venerdì 25 novembre 2011

MEGLIO IL DEFAULT?


Alfonso Gianni, a destra, in cattiva compagnia
Eppur si muove....
di Alfonso Gianni*
Anzitutto default, o insolvenza, non significa affatto fallimento. Tuttavia questo intervento è di grande lucidità. Se Alfonso Gianni, che è un esponente di Sinistra ecologia e libertà, insinua, pur tra contorsioni, che dichiarare l'insolvenza  sarebbe il male minore, qualcosa si muove nella sinistra italiana.


La parola default, nel suo significato di insolvenza finanziaria ovvero di fallimento, è diventata ormai uno dei termini più usati non solo nel linguaggio degli specialisti economici, ma anche in quello dei commentatori televisivi o della carta stampata e persino in quello comune. Per molti – e sono ancora  la maggior parte – quel vocabolo evoca tremendi scenari di distruzione dell’ordine economico e di disperazione dei singoli. Altri sembrano essersene invaghiti – ma sono, per ora, solo una netta minoranza – e per loro quel termine suscita addirittura speranza. Ovviamente stiamo qui parlando del fallimento di uno stato intero, non semplicemente di una banca o di un istituto finanziario per quanto grosso esso sia. D’altro canto il precetto too big to fail è già stato ampiamente contraddetto dagli eventi di questa lunga crisi, a partire dal fallimento di Lehman Brothers. Naturalmente gli americani ne hanno fatto un film, proprio con quel titolo che la distribuzione italiana ha scioccamente storpiato facendone perdere il senso.
 Il “salvataggio” della Grecia
Le ultime misure assunte a fine Ottobre dalla Ue nei confronti della Grecia – sulle quali Papandreu con notevole coraggio ha annunciato un referendum popolare – altro non sono che una sorta di default pilotato, ovvero una robusta ristrutturazione del debito. Il valore nominale del debito greco è stato ridotto di 100 miliardi. L’adesione al salvataggio greco da parte degli istituti di credito dovrebbe essere volontario, ma in realtà verrà incentivato dai governi dell’Eurozona (fino a 30 miliardi). Le banche più esposte, ovvero quelle che hanno in pancia il più grande numero di titoli di Stato ellenici, oltre a quelle greche sono le francesi (più di 51 miliardi), le tedesche (oltre 33 miliardi), le inglesi (oltre 12 miliardi), mentre relativamente limitata è l’esposizione delle banche di casa nostra (quasi 4 miliardi).
Questo comporta comunque la necessità di una ricapitalizzazione degli istituti bancari. Infatti questo problema è stato al centro del vertice Ue di fine Ottobre e sui cui tra poco torneremo.
Sono misure che giungono tardi e male. Già da più di un anno a questa parte era chiaro che la Grecia non avrebbe potuto onorare il debito accumulato. La sua misura esorbitante rispetto al Pil di quel paese è stata raggiunta grazie alle politiche, non dimentichiamolo, del governo delle destre di Karamanlis con il compiacente contributo di istituti finanziari e banche, come la Goldman Sachs e la JP Morgan Chase che hanno aiutato il governo greco a mascherare la sua reale situazione debitoria.
D’altro canto esso non costituisce una grande cifra: 350 miliardi di euro, meno del  3% del Pil della Ue. In altre parole una bazzecola, che una maggiore flessibilità nei principi rigoristi, che invece purtroppo prevalgono negli organi di governo della Ue, avrebbe potuto risolvere con relativa tranquillità. Invece si è cominciato con prestiti ad alto tasso di interesse che hanno costretto il governo socialista greco – incapace di mutare rotta, e qui sta lo specifico della sua colpa,  rispetto a quella tracciata a Bruxelles e a Francoforte – ad assumere una politica letteralmente di lacrime e sangue, senza peraltro venirne a capo sul fronte del debito.
