[ 25 febbraio 2018 ]
Ci pare utile ripubblicare questa scheda apparsa su SOLLEVAZIONE nell'ottobre 2012.
Nella premessa scrivevamo che avendo marxisti e keynesiani un nemico comune —il neoliberismo—, e il medesimo obbiettivo —la riconquista della sovranità nazionale, politica e monetaria e l'applicazione della Costituzione del 1948— essi dovrebbero fare fronte comune. Un'unità auspicabile la quale, tuttavia, non può cancellare le profonde differenze tra le analisi e le visioni di Marx e Keynes.
In prima istanza lo Stato, per incoraggiare gli investimenti privati e creare nuova occupazione, dovrebbe seguire una politica monetaria flessibile, abbassando i tassi dell’interesse, disincentivando così la tesaurizzazione —o l’eccessivo accumulo di risparmi. In seconda battuta, ove questa decisione non fosse sufficiente, lo Stato dovrebbe adottare adeguate politiche fiscali con una imposizione progressiva, così che esso possa attuare una redistribuzione della ricchezza verso i redditi medio-bassi —che per Keynes hanno una più decisa propensione al consumo. Questa politica fiscale dovrebbe anzitutto penalizzare le rendite e la classe rentier dedita alla speculazione finanziaria parassitaria, premiando invece il capitale produttivo incoraggiandolo all’investimento. Infine Keynes proponeva che lo Stato varasse un ampio piano di lavori pubblici, da finanziare con una una politica di deficit spending, ovvero con l’emissione di prestiti (offrendo titoli di Stato ai propri cittadini) che avrebbero dovuto drenare i risparmi in eccesso (denaro tesaurizzato) e convertirli in investimenti creatori di occupazione e quindi di domanda, assorbendo dunque l’offerta in eccesso.
Questa, esposta in modo certamente schematico ma ci auguriamo obiettiva, la teoria economica di Keynes. Prima di passare al pensiero di Marx due sole considerazioni. La prima. Ognuno considererà la teoria di Keynes una “teoria di sinistra”. Ed essa infatti lo è, se consideriamo che la sinistra attuale tutta, non escluse le correnti cosiddette “antagoniste”, quando espongono le loro ricette anti-crisi, non fanno che riproporre, il più delle timidamente, le proposte dell’economista borghese inglese. Lo è se infine attribuiamo al sostantivo “sinistra” solo un generico significato descrittivo (senza nessuna qualificazione di classe si darebbe detto un tempo) ed allora tutto è “sinistra”, basta che si al di qua del limes del liberismo economico —per cui, se solo si fosse conseguenti, non solo settori illuminati di borghesia sono “di sinistra”, ma pure fascisti tutti di un pezzo o cattolici reazionari incalliti. La seconda. Occorrerà pur sfatare la leggenda che il capitalismo uscì dalla catastrofica crisi del ’29 grazie all’adozione delle terapie keynesiane. Esse in effetti vennero adottate, non solo negli USA col New Deal roosveltiano e in Gran Bretagna, ma pure nella Germania nazista e nell’Italia fascista (parli del diavolo e spuntano le corna). Ebbene la piena occupazione e la ripresa economica non ci furono né negli USA né in Gran Bretagna. Ci riuscì solo la Germania, grazie al colossale piano di spesa pubblica finalizzata al riarmo. Solo dopo la seconda grande guerra mondiale il capitalismo imboccò la via di un ciclo lungo di accumulazione e sviluppo e solo dopo le immani distruzioni di forze produttive le ricette keynesiane poterono dare dei risultati.
... e quella di Marx
Marx non nacque economista, ma filosofo della storia. Giunse a sistematici e impressionanti studi economici sul capitalismo moderno dopo la sua più importante e controversa scoperta teorica: il materialismo storico.
Il capitalismo è solo l’ultimo venuto nella processione dei diversi sistemi sociali e, come quelli che l’hanno preceduto, anch’esso è destinato a perire, lasciando il posto, dopo un periodo di convulsioni sociali, ad un sistema nuovo i cui elementi esso contiene in grembo. Occorre quindi: (1) riconoscere di ogni sistema sociale, le fasi di genesi, di sviluppo e di decadenza; (2) individuare le contraddizioni che ogni sistema sociale, nativamente, contiene, e con ciò le ragioni, se il caso le leggi, per cui un dato sistema sociale perisce; (3) identificare quindi le forze sociali rivoluzionarie che spezzano i vecchi rapporti sociali portatrici di un più avanzato sistema sociale e che sono destinate a prendere il sopravvento.
