Roma: 27 0ttobre 2012 |
di Moreno Pasquinelli
«Ora dobbiamo chiederci: ha Lenin avuto ragione?
Se sì, fino a che punto? Cosa si è realizzato e cosa no delle sue previsioni?
L’imperialismo odierno corrisponde a quello descritto da Lenin? Cos’è cambiato
da allora?
Una prima risposta potrebbe essere: Lenin colse
i tratti essenziali del modello sistemico imperialista, correttamente stabilì
che si trattava di un “nuovo stadio” rispetto al capitalismo precedente. Ciò
che si dimostrerà sbagliata è la profezia, ovvero la cornice teleologica in cui
le analisi erano inscritte.
Ci pare di potere riassumere la visione
leniniana in cinque punti essenziali
1) l’imperialismo segna il dominio del capitale
finanziario su quello industriale;
2) questa supremazia segna lo stadio finale del
capitalismo, quello della putrefazione e del parassitismo;
3) se entro la classe borghese diventa dominante
lo strato rentier, nel proletariato
si afferma lo strato dell’aristocrazia
operaia, interessata alla conservazione del sistema;
3) l’imperialismo accresce gli squilibri tra
paesi dominati e paesi soggiogati, facendo dei popoli oppressi un alleato della
rivoluzione proletaria;
4) inaugura l’era delle contraddizioni e delle
guerre interimperialistiche —che diventano una forza motrice della rivoluzione
mondiale;
5) l’imperialismo diventà così, in ultima
istanza, l’anticamera del socialismo.
Segnalo che in Lenin non c’è alcuna torsione
economicistica, per cui il crollo del capitalismo sarebbe risultato dal
cieco operare delle leggi economiche capitalistiche. Tantomeno è presente
l’idea che le forze produttive non si sarebbero più sviluppate. Egli anzi
sottolinea che queste non avrebbero cessato di crescere e, fedele al discorso
marxiano, l’epoca della rivoluzioni proletarie era causata per il Nostro proprio dall’urto
crescente tra le forze produttive e i rapporti sociali che le ingabbiavano.
Quando Lenin scolpiva le sue tesi non poteva
immaginare quanto a fondo l’imminente Rivoluzione dell’Ottobre 1917 avrebbe
sconvolto il campo della battaglia. La grande crisi finanziaria scoppiata negli
Stati Uniti nel 1929, trasformatasi in depressione globale e sfociata nel
secondo catastrofico conflitto interimperialistico, mostrando a quali
sconquassi portasse con sè il dominio del capitale finanziario, sembrava dare
ragione a Lenin su tutta la linea.
Le correnti principali del movimento comunista
radicalizzarono così il discorso leniniano e non compresero che proprio gli
esiti imprevisti della seconda guerra mondiale (l’espansione dell’ondata
rivoluzionaria, anzitutto in Cina, e il contestuale consolidamento dell’URSS come grande potenza mondiale) cambiarono
a fondo la geopolitica mondiale. A causa di questi due fattori le potenze
imperialistiche furono costrette a fare fronte comune, a coalizzarsi e a porsi tutte
sotto la tutela degli USA.
Il paradosso è che sarà la teoria di Kautsky a
dimostrarsi più corretta. Non avemmo più guerre inter-imperialistiche, ma un
consorzio imperialistico unitario (un super-imperialismo
a guida nordamericana) e la guerra sarà univoca in quanto a finalità, duplice
nella sua forma: quella a bassa intensità degli imperialisti coalizzati contro
l’URSS e quella ad alta intensità contro il vastissimo fronte delle lotte di
liberazione nazionale. Una guerra che si concluderà col crollo dell’URSS nel
biennio 1989-91.
Una domanda cruciale s’impone. Che nè è stato
della tendenza del capitalismo alla putrefazione parassitaria in questo inedito
contesto geopolitico 1945-1991 caratterizzato dall’assoluto dominio americano?
La tendenza alla finanziarizzazione è certamente
cresciuta, ma non a scapito di quello industriale. Le immani distruzioni causate
in Europa dalla guerra, le straordinarie scoperte scientifiche e tecnologiche, i
consumi di massa come forza trainante della produzione industriale, aprirono
una gigantesca fase di avanzata industriale fordista. Il capitalismo finanziario
cresceva, ma in osmosi con quello industriale.