 Le scelte della Ue aumentano squilibri e diseguaglianze
Pensare che tutto ciò sia dovuto solo alla insipienza dei governanti europei, alla sindrome del “questa volta è diverso” di cui ci hanno parlato Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff nel loro fortunato libro,  o alla permanenza cocciuta di un substrato ideologico marcatamente neoliberista, è indubbiamente ingenuo. Anche se questi elementi non vanno affatto sottovalutati in ragione di un rigido determinismo economico, poiché la forza delle idee è reale, come ci ha insegnato Keynes nella famosa chiusura del suo trattato sulla moneta. Questo avviene specialmente quando queste sono sbagliate e al contempo si presentano sotto la forma di regole dettate da un padre molto severo, ma in fondo amoroso. Ma il ritardo nell’assumere decisioni largamente ritenute inevitabili contiene anche, se non soprattutto, il disegno dei grandi gruppi finanziari di acquisire pezzi della Grecia a un prezzo da svendita fallimentare, compreso fette del suo territorio.
Non solo. Mentre per concedere 110 miliardi di prestiti assai ben remunerati nel maggio del 2010 si sono alzati alti lai, soprattutto da parte tedesca, ben diverso è stato l’atteggiamento nei confronti degli istituti finanziari del Nord Europa. Infatti tra il settembre del 2008 – quando la crisi si mostrò in tutta la sua aggressività nel Vecchio Continente – e il dicembre 2010, i 27 dell’Unione hanno messo a disposizione niente meno che 4.825 miliardi di euro per tenere in piedi gli istituti di credito, vale a dire il 36% del Pil della Ue, con Germania e Gran Bretagna a fare la parte del leone (500 miliardi a testa). Di questa cifra sono stati erogati effettivamente 1.240 miliardi e naturalmente il 60% è piovuto sui mercati bancari inglesi, francesi e tedeschi. In altre parole i dieci maggiori istituti di credito hanno avuto la metà e la restante metà è andata ad altre 210 banche. Non male come esempio di diseguaglianza!
 La crisi bancaria e i suoi paradossi
Come ha osservato recentemente Paul De Grauwe (Financial Times del 20 ottobre) non bisogna essere un laureato in economia per capire che una crisi del debito sovrano si trascina inevitabilmente in una crisi bancaria. A questo punto la situazione si complica enormemente. Si crea inevitabilmente una sorta di circolo vizioso. Non è infatti credibile che le banche possano ricapitalizzarsi sul mercato in una condizione di estrema volatilità quale quella attuale. Ne consegue che solo i governi degli stati membri possono rapidamente soddisfare alla esigenza di ricapitalizzazione, la cui misura viene calcolata attorno a 106 miliardi di euro. Ma, facendo questo, gli stati rischiano di indebitarsi ulteriormente, il che può comportare una loro degradazione da parte delle agenzie di rating. A questo punto il valore dei titoli del debito pubblico che le banche hanno in possesso diminuisce ulteriormente e siamo quindi punto da capo.
In effetti le decisioni assunte il 26 ottobre scorso sottolineano la necessità di giungere a un coefficiente patrimoniale più elevato, pari al 9% entro la fine di giugno del 2012. Secondo gli auspici di Bruxelles questo dovrebbe avvenire facendo ricorso al capitale privato, ma, poiché ciò appare poco credibile agli stessi estensori dell’accordo, si raccomanda ai governi di sostenere l’impresa e si preannuncia fin d’ora che si potrà fare ricorso a prestiti da parte del cosiddetto fondo salva stati (FESF), la cui capienza è stata portata a mille miliardi, essendo quella precedente di 450 del tutto insufficiente, come avevamo previsto su questa rivista qualche mese fa.
 L’Europa carolingia difende il proprio sistema bancario
In sostanza, come hanno osservato in diversi (Moyra Longo e Fabio Pavesi su il Sole24Ore del 29 ottobre e Joseph Halevi su il manifesto del 1° novembre) L’Autorità bancaria europea (ABE) pretende una ricapitalizzazione da parte delle banche dei Piigs (portoghesi, italiane, irlandesi, spagnole e greche) perché queste sono rigonfie di titoli di stato dei loro rispettivi paesi, mentre non si procede affatto ad una bonifica dei titoli tossici non di stato. La Deutsche Bank e la Bnp-Paribas, per fare solo due esempi, sono fortemente esposte su questo versante, ma non sono destinatarie di alcun provvedimento da parte dell’Autorità. La discrepanza di trattamento torna nuovamente ad essere evidente e finanche clamorosa. L’Europa carolingia alza il ponte levatoio per proteggere i propri istituti di credito, mentre chiede ai paesi mediterranei politiche di lacrime e sangue, mettendo a serio repentaglio la persistenza stessa dell’Unione europea.
