Emiliano Brancaccio |
Intervista di Tonino Bucci a Emiliano Brancaccio
Di che discutono Vendola, Diliberto, Ferrero, Landini, De Magistris? Mentre tutto il mondo prende atto che l'Unione europea sta collassando, mentre le classi dominanti, i media, tutta la stampa discute di quale sarà il prezzo da pagare per tenere in vita l'euro, Lorsignori, come se niente fosse, sono tutti indaffarati in vista delle prossime elezioni, cioè come strappare il massimo numero di strapuntini da un eventuale compromesso col Pd. Ci vuole poco a capire che se la sinistra non cambia registro (e dirigenti) farà una brutta fine
Il mio commento alle elezioni in Grecia, dal titolo Syriza paga per la sua ambiguità, ha suscitato un’animata discussione sul web. All’interessante dibattito hanno anche partecipato alcuni esponenti politici della sinistra italiana, tra i quali il segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero. Riporto qui di seguito una intervista che ho rilasciato a Tonino Bucci, nella quale tra l’altro riprendo e sviluppo la mia tesi sulla tornata elettorale greca (E.B.)
DOMANDA. Nonostante le elezioni in Grecia, che si ritenevano fondamentali per il futuro della zona euro, siano state vinte dai conservatori di Nuova Democrazia, gli attacchi speculativi ai titoli di stato continuano. A quanto pare, dunque, a rendere traballante l’euro non sono la sinistra radicale o i movimenti di protesta, bensì una fragilità sistemica interna. Non è così?
RISPOSTA: Lo sviluppo dei movimenti di protesta può accelerare la crisi della zona euro, ma le determinanti di questa crisi dipendono dai conflitti tra capitali europei e dalle tensioni che questi provocano sulla tenuta dell’Unione monetaria europea. Come più volte la signora Merkel ci ha ricordato, l’Unione è stata edificata su basi competitive. Il fondamento dei Trattati europei non è certo la solidarietà tra i popoli, ma la concorrenza tra capitali. Nel corso degli anni tale concorrenza è andata accentuandosi, e ha provocato una crescita degli squilibri nei rapporti commerciali tra paesi europei. La Germania, in particolare, ha accumulato surplus commerciali verso l’estero, vale a dire eccessi sistematici di esportazioni sulle importazioni. Di converso, l’Italia e gli altri paesi periferici dell’Unione hanno accumulato deficit commerciali, cioè eccessi di importazioni sulle esportazioni. Questi squilibri hanno determinato un accumulo di crediti verso l’estero da parte della Germania e una corrispondente crescita dei debiti verso l’estero da parte dei paesi periferici dell’Unione. Debiti, è bene ricordarlo, sia pubblici che privati. Prima del 2008 la crescita economica mondiale trainata dalla finanza statunitense rendeva questi squilibri tollerabili. Ma da quando il regime di accumulazione globale trainato da Wall Street è entrato in crisi, le divaricazioni interne all’Unione monetaria europea si sono rivelate insostenibili. E le politiche restrittive che sono state finora adottate non hanno contribuito ad attenuare le divaricazioni. Anzi, in alcuni casi le hanno accentuate.
DOMANDA: Per quale motivo le politiche restrittive non correggono gli squilibri?
RISPOSTA: Una ragione verte sugli effetti di quella che in gergo si definisce “deflazione da debiti”. I paesi periferici vengono chiamati ad abbattere la spesa pubblica e ad aumentare i carichi fiscali per ridurre l’indebitamento pubblico. Ma questa politica contribuisce ad aggravare la crisi economica e a deprimere ulteriormente i redditi. Di conseguenza, diventa più difficile rimborsare i debiti, non solo pubblici ma anche privati. Inoltre, la Commissione europea chiede ai paesi periferici di abbattere i salari per accrescere la competitività e ridurre così i loro deficit verso l’estero. Ma così facendo diminuisce ulteriormente il valore dei redditi e, di nuovo, diventa più difficile rimborsare i debiti. Per giunta, l’abbattimento dei salari non riesce nemmeno ad accrescere la competitività dei paesi periferici. Il motivo è semplice: anche il paese più forte, la Germania, insiste con una politica di contenimento dei salari in rapporto alla produttività. Tra il 2000 e il 2010 il potere d’acquisto dei salari in rapporto alla produttività è mediamente diminuito in Europa di circa mezzo punto percentuale, mentre in Germania è crollato di quasi tre punti. Negli ultimi mesi questo scarto si è solo un po’ ridotto, non si è affatto annullato. Ma se il paese più forte, che già accumula surplus e crediti verso l’estero, insiste con lo schiacciamento delle retribuzioni, i paesi deboli non potranno mai competere con esso attraverso la corsa al ribasso dei salari. Questo è un altro dei motivi per cui gli squilibri interni alla zona euro persistono nel tempo.