L’inceppamento della curva dello sviluppo, la
crisi di sovrapproduzione iniziata negli anni sessanta poi diventata cronica, i
grandi conflitti sociali dei settanta, l’apogeo dell’ondata di rivoluzioni antimperialiste con la vittoria in
Vietnam; questi fattori fecero da incubatore alla fase successiva che chiamiamo
globalizzazione, caratterizzata del declino del capitale industriale nei paesi
imperialistici, e al contestuale abnorme sviluppo del capitalismo finanziario,
in forme che faranno apparire quello considerato da Lenin lillipuziane.
Clicca per ingrandire |
Le crisi degli anni 80, le bolle degli anni
novanta e 2001, anticiparono il grande collasso del 2008. Cosa ha dimostrato
questo collasso? Ha dimostrato fino a che punto il capitalismo occidentale
fosse soggiogato dalla finanza puramente predatoria.
La fenomenologia del capitalismo odierno sembra
dare ragione ad una tendenza accennata da Marx nei Grundrisse: quella, nativa di un sistema basato sul valore di
scambio, del valore di scambio medesimo “a porsi nella forma pura del denaro”,
nella vocazione a conservarsi, anzi ad accrescersi, evitando le fatiche della
produzione di merci, l’esodo dalla creazione di plusvalore. Al rischio
d’impresa è stato preferito il rischio nella sua forma più nuda, quella della
scommessa.
Il capitale sembra essere tornato bambino, alle
sue pulsione predatorie primordiali, quando la rendita e il capitale a
interesse erano la base e l’economia non era ancora fondata sul plusvalore. Dal
valore al capitale e ritorno. Il valore di scambio s’impone nella sua purezza
simbolica, nel denaro in quanto rappresentante generale di ricchezza astratta. Come scrisse Marx
nei Grundrisse: «Il valore di scambio è tempo di lavoro relativo materializzato
nei prodotti, il denaro e uguale al valore di scambio delle merci svincolato
dalla loro sostanza»
La modalità che si è venuta affermando come
soverchiante è dunque quella del capitale a porsi nella sua forma estrema di
ricchezza astratta, concretamente nella forma di capitale a interesse e a
credito. Nuove e sofisticate forme di rendita che consentono, usando le leve
finanzarie, di captare e drenare in forma indiretta plusvalore da ogni dove, da
ogni poro del sistema. Un meta-capitalismo
fondato sull’usura.
Marx lasciò incompiuto il suo progetto di
stilare una tavola sulle classi sociali. Egli sosteneva tuttavia che tre erano
le classi principali in sistema di produzione borghese: capitale, lavoro
salariato e proprietà fondiaria. Il criterio è noto: il rapporto con il
processo sociale di produzione. Proprio seguendo Marx non dovremmo a questo
punto affermare che dal seno del capitale è uscita fuori una nuova classe? Che
l’espansione quantitativa del suo strato rentier
è sfociata in un salto qualitativo?
Scriveva Marx nei Grundrisse:
«In tutte le forme di società è una produzione
determinata che assegna rango e influenza a tutte le altre, come del resto
anche i suoi rapporti assegnano rango e influenza a tutti gli altri. E’ una
luce generale in cui sono immersi tutti gli altri colori e che li modifica
nella loro particolarità. E’ un’atmosfera particolare che determina il peso
specifico di tutto ciò che da essa emerge».
Roma, 14/12/2010 |
Il sopravvento del capitale finanziario predatorio
improduttivo significa appunto un mutamento della gerarchia interna e
composizione del capitale, un diverso rango sistemico. Ne risentono sia la composizione e struttura sociale (con la crescita dei settori improduttivi del lavoro), che le sovrastrutture statuali, politiche e giuridiche.
Il dominio conchiuso di questa nuova classe
di rentier, di speculatori, di
giocatori d’azzardo, è il sintomo più infallibile del declino dell’occidente
imperialistico. E’ questo declino ineluttabile? No non lo è. Nel ventre di questo capitalismo
decadente si agitano e continuano a scalpitare forze vive che tentano di
svincolarsi dal cappio che le stringe. C’è insomma una contraddizione nel seno
stesso del capitale, una contraddizione che per ora è solo “secondaria” ma che
potrebbe diventare, se le forze rivoluzionarie non entrano in scena, quella
“principale”.