D’altro canto l’insistenza sulla ricapitalizzazione delle banche ha anche un altro effetto dagli esiti disastrosi. Quello di una contrazione del credito a famiglie e imprese. Una vero e proprio credit crunch, che si dice di temere a parole ma che poi viene provocato nella realtà da provvedimenti di questo tipo. Se infatti si decide che il rapporto fra patrimonio e credito elargito deve esse più elevato, le banche hanno due modi per ottenere un simile obiettivo: o aumentare il patrimonio o diminuire il credito. In una situazione in cui la ricapitalizzazione è difficile per i motivi già detti, è facile prevedere che le banche si indirizzeranno verso la seconda soluzione, ovvero la restrizione del credito. Ne segue un’ulteriore depressione dell’economia reale, nell’attività delle imprese e nella capacità di spesa delle famiglie. La qual cosa è già in atto visti i vistosi rallentamenti di tutte le economie del continente.
L’unità europea è a rischio
Da un lato, la crisi economica che ora si rovescia con più virulenza sul Vecchio Continente e soprattutto le risposte che riesumano il peggiore neoliberismo, guidate dalla politica neomercantile della Germania, mettono in dubbio la stessa unità europea. Dall’altro lato, la rigidità riaffermata dei vincoli dei trattati, peggiorati di volta in volta dalle conclusioni dei vertici Ue, come in questo ultimo caso, e il commissariamento di fatto dei governi nazionali soffocano in particolare i paesi già in difficoltà. Viene quindi da domandarsi se, in una situazione stretta da questa tenaglia, possa esistere una risposta da sinistra che preveda contemporaneamente l’uscita dalla crisi senza un massacro sociale e la trasformazione della Unione europea in un vero soggetto politico e autonomo capace di praticare politiche di convergenza al proprio interno?
Il quesito non è da poco ed è bene quindi che il dibattito si sviluppi in tutta la sua ampiezza. Se ne è avuto un consistente assaggio in questi mesi nella discussione che si è articolata a livello internazionale dopo un intervento di Rossana Rossanda su il manifesto e nel sito di Sbilanciamoci. Già vi avevo fatto cenno nel numero precedente della nostra rivista, ma conviene tornarci con maggiore ampiezza. Non c’è dubbio infatti che l’idea di una fuoriuscita dall’euro e dalla Ue, sull’onda dei disastri che accadono, è tutt’altro che un capriccio e quindi va presa seriamente in considerazione. Lo stesso annuncio di un referendum in Grecia – del resto al momento in cui si scrive non se ne sa di più – oltre a sconvolgere i guardiani del neoliberismo per il solo fatto che un atto di democrazia possa incrinare la lex mercatoria, ha l’effetto di spostare questo interrogativo dall’ambito della riflessione teorica a quello della lotta e del pronunciamento politico di milioni di persone. Qualunque sarà l’esito di quel referendum è facile prevedere che sarà destinato ad avere più influenza dei precedenti pronunciamenti popolari avvenuti in Francia o nei Paesi Bassi, data l’incandescenza dell’attuale situazione economica e sociale. 
Ai paesi in difficoltà conviene abbandonare la Ue?
Va preliminarmente detto che uscire dall’euro o uscire dall’Europa è la stessa cosa. O meglio sulla base dell’attuale Trattato (art. 50 del TUE) l’unica uscita prevista è quella dalla Ue, previa approvazione da parte degli altri Stati a maggioranza qualificata. Infatti l’adesione dei singoli paesi alla Ue è considerata come un processo sostanzialmente irreversibile dal quale non si può recedere con atto unilaterale. Tuttavia, anche se finora la questione non si è mai posta in più di cinquant’anni di vita con cui, pur in diverse forme, si è concretizzata la unità europea, non è affatto da escludersi che una tale evenienza si presenti concretamente nel corso dell’attuale crisi.