Il fatto che Marx abbia appoggiato la sua analisi del capitalismo su questa base fa dire agli economisti della cattedra che essa è priva di fondamento scientifico. Noi siamo di diversi avviso: riteniamo che l’economia politica possa assurgere al rango di scienza solo in quanto disciplina storico-economica. Marx criticò infatti gli economisti del suo tempo come ideologhi borghesi, in quanto anche loro partivano da una visione (falsa) della storia e del mondo, secondo cui il capitalismo sarebbe eterno e immutabile —la qual cosa li spingeva a compiere un’analisi normativa e superficiale che impediva di coglierne le più intime leggi di movimento del capitalismo. Questa critica marxiana, come ognuno comprende, la si può rivolgere anche a Keynes. Quest’ultimo, come detto, riconosceva alcune "contraddizioni" del modo capitalistico di produzione, ma come tutti gli economisti borghesi lo privava del suo carattere storico transuente. Di qui l’idea che le contraddizioni di cui esso è vittima fossero appianabili grazie all’intervento correttivo e terapeutico della pubblica autorità, dello Stato cioè, che egli pensava come ente neutrale e salvifico.
Marx la pensava diversamente, e non perché escludesse che in linea di principio lo Stato borghese, proprio in virtù del suo essere strumento della classe dominante nel suo insieme, non potesse svolgere un ruolo suo proprio, ovvero a difesa dell’ordinamento sistemico anche elevandosi sopra la lotta accanita tra le diverse frazioni del capitale. Egli riteneva che il modo capitalistico di produzione, di cui la borghesia è agente, soggiace ad almeno quattro leggi principali: (1) più le sue forze produttive si sviluppano e la concorrenza si fa implacabile, più i profitti sono destinati a scendere; (2) il modo di produzione capitalistico segue una traiettoria ciclica: ad ogni periodo di crescita segue uno di recessione, e quest’ultima è tanto più generale quanto più il boom è stato consistente; (3) il sistema può uscire dalla crisi generale solo in una maniera: distruggendo su ampia scala capitali e forze produttive in eccesso, con conseguenze sociali devastanti; (4) le crisi generali croniche precipitano il sistema sociale in periodi di esplosive convulsioni politiche, che possono sfociare in rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili e guerre tra stati.
Queste quattro leggi fanno capo alla essenziale tendenza del capitalismo, quella di sfociare nelle crisi di sovrapproduzione [sulle crisi di sovrapproduzione vedi: La teoria marxista spiega questa crisi? e Alle origini del declino dell’Occidente], queste possono essere parziali oppure generali, coinvolgendo tutti i comparti e cronicizzarsi.
Nella premessa scrivevamo che avendo marxisti e keynesiani un nemico comune —il neoliberismo—, e il medesimo obbiettivo —la riconquista della sovranità nazionale, politica e monetaria e l'applicazione della Costituzione del 1948— essi dovrebbero fare fronte comune. Un'unità auspicabile la quale, tuttavia, non può cancellare le profonde differenze tra le analisi e le visioni di Marx e Keynes.
* * *
KEYNES E MARX A CONFRONTO
La crisi capitalistica cause e soluzioni
di Moreno Pasquinelli
La teoria di Keynes...
La pretesa di molti scienziati è quella di considerarsi tali nella misura in cui essi pensano di spiegare i fatti così come sono, standosene alla larga dai giudizi di valore. Vogliono dirci che essi sono immuni da condizionamenti ideologici e culturali, che le loro asseverazioni sono estranee alla dispute sociali e politiche, al di sopra di ogni visione del mondo. Ovviamente non è vero, e Keynes non era tanto stolto dal pensarlo. Egli, malgrado avesse colto le "contraddizioni" profonde insite nel modo capitalistico borghese, non ha mai nascosto la sua predilezione per il sistema capitalistico, ne ha mai fatto mistero della sua avversione verso il marxismo e l’ideale socialista. Keynes si considerava anzi un medico la cui missione era appunto salvare un capitalismo affetto da malattie e "contraddizioni" congenite, per cui, se lasciato a se stesso, sarebbe anzi andato incontro alla morte. La differenza con Marx, che proponeva invece di fare leva su quelle contraddizioni per abolire il capitalismo e con esso l’economia fondata sulla merce, non può essere più evidente.
Questa differenza non attiene solo alla sfera politica dei fini: le malattie o contraddizioni congenite del capitalismo intraviste da Keynes non erano quelle individuate da Marx.
