[ 26 luglio 2010 ]
COSA SI CELA DAVVERO DIETRO ALLA VICENDA FIAT
Star coi frati a zappar l’orto
di Moreno Pasquinelli
Mario Deaglio, oltreché docente di economia internazionale all’università di Torino, è considerato, tra gli economisti italiani, un vero e proprio luminare. Frequenti sono i suoi interventi su organi di stampa e nelle Tv. Si distingue per i suoi giudizi sempre misurati, sembra ispirati all’idea che il giusto sta sempre … nel giusto mezzo. Ci sono tuttavia vicende che o stai di qua o stai di là, anzitutto quando è il committente che fa la voce grossa. La questione FIAT è una di queste.
Senza dirlo, ma in risposta all’Appello dei cento economisti, Deaglio sostiene che, per quanto sia giusto keynesianamente ritenere necessarie “misure di stimolo all’economia” (leggi aumento della spesa pubblica), queste sono di fatto impossibili nel nostro paese “a causa del debito pubblico troppo alto”: «Siamo più o meno costretti dalle circostanze a muoverci come ci stiamo muovendo», quindi sì alla manovra Tremonti e al “rigore”.
Poi Deaglio spiega cosa si nasconda dietro al “rigore”: «Tutto questo fa ricadere la crisi più sul lavoro che sul capitale, se vogliamo usare le vecchie categorie; c’è la fiducia, da parte dei politici che il lavoro “sopporti”. Se traduciamo in italiano il solito, ossessivo richiamo a fare le riforme, sostanzialmente esse riducono le prerogative favorevoli ai lavoratori. (…) bando alle ipocrisie: dietro al termine riforme strutturali c’è un’altra cosa; vogliamo spostare, togliere una quota di spesa pubblica che andava a vantaggio di alcune categorie sociali e quindi di peggiorare certe condizioni. C’è molta gente che ci perde, con queste “riforme”.» (Il Sole 24 Ore, 21 luglio).
Grazie della traduzione Professor Deaglio, non si stupirà se le diremo che eravamo già in molti, tra cui gli operai di Pomigliano, ad aver compreso il senso reale di pelosissime parole come “rigore” e “riforme”, che si tratta di una rapina sociale, di spostare ingenti quote di spesa pubblica (o reddito indiretto e differito) dal lavoro al capitale (compresi i quattrini che, vedrete! lo Stato offrirà a FIAT per restare a Mirafiori).
Deaglio, da buon cristiano qual è, si pone infine una domanda da un milione di dollari: «Il mio interrogativo principale non è se questa manovra sia economicamente sostenibile: lo è. Ma lo sarà politicamente e socialmente? Ho qualche dubbio. (…) Il malcontento popolare comincia a farsi sentire. Se la gente percepisce le riforme come “macelleria sociale”, come facciamo a fargli cambiare opinione?».
Una riflessione prima di venire al sodo. Come può, una determinata politica di rigore che trasferisce reddito dai salariati e dai moribondi ceti-medi al capitale, essere economicamente “sostenibile” ma non esserlo socialmente e politicamente? L’economicismo è duro a morire! Parliamoci chiaro, qui “sostenibile” sta come metafora per dire “accettabile” alle classi sociali a cui si chiede il “rigore”, ovvero l’accettazione di consegnare una quota del loro reddito al capitale. Non sarà “sostenibile” ove queste classi si rifiutassero questa cessione. E come potranno fare le classi subalterne se non ribellandosi? Ovvero ponendo fine alla pace sociale e all’obbedienza politica ai partiti e ai sindacati asserviti al capitale. Come la si rigiri, la politica sta sempre al posto di comando. Se una data politica non è fattibile politicamente e socialmente non lo è nemmeno economicamente. In parole povere: se i lavoratori e i ceti medi restassero inermi, se governo e capitale potessero fare e disfare a loro piacimento, non solo questa manovra sarebbe “sostenibile”, tutto sarebbe loro permesso.
