martedì 2 agosto 2011

STORIA E SCIENZA IN MARX


Una critica alla critica
In difesa della teoria marxiana del valore

(seconda parte)

di Moreno Pasquinelli

Premessa

Presentiamo ai lettori la seconda parte della risposta allo scritto di Ennio Bilancini e Giacomo Zuccarini (Perché la teoria marxista non funziona). Data la sua lunghezza l’autore ha preferito dividerla in tre parti. La prossima entrerà direttamente nel merito della disputa, ovvero se la spiegazione marxiana della trasformazione dei valori delle merci in prezzi (e quindi del saggio medio di profitto), sia valida o se vada rigettata assieme alla più generale teoria del valore. L’autore ritiene effettivamente che la soluzione marxiana abbia sostanziali criticità, logiche e fattuali, dalle quali, tuttavia, non se ne dovrebbe dedurre, né concettualmente né empiricamente, che la teoria del valore sia da invalidare. Semmai il problema sta in come Marx volle ricavare la sua legge del valore dalla teoria generale. Di qui questa seconda parte, che segue la prima, e segnala le aporie del discorso marxiano sulla storia, sulla scienza e sulle procedure scientifiche, la cui importanza sta nel fatto che da esse derivano le incongruenze del modello teorico marxiano.


La rivoluzione copernicana di Marx
Sul materialismo storico

La concezione materialistica della storia —poiché in ciò consiste la vera scoperta teorica, la rivoluzione copernicana compiuta da Marx, la cornice entro la quale egli inscrive l’analisi e la definizione del “capitalismo”—, non gli è piombata nel cervello dall’alto dei cieli. Egli, oltre a disporre di molti semilavorati, la trovò, pur in una forma spiritualistica e conchiusa, nella concezione della storia esposta da Hegel. Il materialismo storico non è dunque il materialismo razionalistico di impronta illuministico-borghese applicato alla storia, ma una maniera di pensare il mondo del tutto nuova.

Questa concezione materialistica della storia, come ogni grande rivoluzione scientifica (nel significato dell’epistemologo Thomas S. Khun) proprio perché ha dischiuso nuovi orizzonti al sapere, non conclude affatto questo sapere. Dopo Copernico venne Galilei, e dopo di lui Newton e poi ancora Einstein e la fisica quantistica. Marx ci ha lasciato una costruzione ad architettura aperta, ai suoi successori proseguire il lavoro e risolvere le eventuali aporie.

La prima di questa aporie è che Marx, lasciatosi alla spalle il periodo anti-hegeliano della gioventù, malgrado avesse messo sull’avviso se stesso, non prese da Hegel solo il “nocciolo razionale” della sua dialettica, ma finì per utilizzare anche il suo “guscio mistico”. In cosa consiste questo “guscio mistico”? Il finalismo provvidenziale che innerva tutta la filosofia della storia di Hegel. Hegel, facendo della storia il solo luogo in cui il suo Spirito assoluto poteva specchiarsi, si lasciò alle spalle ogni realtà trascendente, storicizzando e immanentizzando la ragione, tuttavia, mentre si accomiatò dalla vecchia metafisica, si abbarbicò all’idea che la storia, in quanto governata dalla ragione procedesse, pur tra grandi contrasti, spinte e controspinte, non solo in avanti, ma verso il finale regno della libertà: «Una sola idea viene portata avanti dalla filosofia: la semplice idea che la ragione governa il mondo e che, di conseguenza, la storia universale è razionale. (…) Proprio dunque dallo studio della storia universale deve risultare che tutto si è svolto razionalmente e che essa insomma è stata la marcia razionale, necessaria dello spirito universale». [1]

