Alcune considerazioni su una manovra disperata
di Leonardo Mazzei*
A quel che sembra, al di là dei quotidiani «rimbalzi», i famosi «mercati» non sono soddisfatti: la finanziaria tremontiana è troppo diluita nel tempo ed il governo Berlusconi è troppo poco affidabile. Tuttavia, la manovra economica licenziata dal parlamento a passo di marcia è tutto fuorché leggera. Cosa c’è allora dietro il tracollo dei Btp?
Avanziamo l’ipotesi che – al netto della speculazione – la scarsa credibilità della finanziaria dipenda essenzialmente dai dati nudi e crudi dell’economia italiana, dai cosiddetti «fondamentali». Dati aggravati dalla crisi infinita della politica nazionale, ma sufficienti da soli a stilare la sentenza di condanna: PIIGS! Bestie da macellare al pari della Grecia e degli altri «maiali» condannati all’insolvenza, ma non prima di aver salvato banche e banchieri, speculatori e biscazzieri.
Ma, si chiederà qualcuno, come mai la manovra non è servita a fermare neppure per un giorno la corsa verso il baratro? Domanda sensata, che ha probabilmente una sola risposta: la manovra non è servita proprio perché ha mostrato un Paese alla frutta, un governo che raschia il fondo del barile, una classe politica bipartisan che non ha la più pallida idea su come affrontare la situazione.
Insomma, quella appena approvata ha tutte le caratteristiche di una manovra disperata. Disperata non perché non se ne possano fare altre. La Grecia insegna anzi come si possa tagliare tutto il tagliabile a ripetizione, ma insegna anche come tutto ciò sia assolutamente inutile dopo aver superato un certa soglia del debito e – soprattutto – un certo livello dei tassi di interesse. Ed è proprio questo secondo elemento che rischia di diventare quello assolutamente decisivo.
Molti ricorderanno il Tremonti che annunciava, solo qualche settimana fa, che i conti erano a posto e che sarebbe bastata una semplice «manutenzione». Altri ricorderanno il Berlusconi che respingeva come la peste la necessità di una vera manovra economica. E non parliamo del ritornello bipartisan sulle tasse da tagliare… Se richiamiamo questi semplici esercizi mnemonici è solo per mostrare la pittoresca approssimazione dell’intera classe politica. Non solo quella del Buffone di Arcore, ma anche quella del Commercialista di Sondrio, come quella dei dirigenti del centrosinistra che sanno solo dire signorsì alla Bce ed alle oligarchie finanziarie internazionali.
Buffonate a parte, la manovra è pesantissima ed antipopolare. Colpisce lavoratori e pensionati per mille vie, usa il fisco come una clava per prendere a chi meno ha, insiste con i tagli alle pensioni ed alla sanità. Tutto ciò è abbastanza noto ed evidente, anche se per ora è mancata una risposta di lotta. Ad oggi la rassegnazione la fa da padrona, vedremo fino a quando.
I numeri della manovra
Ma entriamo nel merito. Contrariamente a quel che si è scritto, il saldo a regime (cioè nel 2014) della manovra sarà pari a 47,9 miliardi di euro. Una cifra enorme, ma non i 79 miliardi di cui si è favoleggiato sommando allegramente importi annui in realtà già assorbiti nelle cifre indicate per gli anni successivi. Per capirci, se nel 2011 viene effettuato un taglio strutturale di un miliardo, questo risparmio si ripeterà nel 2012 e negli anni successivi, ma nel calcolare la correzione dei conti dovrà essere conteggiato una sola volta. Ci scusiamo per una simile ovvietà, che tuttavia non è stata così «ovvia» per numerosi organi di stampa che hanno così sparato i numeri più strampalati.
