Cosa sono i beni comuni? Come amministrarli?
La questione dei Beni comuni si va oramai imponendo come centrale, soprattutto con la crisi, che spinge il capitale, assetato di profitto, ad invadere ogni spazio sociale e a privatizzare ogni cosa. Tuttavia la questione è controversa. Per i sostenitori radicali del common (vedi la corrente di Toni Negri) o del "benicomunismo" (Piero Bernocchi) non solo la privatizzazione ma pure ogni forma statalizzazione o di pubblicizzazione è da rigettare.
«Negli ultimi trent’anni si è andato consolidando nel settore degli studi giuridici il primato del common law sulle teorie continentali di civil law. Tale primato si è basato soprattutto sull’applicazione, pressoché generalizzata a tutti i settori del diritto, del metodo proprio dell’analisi economica, il cui testo fondamentale rimane ancora oggi quello di Richard Posner pubblicato per la prima volta nel 1972. [1]
Con la recente e generalizzata scoperta – o meglio riscoperta – dei cosiddetti «beni comuni», considerati come risorse di uso collettivo sulla scorta degli studi del premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom, sembra che le teorie giuridiche improntate al metodo dell’analisi economica siano destinate a trovare applicazione anche relativamente al regime giuridico dei «beni pubblici», cioè dei beni caratterizzati dalla non rivalità (l’uso da parte di un soggetto non impedisce l’uso da parte di altri) e dalla non escludibilità (ognuno ha diritto di accesso all’utilizzo del bene).
Finora tali caratteristiche, per questo tipo di beni, avevano richiesto l’applicazione del regime giuridico della proprietà pubblica che, attraverso gli istituti del demanio e del patrimonio indisponibile, li aveva tenuti fuori dal contesto del mercato attribuendo ad essi l’ulteriore caratteristica della «non commerciabilità», che richiama immediatamente alla memoria l’antica categoria romanistica delle res extra commercium.
In questo modo l’aria, l’acqua, il mare, i ghiacciai, tutti i beni offerti in abbondanza dalla natura, e anche beni, materiali e immateriali, creati dall’attività dell’uomo come le strade, le ferrovie, il patrimonio storico, artistico e archeologico, la conoscenza, l’illuminazione pubblica, l’amministrazione della giustizia erano stati offerti all’utilizzo di tutti ponendo a carico della fiscalità generale le spese necessarie alla loro produzione, tutela e valorizzazione.
La crisi finanziaria mondiale e le conseguenti tensioni sui bilanci degli Stati nazionali, finiscono per mettere in dubbio l’efficiente allocazione dei beni dotati delle caratteristiche sopra descritte all’interno della proprietà pubblica e suscitano sempre maggiori pressioni dirette alla loro inclusione nel novero delle risorse quantificabili in termini economici. [5] In altre parole, l’effetto della crisi dei debiti sovrani induce a indicare nelle poste dei bilanci statali anche il valore di quei beni che, essendo esclusi dalla commerciabilità, sono privi di un effettivo valore di scambio.
A ben riflettere, dunque, l’inclusione dei beni pubblici all’interno del circuito economico è un ulteriore aspetto della tendenza a ritenere i contenuti economici dei regimi proprietari come dominanti rispetto a quelli considerati dalle altre scienze sociali.
Così, applicando i principi dell’analisi economica del diritto ai beni pubblici, si arriva ad affermare che «la proprietà pubblica di un bene privato è tipicamente il risultato di una sua scorretta allocazione, intendendo con ciò che il bene viene usato o consumato da qualcuno diverso da colui che lo valuta di più». [6]
In sintesi, l’inefficienza generalizzata nell’utilizzo economico dei beni pubblici – molto spesso effettiva, talvolta soltanto presunta – in un paese come l’Italia, dotato fra l’altro di un inestimabile patrimonio culturale, diventa la leva per introdurre l’applicazione di regimi proprietari diversi da quello della proprietà pubblica – e ciò in funzione del recupero della possibilità di una loro valorizzazione finalizzata a una riconsiderazione in termini di risorse collettive.
Se, da un lato, c’è chi propone l’utilizzazione per i beni pubblici trasformati in «beni comuni», l’utilizzo di regimi giuridici a vocazione pubblicistica diversi dalla proprietà statale, considerata altrettanto perniciosa di quella privata imprenditoriale per il corretto uso delle risorse, [7] dall’altro c’è chi, a proposito dei «beni comuni», propone una loro «proprietizzazione senza privatizzazione» attraverso l’uso, per la loro gestione, dell’istituto del trust, una forma di amministrazione fiduciaria diretta alla conservazione, tutela e valorizzazione diversa dalla proprietà pubblica.