Noi non crediamo che la storia proceda a disegno, che sia solo una trama che ricalchi un ordito disegnato da uno demiurgo, sia esso Spirito assoluto, Suprema ragione, Dio, o da una metafisica sostanza materiale che procede motu proprio in base a leggi intangibili che si impongono agli uomini con “bronzea necessità”. Non crediamo che esista uno Spirito burattinaio, sia esso trascendente o immanente, che per “pervenire a se stesso e contemplarsi come realtà”, muova gli uomini come fossero pupazzi. La storia è un campo di battaglia ove si affrontano forze sociali ognuna delle quali agisce in difesa di determinati interessi materiali e, quel che non è meno importante, in conformità ad uno scopo, che a sua volta esprime una visione del mondo. Lo sbocco di queste lotte, che certo è determinato dalle condizioni storico-sociali in cui esse avvengono, non è però predeterminato, già scritto. La storia è quindi una successione da un ordine sociale ad un altro, di sistemi nuovi che sorgono sulle ceneri di quelli che li hanno preceduti, ove la fase di passaggio è null’altro che un periodo di sconquassi rivoluzionari.

Per quanto Marx avesse rovesciato la dialettica hegeliana, ponendo i rapporti materiali a fondamento causale della coscienza, egli non uscì dalla cornice finalistico-provvidenziale di Hegel. Non si limitò infatti a sostenere che ogni sistema sociale è contraddittorio, che tutto nella storia è processo, movimento, trapasso da una forma ad un’altra ma indicò il socialismo come sbocco storico inevitabile (salvo interpolare di striscio l’ipotesi della barbarie). L’idea che il capitalismo fosse una prima negazione delle proprietà privata, che la classe operaia fosse negazione della prima negazione, e il socialismo come prodotto positivo, è di evidente filiazione hegeliana. Vale segnalare la chiusura del ventiquattresimo capitolo, o La cosiddetta accumulazione originaria, de Il capitale, dal quale si desume senza possibili equivoci come Marx accolga l’impianto deterministico-provvidenziale hegeliano. Il fatto che le leggi dell’evoluzione storica si impongano con “l’ineluttabilità di un processo naturale”, [2] che questo processo “storico-naturale” evolva in maniera unilineare e sempre procedendo dall’arretrato all’avanzato, fino all’idea che col capitalismo si chiuda “la preistoria della società umana, [3]in ultima istanza, equivale far rientrare dalla finestra l’hegeliano Spirito assoluto dopo averlo cacciato dalla porta.

Per di più, quasi ad anticipare il Diamat, la dialettica come scientia scientiarum, Marx accoglie di Hegel anche la tesi per cui la logica dialettica non spieghi solo l’evoluzione storica ma pure quella del mondo naturale, fisico e biologico: «Qui, come nelle scienze naturali, si rivela la validità della legge scoperta da Hegel nella sua Logica, che mutamenti puramenti quantitativi si risolvono ad un certo punto in distinzioni qualitative». [4] In altri luoghi abbiamo spiegato come “Eraclito sia da preferire ad Hegel”, come sia non solo necessario ma del tutto possibile emendare la dialettica hegeliana, liberarla dal suo costitutivo predeterminismo metafisico, dal suo panlogismo monista che riduce ed equipara la natura alla società e la società alla natura. Engels, nella sua opera Dialettica della natura, si muoverà su questo solco. Ma questa è già un’altra storia, e qui ci fermiamo.

Il materialismo storico, o immanentismo assoluto, è stato così declinato, dalle principali correnti politiche che si sono richiamate a Marx, in uno strutturalismo integrale. Dalla giusta tesi per cui i rapporti economico-sociali costituiscono le fondamenta su cui si erge ogni società, esso tare l’errata conclusione che l’umano agire storico non è che un mero riflesso effettuale di quei rapporti. Di contro a questa torsione meccanicistica, abbiamo avuto lo storicismo assoluto il quale ha finito per togliere a quei rapporti ogni statuto di causalità determinante, considerando la coscienza degli uomini il fattore causale primario dell’agire umano. Occorre uscire da questa dicotomia.