DOMANDA: Sembra un circolo vizioso…
RISPOSTA: Si, anche perché alimenta le scommesse su una possibile esplosione della zona euro. Gli speculatori prevedono infatti che a un certo punto i paesi periferici faranno fronte alla crisi competitiva e debitoria attraverso un’uscita dall’euro e una conseguente svalutazione, sia della moneta che dei titoli. Questa previsione induce gli operatori sui mercati finanziari ad esigere tassi d’interesse più alti per cautelarsi contro il rischio di un crollo del valore dei titoli dei paesi periferici. Ma l’aumento del divario tra tassi d’interesse in crescita e redditi stagnanti o addirittura declinanti non fa che aggravare la posizione di questi paesi, rendendo così ancora più probabile un abbandono della moneta unica. Insomma, il meccanismo è internamente contraddittorio.
DOMANDA: In effetti molti parlano di un rischio imminente di deflagrazione della zona euro. E’ una previsione realistica?
RISPOSTA: George Soros è considerato tra gli artefici dell’attacco speculativo dell’estate del 1992 che portò alla deflagrazione del sistema monetario europeo, l’antesignano dell’euro. Di recente Soros ha dichiarato che ci sono soltanto tre mesi di tempo per salvare la zona euro. Non è il solo a pensarla così. Anche il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde, ha assecondato questa premonizione. Nessuno può dire con certezza se abbiano o meno ragione. E’ evidente tuttavia che a questo punto occorre contemplare tra le varie possibilità che proprio quest’estate si verifichi un’ondata di vendite sui mercati di tale portata da far esplodere l’Unione. Ad ogni modo, se anche l’attacco finale non dovesse realizzarsi nel breve arco di tempo preconizzato da Soros e dal Fmi, bisogna comunque ricordare che gli squilibri che caratterizzano la zona euro sono in crescita. Di questo passo, prima o poi, il tracollo della zona euro diventa pressoché inesorabile.
DOMANDA: E questo cosa significa, che potremmo trovarci nella condizione di dover stabilire una strategia di uscita dall’euro non tanto per decisione politica, ma per far fronte a processi oggettivi?
RISPOSTA: Il materialismo storico ci insegna che non esiste un processo oggettivo in termini assoluti, come pure non esiste una decisione politica in termini assoluti. In linea di principio potrebbe anche accadere che i cittadini degli stati europei maggiormente in difficoltà accettino passivamente le conseguenze della permanenza ad ogni costo nella zona euro. Essi cioè potrebbero accettare passivamente che i propri paesi subiscano quello che Krugman ha definito un processo di “mezzogiornificazione”. Vale a dire, distruzione di interi tessuti produttivi, con moltissime imprese che falliscono o vengono acquisite da soggetti esteri, crescita ulteriore della disoccupazione e fenomeni migratori di massa. Questa “mezzogiornificazione” dei paesi periferici è già in atto, del resto. Essa rappresenta l’altra faccia della medaglia di quel meccanismo di egemonizzazione tedesca attraverso il quale si vorrebbe fare dell’Unione europea una sorta di “grande Germania”. Il problema è capire se tale processo possa andare avanti senza incontrare ostacoli. Considerate le sue contraddizioni interne, mi sembra improbabile che una dinamica di questo tipo possa verificarsi senza sommovimenti negli assetti politici. Le forze politiche che invocano l’uscita dall’euro già ci sono in molti paesi, e i consensi a loro favore crescono in misura significativa. A meno di profondi cambiamenti nella politica economica europea, c’è motivo di ritenere che a un certo punto le forze anti-euro prevarranno.
DOMANDA: Allora il problema che si pone è quello della scelta fra due strategie: una è quella che punta alla permanenza nella moneta unica, provando a cambiare le regole dell’assetto esistente; l’altra, invece, punta a uscirne e a riappropriarsi della sovranità tornando alla moneta nazionale. Quale delle due?
RISPOSTA: Nel libro che ho scritto con Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, abbiamo sostenuto che in realtà le due strategie sono logicamente interconnesse. Per risultare credibili, le rivendicazioni per una riforma dei Trattati europei dovrebbero essere accompagnate da un esplicito avvertimento alla Germania: senza cambiamenti sostanziali negli assetti dell’Unione, non soltanto la moneta unica è a rischio, ma può saltare anche il mercato unico europeo. I gruppi di interesse prevalenti in Germania sono infatti disposti a fare a meno dell’euro, ma tengono molto alla libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. Se tale libera circolazione venisse esplicitamente messa in dubbio, le autorità tedesche potrebbero diventare più disponibili a una riforma sostanziale dei Trattati europei.