L’analisi di Keynes faceva perno su una premessa: che la devastante crisi del 1929 aveva definitivamente destituito di ogni fondamento una legge caposaldo degli economisti neoclassici, quella secondo cui (assunta la neutralità della moneta considerata solo mezzo di scambio) il mercato è sempre in grado di stabilire un equilibrio tra offerta e domanda sia di beni che di capitali. Secondo l’ortodossia liberista poi, eventuali perturbazioni momentanee, potevano dipendere solo da due fattori, o dalla mancanza di rigore monetario o dall’aumento eccessivo dei salari. Per essere ancora più precisi: per Keynes il mercato non assicurava né la piena occupazione né un’equa distribuzione della ricchezza.
Keynes non lo disse mai, lo diciamo noi, ma per superare le aporie dei neoclassici si appoggiò agli studi di Marx sul denaro, per il quale il denaro non fungeva solo da (1) parametro per misurare valori/prezzi e (2) come mezzo di circolazione: il denaro era anche (3) uno strumento di tesaurizzazione. Nei cicli di crisi economica e di attese di profitto decrescenti (crisi di sovrapproduzione, ma su questo torneremo più avanti), il denaro tende ad abbandonare la sfera della circolazione, ma non per avvizzire sotto il materasso, piuttosto per lievitare nella sfera della speculazione finanziaria.
In termini keynesiani: in un’economia capitalista di mercato non solo c’è alcuna certezza di equilibrio tra offerta e domanda di beni, non esiste alcuna garanzia che il risparmio accumulato ritorni nel mercato sotto forma d’investimenti, il che condetermina la crisi, la stagnazione, la disoccupazione e il crollo dei consumi. Ma la crisi giunge sempre dopo un periodo di boom, ovvero di crescita enorme dei redditi, la qual cosa accresce la quota di essi destinata alla risparmio (tesaurizzazione) invece che agli investimenti.
Visto che per Keynes le crisi capitalistiche sono sempre e solo crisi di sproporzione, come egli proponeva di superare lo squilibrio tra eccesso di offerta e insufficienza della domanda? Come immaginava di chiudere la forbice tra la massa di denaro accumulata che se ne sta ferma tesaurizzata e quella decrescente che si muove nel mercato dei capitali produttivi? Facendo leva su due fattori principali: sull’aumento della domanda dei beni di consumo e colpendo la tesaurizzazione (che Keynes chiama “preferenza per la liquidità”). Ma quali sono queste leve? Dal momento che il mercato non è capace da solo di trovare un equilibrio, occorre l’intervento di una forza esterna ad essi, ovvero l’autorità statuale titolare di facoltà d’indirizzo ma pure prescrittive. E dato che Keynes assume che il mercato sia diviso in quattro settori (mercato del lavoro, delle merci, dei capitali e della moneta) lo Stato, assodata la sua insindacabile sovranità politica, giuridica e monetaria, deve intervenire con azione sincronica e anticiclica in tutti e quattro.
La pretesa di molti scienziati è quella di considerarsi tali nella misura in cui essi pensano di spiegare i fatti così come sono, standosene alla larga dai giudizi di valore. Vogliono dirci che essi sono immuni da condizionamenti ideologici e culturali, che le loro asseverazioni sono estranee alla dispute sociali e politiche, al di sopra di ogni visione del mondo. Ovviamente non è vero, e Keynes non era tanto stolto dal pensarlo. Egli, malgrado avesse colto le "contraddizioni" profonde insite nel modo capitalistico borghese, non ha mai nascosto la sua predilezione per il sistema capitalistico, ne ha mai fatto mistero della sua avversione verso il marxismo e l’ideale socialista. Keynes si considerava anzi un medico la cui missione era appunto salvare un capitalismo affetto da malattie e "contraddizioni" congenite, per cui, se lasciato a se stesso, sarebbe anzi andato incontro alla morte. La differenza con Marx, che proponeva invece di fare leva su quelle contraddizioni per abolire il capitalismo e con esso l’economia fondata sulla merce, non può essere più evidente.
Questa differenza non attiene solo alla sfera politica dei fini: le malattie o contraddizioni congenite del capitalismo intraviste da Keynes non erano quelle individuate da Marx.
L’analisi di Keynes faceva perno su una premessa: che la devastante crisi del 1929 aveva definitivamente destituito di ogni fondamento una legge caposaldo degli economisti neoclassici, quella secondo cui (assunta la neutralità della moneta considerata solo mezzo di scambio) il mercato è sempre in grado di stabilire un equilibrio tra offerta e domanda sia di beni che di capitali. Secondo l’ortodossia liberista poi, eventuali perturbazioni momentanee, potevano dipendere solo da due fattori, o dalla mancanza di rigore monetario o dall’aumento eccessivo dei salari. Per essere ancora più precisi: per Keynes il mercato non assicurava né la piena occupazione né un’equa distribuzione della ricchezza.