L’avvento della Cina, India, Brasile, come nuove
potenze capitalistiche, imperialistiche incipienti aggiungo, visto che, è il
caso della Cina, non esportano solo merci ma anche capitale, apre una partita
storica nuova che potrebbe riportare il mondo, dopo la fase del superimperialismo, a quella della conflittualità
interimperialistica.
In che senso questa nuova rivalità inciderà
sull’Occidente? Saprà spurgarsi delle sue pulsioni patologiche parassitarie? Ce
la farà? Difficile dirlo oggi. Io ritengo di no, che il processo sia ormai
andato troppo avanti da essere irreversibile —salvo una nuova guerra mondiale,
che in effetti alcuni analisti vedono non solo come uno sbocco inevitabile, ma
necessario, sia per far risorgere un capitalismo “sano” che per conservare
all’Occidente un predominio oramai traballante.
Che fare?
Nel Campo Antimperialista abbiamo da anni una
discussione, che si può riassumere in queste domande: la Cina è destinata a
diventare una nuova e forse la prima potenza imperialistica? Posta
astrattamente la questione la risposta, non meno astratta è sì, lo diventerà.
La Cina è già oggi una potenza capitalista che esporta capitali in mezzo mondo,
nonché la prima creditrice degli USA. Non abbiamo in Cina solo la “fabbrica del
mondo, abbiamo, attraverso le grandi banche, un protagonista del capitalismo-casinò. Se ben si osserva la
dinamica della penetrazione cinese nell’economia mondo, non è difficile vedere
che essa segue le consuete e medesime modalità degli imperialismi tradizionali:
anzitutto investimenti di capitale per drenare plusvalore dalle periferie al
Celeste Impero.
Il problema tuttavia, come dicevo, è posto
astrattamente. Concretamente la questione diventa: permetteranno gli Stati
Uniti non solo il sorpasso cinese, ma di diventare una preda? Accetteranno gli
USA, che restano ancora oggi, pur in crisi, la prima potenza finanziaria,
industriale, agricola, scientifica e militare, di precipitare al rango di media
potenza? Ovvero accetteranno supinamente il loro declino?
Ecco, io ritengo che no, che gli USA non lo
accetteranno, di qui la tendenza oggettiva ad un redde rationem, che tutto rimetterebbe in discussione e che, come
altre volte è accaduto nella storia, appenderà l’economia e le sorti del
mondo all’esito bellico.
C’è chi esclude questa ipotesi. La esclude in
base ad un ragionamento per niente peregrino. Essendo capitale a interesse, credito e
rendite finanziarie le forme principali del capitalismo occidentale, la nuova
classe di speculatori non è interessata alla guerra, non ha più bisogno come
retroterra del potente Stato-nazione a stelle e strisce. Siamo infatti
nell’impero, nei tempo di una borghesia transnazionale che non fa affari grazie
agli stati-nazione, ma malgrado essi. Sembrerebbe così che per i pescecani di
Wall Street o della City sia indifferente che il gendarme mondiale del capitalismo-casinò resti americano o
diventi quello cinese. Questa tesi sembra avvalorata dalla maniera liquida come si muove il gruppo dirigente cinese.
Roma: 15/10/2011 |
Il difetto di questa narrazione è che tradisce
un impianto economicistico e, oserei dire, deterministico, per cui l’economia è
tutto, il resto si adegua. A ben guardare cosa accade sia negli USA che in
Europa le cose non stanno a questa maniera. La crisi oramai diventata
depressione, la rinascita di pulsioni profonde scioviniste e protezionistiche,
il dilagare di movimenti politici e sociali xenofobi, anzitutto nei paesi più
finanziarizzati, mostrano che stanno sorgendo forze le quali, proprio in nome
della salvezza dell’Occidente e della sua supremazia, condannano la classe
predatoria per sua natura cosmopolitica, mettono sotto accusa il capitalismo-casinò, e si scagliano
contro i governi proprio per la loro sudditanza, vogliono salvaguardare gli
interessi nazionali contrastando il drago cinese. Lo spauracchio dell’islam, mai veramente deposto, lascia spazio a quello dei musi gialli.