Ma qual è il sodo? Sta nell’editoriale di Deaglio su LA STAMPA del 26 luglio, dove il Professore, che la sa lunga, dice la sua sulla vicenda Mirafiori e in particolare sul “tavolo negoziale” convocato dal ministro Sacconi.
Col solito pretesto della globalizzazione, Deaglio rivela che il ricatto di Marchionne ai lavoratori (o accettate le mie condizioni o chiudo lo stablimento), cela la vera posta in palio, «… che nell’ottica dell’economia globale, [è in discussione] il problema della sostenibilità del modello sociale europeo, specificamente nella sua variante italiana, caratterizzato da forti componenti non monetarie della retribuzione. Fino a non molto tempo fa si pensava che questo modello si sarebbe imposto al mondo… come sappiamo le cose non sono andate così.». Ovvero: è il modello dei “paesi emergenti” che si sta imponendo all’Occidente, «… si deve lavorare di più, con mansioni più flessibili, per retribuzioni pari a quelle di prima». Aggiungiamo noi: addirittura più basse.
Quindi Deaglio conclude che ci sono solo due vie per non soccombere. La prima è “la sostanziale riscrittura del modello economico-sociale europeo”, cioè la “macelleria sociale”, mitigata da un “… salario di cittadinanza, nell’ottica di ottenere e mantenere la produttività necessaria per stare sul mercato globale”.
Ma sentiamo la seconda via: «È quella del protezionismo moderno, fondato su barriere non tariffarie in grado di impedire l’ingresso di merci che competono con quelle nazionali. Il protezionismo salva i posti di lavoro minacciati ma il suo costo è molto elevato in quanto riduce o toglie dai mercati numerosissimi beni stranieri a basso prezzo».
Detta così ogni lavoratore che abbia sale in zucca, risponderebbe a Deaglio: “Evviva il protezionismo!”.
Infatti si potrebbe andare più avanti, sostenendo che se non si vuole portare alla fame milioni di italiani, per di più facendoli lavorare come nuovi schiavi, non solo ci vuole il “protezionismo” (che se si trattasse solo dei “beni stranieri a basso costo”, se ne potrebbe fare a meno per non dire che potremmo produrceli a casa nostra). Si potrebbe andare più avanti sostenendo, come in effetti sosteniamo, che, sacrifici per sacrifici, la questione dirimente diventa come essi vengono distribuiti tra le classi sociali e per quale finalità occorre sopportarli. Si potrebbe così andare ancora avanti è sostenere, come in effetti noi sosteniamo, che siccome la crisi sociale ed economica diverrà più profonda, dovremmo uscire dalla zona euro e riconquistare la sovranità monetaria, la qual cosa, consentirebbe all’economia italiana di rilanciare la tanto evocata “crescita” (e come indicano alcuni paesi, senza con ciò accendere l’inflazione). Si potrebbe sostenere, come in effetti noi sosteniamo, che il debito pubblico, fatti salvi i risparmi degli italiani (sottolineiamo risparmi, non i guadagni della speculazione) che lo posseggono, va cancellato una volta per tutte. Si potrebbe infine sostenere, come in effetti noi sosteniamo, che il sistema bancario va posto sotto controllo pubblico, cioè nazionalizzato, tagliando così la testa al serpente della speculazione finanziaria che capta, ovvero estorce, quote sempre più ingenti di ricchezza nazionale (e quindi plusvalore allo stesso capitale industriale).
È economicamente “sostenibile” questa trasformazione? Sì, date certe condizioni politiche e sociali. Sì, cioè, se milioni di lavoratori salariati lo vorranno, decidendosi a prendere in mano le sorti del paese. Sì se nei prossimi anni si farà avanti una forza politica che avrà il coraggio di dire che i sacrifici, che di certo andranno fatti, andranno fatti per rifondare il paese da cima a fondo.