Il processo storico ci mostra, proprio in quanto movimento o divenire, che ogni processo è contraddittorio, ovvero sempre contrassegnato, non solo dall’opposizione tra forze ognuna delle quali è la negazione dell’altra, ma dalla loro unità inseparabile. La relazione oppositiva tra contrari è pur sempre una relazione vincolante, implica un principio di biunivocità. Il conflitto funge da motore del movimento, questo porta con sé la tendenza a risolversi in una diversa e nuova unità, col che non è che il conflitto stesso si acquieti, per niente, esso cambia però forma e sostanza —con buona pace per Hegel, che nel suo sistema conchiuso, aveva individuato nello Stato moderno l’enteléchia, l’annuncio della fine della storia.

Tra materia e pensiero, tra ragione e azione, tra astratto e concreto, c’è si distinzione e opposizione, ma proprio in questa opposizione, grazie al loro correlativo divenire, c’è la loro intima, indissolubile e feconda unità. Per cui è vero che l’esistenza determina la coscienza, ma solo in quanto sta concatenata al suo opposto: che la coscienza determina l’esistenza, o il principio dialettico della codeterminazione. Marx non si è mai espresso per questo principio. Ha anzi oscillato tra esso e una idea univocamente materialistica della formazione della coscienza secondo cui tutta la produzione spirituale dell’uomo, compresa la politica, sarebbero un riflesso della vita materiale, una “emanazione diretta del loro comportamento materiale”. Di conseguenza: «Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza». [5]

L’azione degli uomini certo si espleta nell’ambito di circostanze storico-naturali fattuali date, da cui essi non possono prescindere, ma quest’agire, determinato ma non predeterminato, è finalistico, orientato a raggiungere uno scopo, e questo porre uno scopo è ciò che chiamiamo coscienza. Un’azione che quindi prende necessariamente forma nella sfera del pensiero, pensiero che non è un mero riflesso delle condizioni materiali d’esistenza, ma che è il precipitato di secoli e millenni di sviluppo della ragione. Questo modellare l’esistente in base ad un’idea non-ancora-esistente, questo trasgredire o trascendere l’ordine delle cose, è proprio ciò che distingue ontologicamente l’uomo dalla natura, la quale procede sì, ma ubbidendo in modo incosciente ad un impulso vitale —essa non ha dunque idee, non pensa, e propriamente non si pone alcuno scopo.

Chiamiamiamo dialettico il pensiero che sa cogliere questo divenire causato dalla lotta tra contrari, che quindi si libera di ogni fissità astratta e rigidità concettuale per cogliere il dinamismo del reale storico. Chiamiamo scienza quel sapere che non si limita a stabilire ciò che una cosa è già, ma ciò che essa potrebbe diventare, data non solo la sua natura, ma le condizioni in cui la sua esistenza si sviluppa. Se consideriamo i fenomeni storici l’atto non è mai la forma conchiusa, conclusiva della potenza, ma sempre una potenza in atto, in divenire. E il suo punto d’approdo è sempre una possibilità, mai una destinazione predeterminata.

Aristotele, confermando la fondamentale tesi parmenidea che nessun essere può venire dal nulla, ma smentendo l’idea che il movimento sarebbe solo un’illusione, affermava giustamente che il divenire altro non era che un passaggio da un stato dell’essere ad un altro e, com’è noto, ricorse alla geniale coppia essere in potenza ed essere in atto. Dove la materia sta per la potenza, e l’atto per la forma compiuta che la materia è destinata ad assumere. Così l’uovo di struzzo è struzzo in potenza e diventerà necessariamente (ove non incorrano circostanze ostative) struzzo in atto, non potrà in alcun modo diventare gallina. E’ questo in effetti il determinismo necessitante a cui la natura ubbidisce. Non è tuttavia così che le cose funzionano quando c’è di mezzo la ragione. Non è vero, come affermava sempre Aristotele che “il legno è armadio in potenza”. Affinché il legno diventi armadio deve intervenire la prassi umana, e siccome l’armadio prima di venire alla luce si forma nella testa del falegname, è nell’idea dell’armadio che sta la potenza, la quale diventa reale, non resta inerte nella sfera del pensiero, solo in quanto, data la materia prima, l’uomo la manipola col suo lavoro. Non ha dunque senso stabilire cosa, nella storia, abbia priorità ontologica se la materia o il pensiero, se la potenza o l’atto. Direbbe Hegel che considerati a se stanti, astrattamente considerati, potenza e atto sono niente; che è la loro relazione, il loro passare l’uno nell’altro, quindi il loro divenire che davvero importa, in quanto esso è il movimento che li trasporta nell’essere. Direbbe poi Marx che se il divenire sociale abbisogna di materia e pensiero è attraverso la prassi che essi trapassano l’uno nell’altro, che la storia potrà passare dal regno della necessità a quello della libertà.


