assolutamente nulla a che fare con lo stato reale della domanda. Essa ha a che fare soltanto con la domanda di pagamento, con l’assoluta necessità di trasformare la merce in denaro. Allora scoppia la crisi. Essa diventa visibile non nella immediata diminuzione della domanda di consumo, della domanda per il consumo individuale, ma nella diminuzione dello scambio di capitale con capitale, del processo di riproduzione del capitale». (7)
Può esserci una generale o assoluta crisi per sovrapproduzione? E se sì, a quali condizioni può insorgere? Parleremo di questo nella seconda parte, non senza precisare subito che la crisi generale di sovrapproduzione non è soltanto una dilatazione quantitativa o spaziale della crisi di sovrapproduzione parziale.
Quando, come oggi, la sproporzione tra diversi settori capitalistici afferra l’economia tutta intera, quando non qui o là viene dissipata un’eccessiva quantità di lavoro e di capitale rispetto alla media, quando la gran parte dei capitali subisce un processo di valorizzazione, abbiamo che la quantità si trasforma in qualità. Qualcosa di nuovo è accaduto nella fase che precede la crisi generale. E’ l’epifania della madre di tutte le contraddizioni del capitalismo
(continua)
(1) Vedi, oltre a Rosa Luxemburg e alla tradizione politica di un certo estremismo di sinistra “crollista”, le tesi di Paul Sweezy e della Monthly Review, che tanta influenza hanno avuto in certe zone dell’intellighentia marxista italiana, anzitutto quella de il manifesto.
(2) «Per rinnovarsi [nel sistema capitalistico, Nda], l’intero prodotto deve essere trasformato in denaro; non come ai precedenti livelli di produzione [società pre-capitalistiche, Nda], dove lo scambio investe soltanto la produzione superflua e i prodotti superflui, ma in nessun caso la produzione nella sua totalità».
Carlo Marx. Lineamenti, p. 372
(3) Carlo Marx. Lineamenti, p. 374
(4) Carlo Marx. Lineamenti, p.374
(5) Carlo Marx. Il Capitale, III, p.736
(6) Significa, ci si passi il paradosso logico, che a parità di tempo di lavoro esso ha in realtà sotto-prodotto, sotto-utilizzato il suo capitale, spremuto meno della media la forza-lavoro, quindi sfornato troppe poche merci in relazione al capitale variabile e costante impiegato —non invece troppe merci rispetto alla capacità del mercato.
(7) carlo Marx. Il Capitale, II p. 77
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