La cifra di 48 miliardi (arrotondiamo per comodità) è davvero alta, tuttavia non è affatto sufficiente per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2014. Se per il 2011 il deficit è previsto attorno al 4% del Pil, non si capisce come un taglio pari a circa il 3% possa determinare l’atteso pareggio. Una previsione questa destinata comunque a saltare a causa dell’aumento dei tassi di interesse, che sono saliti in dieci giorni di oltre un punto percentuale. Naturalmente l’effetto di questo aumento va visto più in prospettiva che nell’immediato, ma ciò non toglie che alla fine l’1% di 1900 miliardi (che è, all’incirca, il valore attuale del debito italiano) dia un aggravio annuo di 19 miliardi. E siamo solo all’inizio della «sindrome greca».
Come si sia arrivati alla cifra di 48 miliardi è un altro episodio che la dice lunga su quanto sia confusa oggi la politica italiana. Si è giunti infatti a questa cifra con un maxi-emendamento presentato dal governo, il cui piatto forte è rappresentato dai cosiddetti «tagli lineari» ai bonus fiscali. E’ così accaduto che una manovra che inizialmente doveva essere fatta da un 74% di minori spese e da un 26% di maggiori entrate, si è rovesciata in un mix in cui le minori spese sono scese al 40% e le nuove entrate sono salite al 60%, alla faccia della propaganda anti-tasse di un governo ormai da tempo allo sbando.
Dato che i cosiddetti «bonus» valgono qualcosa come 161 miliardi, e dato che la decurtazione prevista a regime è pari al 20%, se ne dovrebbe dedurre un risparmio per lo stato di circa 32 miliardi. La finanziaria ne iscrive a bilancio «solo» 20, lasciando intendere la previsione di un’attuazione della delega fiscale entro il 30 settembre 2013, data dopo la quale i «tagli lineari» del 20% scatterebbero automaticamente con decorrenza 2014, mentre la prima parte (5%) sarà già entrata in vigore nel 2013.
Praticamente impossibile dire ora cosa accadrà nei prossimi anni, quel che è certo è che tagli così concepiti colpiranno pesantemente le fasce di reddito medio-basse. Queste, per ammontare e per importo pro-capite, le principali voci soggette ai tagli: detrazione per carichi di famiglia, detrazione redditi da lavoro dipendente, tassazione separata del Tfr, detrazione spese sanitarie e mediche, detrazione interessi passivi sui mutui, deduzione rendita catastale prima casa, detrazione ristrutturazioni edilizie, contributi previdenziali e assistenziali (es. badanti), e si potrebbe continuare.
Un capitolo a parte riguarda l’Iva. Non solo rimane la possibilità di un suo aumento sostanziale - non tanto per compensare l’ipotizzata riduzione dell’Irpef a favore delle fasce medio-alte come vorrebbe il governo, quanto piuttosto per fare cassa in maniera decisa così come hanno fatto la Grecia ed altri PIIGS -, ma viene anche avanzata la possibilità di un forte aumento nei settori che godono di un relativo privilegio, come ad esempio quello della ristorazione che applica il 10% anziché il 20.
Mediamente questa decurtazione dei «bonus» fiscali determinerà un aggravio di circa mille euro a famiglia, ma vi saranno nuclei familiari colpiti maggiormente. Al tempo stesso saranno sempre le fasce popolari a pagare i ticket sanitari e gli altri tagli agli enti locali, nonché quelli alle pensioni ed ai salari dei dipendenti pubblici. E per comprendere appieno chi pagherà la manovra di luglio, basti dire che l’aggravio per le aziende viene calcolato in soli 2,4 miliardi, cioè esattamente il 5% dell’intera manovra.
Questi 2,4 miliardi, che tanti lamenti hanno suscitato sul fronte confindustriale, sono inferiori a quelli raggranellati con il blocco salariale nel pubblico impiego (2,8 md) e con gli ulteriori interventi peggiorativi sulle pensioni (altri 2,8 md).
Verso la «sindrome greca»
Visti i numeri essenziali della manovra e la sua natura ferocemente antipopolare, è ora possibile passare ad alcune considerazioni più generali.