Dialettica storica e scienza economica
Le aporie del modello scientifico di Marx

Abbiamo affermato che la critica dell’economia politica di Marx, ovvero la sua teoria del capitale, poggiava su un modello teorico, a sua volta fondato su quattro proposizioni epistemologiche e metodologiche. Abbiamo poi indicato che il presupposto ontologico o paradigma che fa da piattaforma alla sua concezione materialistica della storia: l’uomo è un animale politico in quanto attraverso la prassi creatrice finalizzata ad uno scopo, quindi filtrata dalla coscienza, non cambia solo la natura ma la natura sua propria. E quindi proprio grazie alla prassi l’uomo abbatte la metafisica barriera cartesiana tra materia e pensiero, in quanto attraverso di essa il  pensiero si fa materia e la materia, ricevendo il pensiero, entrando nella storia, si spiritualizza.

Marx effettuò otto mosse teoriche, che in buona sostanza costituiscono lo scheletro di quello che è passato alla storia come “marxismo”. Val bene mostrare questa ossatura.

Per prima cosa scoprì che le classi sociali, diversamente che nei più antichi sistemi castali, cetuali o comunitari, si formano nella sfera dei rapporti di produzione e di proprietà, di cui i rapporti e le forme di distribuzione non sono che un risultato —non un riflesso meccanico tuttavia, tanto più che a loro volta i mutamenti nelle sfere dello scambio e della distribuzione si riverberano dialetticamente su quella della produzione reale.
Per seconda mostrò con straordinaria precisione le origini storiche del capitalismo, il contesto e le cause che ne permisero l’avvento e il sopravvento.
Per terza indicò le peculiarità del modo di produzione capitalistico, i fattori che lo distinguono da quelli che l’avevano preceduto, le leggi di movimento sue proprie.
Per quarta cosa ne mise in luce la natura contraddittoria, specificamente caduca del modo di produzione capitalistico, svelando non solo l’inevitabilità delle sue crisi sempre più devastanti, ma che queste sono il risultato delle sue intime contraddizioni.
Per quinta indicò a quali condizioni potesse darsi il trapasso ad un forma di organizzazione sociale superiore, che tale trapasso avrebbe assunto la forma di un processo internazionale di “rivoluzione in permanenza”.
Per sesta postulò che il socialismo era una destinazione inscritta nell’ordine delle cose e che il capitale, sviluppando al massimo grado forze produttive e socializzazione delle condizioni lavorative aveva la funzione storica di prepararne le condizioni di avvento.
Per settima identificò nella classe operaia figlia dell’industrializzazione capitalistica, non solo la principale forza antagonistica al capitale, ma la classe che per sua natura aveva la missione di trasportate l’umanità verso il socialismo.
La ottava e ultima mossa, contro-ideologica, fu di svelare la natura ingannevole mistificante del pensiero borghese, e quindi dell’economia politica, ovvero la presunzione della borghesia di essere classe universale, perciò destinata al dominio imperituro.