Il trust, secondo Peter Barnes, ha la capacità di preservare la risorsa e di utilizzarla al meglio conservandola per le generazioni future. La caratteristica fondamentale del trust è data dal rapporto di natura fiduciaria e non politica – come avviene per la proprietà pubblica – con gli amministratori dei beni comuni, che porta a un’equa e paritaria distribuzione delle diverse utilità prodotte dalla risorsa comune. [8] Il trust appare insomma come una terza via fra proprietà pubblica e proprietà privata: un regime proprietario e di gestione più adatto alla conservazione e alla valorizzazione delle risorse collettive.
L’attuale dibattito intorno ai «beni comuni» è però caratterizzato anche da profili e suggestioni di natura filosofica molto spesso legati al modo di affrontare il tema spinoso della proprietà, di nuovo al centro dell’attenzione dopo che la caduta del muro di Berlino e il ritorno della proprietà privata nelle repubbliche dell’ex Unione Sovietica hanno riaperto il dibattito intorno alle caratteristiche dei regimi proprietari e al ruolo da essi svolto nella corretta allocazione delle risorse.
Le nuove teorie intorno al tema del «comune», tendono a descriverlo come comprendente non solo i beni comuni tradizionali come l’acqua, l’aria, i frutti della terra, ma «tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via». [9] Secondo queste teorie, la «valorizzazione economica è possibile solo sulla base dell’appropriazione sociale dei beni comuni», mentre «la riproduzione del mondo della vita e dell’ambiente fisico è possibile solo a condizione che le tecnologie siano sotto il diretto controllo del progetto di costituzione del comune»; e «la razionalità opera come strumento della libertà comune della moltitudine, come un dispositivo per l’istituzione del comune». [10] Questa visione dinamica del comune fornisce numerosi elementi di riflessione al dibattito relativo alla possibilità di applicare un nuovo regime proprietario specifico per i beni comuni.
Così tra i giuristi c’è chi ritiene di poter descrivere il comune come «un altro genere, radicalmente antagonista rispetto alla declinazione esaustiva del rapporto pubblico/privato o Stato/mercato. Il comune, infatti, rifiuta la concentrazione del potere a favore della sua diffusione». [11]
Nell’ampio dibattito che si va svolgendo intorno al tema dei beni comuni sia per coloro che sostengono la necessità di una forma istituzionale minima per l’uso di una risorsa non individuale, sia per coloro che sostengono l’assoluta imprevedibilità degli esiti dei processi in corso, sarebbe opportuno tenere in massimo conto le conclusioni cui è arrivata Elinor Ostrom nel corso delle sue approfondite e pluridecennali ricerche. Tali conclusioni portano alla luce le «analogie tra istituzioni autogovernate e durature nell’uso di risorse collettive» riscontrate nei vari luoghi del mondo dove si sono sviluppate esperienze di gestione di risorse collettive: 1. chiara definizione dei confini; 2. congruenza tra le regole di appropriazione, fornitura e le condizioni locali; 3. metodi di decisione collettiva; 4. controllo sulle condizioni d’uso della risorsa; 5. sanzioni progressive; 6. meccanismi di risoluzione dei conflitti; 7. un minimo livello di riconoscimento dei diritti di organizzarsi; 8. organizzazione articolate su più livelli (per i soli sistemi di gestione di risorse collettive che fanno parte di sistemi più grandi). [12]
Probabilmente i tempi sono maturi perché si proceda a una distinzione tra i beni comuni materiali tradizionali, quelli offerti dalla natura, in cui sembra ormai configurarsi un generalizzato e irrimediabile regime di scarsità, e beni comuni – materiali o immateriali – creati attraverso l’attività dell’uomo in cui è del tutto assente il parametro della scarsità per i quali potrebbe essere possibile ipotizzare nuove forme di interazione sociale che escludano qualsiasi forma di regime disciplinare.
Di fatto, le regole evidenziate da Elinor Ostrom, sia che rispondano a eccessive preoccupazioni di istituzionalizzazione diretta a creare stabilità nel medio/lungo periodo, sia che prefigurino regimi disciplinari giudicati ormai insopportabili, hanno consentito nel corso della storia il corretto utilizzo delle risorse e il loro trasferimento alle generazioni successive».