DOMANDA: Nel programma di Syriza c’era l’obiettivo di esigere la rinegoziazione delle condizioni dei prestiti europei contenute nel “memorandum” della Commissione, ma veniva esclusa l’ipotesi di un’uscita dall’euro. In un recente articolo hai dichiarato che in questa posizione sussiste un elemento di ambiguità. Perché?
RISPOSTA: Si dice che Syriza, pur non avendo raggiunto la maggioranza, in fondo abbia vinto. Io rispetto questa tesi ma temo sia consolatoria. Naturalmente, sappiamo tutti che Syriza ha visto enormemente crescere i voti a suo favore. Ma questo risultato non costituisce un’eccezione. L’attuale fase politica europea è in pieno tumulto, nei paesi maggiormente in crisi l’instabilità dei flussi elettorali è ormai paragonabile a quella dei primi anni Trenta. In fondo, i dati sui flussi ci dicono che il successo di Syriza è in buona misura interpretabile come un’immagine speculare del tracollo del Pasok. E’ del tutto evidente che in una situazione del genere gli elettori spostano i loro voti alla disperata ricerca di soluzioni concrete alla crisi. Sotto questo aspetto il programma di Syriza conteneva una contraddizione che è saltata agli occhi di molti. Il partito ha infatti scelto di puntare alla rinegoziazione del memorandum in sede europea. Ma poiché era altamente probabile che quella ipotesi di rinegoziazione venisse respinta al mittente, cosa sarebbe accaduto subito dopo? Come si sarebbe comportata di conseguenza Syriza? Questa era la domanda più frequente che i giornalisti ponevano durante la campagna elettorale. Ma non c’era una risposta. L’ipotesi di un ripudio unilaterale del memorandum, e quindi del debito, avrebbe posto immediatamente un problema di ordine tecnico. Un paese come la Grecia, nella quale le importazioni sono state sistematicamente superiori alle esportazioni, dovrebbe comunque finanziarsi per coprire l’indebitamento verso l’estero. Ma un paese che ripudia il debito da un lato e poi chiede di rifinanziare il proprio disavanzo estero dall’altro, cade in una contraddizione che i creditori internazionali fanno pagar cara. L’unico modo per rendere credibile la richiesta di rinegoziazione del memorandum doveva allora esser quello di ammettere l’ipotesi di una riconquista della sovranità monetaria del paese in caso di fallimento della trattativa. Ossia, una uscita dall’euro e al limite dal mercato unico europeo. In questo senso, avrei auspicato che si ragionasse in modo esplicito sul confronto tra le conseguenze di questa opzione e il perdurare dell’attuale situazione. Syriza ha invece scelto di escludere questa ipotesi. In questo modo la campagna elettorale si è sviluppata entro il perimetro dei tabù ideologici imposti dai soggetti dominanti. Questo fattore potrebbe aver pesato sull’esito delle elezioni più di quanto si sia disposti ad ammettere. Il timore, adesso, è che una dinamica del genere possa riprodursi anche in altri paesi, nelle tornate elettorali future. Le sinistre europee potrebbero cioè continuare pedissequamente a ribadire la loro fedeltà all’Unione monetaria europea, costi quel che costi. Così facendo, le sinistre si dichiarerebbero indisponibili a governare un eventuale tracollo della zona euro. Altri soggetti, distanti dagli interessi del lavoro, sarebbero allora chiamati a pilotare la deflagrazione. Questa sarebbe una prospettiva funesta, poiché i modi per gestire il possibile sfascio dell’euro sono vari, e ognuno tende a far prevalere gli interessi di certi gruppi sociali a scapito di altri.
DOMANDA: Di fronte al rischio di una deflagrazione della zona euro, quale sarebbe una strategia progressiva a vantaggio degli interessi popolari da contrapporre a una strategia regressiva a difesa degli interessi proprietari?
RISPOSTA: La storia ci dice che nel momento in cui viene a deflagrare un sistema di cambi fissi irrevocabili - e la zona euro è un sistema di questo tipo - vi sono diversi modi attraverso i quali si può uscire da esso. Semplificando al massimo, esistono modi che potremmo definire “di destra” e modi che potremmo definire “di sinistra”. Un modo di “destra” è quello di lasciare che i capitali possano liberamente fuggire dal paese, e di scaricare interamente sui salari il costo della svalutazione della moneta. Di fatto, è quello che è avvenuto in Italia dopo il tracollo dello sistema monetario europeo nel 1992. In quel periodo la svalutazione della lira si è realizzata in concomitanza di un blocco dei salari, conseguente al famigerato accordo sul costo del lavoro. In un caso del genere i lavoratori pagano interamente il prezzo della svalutazione della moneta. Il prezzo dei beni importati cresce e poiché i salari non possono recuperare l’aumento, si registra una caduta del potere d’acquisto. L’alternativa sarebbe quella di governare il processo di uscita facendo in modo che il peso non gravi interamente sui lavoratori subordinati. A questo scopo, si potrebbero recuperare i vecchi sistemi di limitazione della circolazione dei capitali e, al limite, delle merci, che sussistevano negli anni Cinquanta e che sono stati poi via via smantellati. L’attuale informatizzazione delle transazioni renderebbe oltretutto anche più facili i controlli. Sistemi di questo tipo consentirebbero di governare la svalutazione e il suo impatto sui salari. C’è poi una questione che attiene alla proprietà estera o nazionale dei capitali di un paese, a partire dai capitali bancari. Un’eventuale uscita dalla zona euro implica una svalutazione dei capitali e quindi la possibilità, per soggetti esteri, di effettuare “shopping a buon mercato”. Assecondare gli acquisti da parte di investitori esteri oppure limitarli non è una scelta indifferente per le condizioni future dei lavoratori. Nella sua ottica liberoscambista pura, ad esempio, Monti ritiene che gli investimenti esteri siano benefici per tutti. Ma l’esperienza del nostro e di altri paesi ci dice che in realtà le acquisizioni estere possono anche fare molti danni al tessuto finanziario e produttivo di un paese.