Pochi forse sanno che nei suoi primi studi di economia politica, Marx rigettava apertamente la teoria del valore-lavoro formulata dagli inglesi William Petty, Adam Smith e Ricardo. Egli l’accoglierà, ad un certo punto, dopo ulteriori studi, ma trasfigurandola, in una maniera che si potrà a giusto titolo parlare di teoria marxiana del valore. [6]

A questo punto occorre sottolineare, e la cosa ha una straordinaria importanza scientifica, che nel momento in cui si accinge ad elaborare la sua propria teorica economica del capitale, Marx, consapevole che ogni scienza implica un metodo, egli deliberatamente riscopre e rivaluta quello logico-dialettico hegeliano. Sentiamo cosa egli scrisse ad introduzione de Il capitale: «Perciò mi sono professato apertamente scolaro di quel grande pensatore [Hegel], e ho perfino civettato qua e la, nel capitolo sulla teoria del valore, col modo di esprimersi che gli era peculiare. La mistificazione alla quale soggiace la dialettica nelle mani di Hegel non toglie in nessun modo che egli sia stato il primo ad esporre ampiamente e consapevolmente la forme generali della dialettica stessa. In lui essa è capovolta. Bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico. (…) Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta del fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza». [7]

Sorvoliamo in questa sede sul significato del “capovolgimento”, una figura che stride con quella del nocciolo e del guscio. Per stare al metodo utilizzato nell’elaborare la sua teoria del capitale. E’ un eufemismo che egli abbia solo “civettato qua e la”, o si sia limitato ad usare il modo di esprimersi di Hegel: tutta la marxiana teoria del valore e del plusvalore poggia sul metodo logico-dialettico di Hegel. È grazie a questo metodo che Marx ha potuto dare una forma compiuta e coerente a tutto il suo complesso apparato concettuale. Girarci attorno è illusorio: se cade quel metodo che fa da basamento, cade la teoria marxiana del capitale e dunque del valore. Per noi quel metodo vale, anche se questo non esclude che dalla sua applicazione possano sorgere delle aporie. Ma su questo vedremo più avanti.

Nel momento in cui sprofondò nei suoi sistematici studi di economia politica, Marx si accorse che la teoria del valore-lavoro dei classici —che la fonte della ricchezza di cui ogni società può disporre proviene dal lavoro; in particolare: che il valore delle merci dipende dal lavoro utilizzato per produrle— è la sola che poteva effettivamente sposarsi con la sua concezione storico-materialistica. Un matrimonio che poteva celebrarsi tuttavia solo grazie alla mediazione del metodo logico-dialettico, e la cui applicazione, come vedremo, non lascia intatta quella teoria come stava, ma la trasfigura, al punto che ne sorse una teoria del valore-lavoro nuova di zecca.

Riconosciuto dunque il “grande pregio dell’economia classica”, Marx precisò come la teoria classica avesse due difetti concettuali fondamentali: il non aver saputo mostrare che è il tempo di lavoro a determinare il valore di scambio delle merci, e di aver confuso la relazione tra capitale variabile e forza-lavoro nella sfera dello scambio con “il processo di assorbimento del lavoro ad opera del capitale costante” —di non aver insomma compreso il plusvalore, che il profitto nasce nella sfera della produzione e non in quella della circolazione. [8]

Una breve parentesi. Fino a Marx si riteneva che solo le forme e i rapporti della distribuzione della ricchezza soggiacessero al mutamento, mentre quelli nella sfera della produzione erano considerati perenni, invariabili. Si riteneva insomma che le classi sociali esistessero sì, ma la loro distinzione dipendesse solo dal livello del loro reddito. Che per Marx equivaleva a scambiare le classi coi ceti o le caste, in quanto le classi si distinguono non tanto per il reddito di cui dispongono, ma per il loro rapporto col processo sociale di produzione. Non solo per Smith o Ricardo, ma successivamente anche per Walras, Jevons o Keynes, il capitale sarebbe sempre esistito poiché essi consideravano capitale non un determinato rapporto sociale, non una specifica forma di produrre e distribuire ricchezza, ma ogni mezzo o strumento per produrre beni utili all’uomo. Al limite, come segnalava Marx, per essi era capitale anche la mano dell’uomo primitivo dedito alla caccia o alla pesca: «Nessuna produzione è possibile senza uno strumento di produzione, anche se tale strumento fosse soltanto la mano. Nessuna è possibile senza lavoro passato, accumulato, anche se tale lavoro fosse soltanto la destrezza che attraverso l’esercizio ripetuto si è accumulata e concentrata nella mano del selvaggio. Il capitale è tra l’altro anche strumento di produzione, anche lavoro passato, oggettivato. Il capitale è quindi un rapporto naturale universale, eterno; ossia lo è se io trascuro proprio il fattore specifico che solo trasforma lo “strumento di produzione”, il “lavoro accumulato” in capitale».  [9]