Keynes non lo disse mai, lo diciamo noi, ma per superare le aporie dei neoclassici si appoggiò agli studi di Marx sul denaro, per il quale il denaro non fungeva solo da (1) parametro per misurare valori/prezzi e (2) come mezzo di circolazione: il denaro era anche (3) uno strumento di tesaurizzazione. Nei cicli di crisi economica e di attese di profitto decrescenti (crisi di sovrapproduzione, ma su questo torneremo più avanti), il denaro tende ad abbandonare la sfera della circolazione, ma non per avvizzire sotto il materasso, piuttosto per lievitare nella sfera della speculazione finanziaria.
In termini keynesiani: in un’economia capitalista di mercato non solo c’è alcuna certezza di equilibrio tra offerta e domanda di beni, non esiste alcuna garanzia che il risparmio accumulato ritorni nel mercato sotto forma d’investimenti, il che condetermina la crisi, la stagnazione, la disoccupazione e il crollo dei consumi. Ma la crisi giunge sempre dopo un periodo di boom, ovvero di crescita enorme dei redditi, la qual cosa accresce la quota di essi destinata alla risparmio (tesaurizzazione) invece che agli investimenti.
Visto che per Keynes le crisi capitalistiche sono sempre e solo crisi di sproporzione, come egli proponeva di superare lo squilibrio tra eccesso di offerta e insufficienza della domanda? Come immaginava di chiudere la forbice tra la massa di denaro accumulata che se ne sta ferma tesaurizzata e quella decrescente che si muove nel mercato dei capitali produttivi? Facendo leva su due fattori principali: sull’aumento della domanda dei beni di consumo e colpendo la tesaurizzazione (che Keynes chiama “preferenza per la liquidità”). Ma quali sono queste leve? Dal momento che il mercato non è capace da solo di trovare un equilibrio, occorre l’intervento di una forza esterna ad essi, ovvero l’autorità statuale titolare di facoltà d’indirizzo ma pure prescrittive. E dato che Keynes assume che il mercato sia diviso in quattro settori (mercato del lavoro, delle merci, dei capitali e della moneta) lo Stato, assodata la sua insindacabile sovranità politica, giuridica e monetaria, deve intervenire con azione sincronica e anticiclica in tutti e quattro.
In prima istanza lo Stato, per incoraggiare gli investimenti privati e creare nuova occupazione, dovrebbe seguire una politica monetaria flessibile, abbassando i tassi dell’interesse, disincentivando così la tesaurizzazione —o l’eccessivo accumulo di risparmi. In seconda battuta, ove questa decisione non fosse sufficiente, lo Stato dovrebbe adottare adeguate politiche fiscali con una imposizione progressiva, così che esso possa attuare una redistribuzione della ricchezza verso i redditi medio-bassi —che per Keynes hanno una più decisa propensione al consumo. Questa politica fiscale dovrebbe anzitutto penalizzare le rendite e la classe rentier dedita alla speculazione finanziaria parassitaria, premiando invece il capitale produttivo incoraggiandolo all’investimento. Infine Keynes proponeva che lo Stato varasse un ampio piano di lavori pubblici, da finanziare con una una politica di deficit spending, ovvero con l’emissione di prestiti (offrendo titoli di Stato ai propri cittadini) che avrebbero dovuto drenare i risparmi in eccesso (denaro tesaurizzato) e convertirli in investimenti creatori di occupazione e quindi di domanda, assorbendo dunque l’offerta in eccesso.