1. Il fondo del barile - La scelta di agire prioritariamente sul fronte delle entrate è la dimostrazione di come ormai si sia arrivati a raschiare il fondo del barile su quello delle uscite. Certo, in teoria tutto è tagliabile, ma in pratica così non è. Sta di fatto che gli interventi continuano a concentrarsi sui principali capitoli di spesa (previdenza, sanità, pubblico impiego) che sono anche quelli falcidiati da vent’anni di tagli senza fine. Il sistema è dunque impallato, l’arma delle privatizzazioni è ormai sostanzialmente scarica, e non rimane che il fisco. Un vero paradosso per il governo della propaganda anti-tasse, ma soprattutto il segno di una situazione senza sbocchi.
2. Improvvisazione – Se la decisione di agire sul fisco è stata dunque in un certo senso obbligata, il modo in cui lo si è fatto mostra un livello di improvvisazione senza precedenti. La scelta dei «tagli lineari» è stata certamente la più semplice, ma anche la meno sostenibile da un punto di vista politico. Una scelta fatta per rispondere in fretta al dominio dei «mercati», cioè delle istituzioni finanziarie che speculano sui titoli del debito italiano, una scelta che è passata anche perché il 2014 appare ancora lontano.
3. La spirale – Quel che appare certo è che la spirale debito-tagli-recessione-altro debito sembra ormai inarrestabile. Ogni misura di riduzione del debito si trasforma inevitabilmente in un nuovo elemento recessivo, e la recessione riducendo la ricchezza e le entrate produce nuovo debito. La manovra tremontiana è tutta interna a questa spirale. E’ una manovra disperata, perché ha l’unico obiettivo di rimandare il momento del tracollo e niente più. Ma anche chi la critica, restando comunque dentro il quadro delle compatibilità europee (è il caso delle forze del centrosinistra), non sa indicare una qualsiasi via d’uscita. Ciò non avviene per caso: è che la via d’uscita, dentro quel quadro semplicemente non c’è.
4. «Sindrome greca» – L’Italia si avvicina dunque a grandi passi alla «sindrome greca». Essa consiste nella spirale perversa di cui sopra, unita alla corsa al rialzo dei tassi di interesse dei titoli del debito sovrano. Certo, l’Italia non è la Grecia, sia per dimensioni che per ricchezza, per struttura industriale e per peso politico nella UE. C’è però un elemento che gioca a sfavore dell’Italia, l’entità complessiva del debito, sei volte quello greco, che colloca il nostro paese al terzo posto nella graduatoria mondiale dopo Stati Uniti e Giappone. Sta di fatto che in questi giorni, dietro ai tre paesi (Grecia, Irlanda e Portogallo) in stato di pre-default, la speculazione sta colpendo più l’Italia che la Spagna ed il differenziale nei rendimenti tra questi due paesi si va progressivamente riducendo. Qual è il livello critico dei tassi, oltre il quale il debito è destinato comunque a salire, almeno in termini relativi rispetto al Pil? Nessuno può dirlo con certezza, ma secondo un report dei vampiri di Goldman Sachs esso sarebbe per l’Italia intorno al 7%. E ieri i titoli italiani stavano un po’ sopra al 6%... La «sindrome greca» è già oggi qualcosa di più di una semplice possibilità.
La tempesta sta dunque arrivando. Il tempo delle illusioni sta finendo. Si annuncia un tremendo massacro sociale di cui la manovra di luglio è solo un antipasto. I tempi si accorciano anche per le forze anticapitaliste: sicuramente il conflitto di classe tornerà ad accendersi, ma non se ne uscirà vittoriosi senza una piattaforma di misure alternative immediate. Solo una rivoluzione democratica, che ci porti fuori dall’Europa e fuori dal debito (con il suo azzeramento), potrà impedire il massacro che si annuncia. Hic Rhodus, hic salta!