[1] R.A. Posner, Economic Analysis of Law, New York, Wolters Kluwer Law, 2007 (VII ed.).
[2] Cfr. G. Napolitano-M. Abbrescia, Analisi economica del diritto pubblico, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 22. Riporto qui di seguito la esposizione del teorema di Coase di Napolitano e Abbrescia: «laddove i costi di scambio sul mercato siano pari a zero, l’assegnazione iniziale dei diritti di proprietà e di uso è irrilevante dal punto di vista dell’efficienza perché, ove tale assegnazione iniziale risulti inefficiente, le parti la modificheranno concludendo un accordo correttivo» (p. 24).
[3] G. Minda, Teorie postmoderne del diritto, Bologna, Il Mulino, 2001 [ed. or. Postmodern Legal Movements. Law and Jurisprudence at Century’s End, New York and London, New York University Press, 1995], p. 141.
[4] A. Supiot, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del diritto, Milano, Bruno Mondadori, 2006, p. 110.
[5] Per quanto attiene ai beni artistici, storici e archeologici un primo tassello nella direzione di un’efficiente utilizzazione è stato posto con la distinzione tra tutela e valorizzazione entrata nella legislazione italiana alla metà degli anni Novanta e che cominciava a porre le basi per l’ingresso dei privati. Come denunciato da Salvatore Settis nel 2002, il patrimonio culturale «diventava insensibilmente, senza che nessuno lo avesse progettato, un corpo morto […] da affidare alla sapienza imprenditoriale dei privati o magari da utilizzare al ministero dell’Economia, all’occorrenza vendendo come generatore di introiti» (Italia s.p.a. l’assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2002, p. 83).
[6] R. Cooter-U. Mattei-P.G. Monateri-R. Pardolesi-T. Ulen, Il mercato delle regole. Analisi economica del diritto civile, vol. I,Fondamenti, Bologna, Il Mulino, 2006 (I ed. 1999), p. 121.
[7] Cfr. U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011.
[8] Cfr. P. Barnes, Capitalismo 3.0. Il pianeta patrimonio di tutti, Egea, Milano, 2007.
[9] M. Hardt-A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Mondadori, Milano, 2010, p. 8.
[10] Ivi, p. 131.
[11] U. Mattei, Beni comuni, cit., p. 81.
[12] E. Ostrom, Governare i beni collettivi, a cura di G. Vetritto e F. Velo, Venezia, Marsilio, 2006, Tabella 3.1., p. 134 s.
Il movimento di studi che ha avuto origine dagli studi di Posner, denominato Law and Economics, ha operato in direzione dell’applicazione generalizzata del cosiddetto teorema di Coase, basato sulla nozione di costi di transazione, sia al diritto privato sia al diritto pubblico che si occupa di comportamenti dettati da principi di equità e redistribuzione del reddito tradizionalmente lontani dai criteri di mercato. [2]
Alla metà degli anni Novanta Gary Minda aveva rilevato come, con la fine della certezza del diritto, molti giuristi avevano guardato ad altri settori scientifici per recuperare la certezza perduta, identificando proprio nell’economia «il candidato più promettente ad offrire soluzioni corrette ai problemi giuridici». [3] Mentre nel vecchio continente il giurista Alain Supiot aveva stigmatizzato il successo dell’analisi economica nel diritto sostenendo che «Il movimento Law and Economics è sul punto di convertire i giuristi a un’idea di cui Marx non era stato in grado di convincerli: la necessità di far poggiare il Diritto sulle sue “vere” basi, vale a dire quelle economiche». [4]
Alla metà degli anni Novanta Gary Minda aveva rilevato come, con la fine della certezza del diritto, molti giuristi avevano guardato ad altri settori scientifici per recuperare la certezza perduta, identificando proprio nell’economia «il candidato più promettente ad offrire soluzioni corrette ai problemi giuridici». [3] Mentre nel vecchio continente il giurista Alain Supiot aveva stigmatizzato il successo dell’analisi economica nel diritto sostenendo che «Il movimento Law and Economics è sul punto di convertire i giuristi a un’idea di cui Marx non era stato in grado di convincerli: la necessità di far poggiare il Diritto sulle sue “vere” basi, vale a dire quelle economiche». [4]
Con la recente e generalizzata scoperta – o meglio riscoperta – dei cosiddetti «beni comuni», considerati come risorse di uso collettivo sulla scorta degli studi del premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom, sembra che le teorie giuridiche improntate al metodo dell’analisi economica siano destinate a trovare applicazione anche relativamente al regime giuridico dei «beni pubblici», cioè dei beni caratterizzati dalla non rivalità (l’uso da parte di un soggetto non impedisce l’uso da parte di altri) e dalla non escludibilità (ognuno ha diritto di accesso all’utilizzo del bene).