Vi è allora da chiedersi, a cominciare dalla situazione greca, quali potrebbero essere i vantaggi e gli svantaggi di una fuoriuscita dalla Ue. In linea teorica la piena riconquista di una sovranità nazionale garantirebbe al paese che la ottiene la potestà di stampare moneta, di agire sul mercato dei cambi, di applicare norme a protezione delle proprie merci, di controllare il flusso in entrata e in uscita dei capitali, di incentivare a proprio piacimento settori specifici della propria economia. Sulla carta non è poco, specialmente per quanto riguarda la libertà della “politica del torchio”, ossia il signoraggio monetario.
Tuttavia se si guarda la cosa dal punto di vista di cosa prevedibilmente può avvenire dopo una mossa del genere si può concludere che il gioco non vale la candela, ovvero gli svantaggi supererebbero molto probabilmente i vantaggi, o quantomeno i primi sono più certi dei secondi. Infatti non è difficile supporre che la condizione di cambio nella quale si troverebbe la nuova moneta nazionale sarebbe estremamente svantaggiosa (come ha ricordato recentemente Luciano Gallino), che la questione del debito pubblico resterebbe comunque irrisolta, restando in euro quello nei confronti dell’estero, che si “verificherebbe una fuga dei depositi in euro, mentre il valore delle passività nella nuova valuta schizzerebbe verso l’alto” come hanno scritto Riccardo Bellofiore e Jan Toporowski (il manifesto del 1° novembre), che la potenziata capacità esportativa si rivelerebbe più teorica che reale, visto che bisognerebbe avere merci appetibili da esportare, mentre sarebbe certa la drastica limitazione del credito internazionale e di quello interno, e la svalutazione peserebbe negativamente proprio sul potere d’acquisto delle classi inferiori. Questa è la ragione per la quale credo che sia anche poco credibile la tattica di usare l’abbandono della Ue come arma di pressione o minaccia nei confronti dei paesi più forti. Una minaccia è tale solo quando uno è disposto a perseguire fino in fondo quanto afferma. Se al fine non gli conviene è meglio non agitare l’argomento, a meno che non si voglia rientrare nell’apologo di Sansone che distrugge il tempio con i filistei.
 La pratica dell’auditing e il diritto all’insolvenza
Se si scarta la strada della fuoriuscita dalla Ue, rimane però tutto da risolvere il problema di come modificare le sue attuali iniquità e la politica economica che la contraddistingue e prima ancora di come risollevare i paesi che si trovano nelle peggiori condizioni economiche e quindi sottoposti ai diktat degli organi di governo di Bruxelles.
Nel dibattito in corso ricorrono spesso gli esempi dell’Argentina, dell’Islanda, dell’Ecuador. Ma ci si dimentica più volentieri di casi meno noti e meno virtuosi, come quello dell’Ucraina.  Tre esperienze significative, ognuna diversa dall’altra, di rifiuto al pagamento del debito. Nel caso islandese, come è noto, vi è stato anche un ricorso al pronunciamento popolare per via referendaria che ha confortato l’orientamento del governo di centrosinistra di quel piccolo paese (non più di 131mila abitanti in tutto, meno del numero dei conti correnti aperti nelle banche islandesi dai cittadini britannici!). Nel caso dell’Argentina si è verificata quasi una situazione similrivoluzionaria che ha portato a varare importanti esperienze di autogestione di imprese da parte di lavoratori che ancora adesso durano con successo. In Ecuador vi è stata una analisi delle cause del debito estero che ha portato a considerarne una parte come del tutto illegittima e quindi a rifiutarne il rimborso. E’ la cosiddetta pratica dell’auditing. Essa è sostenuta che grande o buona parte del debito di un paese è niente altro che il frutto di un’oppressione secolare da parte dei paesi più forti, delle malversazioni e dei tradimenti delle proprie classi dirigenti, dei tassi usurari cui sono stati concessi i prestiti dagli organi finanziari internazionali. Di fronte a queste palesi ingiustizie si proclama così il diritto all’insolvenza, nella piena consapevolezza  che quest’ultima non comporta affatto l’immiserimenti altrui.