V’era quindi un paradigma sbagliato alla base delle teorie degli economisti classici. Dal scoperta, giusta, che fosse il lavoro la vera fonte della ricchezza di una data società, e dal momento che sempre gli uomini hanno dovuto lavorare, essi ne deducevano l’idea sbagliata che lavoro e capitale fossero inseparabili, che il capitale, al pari del lavoro, fosse dunque “un elemento naturale eterno e immutabile”. E’ proprio qui che Marx, come accennato sopra, oppose il suo proprio paradigma, incastrando i fattori economici dentro la sua  concezione materialistica della storia. Dove per gli economisti, tra il modo di produzione capitalistico e quelli precedenti c’è una differenza di grado, per Marx c’è invece un salto qualitativo: «In origine il capitale si presentava come denaro che deve trasformarsi in capitale, o che è ancora capitale soltanto dynamis, in potenza. L’errore degli economisti è stato di identificare queste forme elementari di capitale —merce e denaro—, in quanto tali, con il capitale, e allo stesso modo di proclamare capitale, in quanto tali, i modi di esistere del capitale come valore d’uso, i mezzi di lavoro (…) Il lavoro è condizione naturale eterna dell’esistenza umana. Il processo lavorativo non è altro che lo stesso lavoro considerato nel momento della sua attività creatrice. Dunque, gli elementi generali del processo lavorativo sono indipendenti da qualunque sviluppo sociale dato, e sia il mezzo che la materia del lavoro, formati in parte di prodotti di lavoro precedente, recitano la loro parte in ogni processo lavorativo in tutti i tempi e in qualunque circostanza. Se, quindi, applico loro l’etichetta di capitale nella fiduciosa convinzione che “semper aliquid haeret”, ho bell’e dimostrato che l’esistenza del capitale è una legge naturale eterna della produzione umana e che il Chirghiso il quale taglia dei giunchi con un coltello rubato a un Russo per farsene una barca, è un capitalista alla stessa stregua del signor von Rothschild. Egualmente potrei dimostrare che Greci e Romani celebravano l’eucarestia perché bevevano vino e mangiavano pane, o che i Turchi si spruzzano ogni giorno di cattolica acqua benedetta perché non lasciano passar giorno senza lavarsi». [10]

Poniamoci una prima domanda: si può definire scienza l’economia politica dal momento che non sa cogliere la differenza tra diversi sistemi sociali? In ultima analisi gli economisti borghesi scambiano e confondono la società mercantile semplice col sistema capitalistico pienamente dispiegato, la potenza con l’atto, l’embrione con la forma determinata che esso ad un certo punto, e solo a determinate condizioni, assume. [11] E’ come se un entomologo non facesse distinzione tra la fisiologia del bruco e quella della farfalla, e non fosse in grado di vedere i passaggi del ciclo vitale per mezzo dei quali il bruco diventa altro da sé, cioè farfalla.

Ma allora, qual è il concetto di scienza di Marx?
Com’è noto la gran parte degli economisti ritengono che l’analisi marxista sia così tanto intrisa di filosofia che essa non abbia statuto di scienza. Per essi i “veri scienziati” analizzano i “fatti”, i fenomeni, così come sono, i quali non avrebbero alcuna “essenza”, che essi, millantando un’improbabile adesione a Kant, considerano un inconoscibile noumeno, una fumisteria metafisica. Marx, in questo, è di certo un seguace di Hegel;  non solo i fenomeni sociali hanno un’essenza, ma propriamente questi ultimi le fanno velo, la nascondono e, come Hegel, Marx ritiene che il disvelamento di quest’essenza sia perfettamente intelligibile alla ragione. Egli ritiene a ragione che proprio questo disvelamento sia il compito precipuo dello scenziato, poiché «… ogni scienza sarebbe superflua se l’essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero». [12]