Questa, esposta in modo certamente schematico ma ci auguriamo obiettiva, la teoria economica di Keynes. Prima di passare al pensiero di Marx due sole considerazioni. La prima. Ognuno considererà la teoria di Keynes una “teoria di sinistra”. Ed essa infatti lo è, se consideriamo che la sinistra attuale tutta, non escluse le correnti cosiddette “antagoniste”, quando espongono le loro ricette anti-crisi, non fanno che riproporre, il più delle timidamente, le proposte dell’economista borghese inglese. Lo è se infine attribuiamo al sostantivo “sinistra” solo un generico significato descrittivo (senza nessuna qualificazione di classe si darebbe detto un tempo) ed allora tutto è “sinistra”, basta che si al di qua del limes del liberismo economico —per cui, se solo si fosse conseguenti, non solo settori illuminati di borghesia sono “di sinistra”, ma pure fascisti tutti di un pezzo o cattolici reazionari incalliti. La seconda. Occorrerà pur sfatare la leggenda che il capitalismo uscì dalla catastrofica crisi del ’29 grazie all’adozione delle terapie keynesiane. Esse in effetti vennero adottate, non solo negli USA col New Deal roosveltiano e in Gran Bretagna, ma pure nella Germania nazista e nell’Italia fascista (parli del diavolo e spuntano le corna). Ebbene la piena occupazione e la ripresa economica non ci furono né negli USA né in Gran Bretagna. Ci riuscì solo la Germania, grazie al colossale piano di spesa pubblica finalizzata al riarmo. Solo dopo la seconda grande guerra mondiale il capitalismo imboccò la via di un ciclo lungo di accumulazione e sviluppo e solo dopo le immani distruzioni di forze produttive le ricette keynesiane poterono dare dei risultati.
... e quella di Marx
Marx non nacque economista, ma filosofo della storia. Giunse a sistematici e impressionanti studi economici sul capitalismo moderno dopo la sua più importante e controversa scoperta teorica: il materialismo storico.
Il capitalismo è solo l’ultimo venuto nella processione dei diversi sistemi sociali e, come quelli che l’hanno preceduto, anch’esso è destinato a perire, lasciando il posto, dopo un periodo di convulsioni sociali, ad un sistema nuovo i cui elementi esso contiene in grembo. Occorre quindi: (1) riconoscere di ogni sistema sociale, le fasi di genesi, di sviluppo e di decadenza; (2) individuare le contraddizioni che ogni sistema sociale, nativamente, contiene, e con ciò le ragioni, se il caso le leggi, per cui un dato sistema sociale perisce; (3) identificare quindi le forze sociali rivoluzionarie che spezzano i vecchi rapporti sociali portatrici di un più avanzato sistema sociale e che sono destinate a prendere il sopravvento.
Il fatto che Marx abbia appoggiato la sua analisi del capitalismo su questa base fa dire agli economisti della cattedra che essa è priva di fondamento scientifico. Noi siamo di diversi avviso: riteniamo che l’economia politica possa assurgere al rango di scienza solo in quanto disciplina storico-economica. Marx criticò infatti gli economisti del suo tempo come ideologhi borghesi, in quanto anche loro partivano da una visione (falsa) della storia e del mondo, secondo cui il capitalismo sarebbe eterno e immutabile —la qual cosa li spingeva a compiere un’analisi normativa e superficiale che impediva di coglierne le più intime leggi di movimento del capitalismo. Questa critica marxiana, come ognuno comprende, la si può rivolgere anche a Keynes. Quest’ultimo, come detto, riconosceva alcune "contraddizioni" del modo capitalistico di produzione, ma come tutti gli economisti borghesi lo privava del suo carattere storico transuente. Di qui l’idea che le contraddizioni di cui esso è vittima fossero appianabili grazie all’intervento correttivo e terapeutico della pubblica autorità, dello Stato cioè, che egli pensava come ente neutrale e salvifico.
Marx la pensava diversamente, e non perché escludesse che in linea di principio lo Stato borghese, proprio in virtù del suo essere strumento della classe dominante nel suo insieme, non potesse svolgere un ruolo suo proprio, ovvero a difesa dell’ordinamento sistemico anche elevandosi sopra la lotta accanita tra le diverse frazioni del capitale. Egli riteneva che il modo capitalistico di produzione, di cui la borghesia è agente, soggiace ad almeno quattro leggi principali: (1) più le sue forze produttive si sviluppano e la concorrenza si fa implacabile, più i profitti sono destinati a scendere; (2) il modo di produzione capitalistico segue una traiettoria ciclica: ad ogni periodo di crescita segue uno di recessione, e quest’ultima è tanto più generale quanto più il boom è stato consistente; (3) il sistema può uscire dalla crisi generale solo in una maniera: distruggendo su ampia scala capitali e forze produttive in eccesso, con conseguenze sociali devastanti; (4) le crisi generali croniche precipitano il sistema sociale in periodi di esplosive convulsioni politiche, che possono sfociare in rivoluzioni, controrivoluzioni, guerre civili e guerre tra stati.
Queste quattro leggi fanno capo alla essenziale tendenza del capitalismo, quella di sfociare nelle crisi di sovrapproduzione [sulle crisi di sovrapproduzione vedi: La teoria marxista spiega questa crisi? e Alle origini del declino dell’Occidente], queste possono essere parziali oppure generali, coinvolgendo tutti i comparti e cronicizzarsi.