DOMANDA. A sinistra tuttavia sembra ancora prevalere un’avversione verso forme di limitazione della circolazione dei capitali e delle merci. Il protezionismo è considerato un pericolo, più che un’opportunità.
RISPOSTA. I rapporti della Commissione europea, da un paio d’anni a questa parte, segnalano che dallo scoppio della crisi in tutto il mondo sono aumentati i controlli sui movimenti di capitali e di merci. Più di 400 nuove misure protezionistiche tra il 2008 e il 2011 realizzate in Argentina, Usa, Brasile, Cina, Russia ed altri paesi. Che ci piaccia o meno, la storia è in movimento. Le sinistre devono decidere in fretta se intendono provare a governare i processi già in corso, o restare alla finestra a guardare un disastro gestito da altri.
* Fonte: emilianobramcaccio.it
DOMANDA. Nonostante le elezioni in Grecia, che si ritenevano fondamentali per il futuro della zona euro, siano state vinte dai conservatori di Nuova Democrazia, gli attacchi speculativi ai titoli di stato continuano. A quanto pare, dunque, a rendere traballante l’euro non sono la sinistra radicale o i movimenti di protesta, bensì una fragilità sistemica interna. Non è così?
RISPOSTA: Lo sviluppo dei movimenti di protesta può accelerare la crisi della zona euro, ma le determinanti di questa crisi dipendono dai conflitti tra capitali europei e dalle tensioni che questi provocano sulla tenuta dell’Unione monetaria europea. Come più volte la signora Merkel ci ha ricordato, l’Unione è stata edificata su basi competitive. Il fondamento dei Trattati europei non è certo la solidarietà tra i popoli, ma la concorrenza tra capitali. Nel corso degli anni tale concorrenza è andata accentuandosi, e ha provocato una crescita degli squilibri nei rapporti commerciali tra paesi europei. La Germania, in particolare, ha accumulato surplus commerciali verso l’estero, vale a dire eccessi sistematici di esportazioni sulle importazioni. Di converso, l’Italia e gli altri paesi periferici dell’Unione hanno accumulato deficit commerciali, cioè eccessi di importazioni sulle esportazioni. Questi squilibri hanno determinato un accumulo di crediti verso l’estero da parte della Germania e una corrispondente crescita dei debiti verso l’estero da parte dei paesi periferici dell’Unione. Debiti, è bene ricordarlo, sia pubblici che privati. Prima del 2008 la crescita economica mondiale trainata dalla finanza statunitense rendeva questi squilibri tollerabili. Ma da quando il regime di accumulazione globale trainato da Wall Street è entrato in crisi, le divaricazioni interne all’Unione monetaria europea si sono rivelate insostenibili. E le politiche restrittive che sono state finora adottate non hanno contribuito ad attenuare le divaricazioni. Anzi, in alcuni casi le hanno accentuate.
DOMANDA: Per quale motivo le politiche restrittive non correggono gli squilibri?