Finora tali caratteristiche, per questo tipo di beni, avevano richiesto l’applicazione del regime giuridico della proprietà pubblica che, attraverso gli istituti del demanio e del patrimonio indisponibile, li aveva tenuti fuori dal contesto del mercato attribuendo ad essi l’ulteriore caratteristica della «non commerciabilità», che richiama immediatamente alla memoria l’antica categoria romanistica delle res extra commercium.
In questo modo l’aria, l’acqua, il mare, i ghiacciai, tutti i beni offerti in abbondanza dalla natura, e anche beni, materiali e immateriali, creati dall’attività dell’uomo come le strade, le ferrovie, il patrimonio storico, artistico e archeologico, la conoscenza, l’illuminazione pubblica, l’amministrazione della giustizia erano stati offerti all’utilizzo di tutti ponendo a carico della fiscalità generale le spese necessarie alla loro produzione, tutela e valorizzazione.
La crisi finanziaria mondiale e le conseguenti tensioni sui bilanci degli Stati nazionali, finiscono per mettere in dubbio l’efficiente allocazione dei beni dotati delle caratteristiche sopra descritte all’interno della proprietà pubblica e suscitano sempre maggiori pressioni dirette alla loro inclusione nel novero delle risorse quantificabili in termini economici. [5] In altre parole, l’effetto della crisi dei debiti sovrani induce a indicare nelle poste dei bilanci statali anche il valore di quei beni che, essendo esclusi dalla commerciabilità, sono privi di un effettivo valore di scambio.
A ben riflettere, dunque, l’inclusione dei beni pubblici all’interno del circuito economico è un ulteriore aspetto della tendenza a ritenere i contenuti economici dei regimi proprietari come dominanti rispetto a quelli considerati dalle altre scienze sociali.
Così, applicando i principi dell’analisi economica del diritto ai beni pubblici, si arriva ad affermare che «la proprietà pubblica di un bene privato è tipicamente il risultato di una sua scorretta allocazione, intendendo con ciò che il bene viene usato o consumato da qualcuno diverso da colui che lo valuta di più». [6]
In sintesi, l’inefficienza generalizzata nell’utilizzo economico dei beni pubblici – molto spesso effettiva, talvolta soltanto presunta – in un paese come l’Italia, dotato fra l’altro di un inestimabile patrimonio culturale, diventa la leva per introdurre l’applicazione di regimi proprietari diversi da quello della proprietà pubblica – e ciò in funzione del recupero della possibilità di una loro valorizzazione finalizzata a una riconsiderazione in termini di risorse collettive.
Se, da un lato, c’è chi propone l’utilizzazione per i beni pubblici trasformati in «beni comuni», l’utilizzo di regimi giuridici a vocazione pubblicistica diversi dalla proprietà statale, considerata altrettanto perniciosa di quella privata imprenditoriale per il corretto uso delle risorse, [7] dall’altro c’è chi, a proposito dei «beni comuni», propone una loro «proprietizzazione senza privatizzazione» attraverso l’uso, per la loro gestione, dell’istituto del trust, una forma di amministrazione fiduciaria diretta alla conservazione, tutela e valorizzazione diversa dalla proprietà pubblica.
Il trust, secondo Peter Barnes, ha la capacità di preservare la risorsa e di utilizzarla al meglio conservandola per le generazioni future. La caratteristica fondamentale del trust è data dal rapporto di natura fiduciaria e non politica – come avviene per la proprietà pubblica – con gli amministratori dei beni comuni, che porta a un’equa e paritaria distribuzione delle diverse utilità prodotte dalla risorsa comune. [8] Il trust appare insomma come una terza via fra proprietà pubblica e proprietà privata: un regime proprietario e di gestione più adatto alla conservazione e alla valorizzazione delle risorse collettive.