Questa tendenza revanchista e proto-imperialistica
è per adesso in fasce, ma si può star certi che se la crisi economica si
avviterà su stessa e se il ceto medio, che rappresentava il bastione delle
democrazie imperialistiche, continuerà a subire la pauperizzazione, essa farà
presto a diventare egemone e a mutare da cima a fondo il panorama politico
occidentale, causando formidabili sconquassi politici. L’Occidente sta già
passando, dalla fibrillazione interna, ad una fase di inediti sconvolgimenti.
Molto si gioca in Europa: la disgregazione dell’Unione e le insolubili aporie
della moneta unica potrebbero preludere ad una rinascita delle pulsioni
nazionali.
Avremo la fascistizzazione delle masse? Si e no.
L’analogia con l’avvento del fascismo negli anni venti, va certamente
utilizzata, ma cum grano salis. A
nessuno è dato sapere in anticipo, con precisione scientifica, il corso degli
eventi. Di certo la società subirà, assieme all’acutizzazione del conflitti, un
radicale processo di polarizzazione sociale e politica, non è nemmeno esclusa,
all’orizzonte, una guerra civile strisciante.
Allora l’economcismo andrà a farsi friggere,
come sempre del resto. Lo sconquasso interno farà emergere la tendenza a
scaricare all’esterno le tensioni, riporterà più in auge che mai i tropo presto
seppelliti stati-nazione, e certo metterà in un angolo quei settori oggi
dominanti di borghesia rentier, che
attualmente sguazzano nell’acquitrinio della speculazione globale e
transanazionale.
Di qui, per i rivoluzionari, il problema della
fuoriuscita. Essa non può consistere nella pura e semplice riproposizione della
rivoluzione socialista e della dittatura proletaria. Fermo restando l’orizzonte
socialista, dobbiamo chiederci attraverso quali passaggi qui in Occidente e in
Italia in modo particolare, dovremo passare necessariamente. La risposta è
urgente, ma non l’avremo se non considereremo oramai assodati due concetti: la
classe operaia industriale si è dimostrata incapace di guidare il processo di
distruzione del capitalismo; essa non incorpora nessuna essenza o provvidenaizle missione socialista.
Di qui lo sconforto di tanti rivoluzionari per i
quali, senza la fede in questo soggetto salvifico, svanirebbe ogni speranza di
trasformazione e vedono solo un futuro a tinte fosche. Io ritengo che le spinte
sociali antagoniste e anticapitaliste nel prossimo futuro cresceranno, che
coinvolgeranno strati sociali sempre più ampi. Quali? Ma quelli che il declino
del capitalismo occidentale getterà nell’indigenza e nella povertà. Vi sembrerà
banale, o la scoperta dell’uovo di
Colombo: la rivoluzione la fanno solo quelli che stanno in basso, i poveri
e gli oppressi, quale che sia il ruolo che occupano nel processo sociale di produzione o, forse, la faranno proprio grazie al
fatto che un ruolo determinato, che non sia la precarietà infinita, gli è
pregiudicato. La faranno quando, come sosteneva Lenin, «non potranno più vivere
come prima, mentre quelli che stanno in alto non potranno più governare come
prima».
Roma 15/10/2011 |
Allora l’elemento decisivo, a proposito della
ormai stucchevole diatriba sul “soggetto” è che, quale che sia la specifica
composizione di classe che questa decadenza ci consegnerà, noi dobbiamo concentrarci
a costruire il soggetto politico, una forza politica di massa che entri in
campo, non solo per contrastare le forze oscurantiste, proto-imperialistiche, revanchiste, ma che osi candidarsi alla
conquista del potere.
Malgrado la debacle
di una sinistra corrotta e decotta, esiste un deposito di energie rivoluzionarie enormi annidato nella nostra società. Non ci sono dubbi che
esso, prima o poi, manifesterà la sua potenza sovversiva. Un fatto o alcuni
eventi traumatici, sono senza
dubbio necessari per strappare le masse dal loro torpore, affinché le energie
nascoste vengano alla luce. Qui in Europa potrebbe essere la disgregazione dell’Unione,
la crisi dell’euro, e quindi lo schianto del “sogno europeista”, a gettare
benzina sul fuoco. Fino a quel momento i rivoluzionari non potranno giocare
alcun ruolo determinante, saranno minoritari.