La diversità delle condizioni economiche, sociali, politiche e istituzionali dei tre paesi citati rispetto a qualunque paese membro della Ue sono troppo evidenti da dovere essere enumerate. Tuttavia il senso del diritto all’insolvenza e della proposta di auditing potrebbe e dovrebbe essere recuperato e riproposto anche nella vecchia Europa. Se fosse stata applicata nel caso greco si sarebbe visto con tutta evidenza il peso del tutto sproporzionato, pari a più di tre volte rispetto agli altri paesi europei, delle spese militari greche in rapporto al proprio Pil, a causa della questione cipriota e dei pessimi rapporti con la Turchia. L’ingresso di quest’ultima nella Ue e la soluzione pacifica dei contenziosi da sole avrebbero comportato una significativa riduzione della spesa pubblica greca e quindi un bel contributo al risanamento del suo debito. In tutti i casi fare una radiografia della formazione del debito sovrano significherebbe ripercorrere e rendere evidente la storia dei rapporti tra le classi che soggiace alla distribuzione ineguale della ricchezza.
Ma affermare l’esistenza di un diritto e difenderlo da chi lo vorrebbe negare in vario modo, non significa di per sé praticarlo in ogni momento e in qualunque circostanza. La posta in gioco è elevatissima e la scelta non può non ispirarsi alla prudenza ed essere ben ponderata. Mi pare invece che ci sia una certa leggerezza nel considerare la possibilità di un’estensione a tutti i paesi in difficoltà del default, sia pure in forma pilotata e selettiva. A questo riguardo diversi economisti ci invitano a considerare le difficoltà intrinseche in una simile selezione, soprattutto per quanto riguarda l’individuazione dei creditori, con il rischio molto consistente di farlo pagare in primo luogo ai piccoli risparmiatori.
Quindi fermo restando il diritto e la convinzione di poterlo usare in ultima istanza, è necessario percorrere in primo luogo altre strade.
 Il caso italiano
Ovviamente il percorso non può che essere differenziato a seconda delle condizioni dei singoli paesi. Un conto è il caso della Grecia, che abbiamo già descritto, ove lo stato di pratica insolvenza avrebbe dovuto essere riconosciuto per tempo, un altro conto quello del nostro paese o della Spagna. Nel caso dell’Italia il suo elevato debito è insieme elemento di debolezza ma anche di forza. Come dice un proverbio popolare chi ha mille euro di debito con una banca ha un problema, ma se il debito è di un milione il problema è della banca. In altre parole il default italiano trascinerebbe con sé troppe cose e persone per poterlo attuare a cuor leggero.
Nouriel Roubini, riferendosi al caso italiano, scriveva qualche settimana fa che il nostro debito era perfettamente sostenibile se la crescita fosse stata pari al 1,2%, il tasso sui titoli decennali inferiore al 7% e l’avanzo primario non inferiore al 4,5%. Purtroppo quelle condizioni non ci sono e non ci saranno nel tempo breve in cui la crisi rischia di diventare catastrofe. Infatti la crescita non supera lo 0,7% e quella misura di avanzo primario c’era solo ai tempi dell’ultimo governo Prodi, senza peraltro che venisse opportunamente sfruttata.
Se quindi la semplice stabilizzazione del debito, che si sarebbe potuta e dovuta fare già da qualche anno, appare oggi una difesa troppo debole di fronte al rapidissimo degrado della situazione (al punto che tra il momento della scrittura e della lettura di questo articolo potremmo trovarci in condizioni politiche e economiche sensibilmente diverse per il nostro paese), quella della ristrutturazione del debito appare come la migliore soluzione nel tempo breve.
Per fare un esempio, Bellofiore e Toporowski ci parlano nel già citato articolo di un’ operation twist, ossia della possibilità di emettere titoli a breve scadenza che avrebbero facile possibilità di essere acquistati  dalle banche essendo i loro tassi di interesse più vantaggiosi rispetto ai depositi presso la banca centrale, impiegando poi la valuta così raccolta per riacquistare sul mercato secondario i titoli a lunga scadenza, provocando in questo modo l’abbassamento dei tassi di interesse.