RISPOSTA: Una ragione verte sugli effetti di quella che in gergo si definisce “deflazione da debiti”. I paesi periferici vengono chiamati ad abbattere la spesa pubblica e ad aumentare i carichi fiscali per ridurre l’indebitamento pubblico. Ma questa politica contribuisce ad aggravare la crisi economica e a deprimere ulteriormente i redditi. Di conseguenza, diventa più difficile rimborsare i debiti, non solo pubblici ma anche privati. Inoltre, la Commissione europea chiede ai paesi periferici di abbattere i salari per accrescere la competitività e ridurre così i loro deficit verso l’estero. Ma così facendo diminuisce ulteriormente il valore dei redditi e, di nuovo, diventa più difficile rimborsare i debiti. Per giunta, l’abbattimento dei salari non riesce nemmeno ad accrescere la competitività dei paesi periferici. Il motivo è semplice: anche il paese più forte, la Germania, insiste con una politica di contenimento dei salari in rapporto alla produttività. Tra il 2000 e il 2010 il potere d’acquisto dei salari in rapporto alla produttività è mediamente diminuito in Europa di circa mezzo punto percentuale, mentre in Germania è crollato di quasi tre punti. Negli ultimi mesi questo scarto si è solo un po’ ridotto, non si è affatto annullato. Ma se il paese più forte, che già accumula surplus e crediti verso l’estero, insiste con lo schiacciamento delle retribuzioni, i paesi deboli non potranno mai competere con esso attraverso la corsa al ribasso dei salari. Questo è un altro dei motivi per cui gli squilibri interni alla zona euro persistono nel tempo.
DOMANDA: Sembra un circolo vizioso…
RISPOSTA: Si, anche perché alimenta le scommesse su una possibile esplosione della zona euro. Gli speculatori prevedono infatti che a un certo punto i paesi periferici faranno fronte alla crisi competitiva e debitoria attraverso un’uscita dall’euro e una conseguente svalutazione, sia della moneta che dei titoli. Questa previsione induce gli operatori sui mercati finanziari ad esigere tassi d’interesse più alti per cautelarsi contro il rischio di un crollo del valore dei titoli dei paesi periferici. Ma l’aumento del divario tra tassi d’interesse in crescita e redditi stagnanti o addirittura declinanti non fa che aggravare la posizione di questi paesi, rendendo così ancora più probabile un abbandono della moneta unica. Insomma, il meccanismo è internamente contraddittorio.
DOMANDA: In effetti molti parlano di un rischio imminente di deflagrazione della zona euro. E’ una previsione realistica?
RISPOSTA: George Soros è considerato tra gli artefici dell’attacco speculativo dell’estate del 1992 che portò alla deflagrazione del sistema monetario europeo, l’antesignano dell’euro. Di recente Soros ha dichiarato che ci sono soltanto tre mesi di tempo per salvare la zona euro. Non è il solo a pensarla così. Anche il direttore generale del Fmi, Christine Lagarde, ha assecondato questa premonizione. Nessuno può dire con certezza se abbiano o meno ragione. E’ evidente tuttavia che a questo punto occorre contemplare tra le varie possibilità che proprio quest’estate si verifichi un’ondata di vendite sui mercati di tale portata da far esplodere l’Unione. Ad ogni modo, se anche l’attacco finale non dovesse realizzarsi nel breve arco di tempo preconizzato da Soros e dal Fmi, bisogna comunque ricordare che gli squilibri che caratterizzano la zona euro sono in crescita. Di questo passo, prima o poi, il tracollo della zona euro diventa pressoché inesorabile.
DOMANDA: E questo cosa significa, che potremmo trovarci nella condizione di dover stabilire una strategia di uscita dall’euro non tanto per decisione politica, ma per far fronte a processi oggettivi?
RISPOSTA: Il materialismo storico ci insegna che non esiste un processo oggettivo in termini assoluti, come pure non esiste una decisione politica in termini assoluti. In linea di principio potrebbe anche accadere che i cittadini degli stati europei maggiormente in difficoltà accettino passivamente le conseguenze della permanenza ad ogni costo nella zona euro. Essi cioè potrebbero accettare passivamente che i propri paesi subiscano quello che Krugman ha definito un processo di “mezzogiornificazione”. Vale a dire, distruzione di interi tessuti produttivi, con moltissime imprese che falliscono o vengono acquisite da soggetti esteri, crescita ulteriore della disoccupazione e fenomeni migratori di massa. Questa “mezzogiornificazione” dei paesi periferici è già in atto, del resto. Essa rappresenta l’altra faccia della medaglia di quel meccanismo di egemonizzazione tedesca attraverso il quale si vorrebbe fare dell’Unione europea una sorta di “grande Germania”. Il problema è capire se tale processo possa andare avanti senza incontrare ostacoli. Considerate le sue contraddizioni interne, mi sembra improbabile che una dinamica di questo tipo possa verificarsi senza sommovimenti negli assetti politici. Le forze politiche che invocano l’uscita dall’euro già ci sono in molti paesi, e i consensi a loro favore crescono in misura significativa. A meno di profondi cambiamenti nella politica economica europea, c’è motivo di ritenere che a un certo punto le forze anti-euro prevarranno.
DOMANDA: Allora il problema che si pone è quello della scelta fra due strategie: una è quella che punta alla permanenza nella moneta unica, provando a cambiare le regole dell’assetto esistente; l’altra, invece, punta a uscirne e a riappropriarsi della sovranità tornando alla moneta nazionale. Quale delle due?