L’attuale dibattito intorno ai «beni comuni» è però caratterizzato anche da profili e suggestioni di natura filosofica molto spesso legati al modo di affrontare il tema spinoso della proprietà, di nuovo al centro dell’attenzione dopo che la caduta del muro di Berlino e il ritorno della proprietà privata nelle repubbliche dell’ex Unione Sovietica hanno riaperto il dibattito intorno alle caratteristiche dei regimi proprietari e al ruolo da essi svolto nella corretta allocazione delle risorse.
Le nuove teorie intorno al tema del «comune», tendono a descriverlo come comprendente non solo i beni comuni tradizionali come l’acqua, l’aria, i frutti della terra, ma «tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via». [9] Secondo queste teorie, la «valorizzazione economica è possibile solo sulla base dell’appropriazione sociale dei beni comuni», mentre «la riproduzione del mondo della vita e dell’ambiente fisico è possibile solo a condizione che le tecnologie siano sotto il diretto controllo del progetto di costituzione del comune»; e «la razionalità opera come strumento della libertà comune della moltitudine, come un dispositivo per l’istituzione del comune». [10] Questa visione dinamica del comune fornisce numerosi elementi di riflessione al dibattito relativo alla possibilità di applicare un nuovo regime proprietario specifico per i beni comuni.
Così tra i giuristi c’è chi ritiene di poter descrivere il comune come «un altro genere, radicalmente antagonista rispetto alla declinazione esaustiva del rapporto pubblico/privato o Stato/mercato. Il comune, infatti, rifiuta la concentrazione del potere a favore della sua diffusione». [11]
Nell’ampio dibattito che si va svolgendo intorno al tema dei beni comuni sia per coloro che sostengono la necessità di una forma istituzionale minima per l’uso di una risorsa non individuale, sia per coloro che sostengono l’assoluta imprevedibilità degli esiti dei processi in corso, sarebbe opportuno tenere in massimo conto le conclusioni cui è arrivata Elinor Ostrom nel corso delle sue approfondite e pluridecennali ricerche. Tali conclusioni portano alla luce le «analogie tra istituzioni autogovernate e durature nell’uso di risorse collettive» riscontrate nei vari luoghi del mondo dove si sono sviluppate esperienze di gestione di risorse collettive: 1. chiara definizione dei confini; 2. congruenza tra le regole di appropriazione, fornitura e le condizioni locali; 3. metodi di decisione collettiva; 4. controllo sulle condizioni d’uso della risorsa; 5. sanzioni progressive; 6. meccanismi di risoluzione dei conflitti; 7. un minimo livello di riconoscimento dei diritti di organizzarsi; 8. organizzazione articolate su più livelli (per i soli sistemi di gestione di risorse collettive che fanno parte di sistemi più grandi). [12]
Probabilmente i tempi sono maturi perché si proceda a una distinzione tra i beni comuni materiali tradizionali, quelli offerti dalla natura, in cui sembra ormai configurarsi un generalizzato e irrimediabile regime di scarsità, e beni comuni – materiali o immateriali – creati attraverso l’attività dell’uomo in cui è del tutto assente il parametro della scarsità per i quali potrebbe essere possibile ipotizzare nuove forme di interazione sociale che escludano qualsiasi forma di regime disciplinare.
Di fatto, le regole evidenziate da Elinor Ostrom, sia che rispondano a eccessive preoccupazioni di istituzionalizzazione diretta a creare stabilità nel medio/lungo periodo, sia che prefigurino regimi disciplinari giudicati ormai insopportabili, hanno consentito nel corso della storia il corretto utilizzo delle risorse e il loro trasferimento alle generazioni successive».
* Fonte: Economia e Politica
NOTE
[1] R.A. Posner, Economic Analysis of Law, New York, Wolters Kluwer Law, 2007 (VII ed.).
[2] Cfr. G. Napolitano-M. Abbrescia, Analisi economica del diritto pubblico, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 22. Riporto qui di seguito la esposizione del teorema di Coase di Napolitano e Abbrescia: «laddove i costi di scambio sul mercato siano pari a zero, l’assegnazione iniziale dei diritti di proprietà e di uso è irrilevante dal punto di vista dell’efficienza perché, ove tale assegnazione iniziale risulti inefficiente, le parti la modificheranno concludendo un accordo correttivo» (p. 24).