Una notizia buona c’è già: i lavoratori non se la fanno addosso davanti allo spauracchio del … “protezionismo”, agitato infatti, pro domo loro dal grande capitalismo, dai suoi governi, dai suoi politicanti e sindacalisti, nonché dai suoi economisti.
di Moreno Pasquinelli
Mario Deaglio, oltreché docente di economia internazionale all’università di Torino, è considerato, tra gli economisti italiani, un vero e proprio luminare. Frequenti sono i suoi interventi su organi di stampa e nelle Tv. Si distingue per i suoi giudizi sempre misurati, sembra ispirati all’idea che il giusto sta sempre … nel giusto mezzo. Ci sono tuttavia vicende che o stai di qua o stai di là, anzitutto quando è il committente che fa la voce grossa. La questione FIAT è una di queste.
Senza dirlo, ma in risposta all’Appello dei cento economisti, Deaglio sostiene che, per quanto sia giusto keynesianamente ritenere necessarie “misure di stimolo all’economia” (leggi aumento della spesa pubblica), queste sono di fatto impossibili nel nostro paese “a causa del debito pubblico troppo alto”: «Siamo più o meno costretti dalle circostanze a muoverci come ci stiamo muovendo», quindi sì alla manovra Tremonti e al “rigore”.
Poi Deaglio spiega cosa si nasconda dietro al “rigore”: «Tutto questo fa ricadere la crisi più sul lavoro che sul capitale, se vogliamo usare le vecchie categorie; c’è la fiducia, da parte dei politici che il lavoro “sopporti”. Se traduciamo in italiano il solito, ossessivo richiamo a fare le riforme, sostanzialmente esse riducono le prerogative favorevoli ai lavoratori. (…) bando alle ipocrisie: dietro al termine riforme strutturali c’è un’altra cosa; vogliamo spostare, togliere una quota di spesa pubblica che andava a vantaggio di alcune categorie sociali e quindi di peggiorare certe condizioni. C’è molta gente che ci perde, con queste “riforme”.» (Il Sole 24 Ore, 21 luglio).
Grazie della traduzione Professor Deaglio, non si stupirà se le diremo che eravamo già in molti, tra cui gli operai di Pomigliano, ad aver compreso il senso reale di pelosissime parole come “rigore” e “riforme”, che si tratta di una rapina sociale, di spostare ingenti quote di spesa pubblica (o reddito indiretto e differito) dal lavoro al capitale (compresi i quattrini che, vedrete! lo Stato offrirà a FIAT per restare a Mirafiori).
Deaglio, da buon cristiano qual è, si pone infine una domanda da un milione di dollari: «Il mio interrogativo principale non è se questa manovra sia economicamente sostenibile: lo è. Ma lo sarà politicamente e socialmente? Ho qualche dubbio. (…) Il malcontento popolare comincia a farsi sentire. Se la gente percepisce le riforme come “macelleria sociale”, come facciamo a fargli cambiare opinione?».
Una riflessione prima di venire al sodo. Come può, una determinata politica di rigore che trasferisce reddito dai salariati e dai moribondi ceti-medi al capitale, essere economicamente “sostenibile” ma non esserlo socialmente e politicamente? L’economicismo è duro a morire! Parliamoci chiaro, qui “sostenibile” sta come metafora per dire “accettabile” alle classi sociali a cui si chiede il “rigore”, ovvero l’accettazione di consegnare una quota del loro reddito al capitale. Non sarà “sostenibile” ove queste classi si rifiutassero questa cessione. E come potranno fare le classi subalterne se non ribellandosi? Ovvero ponendo fine alla pace sociale e all’obbedienza politica ai partiti e ai sindacati asserviti al capitale. Come la si rigiri, la politica sta sempre al posto di comando. Se una data politica non è fattibile politicamente e socialmente non lo è nemmeno economicamente. In parole povere: se i lavoratori e i ceti medi restassero inermi, se governo e capitale potessero fare e disfare a loro piacimento, non solo questa manovra sarebbe “sostenibile”, tutto sarebbe loro permesso.