RISPOSTA: Nel libro che ho scritto con Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, abbiamo sostenuto che in realtà le due strategie sono logicamente interconnesse. Per risultare credibili, le rivendicazioni per una riforma dei Trattati europei dovrebbero essere accompagnate da un esplicito avvertimento alla Germania: senza cambiamenti sostanziali negli assetti dell’Unione, non soltanto la moneta unica è a rischio, ma può saltare anche il mercato unico europeo. I gruppi di interesse prevalenti in Germania sono infatti disposti a fare a meno dell’euro, ma tengono molto alla libera circolazione dei capitali e delle merci in Europa. Se tale libera circolazione venisse esplicitamente messa in dubbio, le autorità tedesche potrebbero diventare più disponibili a una riforma sostanziale dei Trattati europei.
DOMANDA: Nel programma di Syriza c’era l’obiettivo di esigere la rinegoziazione delle condizioni dei prestiti europei contenute nel “memorandum” della Commissione, ma veniva esclusa l’ipotesi di un’uscita dall’euro. In un recente articolo hai dichiarato che in questa posizione sussiste un elemento di ambiguità. Perché?
RISPOSTA: Si dice che Syriza, pur non avendo raggiunto la maggioranza, in fondo abbia vinto. Io rispetto questa tesi ma temo sia consolatoria. Naturalmente, sappiamo tutti che Syriza ha visto enormemente crescere i voti a suo favore. Ma questo risultato non costituisce un’eccezione. L’attuale fase politica europea è in pieno tumulto, nei paesi maggiormente in crisi l’instabilità dei flussi elettorali è ormai paragonabile a quella dei primi anni Trenta. In fondo, i dati sui flussi ci dicono che il successo di Syriza è in buona misura interpretabile come un’immagine speculare del tracollo del Pasok. E’ del tutto evidente che in una situazione del genere gli elettori spostano i loro voti alla disperata ricerca di soluzioni concrete alla crisi. Sotto questo aspetto il programma di Syriza conteneva una contraddizione che è saltata agli occhi di molti. Il partito ha infatti scelto di puntare alla rinegoziazione del memorandum in sede europea. Ma poiché era altamente probabile che quella ipotesi di rinegoziazione venisse respinta al mittente, cosa sarebbe accaduto subito dopo? Come si sarebbe comportata di conseguenza Syriza? Questa era la domanda più frequente che i giornalisti ponevano durante la campagna elettorale. Ma non c’era una risposta. L’ipotesi di un ripudio unilaterale del memorandum, e quindi del debito, avrebbe posto immediatamente un problema di ordine tecnico. Un paese come la Grecia, nella quale le importazioni sono state sistematicamente superiori alle esportazioni, dovrebbe comunque finanziarsi per coprire l’indebitamento verso l’estero. Ma un paese che ripudia il debito da un lato e poi chiede di rifinanziare il proprio disavanzo estero dall’altro, cade in una contraddizione che i creditori internazionali fanno pagar cara. L’unico modo per rendere credibile la richiesta di rinegoziazione del memorandum doveva allora esser quello di ammettere l’ipotesi di una riconquista della sovranità monetaria del paese in caso di fallimento della trattativa. Ossia, una uscita dall’euro e al limite dal mercato unico europeo. In questo senso, avrei auspicato che si ragionasse in modo esplicito sul confronto tra le conseguenze di questa opzione e il perdurare dell’attuale situazione. Syriza ha invece scelto di escludere questa ipotesi. In questo modo la campagna elettorale si è sviluppata entro il perimetro dei tabù ideologici imposti dai soggetti dominanti. Questo fattore potrebbe aver pesato sull’esito delle elezioni più di quanto si sia disposti ad ammettere. Il timore, adesso, è che una dinamica del genere possa riprodursi anche in altri paesi, nelle tornate elettorali future. Le sinistre europee potrebbero cioè continuare pedissequamente a ribadire la loro fedeltà all’Unione monetaria europea, costi quel che costi. Così facendo, le sinistre si dichiarerebbero indisponibili a governare un eventuale tracollo della zona euro. Altri soggetti, distanti dagli interessi del lavoro, sarebbero allora chiamati a pilotare la deflagrazione. Questa sarebbe una prospettiva funesta, poiché i modi per gestire il possibile sfascio dell’euro sono vari, e ognuno tende a far prevalere gli interessi di certi gruppi sociali a scapito di altri.
DOMANDA: Di fronte al rischio di una deflagrazione della zona euro, quale sarebbe una strategia progressiva a vantaggio degli interessi popolari da contrapporre a una strategia regressiva a difesa degli interessi proprietari?