A quel che sembra, al di là dei quotidiani «rimbalzi», i famosi «mercati» non sono soddisfatti: la finanziaria tremontiana è troppo diluita nel tempo ed il governo Berlusconi è troppo poco affidabile. Tuttavia, la manovra economica licenziata dal parlamento a passo di marcia è tutto fuorché leggera. Cosa c’è allora dietro il tracollo dei Btp?
Avanziamo l’ipotesi che – al netto della speculazione – la scarsa credibilità della finanziaria dipenda essenzialmente dai dati nudi e crudi dell’economia italiana, dai cosiddetti «fondamentali». Dati aggravati dalla crisi infinita della politica nazionale, ma sufficienti da soli a stilare la sentenza di condanna: PIIGS! Bestie da macellare al pari della Grecia e degli altri «maiali» condannati all’insolvenza, ma non prima di aver salvato banche e banchieri, speculatori e biscazzieri.
Ma, si chiederà qualcuno, come mai la manovra non è servita a fermare neppure per un giorno la corsa verso il baratro? Domanda sensata, che ha probabilmente una sola risposta: la manovra non è servita proprio perché ha mostrato un Paese alla frutta, un governo che raschia il fondo del barile, una classe politica bipartisan che non ha la più pallida idea su come affrontare la situazione.
Insomma, quella appena approvata ha tutte le caratteristiche di una manovra disperata. Disperata non perché non se ne possano fare altre. La Grecia insegna anzi come si possa tagliare tutto il tagliabile a ripetizione, ma insegna anche come tutto ciò sia assolutamente inutile dopo aver superato un certa soglia del debito e – soprattutto – un certo livello dei tassi di interesse. Ed è proprio questo secondo elemento che rischia di diventare quello assolutamente decisivo.
Molti ricorderanno il Tremonti che annunciava, solo qualche settimana fa, che i conti erano a posto e che sarebbe bastata una semplice «manutenzione». Altri ricorderanno il Berlusconi che respingeva come la peste la necessità di una vera manovra economica. E non parliamo del ritornello bipartisan sulle tasse da tagliare… Se richiamiamo questi semplici esercizi mnemonici è solo per mostrare la pittoresca approssimazione dell’intera classe politica. Non solo quella del Buffone di Arcore, ma anche quella del Commercialista di Sondrio, come quella dei dirigenti del centrosinistra che sanno solo dire signorsì alla Bce ed alle oligarchie finanziarie internazionali.
Buffonate a parte, la manovra è pesantissima ed antipopolare. Colpisce lavoratori e pensionati per mille vie, usa il fisco come una clava per prendere a chi meno ha, insiste con i tagli alle pensioni ed alla sanità. Tutto ciò è abbastanza noto ed evidente, anche se per ora è mancata una risposta di lotta. Ad oggi la rassegnazione la fa da padrona, vedremo fino a quando.
I numeri della manovra
Ma entriamo nel merito. Contrariamente a quel che si è scritto, il saldo a regime (cioè nel 2014) della manovra sarà pari a 47,9 miliardi di euro. Una cifra enorme, ma non i 79 miliardi di cui si è favoleggiato sommando allegramente importi annui in realtà già assorbiti nelle cifre indicate per gli anni successivi. Per capirci, se nel 2011 viene effettuato un taglio strutturale di un miliardo, questo risparmio si ripeterà nel 2012 e negli anni successivi, ma nel calcolare la correzione dei conti dovrà essere conteggiato una sola volta. Ci scusiamo per una simile ovvietà, che tuttavia non è stata così «ovvia» per numerosi organi di stampa che hanno così sparato i numeri più strampalati.