In secondo luogo Marx ricava dalla tradizione filosofica il concetto di astrazione, giustamente facendo notare che esso è un procedimento fondamentale per le stesse scienze fisico-naturali o empiriche: «Per esporre le leggi dell’economia politica nella loro purezza si astrae dalle loro frizioni, così come, nella meccanica pura, si astre dai particolari attriti che, in ogni caso singolo della sua applicazione, è necessario superare». [13] Una frase significativa, poiché da essa deduciamo che Marx fa anche sua la concezione galileiana della scienza, secondo cui, dietro alla molteplicità dei fenomeni, operano leggi costanti e invarianti, di qui la necessità di enunciarle in forma logico-matematica rigorosa. Vedremo quanta importanza ha questo aspetto proprio per quanto attiene alla legge del valore, che Marx estrapola dalla teoria generale del valore-lavoro dei classici.

In terzo luogo è indispensabile segnalare come in Marx il concetto di astrazione subisca una vera e propria trasfigurazione. Marx insiste che nello studio dei fatti sociali, valga il metodo dell’astrazione determinata. Non basta, in sede di analisi, scomporre la multiforme realtà sociale, mettendo in evidenza i suoi elementi costitutivi; occorre cogliere di questi ultimi il loro carattere storico, transeunte. Col pretesto di astrarre figure antidiluviane come lavoro, merce, o valore di scambio, gli economisti giungono alla falsa conclusione che esse sono la medesima cosa a prescindere se si sia nel capitalismo, nel feudalesimo o ai tempi dei romani. Tutto lo sforzo di Marx è stato quello di dimostrare come queste figure, in un diverso contesto storico, cambiano non  solo il loro rango, ma la loro stessa forma. L’astrazione deve avere come presupposto il concreto dei rapporti sociali, poiché è il concreto determina la natura specifica di queste figure
Marx non solo afferma che questo è il “solo metodo scientificamente corretto”, insiste che queste astrazioni determinate rispondono alla realtà concreta, poiché esprimono la determinatezza dei rapporti sociali esistenti. «Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi unità del molteplice. (…) In questo senso il movimento del pensiero astratto, che dal più semplice risale al complesso, corrisponderebbe al processo storico reale». [14] Il concreto è sempre la realtà sociale, una totalità fatta di molte determinazioni e relazioni. L’astrazione determinata è l’operazione conoscitiva del pensiero che coglie queste determinazioni, le separa per vivisezionarle una a una, per poi ricomporle e tornare alla totalità del concreto sociale, che solo a questo punto apparirà nella sua effettiva storica consistenza.

In quarto luogo. Non solo la realtà è perfettamente intelligibile, la scienza è tale in quanto scopre le leggi invarianti che regolano necessariamente l’incessante mutamento della realtà medesima. Nella nota Prefazione del 1859, Marx scrisse: «Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle leggi naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo». [15] 

La storia dunque —per precisione le sue condizioni economiche, le sue strutture—, a patto di toglierli di dosso i suoi rivestimenti ideologici, può essere analizzata “con la precisione delle leggi naturali”. Siamo evidentemente in presenza di una fallace equiparazione tra natura e storia, la quale implicitamente contiene l’idea che il metodo e le procedure della scienza storica siano sostanzialmente omogenei a quelli delle scienze naturali. Marx sarà più chiaro pochi anni dopo, quando spiegò al lettore il senso delle sue scoperte: «In sé e per sé, non si tratta del grado maggiore o minore di sviluppo degli antagonismi sociali derivanti dalle leggi naturali della produzione capitalistica, ma proprio di tali leggi, di tali tendenze operanti ed effettuantisi con bronzea necessità. Il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire». [16]