RISPOSTA: La storia ci dice che nel momento in cui viene a deflagrare un sistema di cambi fissi irrevocabili - e la zona euro è un sistema di questo tipo - vi sono diversi modi attraverso i quali si può uscire da esso. Semplificando al massimo, esistono modi che potremmo definire “di destra” e modi che potremmo definire “di sinistra”. Un modo di “destra” è quello di lasciare che i capitali possano liberamente fuggire dal paese, e di scaricare interamente sui salari il costo della svalutazione della moneta. Di fatto, è quello che è avvenuto in Italia dopo il tracollo dello sistema monetario europeo nel 1992. In quel periodo la svalutazione della lira si è realizzata in concomitanza di un blocco dei salari, conseguente al famigerato accordo sul costo del lavoro. In un caso del genere i lavoratori pagano interamente il prezzo della svalutazione della moneta. Il prezzo dei beni importati cresce e poiché i salari non possono recuperare l’aumento, si registra una caduta del potere d’acquisto. L’alternativa sarebbe quella di governare il processo di uscita facendo in modo che il peso non gravi interamente sui lavoratori subordinati. A questo scopo, si potrebbero recuperare i vecchi sistemi di limitazione della circolazione dei capitali e, al limite, delle merci, che sussistevano negli anni Cinquanta e che sono stati poi via via smantellati. L’attuale informatizzazione delle transazioni renderebbe oltretutto anche più facili i controlli. Sistemi di questo tipo consentirebbero di governare la svalutazione e il suo impatto sui salari. C’è poi una questione che attiene alla proprietà estera o nazionale dei capitali di un paese, a partire dai capitali bancari. Un’eventuale uscita dalla zona euro implica una svalutazione dei capitali e quindi la possibilità, per soggetti esteri, di effettuare “shopping a buon mercato”. Assecondare gli acquisti da parte di investitori esteri oppure limitarli non è una scelta indifferente per le condizioni future dei lavoratori. Nella sua ottica liberoscambista pura, ad esempio, Monti ritiene che gli investimenti esteri siano benefici per tutti. Ma l’esperienza del nostro e di altri paesi ci dice che in realtà le acquisizioni estere possono anche fare molti danni al tessuto finanziario e produttivo di un paese.
DOMANDA. A sinistra tuttavia sembra ancora prevalere un’avversione verso forme di limitazione della circolazione dei capitali e delle merci. Il protezionismo è considerato un pericolo, più che un’opportunità.
RISPOSTA. I rapporti della Commissione europea, da un paio d’anni a questa parte, segnalano che dallo scoppio della crisi in tutto il mondo sono aumentati i controlli sui movimenti di capitali e di merci. Più di 400 nuove misure protezionistiche tra il 2008 e il 2011 realizzate in Argentina, Usa, Brasile, Cina, Russia ed altri paesi. Che ci piaccia o meno, la storia è in movimento. Le sinistre devono decidere in fretta se intendono provare a governare i processi già in corso, o restare alla finestra a guardare un disastro gestito da altri.
* Fonte: emilianobramcaccio.it
15 commenti:
...«Occorre una strategia per uscire dall'euro»...
Era ora! ...se ne è convinto anche il buon Brancaccio, che per mesi nel salotto filosionista di Lerner ci ha propinato la fuffa che bastasse far pressione sulla Merkel per salvare l'Europa!
Vero, in Rifondazione ce l''hanno sempre presentato come l'economista di riferimento, a sostegno della tesi che chi propone l'uscita sbaglia. certo Brancaccio politicamente non conta molto, ma toglie peso alla linea di Grassi e Ferrero. E questo spero avrà delle conseguenze.
La linea di Grassi e Ferrero e di tutti coloro che dicono non si può uscire dall'euro risulta certamente sconfitta, Affrettiamoci a costruire un Fronte Popolare per un Governo di emergenza popolare capace di farci uscire dalla crisi.
Ma quali sono le forze soggettive per costruire qui e ora un fronte di massa?
Secondo me oggi non ci sono. Occorre passare sulle macerie di quello che c'è'? Chiedo: ma non si può iniziare mettendo assieme quelli che sono daccordo, anche se forze modeste? Non sarebbe un segnale in avanti?
Il fronte popolare deve essere costruito dal popolo, iniziando a mettere insieme in un Movimento Unico i 100 Movimenti esistenti in Italia.
Quando questo Movimento sarà in grado di portare in piazza non migliaia, ma milioni di manifestanti, si dovrebbe dar vita a un partito nuovo - che non ha niente a che fare con i falsi leader della falsa sinistra, che passano il tempo a chiacchierare con il vento, giocare in Borsa e fare la vacanze alla Hawai - nelle cui liste dovrebbero apparire solo operai, disoccupati, precari, disagiati e pensionati disposti a comportarsi come coloro che, come me, hanno lottato per il PCI.
Questa è la via da intraprendere, ma gli italiani parlano sempre e non passano mai ai fatti.