La cifra di 48 miliardi (arrotondiamo per comodità) è davvero alta, tuttavia non è affatto sufficiente per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2014. Se per il 2011 il deficit è previsto attorno al 4% del Pil, non si capisce come un taglio pari a circa il 3% possa determinare l’atteso pareggio. Una previsione questa destinata comunque a saltare a causa dell’aumento dei tassi di interesse, che sono saliti in dieci giorni di oltre un punto percentuale. Naturalmente l’effetto di questo aumento va visto più in prospettiva che nell’immediato, ma ciò non toglie che alla fine l’1% di 1900 miliardi (che è, all’incirca, il valore attuale del debito italiano) dia un aggravio annuo di 19 miliardi. E siamo solo all’inizio della «sindrome greca».
Come si sia arrivati alla cifra di 48 miliardi è un altro episodio che la dice lunga su quanto sia confusa oggi la politica italiana. Si è giunti infatti a questa cifra con un maxi-emendamento presentato dal governo, il cui piatto forte è rappresentato dai cosiddetti «tagli lineari» ai bonus fiscali. E’ così accaduto che una manovra che inizialmente doveva essere fatta da un 74% di minori spese e da un 26% di maggiori entrate, si è rovesciata in un mix in cui le minori spese sono scese al 40% e le nuove entrate sono salite al 60%, alla faccia della propaganda anti-tasse di un governo ormai da tempo allo sbando.
Dato che i cosiddetti «bonus» valgono qualcosa come 161 miliardi, e dato che la decurtazione prevista a regime è pari al 20%, se ne dovrebbe dedurre un risparmio per lo stato di circa 32 miliardi. La finanziaria ne iscrive a bilancio «solo» 20, lasciando intendere la previsione di un’attuazione della delega fiscale entro il 30 settembre 2013, data dopo la quale i «tagli lineari» del 20% scatterebbero automaticamente con decorrenza 2014, mentre la prima parte (5%) sarà già entrata in vigore nel 2013.
Praticamente impossibile dire ora cosa accadrà nei prossimi anni, quel che è certo è che tagli così concepiti colpiranno pesantemente le fasce di reddito medio-basse. Queste, per ammontare e per importo pro-capite, le principali voci soggette ai tagli: detrazione per carichi di famiglia, detrazione redditi da lavoro dipendente, tassazione separata del Tfr, detrazione spese sanitarie e mediche, detrazione interessi passivi sui mutui, deduzione rendita catastale prima casa, detrazione ristrutturazioni edilizie, contributi previdenziali e assistenziali (es. badanti), e si potrebbe continuare.
Un capitolo a parte riguarda l’Iva. Non solo rimane la possibilità di un suo aumento sostanziale - non tanto per compensare l’ipotizzata riduzione dell’Irpef a favore delle fasce medio-alte come vorrebbe il governo, quanto piuttosto per fare cassa in maniera decisa così come hanno fatto la Grecia ed altri PIIGS -, ma viene anche avanzata la possibilità di un forte aumento nei settori che godono di un relativo privilegio, come ad esempio quello della ristorazione che applica il 10% anziché il 20.
Mediamente questa decurtazione dei «bonus» fiscali determinerà un aggravio di circa mille euro a famiglia, ma vi saranno nuclei familiari colpiti maggiormente. Al tempo stesso saranno sempre le fasce popolari a pagare i ticket sanitari e gli altri tagli agli enti locali, nonché quelli alle pensioni ed ai salari dei dipendenti pubblici. E per comprendere appieno chi pagherà la manovra di luglio, basti dire che l’aggravio per le aziende viene calcolato in soli 2,4 miliardi, cioè esattamente il 5% dell’intera manovra.
Questi 2,4 miliardi, che tanti lamenti hanno suscitato sul fronte confindustriale, sono inferiori a quelli raggranellati con il blocco salariale nel pubblico impiego (2,8 md) e con gli ulteriori interventi peggiorativi sulle pensioni (altri 2,8 md).
Verso la «sindrome greca»
Visti i numeri essenziali della manovra e la sua natura ferocemente antipopolare, è ora possibile passare ad alcune considerazioni più generali.