E’ proprio quando l’economia incontra queste crisi generali che immani quantità di capitali e forze produttive debbono essere necessariamente distrutte, con conseguenze sociali catastrofiche, con la società che è sospinta indietro di decenni. Tuttavia è proprio grazie a queste crisi, che attengono alla fisiologia stessa del capitalismo, che esso può far ripartire un nuovo ciclo di crescita, destinato a sua volta e sfociare in una nuova crisi. Lo Stato della borghesia può solo mitigare gli effetti catastrofici delle crisi di sovrapproduzione, differirli nel tempo, non può mai essere risolutivo. In ultima istanza lo Stato non può che adeguarsi alle fisiologiche necessità della classe economicamente dominante e quindi, dentro la crisi generale, passare allo Stato d’eccezione per scaricare i costi della crisi sul lavoro salariato soffocando la sua spinta emancipatrice, e allo Stato di guerra per strappare spazi vitali a capitalismi concorrenti.
La storia, ci pare, confermi le analisi di Marx. I suoi detrattori invece lo negano, ricorrendo all’argomento che la sua previsione di un crollo certo del capitalismo è stata invalidata. In verità da nessuna parte Marx ha sostenuto che il capitalismo fosse destinato al crollo, se intendiamo per crollo un evento, o l’esito necessitato di un meccanismo automatico che avrebbe condotto alla sua dipartita. Questo crollo, come per altri sistemi storici, avrebbe invece potuto occupare un lungo periodo storico di convulsioni. E ove la classe oppressa si rivelasse incapace di prendere in mano le redini della società, la società potrebbe sprofondare in una barbarie con l’annientamento delle due principali classi in lotta.
Non pensate che Marx volesse consigliare alla borghesia eventuali terapie per venire a capo delle sue crisi generali. Egli era un rivoluzionario non solo perché avrebbe con disprezzo rifiutato questa consulenza, lo era perché, essendo andato alla radice del problema, che le crisi cicliche generali sono il risultato necessario del modo capitalistico di produzione, propose con forza (necessità contro necessità) il dovere di oltrepassare il capitalismo e di edificare sulle sue ceneri un sistema socialista. Cosa infatti ci avrebbe detto Marx davanti a questa nuova crisi generale? Ci avrebbe detto di non indugiare a cercare soluzione parziali e palliativi; ci avrebbe detto di organizzarci ed agire per farla finita una volta per sempre col capitalismo poiché, ammesso che esso possa uscire da questa crisi, ciò avverrebbe con costi sociali inusitati, anzitutto a spese del lavoro salariato e del popolo lavoratore, con la certezza che in un periodo più o meno breve ci sarebbe trovati da capo a dodici, alle prese con un’altra crisi devastante. Ci avrebbe detto di batterci per la sola alternativa pensabile: il socialismo.
Non dobbiamo farci ingannare dalle disquisizioni sofistiche: l’idea del socialismo è di una evidente semplicità, consiste nel fatto che la comunità dovrebbe sottoporre al proprio controllo politico e razionale, al pari delle altre sfere della vita associata, quella basilare, quella economica, finalizzandola al bene comune. Perché tanta insistenza sull’aspetto economico? Per la ragione che è la sfera economica che crea i mezzi per soddisfare la gran parte bisogni primari e vitali dell’uomo, senza realizzare i quali quelli spirituali e culturali sarebbero menomati.
Per realizzare questo controllo sociale, questo è il punto, occorre sottrarre i mezzi di produzione e di scambio dal dominio proprietario della classe capitalistica, che in quanto classe pensa anzitutto a fare i suoi propri egoistici interessi, facendo diventare i mezzi di produzione e di scambio proprietà sociale.
La storia, ci pare, confermi le analisi di Marx. I suoi detrattori invece lo negano, ricorrendo all’argomento che la sua previsione di un crollo certo del capitalismo è stata invalidata. In verità da nessuna parte Marx ha sostenuto che il capitalismo fosse destinato al crollo, se intendiamo per crollo un evento, o l’esito necessitato di un meccanismo automatico che avrebbe condotto alla sua dipartita. Questo crollo, come per altri sistemi storici, avrebbe invece potuto occupare un lungo periodo storico di convulsioni. E ove la classe oppressa si rivelasse incapace di prendere in mano le redini della società, la società potrebbe sprofondare in una barbarie con l’annientamento delle due principali classi in lotta.