[3] G. Minda, Teorie postmoderne del diritto, Bologna, Il Mulino, 2001 [ed. or. Postmodern Legal Movements. Law and Jurisprudence at Century’s End, New York and London, New York University Press, 1995], p. 141.
[4] A. Supiot, Homo juridicus. Saggio sulla funzione antropologica del diritto, Milano, Bruno Mondadori, 2006, p. 110.
[5] Per quanto attiene ai beni artistici, storici e archeologici un primo tassello nella direzione di un’efficiente utilizzazione è stato posto con la distinzione tra tutela e valorizzazione entrata nella legislazione italiana alla metà degli anni Novanta e che cominciava a porre le basi per l’ingresso dei privati. Come denunciato da Salvatore Settis nel 2002, il patrimonio culturale «diventava insensibilmente, senza che nessuno lo avesse progettato, un corpo morto […] da affidare alla sapienza imprenditoriale dei privati o magari da utilizzare al ministero dell’Economia, all’occorrenza vendendo come generatore di introiti» (Italia s.p.a. l’assalto al patrimonio culturale, Torino, Einaudi, 2002, p. 83).
[6] R. Cooter-U. Mattei-P.G. Monateri-R. Pardolesi-T. Ulen, Il mercato delle regole. Analisi economica del diritto civile, vol. I,Fondamenti, Bologna, Il Mulino, 2006 (I ed. 1999), p. 121.
[7] Cfr. U. Mattei, Beni comuni. Un manifesto, Roma-Bari, Laterza, 2011.
[8] Cfr. P. Barnes, Capitalismo 3.0. Il pianeta patrimonio di tutti, Egea, Milano, 2007.
[9] M. Hardt-A. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Mondadori, Milano, 2010, p. 8.
[10] Ivi, p. 131.
[11] U. Mattei, Beni comuni, cit., p. 81.
[12] E. Ostrom, Governare i beni collettivi, a cura di G. Vetritto e F. Velo, Venezia, Marsilio, 2006, Tabella 3.1., p. 134 s.
7 commenti:
La soluzione è nella testa della gente, che al di là delle pippe mentali sta sperimentando sulla propria pelle le conseguenze del totalitarismo della proprietà privata e relativo mercato (a base monetaria peraltro, non dimentichiamolo e non dimentichiamo cosa significa e cosa comporta oggi, in piena epoca di truffa finanziaria ai danni delle masse).
La "non rilevanza economica" attribuita forzosamente ad oggetti tipicamente funzionali al bene comune esprime proprio questo: non se ne può più della logica del profitto che avvelena la vita di tutti e di ciascuno, al di là dei meriti che tale logica vede riconosciuti, giustamente quanto esageratamente come ben documentato dal dogma liberista.
Il problema quindi è gestionale, del soggetto deputato e spesso delegato alla gestione del patrimonio collettivo. In pratica è il problema di una politica degenerata che non sa fare il suo mestiere, provocando danni materiali e soprattutto morali, tradotti in sfiducia nelle istituzioni pubbliche. Vedasi la scandalosa tendenza ormai più che consolidata ad esternalizzare verso imprese private qualsiasi servizio pubblico o rivolto alla valorizzazione dei beni comuni, anche a livello locale.
Se la politica fa schifo è però colpa di questa stessa esagerazione a centralizzare ideologicamente il ruolo del privato, che come dice la parola è contrapposto al pubblico. Quindi un cane che si morde la coda, fino a che il "cane", cioè tutti noi, non ha un guizzo d'intelligenza superiore per ritrovare armonia ed equilibrio. Fifty-Fifty tra pubblico e privato nella realtà, con tutto il seguito di teorizzazione economica e giuridica, è il primo obiettivo da recuperare nell'immediato, perchè la casa comune sta già bruciando da troppo tempo.
Alberto Conti
Anonimo Demetrio
" non se ne può più della logica del profitto che avvelena la vita di tutti e di ciascuno ... ...perchè la casa comune sta già bruciando da troppo tempo."
Devo rivolgere un plauso da spellarmi le mani al dott. Conti. Il dogma del liberismo ci sta ammazzando letteralmente ed é tutta responsabilità di una politica, non é facile sapere se stolta o criminosa.
Di questo passo si arriverà a privatizzare anche il "cielo" che abbiamo sulla testa; anzi: penso purtroppo che già lo si stia facendo con il monopolio delle frequenze, con le famigerate scie chimiche e con la "tesliana" diabolica trovata della "macchina per terremoti" diretta contro la jonosfera !