Ma questa attesa non può essere vissuta come una
condanna, né usata per giustificare attendismo o fatalismo. Un nuovo soggetto politico
non sorge di punto in bianco, ma dopo una lunga e adeguata preparazione. Siamo
appunto in questa fase, nella fase della preparazione, che è un compito
programmatico e al contempo organizzativo. Senza un programma non nasce alcuna
organizzazione, e nessun programma discende dall’alto, non è come lo Spirito santo, come non sorge quasi per
germinazione, dal basso o dalle lotte sociali. Sorge piuttosto dallo sforzo
collettivo di quelli che Gramsci chiamava i “capitani”, gli “intellettuali
organici”, le migliori menti del fronte anticapitalista, che certo non se ne
debbono stare chiuse in una turris
eburnea, ma partecipare da protagonisti nell’agone delle lotte sociali».
4 commenti:
Anonimo Geremia:
Il dott. Pasquinelli si dimostra come sempre un analista acuto e razionale: le argomentazioni si succedono coerenti come in un teorema matematico. Perciò questo scritto é da meditare. A caldo mi viene da dire che l'attuale fase dell'azione capitalistica presenta qualche analogia con le fasi storiche del passato in quanto ha con quelle il comune denominatore dell'usura. Il capitalismo antico, con l'usura non sfruttava un plusvalore generato dal lavoro come avviene, secondo la teoria classica, nell'era industriale ma i "beni" di chi veniva costretto a cederli causa i debiti che non poteva sanare in altro modo. L'azione "predatoria" del capitale oggi prende di mira, non al plusvalore in corso, ma le riserve (da condiderarsi spesso come giacimenti fossili o cristallizzati di plusvalore) costituitesi nei secoli con il plusvalore accumulato in centinaia e centinaia di anni di lavoro a suo tempo "scremato" dalle classi più o meno dominanti in sistemi politico-sociali che comunemente si chiamano stati. Così la "guerra" finanziaria in corso si propone obiettivi di enorme profitto facendo sì che gli stati, al fine di sanare i loro obblighi (debiti) derivanti dall'usura a cui sono stati piegati con ogni mezzo, anche il più "perverso" (guerre, speculazioni, manovre politiche di tutti i generi ecc.), siano costretti a "cedere bona" come capitava nel Medioevo. E i "bona" oggi sono tutte le risorse di un territorio sia naturali (acqua, spiagge, isole, miniere, concessioni estrattive, aziende, giacenze d'oro e quat'altro) sia di derivazione culturale (società produttive compresa la forza lavoro ridotta a prestazioni in condizioni sempre più animalesche, fabbricati di valore, opere d'arte ecc) come realmente avviene e sta per avvenire negli stati della zona euro ridotti ad ostaggi incatenati ai loro obblighi debitori Per concludere: i beni in cambio dei debiti, come sempre..
Complimenti. Entrambi i testi sono eccezionali!!
Sarebbe da sviluppare il discorso della soggettitività rivoluzionaria in un paese come l'Italia, imperialista in crisi strutturale e di declino. va bene che nessuna classe ha di per sé una funzione provvidenziale, ma si deve stabilire chi, per necessità obiettive, è obbligato ad aprire la strada al superamento del capitalismo.
Gli sfruttati, coloro che non hanno altro da vendere che la loro forza-lavoro, e più in generale, i subalterni di questa società e chi altri se no?. Anche il disoccupato fa parte dei Lavoratori, esso fa parte dell'esercito industriale di riserva.
Pasquinelli sbaglia quando scrive che: "la classe operaia industriale si è dimostrata incapace di guidare il processo di distruzione del capitalismo; essa non incorpora nessuna essenza o provvidenziale missione socialista".
A tal punto voglio ricordare questo brano di Marx: "Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che dall’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione (Il Capitale, libro primo)".
Di cosa parla quì Marx? semplice, che il Capitale, possiede una sua forza ideologica, che ammanta e ammalia, sia coloro che si presentano come capitale a un polo (capitalisti) sia coloro che si presentano all'altro polo come venditori della propria forza-lavoro, alias i salariati tutti.
E questo per tacere dei sistemi di persuasione occulta che sono i massmedia, rigorosamente gestiti dalla classe dominatrice.
Cordialità.
Lavoratore...Luigi
Posta un commento