Non abbiamo qui solo una concezione unilineare dell’evoluzione storica, una torsione meccanicistica della concezione materialistica della storia. Abbiamo un specie di luterano Servo arbitrio, una sottospecie materialistica del demiurgo Spirito assoluto hegeliano per cui, a causa (sufficiente) dell'evoluzione storica, ci sarebbero determinate leggi economiche che si impongono con bronzea necessità, di cui le lotte sociali e politiche non sarebbero che un mero riflesso ideologico. Nel suo tentativo di fondare una scienza materialistica della storia, è come se Marx avesse compiuto un percorso da Galilei a Hegel e ritorno. Privare la dialettica hegeliana del suo “guscio mistico” accettandone il suo “nocciolo razionale”, significava per Marx che il metodo logico-dialettico andava incorporato e sussunto dentro la tradizione scientifica positiva fondata dal Galilei e che tanti progressi aveva fatto nei secoli XVIII e XIX. Compito della scienza non era quindi soltanto, hegelianamente, disvelare l’essenza dei fenomeni, ma riconoscere le leggi che soggiacciono al loro mutamento, leggi che una volta scoperte rendono intelligibile non solo la realtà così come essa è, ma come di necessità sarà costretta a diventare. E’ questa la cornice entro la quale Marx, dalla teoria generale del valore, estrae la vera e propria legge del valore, da questa ricavando tutte le altre, tra cui quella della formazione del saggio medio di profitto e quindi quella della necessaria corrispondenza di ultima istanza tra valori delle merci e loro prezzi. Quest’aporia concettuale primigenia non poteva che riverberarsi su tutto il procedimento.

(fine della seconda parte)


Note

[1] G.V.F. Hegel, Lezioni di Filosofia della storia]
[2] K. Marx, Il Capitale, Volume III. P. 223
[3] K. Marx, Prefazione. In: Critica dell’economia politica. P. 6. Editori Riuniti 1971
[4] K. Marx, Il capitale, Volume I. p. 337
[5] K. Marx, L’Ideologia tedesca, p. 13. Editori Riuniti 1979
[6] Per il giovane Marx (feuerbachiano) non solo il valore della merce era identico al prezzo, la stessa cosa del prezzo, questo valore era determinato non dal lavoro in essa contenuto bensì dalla domanda effettiva. La teoria del valore-lavoro era considerata da Marx astratta mentre nella realtà fenomenologica contava solo la concretezza del prezzo. E’ nel 1846, ne L’ideologia tedesca, che abbiamo la prima traccia di un cambiamento d’opinione di Marx. Non è questa la sede per ripercorrere le tappe dell’evoluzione del pensiero economico di Marx: si sappia tuttavia che esso è stato faticoso, e che quando qui si parla della teoria economica di Marx ci si riferisce al Marx dell’esilio londinese, dopo il 1848. Una volta giunto a Londra Marx inizierà studi sistematici di teoria economica. Solo dopo diversi anni, esattamente nel 1857, Marx inizierà a redigere i risultati rivoluzionari dei suoi studi precedenti: i Grundrisse.
Vedi: Ernest  Mandel, La formation de la pensée économique de Karl Marx, pp. 34-45. Maspero 1967
[7] K. Marx, Il capitale, Poscritto alla seconda edizione. P. 28. Editori Riuniti 1973
[8] K. Marx, Il capitale, Libro Primo, capitolo VI inedito.  p. 41. Nuova Italia 1969
[9] K. Marx, Grundrisse, p.7-8. Einaudi, 1983
[10] K. Marx, Il capitale, Libro Primo, capitolo VI inedito.  p. 3-40. Nuova Italia 1969
[11] K. Marx, Grundrisse,  p. 261. Einaudi 1983.
[12] K. Marx, Il capitale, Libro Terzo. p. 228
[13] K. Marx, Il capitale, Libro Primo, capitolo VI inedito.  p. 46. Ibidem
[14] K. Marx, Introduzione ai Grundrisse (Il metodo dell’economia politica). pp. 24-32, Ibidem
[15] K. Marx, Prefazione a Per la Critica dell’economia politica. P.5. Editori Riuniti 1971 (corsivo nostro)
[16] K. Marx, Prefazione alla prima edizione de Il Capitale, p. 16. Ibidem (corsivo nostro)

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