Anonimo
Il guaio é pure che si é fatto di tutto in politica e nella cultura del pensiero unico per disintegrare e dissolvere quella certa "realtà" di Popolo che non dovrebbe essere un coacervo disorganico privo di quei legami interni di carattere culturale ed etnico in virtù dei quali ognuno si sente parte ed ha interesse a sentirsi parte di un tutto "vivente": la Nazione.
Qua siamo all'homo homini lupus ; o meglio (in maccheronico) Lupus pecorum lberus venator;
Si é spalancata la gabbia dei tirannosauri: questa é la spaventevole verità. E chi li trattiene più ormai? Troppi hanno dormito fino adesso.
Checché ne dicano i cantori del libero mercato, la proprietà privata non esiste quasi più: o perché confiscata dai monopoli che controllano i grandi mezzi di produzione, le risorse naturali, i traffici e il credito, oppure perché uccisa dalla crisi.
I numeri parlano chiaro: 787 grandi corporation controllano l'80 per cento delle più importanti imprese del mondo e in tale costellazione un gruppo ancora più ristretto, composto da 147 multinazionali, controlla il 40 per cento delle più importanti star capitalistiche del pianeta. Quanto alla crisi, ai suoi effetti, per esempio, sulle imprese italiane, è in atto, ormai da anni, un calo assoluto del numero delle imprese: 25 mila in meno nel 2011 rispetto al 2010.
Dei sette miliardi di umani solo un’infima minoranza è realmente proprietaria. Gli altri, nella migliore delle ipotesi, possono vantare un tetto (spesso ipotecato e soggetto a tassazione patrimoniale) e un giaciglio. Poi, ma non tutti, sono proprietari di un’auto scadente per
il cui possesso devono pagare un’imposta e che le leggi dello status symbol e del marketing impongono vada sostituita in due o tre lustri, spesso a debito e con grossi sacrifici.
Dunque è questa la proprietà privata di cui tanto ci si riempie la bocca? Ma questa non è altro che l’invenzione della schiavitù perfetta, fatta passare per una condizione di natura.
Qualunque salariato del passato sapeva che la libertà è anzitutto libertà dal bisogno. E’ curioso invece vedere quanto poco senso della storia abbiamo e come filibustieri dotati di un magnifico istinto per il ricatto ne
approfittino per farsi pagare ciò che dovrebbe essere nostro, dalle autostrade alle spiagge, a qualsiasi cosa…
P.S.
«Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri; la proprietà privata esiste proprio per il fatto che per nove decimi non esiste. Dunque voi ci rimproverate di voler abolire
una proprietà che presuppone come condizione necessaria la privazione della proprietà dell’enorme maggioranza della società.
In una parola, voi ci rimproverate di volere abolire la vostra proprietà».
(Marx-Engels; Manifesto del partito comunista)
F.
Anonimo 4
Il neologismo "Benicomunismo" sarà pure semanticamente corretto e corrisponderà ad una realtà conveniente per la maggioranza delle persone, ma il suffisso evoca purtroppo un'ideologia che nella storia di questi ultimi cento anni ha tramandato ai posteri esecuzioni di massa (ceka), stermini (Ucraina) e gulak: memorie che nel subcosciente di molti suscitano disagio. Il lancio in grande stile di quell'ideologia , sarebbe bene che si cercasse di ricordarlo, non aveva come scopo primario quello di alleviare le condizioni delle masse, ma di usare la forza delle medesime (golemizzazione) per scardinare il "vecchio ordine" facendo piazza pulita di potentati plurisecolari e della religione che si sarebbero opposti all'avvento del N.W.O. internazionalista ed imperialista che oggi cominciamo a sperimentare con "lacrime e sangue". Io lo chiamerei "collettivizzazione dei beni".
Le parole di Marx si riferivano soprattutto alla realtà contemporanea, europea ma particolarmente russa, dove esisteva una proprietà privata riservata ad un numero limitato di ricchi (nobili, grandi mercanti, latifondisti, grossi industriali, banchieri e simili).
Con il N.W.O. di cui stiamo assaporando le primizie, la proprieà privata verrà adeguata a furia di tasse, fallimenti delle imprese e saccheggio delle risorse pubbliche e private da parte dei giga-gruppi finanziari internazionali, alla "proporzione aurea" di 1 sta a 99.
E' già stata adeguata, leggi bene.
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