Non pensate che Marx volesse consigliare alla borghesia eventuali terapie per venire a capo delle sue crisi generali. Egli era un rivoluzionario non solo perché avrebbe con disprezzo rifiutato questa consulenza, lo era perché, essendo andato alla radice del problema, che le crisi cicliche generali sono il risultato necessario del modo capitalistico di produzione, propose con forza (necessità contro necessità) il dovere di oltrepassare il capitalismo e di edificare sulle sue ceneri un sistema socialista. Cosa infatti ci avrebbe detto Marx davanti a questa nuova crisi generale? Ci avrebbe detto di non indugiare a cercare soluzione parziali e palliativi; ci avrebbe detto di organizzarci ed agire per farla finita una volta per sempre col capitalismo poiché, ammesso che esso possa uscire da questa crisi, ciò avverrebbe con costi sociali inusitati, anzitutto a spese del lavoro salariato e del popolo lavoratore, con la certezza che in un periodo più o meno breve ci sarebbe trovati da capo a dodici, alle prese con un’altra crisi devastante. Ci avrebbe detto di batterci per la sola alternativa pensabile: il socialismo.
Non dobbiamo farci ingannare dalle disquisizioni sofistiche: l’idea del socialismo è di una evidente semplicità, consiste nel fatto che la comunità dovrebbe sottoporre al proprio controllo politico e razionale, al pari delle altre sfere della vita associata, quella basilare, quella economica, finalizzandola al bene comune. Perché tanta insistenza sull’aspetto economico? Per la ragione che è la sfera economica che crea i mezzi per soddisfare la gran parte bisogni primari e vitali dell’uomo, senza realizzare i quali quelli spirituali e culturali sarebbero menomati.
Per realizzare questo controllo sociale, questo è il punto, occorre sottrarre i mezzi di produzione e di scambio dal dominio proprietario della classe capitalistica, che in quanto classe pensa anzitutto a fare i suoi propri egoistici interessi, facendo diventare i mezzi di produzione e di scambio proprietà sociale.
Dunque statizzare l’economia e applicare una rigida pianificazione? Per niente. La statizzazione è solo una forma, la più verticale, di socializzazione. Tra la statizzazione verticistica, che farebbe della burocrazia statale un demiurgo autoritario, e la completa e orizzontale autogestione, possono esistere innumerevoli soluzioni mediane. E della stessa pianificazione economica, considerata con orrore dai liberisti, ne esistono svariate modalità. Lo stesso capitalismo, in barba alla “mano invisibile del mercato” conosce plurime forme di pianificazione —cos’altro è la politica economica keynesiana se non una pianificazione generale? Non solo lo Stato programma e pianifica le sue attività, e il governo “tecnico” (non a caso) di Mario Monti ne è una cristallina espressione: siccome lo Stato muove la metà circa del Pil italiano esso non solo pianifica fin nei minimi dettagli come reperire le entrare e aumentarle (ovvero come spennare scientificamente il popolo lavoratore graziando i possidenti di grandi capitali, anzitutto finanziari). Fanno altrettanto anche i grandi gruppi monopolistici, che infatti tendono a pianificare fin nei dettagli tutto il ciclo produttivo, dal reperimento delle materie prime alla commercializzazione del prodotto finito. Solo un’economia razionalmente pianificata può debellare la principale calamità che affligge il capitalismo: la sovrapproduzione, ovvero l’incalcolabile sperpero di risorse e di energie consistente nell’accumulare mezzi di produzione e beni (sotto forma di merci) che non solo si riveleranno inutili alla società e dovranno essere distrutti, ma che arrecano danni spesso irreversibili al nostro pianeta.
Che un giorno più o meno lontano possa realizzarsi un “socialismo perfetto”, questo lo decideranno le future generazioni. Questa generazione ha un compito forse più modesto ma decisivo: fare da battistrada, aprire la via al socialismo, sapendo che la rivoluzione sociale è sì una palingenesi ma non una catarsi, che la rivoluzione è pur sempre un processo, fatto di fasi e momenti. Sapendo che occorrerà passare per tappe successive, ognuna concatenata all’altra, ma il cui primo atto è necessariamente strappare, per mezzo della sollevazione del popolo lavoratore, il potere politico statale dalle mani della classe oggi dominante, ovvero dei suoi settori più oltranzisti e liberisti. Solo disponendo di questa leva sarà infatti possibile attuare le grandi e le piccole trasformazioni per una società liberata dalla catene del capitale e per una vita degna di questo nome, non solo per pochi privilegiati, ma per tutti.