Ma cosa dite? Brancaccio al salotto di Lerner a dire che bastava far pressione...? Ma voi Brancaccio lo leggete e lo seguite o andate per sentito dire? Brancaccio non è mai stato invitato da Lerner (e non credo che sia un caso). E in che senso sarebbe "economista di riferimento"? Andate a leggere il capitolo "Contro il liberoscambismo di sinistra" (in E. Brancaccio e M. Passarella, L'Austerità è di destra. E sta distruggendo l'Europa). Capirete che Brancaccio è un intellettuale fuori dagli schemi, che rivolge le sue critiche soprattutto ai finti sinistri del nostro tempo, non solo nel PD ma anche tra i comunisti. Paolo.
Paolo, non ci sei! Divertiti su youtube a digitare "la7 brancaccio" e vedrai che per tutto il 2011, ma anche per buona parte di quest'anno, il "tuo" non si è fatto mancare una puntata né dell'Infedele né di "Piazza Pulita" (ma nemmeno di Omnibus e di svariate altre) e perdi un po' di tempo ad ascoltare i conformismo e la piattezza delle sue posizioni.
Dai, fai questo piccolo sforzo di autoinformazione, poi ne riparliamo.
Oggi, ormai, a questo stadio della crisi, anche se non si è "ricercatori economici", si fa presto a capire che l'euro è in agonia e bisogna trovare il modo di uscirne, e al più presto!
Giorgio
"Ma l’esperienza del nostro e di altri paesi ci dice che in realtà le acquisizioni estere possono anche fare molti danni al tessuto finanziario e produttivo di un paese."
Ma ci vuole proprio la conferma dell'esperienza reale per capire che l'ingerenza di capitali speculativi esteri è finalizzata all'estrazione di ricchezza dal paese?
Con questo livello di "intelligenza" come si fa a proporre alternative credibili, realistiche, risolutive? Per non parlare degli utili idioti (opportunamente messi al timone del Titanic) che dall'alto delle più prestigiose accademie economiche insistono a negare perfino l'evidenza dei fatti, di quelle "esperienze" a cui Brancaccio si riferisce (es. l'Irlanda).
Il problema è in realtà molto ben delineato: come gestire una moneta unica in un area valutaria geostrategica, per quanto disomogenea economicamente. Se i tedeschi non ripudiano la Merkel e tutto ciò che rappresenta non ci sono le condizioni minimali per anche solo affrontare questo problema. Gli operai tedeschi però si vedono migliorare le loro condizioni oggettive, in quest'ultimo periodo (a differenza di quanto sostiene Brancaccio, con dati probabilmente non recentissimi), e non si capisce perchè dovrebbero rischiare tutte le loro "conquiste" per difendere i principi liberisti che pure li hanno resi gli operai più forti d'Europa, ma solo fino a ieri, mentre oggi quegli stessi principi li travolgerebbero insieme ai loro sacrifici e relativi vantaggi.
Una cosa è certa, che a livello teoretico siamo all'anno zero.
Albertoi Conti
Caro Conti,
ho la vaga impressione che c'hai una belle confusione in testa, per quanto riguarda l'abc dell'economia, dico.
Per il resto, vediamo di pensare ai proletari di casa nostra, visto, proprio come dici tu, che gli "operai tedeschi" pensano agli affari loro.
Brancaccio avrebbe posizioni piatte? Sei ridicolo. A novembre gli sentii dire a Piazza Pulita che bisognava "minacciare i tedeschi": se quelli non volevano la moneta unica, noi avremmo fatto saltare anche il mercato unico. E la cosa incredibile di quel tipo è che sa dire cose pesantissime in modo serio, convincente, documentato e persuasivo. Voi state ancora a palleggiare tra euro si ed euro no e quello guarda già avanti, al blocco delle frontiere all'interscambio di capitali e merci. Vai a studiartelo, che è meglio.
Ma va a cagare, ridicola!
Conti, quando Brancaccio parla di deflazione relativa dei salari in Germania riporta i dati Eurostat aggiornati al 2010. Nel 2011 non è successo niente che cambi le cose. Basta che digiti AMECO database su google e puoi vederlo tu stesso. Paolo.
Nel 2011 si chiude la fase uno dello scippo dei mercati dell'euro da parte della Germania. Il 2012 apre la fase 2, o quantomeno una fase di transizione, in cui il rilancio del mercato interno è una componente irrinunciabile per affrontare la crisi globale, come in Cina del resto (con difficoltà molto maggiori ovviamente).
Il solo gruppo Wolksvagen ha distribuito un extrabonus di 7.500 € a 90.000 suoi dipendenti, l'Ig Metall ottiene aumenti salariali del 4,3 % per 800.000 metalmeccanici, e la stessa riduzione dell'orario di lavoro va in questa direzione.
Non credo che un "comitato nodebito" avrebbe molta fortuna tra i lavoratori tedeschi in questo frangente.
Alberto
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