Ma qual è il sodo? Sta nell’editoriale di Deaglio su LA STAMPA del 26 luglio, dove il Professore, che la sa lunga, dice la sua sulla vicenda Mirafiori e in particolare sul “tavolo negoziale” convocato dal ministro Sacconi.
Col solito pretesto della globalizzazione, Deaglio rivela che il ricatto di Marchionne ai lavoratori (o accettate le mie condizioni o chiudo lo stablimento), cela la vera posta in palio, «… che nell’ottica dell’economia globale, [è in discussione] il problema della sostenibilità del modello sociale europeo, specificamente nella sua variante italiana, caratterizzato da forti componenti non monetarie della retribuzione. Fino a non molto tempo fa si pensava che questo modello si sarebbe imposto al mondo… come sappiamo le cose non sono andate così.». Ovvero: è il modello dei “paesi emergenti” che si sta imponendo all’Occidente, «… si deve lavorare di più, con mansioni più flessibili, per retribuzioni pari a quelle di prima». Aggiungiamo noi: addirittura più basse.
Quindi Deaglio conclude che ci sono solo due vie per non soccombere. La prima è “la sostanziale riscrittura del modello economico-sociale europeo”, cioè la “macelleria sociale”, mitigata da un “… salario di cittadinanza, nell’ottica di ottenere e mantenere la produttività necessaria per stare sul mercato globale”.
Ma sentiamo la seconda via: «È quella del protezionismo moderno, fondato su barriere non tariffarie in grado di impedire l’ingresso di merci che competono con quelle nazionali. Il protezionismo salva i posti di lavoro minacciati ma il suo costo è molto elevato in quanto riduce o toglie dai mercati numerosissimi beni stranieri a basso prezzo».
Detta così ogni lavoratore che abbia sale in zucca, risponderebbe a Deaglio: “Evviva il protezionismo!”.
Infatti si potrebbe andare più avanti, sostenendo che se non si vuole portare alla fame milioni di italiani, per di più facendoli lavorare come nuovi schiavi, non solo ci vuole il “protezionismo” (che se si trattasse solo dei “beni stranieri a basso costo”, se ne potrebbe fare a meno per non dire che potremmo produrceli a casa nostra). Si potrebbe andare più avanti sostenendo, come in effetti sosteniamo, che, sacrifici per sacrifici, la questione dirimente diventa come essi vengono distribuiti tra le classi sociali e per quale finalità occorre sopportarli. Si potrebbe così andare ancora avanti è sostenere, come in effetti noi sosteniamo, che siccome la crisi sociale ed economica diverrà più profonda, dovremmo uscire dalla zona euro e riconquistare la sovranità monetaria, la qual cosa, consentirebbe all’economia italiana di rilanciare la tanto evocata “crescita” (e come indicano alcuni paesi, senza con ciò accendere l’inflazione). Si potrebbe sostenere, come in effetti noi sosteniamo, che il debito pubblico, fatti salvi i risparmi degli italiani (sottolineiamo risparmi, non i guadagni della speculazione) che lo posseggono, va cancellato una volta per tutte. Si potrebbe infine sostenere, come in effetti noi sosteniamo, che il sistema bancario va posto sotto controllo pubblico, cioè nazionalizzato, tagliando così la testa al serpente della speculazione finanziaria che capta, ovvero estorce, quote sempre più ingenti di ricchezza nazionale (e quindi plusvalore allo stesso capitale industriale).
È economicamente “sostenibile” questa trasformazione? Sì, date certe condizioni politiche e sociali. Sì, cioè, se milioni di lavoratori salariati lo vorranno, decidendosi a prendere in mano le sorti del paese. Sì se nei prossimi anni si farà avanti una forza politica che avrà il coraggio di dire che i sacrifici, che di certo andranno fatti, andranno fatti per rifondare il paese da cima a fondo.
Una notizia buona c’è già: i lavoratori non se la fanno addosso davanti allo spauracchio del … “protezionismo”, agitato infatti, pro domo loro dal grande capitalismo, dai suoi governi, dai suoi politicanti e sindacalisti, nonché dai suoi economisti.
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