L’ingegneria finanziaria può forse fornire altre e più brillanti soluzioni. Il punto di partenza però non può che essere il rifiuto della logica e del merito della famigerata lettera della Bce al governo italiano che sintetizza quanto la stessa aveva deciso nel vertice del marzo scorso. Il rifiuto di ciò che ci viene presentato come necessità inderogabile e che invece corrisponde semplicemente all’interesse di corto periodo del direttorio franco-tedesco è la precondizione della ricerca di una soluzione che non precipita immediatamente e necessariamente in un default, pur ribadendo il diritto all’insolvenza. Tale ricerca è tanto più motivata dal fatto che, spento l’incendio della speculazione finanziaria, bisogna contemporaneamente trovare la via per un nuovo modello di sviluppo e incrementare così retribuzioni e investimenti, quindi la domanda interna, senza il quale nessun gioco di prestigio finanziario ci può salvare. E per fare questo abbiamo bisogno di un paese in piedi e con qualche fiducia in sé stesso.
 La modifica della mission della Bce
La partita però non si gioca solo, e forse neppure principalmente, a livello nazionale. Le esortazioni a tirarci fuori con le nostre mani giunte in questi giorni dal Quirinale o da Palazzo Koch diventano puramente moralistiche e inefficaci se non si modificano le regole e i comportamenti che governano la Ue.
E’ ormai parere assai diffuso, anche in commentatori solitamente accorti e coperti, che il solo fondo salva stati non è in grado di risolvere il problema, e neppure di spegnere i focolai più vigorosi dell’incendio. Per quanto la sua capienza sia stata aumentata dalle ultime decisioni essa è sempre limitata ed è già chiaro che essa sarebbe del tutto insufficiente a contenere gli effetti di una catastrofe che dalla Grecia si allargasse. L’operazione si presenterebbe quindi come il classico tentativo di svuotare la vasca con uno scolapasta.
E’ quindi indispensabile modificare radicalmente la mission della banca centrale europea. Il suo fine non può più essere quello di guardiano dell’inflazione (peraltro un contenuto aumento della medesima non potrebbe che fare bene a chi deve pagare gli interessi sul debito), ma deve preoccuparsi della stabilità finanziaria dell’Europa. Il che significa in primo luogo una cosa: la Bce deve trasformarsi in prestatore in ultima istanza (lender of last resort, come dice la lingua dominante in materia finanziaria), ovvero dichiarare ed essere pronta ad assorbire in quantità illimitata i titoli di stato dei paesi in difficoltà ben prima che essi si trovino di fronte alla drammatica circostanza di dovere dichiarare fallimento. Solo così si possono tagliare le unghie alle manovre speculative sul nascere, poiché il pericolo di rimanere con titoli spazzatura in mano sarebbe eliminato alla radice. In questo modo si può concretamente evitare la cosiddetta crisi di panico che si impadronisce dei mercati.
Alcuni ritengono una scelta del genere un “azzardo morale” e una vigorosa spinta all’incremento dell’inflazione. Ma, oltre alle considerazioni già fatte, ha più ragione di tanti altri Martin Wolf nella sua pubblica missiva, densa di consigli e ammonimenti,  a Mario Draghi sul Sole24ore del 26 ottobre, quando osserva che non è affatto automatico che l’espansione della base monetaria comporti un eguale ampliamento dell’offerta complessiva di moneta, visto che siamo nel mezzo di una grande crisi finanziaria. Far “gemere il torchio”, stampare moneta, quindi,  diceva Luigi Einaudi, a dimostrazione che tra liberalesimo e liberismo c’è una bella differenza. E’ quello che bisogna fare nella dimensione sovrannazionale dell’Europa.
Perciò alla domanda semanticamente paradossale, ma politicamente reale e attuale: è nel default la speranza? ora risponderei come nel tormentone musicale di qualche estate fa di Jarabe De Palo: depende.

* Fonte: “Alternative per il socialismo”.

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