Che un giorno più o meno lontano possa realizzarsi un “socialismo perfetto”, questo lo decideranno le future generazioni. Questa generazione ha un compito forse più modesto ma decisivo: fare da battistrada, aprire la via al socialismo, sapendo che la rivoluzione sociale è sì una palingenesi ma non una catarsi, che la rivoluzione è pur sempre un processo, fatto di fasi e momenti. Sapendo che occorrerà passare per tappe successive, ognuna concatenata all’altra, ma il cui primo atto è necessariamente strappare, per mezzo della sollevazione del popolo lavoratore, il potere politico statale dalle mani della classe oggi dominante, ovvero dei suoi settori più oltranzisti e liberisti. Solo disponendo di questa leva sarà infatti possibile attuare le grandi e le piccole trasformazioni per una società liberata dalla catene del capitale e per una vita degna di questo nome, non solo per pochi privilegiati, ma per tutti.
5 commenti:
Suggerisco di inserire su questo sito il controcontatore ( i miliardi regalati all’unione Europea dall’Italia)
http://ilpedante.org/post/il-controcontatore
Grazie per la esauriente divulgazione, Moreno.
A proposito di classe in/per sé e dei bisogni non materiali, non esiste solo un Principe come Gautama ma anche una lunga tradizione di mistici straccioni, infatti non solo i ricchi arrivano alla conclusione che i soldi non fanno la felicità.
Non so se oggi Marx riconoscerebbe ancora nel proletariato la classe potenzialmente rivoluzionaria, così fiaccati dal cibo spazzatura, psicofarmaci, droga, social network, video poker...
Forse oggi sono quelli della classe media che, per esempio, rispetto al proletariato americano si percepiscono meno quali milionari sfortunati.
Nella mia Sangha ho conosciuto milionari e ci sono anche figli di banchieri (anche se nel video sotto Rashid si definisce “middle class”), che condividono con me il viaggio interiore, perché nel qui e ora non ci sono classi.francesco
https://www.youtube.com/watch?v=fZRd8nlEqtA
Questo articolo è teoricamente perfetto per mostrare l'inconciliabilità, sul piano filosoficopolitico, tra keynesismo (in sostanza fazione del liberalismo statalistico) e marxismo
Sempre in ottica di limitare identitarismi che possono produrre falsa coscienza, ricorederei anche:
- che Lenin propose e implementò il "capitalismo di Stato".
- che Gramsci propose come via per il socialismo in Italia una Costituente
- che la costituzionalizzazione del keynesismo - terzo art. Cost. Capoverso - secondo i maggiori costituzionalisti e i detrattori liberali, aveva ed ha l'obiettivo di realizzare il socialismo
- che liberalismo sociale (Keynes) e marxismo (Kalecki) arrivano alle medesime conclusioni per quanto riguarda l'analisi più importante del capitalismo, ovvero quella della Struttura che fornisce la marxiana interpretazione della Storia chiamata "materialismo storico". (L'economia politica)
Il liberalismo sociale, nella sua convergenza al socialismo, può essere considerato gramsciano "spirito di scissione" della borghesia colta.
Sono rimasto molto negativamente impressionato dalle analisi di qualche giorno fa di Roberto: spero vivamente che si riesca a ritornare al metodo marxiano "ortodosso", delle origini.
E c'è necessità come dell'acqua nel deserto che l'avanguardia cosciente lo promuova semplicemente per quello che è stato ed è.
Non credo sia il metodo marxiano a doversi adattare alla realtà storica. Ma l'analisi alla concreta realtà storica deve "adattarsi" al metodo marxiano.
Se Keynes e Kalecki hanno fornito strumenti "di lotta" ai ministeri del tesoro e delle finanze di tutto il mondo, Marx ed Engels li hanno forniti direttamente ai lavoratori.
Questa convergenza morale ed intellettuale rimarrà anche dopo, fintanto che esisterà il capitalismo.
Un caro saluto.
Scusa, Moreno, non ho postato bene il link sulle "medesime conclusioni" di Keynes e kalecki.
Da cui estraggo le riflessioni della Robinson: « The question of glory did not seem to me to be important. As Michal was the first to admit, his ideas would have taken a long time to establish while with Keynes they burst upon the world as a revolution. But I was deeply impressed by the fact that two thinkers of such different background and habits of thought could arrive at the same diagnosis of the economic situation. Logic is the same for everybody; the same logical structure, if it is not fudged, can support quite different ideologies, but for most social scientists ideology leaks into the logic and corrupts it. »
Non so se emerge con chiarezza: non è un caso che (solo alcuni!) economisti keynesiani e (solo alcuni!) politici ed intellettuali marxisti si trovano gomito a gomito a cercare di portare coscienza.
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