1. Il fondo del barile - La scelta di agire prioritariamente sul fronte delle entrate è la dimostrazione di come ormai si sia arrivati a raschiare il fondo del barile su quello delle uscite. Certo, in teoria tutto è tagliabile, ma in pratica così non è. Sta di fatto che gli interventi continuano a concentrarsi sui principali capitoli di spesa (previdenza, sanità, pubblico impiego) che sono anche quelli falcidiati da vent’anni di tagli senza fine. Il sistema è dunque impallato, l’arma delle privatizzazioni è ormai sostanzialmente scarica, e non rimane che il fisco. Un vero paradosso per il governo della propaganda anti-tasse, ma soprattutto il segno di una situazione senza sbocchi.
2. Improvvisazione – Se la decisione di agire sul fisco è stata dunque in un certo senso obbligata, il modo in cui lo si è fatto mostra un livello di improvvisazione senza precedenti. La scelta dei «tagli lineari» è stata certamente la più semplice, ma anche la meno sostenibile da un punto di vista politico. Una scelta fatta per rispondere in fretta al dominio dei «mercati», cioè delle istituzioni finanziarie che speculano sui titoli del debito italiano, una scelta che è passata anche perché il 2014 appare ancora lontano.
3. La spirale – Quel che appare certo è che la spirale debito-tagli-recessione-altro debito sembra ormai inarrestabile. Ogni misura di riduzione del debito si trasforma inevitabilmente in un nuovo elemento recessivo, e la recessione riducendo la ricchezza e le entrate produce nuovo debito. La manovra tremontiana è tutta interna a questa spirale. E’ una manovra disperata, perché ha l’unico obiettivo di rimandare il momento del tracollo e niente più. Ma anche chi la critica, restando comunque dentro il quadro delle compatibilità europee (è il caso delle forze del centrosinistra), non sa indicare una qualsiasi via d’uscita. Ciò non avviene per caso: è che la via d’uscita, dentro quel quadro semplicemente non c’è.
4. «Sindrome greca» – L’Italia si avvicina dunque a grandi passi alla «sindrome greca». Essa consiste nella spirale perversa di cui sopra, unita alla corsa al rialzo dei tassi di interesse dei titoli del debito sovrano. Certo, l’Italia non è la Grecia, sia per dimensioni che per ricchezza, per struttura industriale e per peso politico nella UE. C’è però un elemento che gioca a sfavore dell’Italia, l’entità complessiva del debito, sei volte quello greco, che colloca il nostro paese al terzo posto nella graduatoria mondiale dopo Stati Uniti e Giappone. Sta di fatto che in questi giorni, dietro ai tre paesi (Grecia, Irlanda e Portogallo) in stato di pre-default, la speculazione sta colpendo più l’Italia che la Spagna ed il differenziale nei rendimenti tra questi due paesi si va progressivamente riducendo. Qual è il livello critico dei tassi, oltre il quale il debito è destinato comunque a salire, almeno in termini relativi rispetto al Pil? Nessuno può dirlo con certezza, ma secondo un report dei vampiri di Goldman Sachs esso sarebbe per l’Italia intorno al 7%. E ieri i titoli italiani stavano un po’ sopra al 6%... La «sindrome greca» è già oggi qualcosa di più di una semplice possibilità.
La tempesta sta dunque arrivando. Il tempo delle illusioni sta finendo. Si annuncia un tremendo massacro sociale di cui la manovra di luglio è solo un antipasto. I tempi si accorciano anche per le forze anticapitaliste: sicuramente il conflitto di classe tornerà ad accendersi, ma non se ne uscirà vittoriosi senza una piattaforma di misure alternative immediate. Solo una rivoluzione democratica, che ci porti fuori dall’Europa e fuori dal debito (con il suo azzeramento), potrà impedire il massacro che si annuncia. Hic Rhodus, hic salta!
* Fonte: Campo Antimperialista
** Leonardo Mazzei è il portavoce della sezione italiana del Campo Antimperialista
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