SGUARDI CINESI
ovvero, la Cina come metodo
di Sandro Mezzadra e Gigi Roggero
«Giovanni Arrighi sosteneva che recuperando le radici della «rivoluzione industriosa» dell’Asia orientale del XVIII secolo – radicalmente diversa o addirittura contrapposta alla rivoluzione industriale inglese– la Cina ha intrapreso un percorso di sviluppo in direzione di un’economia di mercato potenzialmente non capitalistica. L’era delle riforme inaugurata da Deng Xiao Ping alla fine degli anni Settanta, con buona pace di Pei e di conservatori e progressisti occidentali, non attende di essere coronata dalla costruzione di un regime liberaldemocratico capitalistico, ma ha invece aperto la strada a una possibile fuoriuscita dal capitalismo stesso, happy end che potrebbe quindi coincidere con la fine dell’egemonia americana ipotizzata – con grande lungimiranza e indubbio coraggio – dagli studiosi della world system theory già negli anni Ottanta».
1. Molti sguardi si rivolgono oggi alla Cina. In Italia come negli Stati Uniti questi sguardi sono del resto, e ormai da anni, parte dello scontro politico interno: mentre al di là dell’Atlantico, nella corsa verso le elezioni mid term di inizio novembre, governatori e politici repubblicani e democratici hanno fatto a gara nel proporre misure protezionistiche in funzione anti-cinese, in Italia siamo da tempo abituati alle sortite di leghisti e “tremontiani” contro la minaccia che viene da Oriente. Sullo sfondo, c’è il duro scontro sul valore del renminbi e sul protagonismo globale dei fondi sovrani e di altri attori economici cinesi. Tutto ciò non ha impedito, evidentemente, la corsa di imprenditori “occidentali” ad approfittare dell’“apertura” dei mercati cinesi e soprattutto del lavoro cinese. Per limitarci a una battuta: esisterebbero l’Ipod, l’Iphone e l’Ipad senza gli stabilimenti della Foxconn nelle zone economiche speciali del Sud della Cina? C’è da dubitarne… Neppure ha impedito, del resto, la corsa di Paesi, regioni e città a occupare un posto all’Expo di Shanghai, dove la Repubblica Popolare Cinese ha messo a punto (con risultati di immagine migliori rispetto alle Olimpiadi del 2008) lo sguardo che essa stessa rivolge al mondo. Ed è uno sguardo ammiccante e suadente, impregnato di modernità e tradizione. Better city, better life era lo slogan dell’Expo. E chi non sarebbe d’accordo? Guardando i palazzi del “Bund” (vera e propria esposizione universale dell’architettura modernista europea di inizio Novecento) specchiarsi, oltre le acque del fiume Huangpu, nelle pareti degli avveniristici grattacieli di Pudong (l’area in cui si è concentrata l’espansione urbanistica della città negli ultimi vent’anni), più di un visitatore avrà anzi pensato che Shanghai abbia le carte in regola per candidarsi a divenire il paradigma della «città migliore» del futuro globale.
In questo articolo presentiamo alcune note: note di viaggio di uno di noi, che ha trascorso tre settimane in Cina nel giugno di quest’anno, note di ricerca e di riflessione politica di entrambi. L’obiettivo che ci proponiamo è sostanzialmente di metodo, ed è in questo senso che utilizziamo la categoria di sguardo che abbiamo inserito nel titolo. La domanda che guida le nostre considerazioni potrebbe essere formulata pressappoco in questi termini: che tipo di sguardo è oggi opportuno e politicamente produttivo rivolgere alla Cina per quanti, in Italia e in Europa, hanno a cuore le ragioni della critica radicale del modo di produzione capitalistico e della costruzione, qui e ora, di un altro mondo possibile? Cercheremo in primo luogo di estrapolare, dall’ampia letteratura critica internazionale sulla Cina contemporanea, quelli che ci sembrano gli approcci più interessanti, con cui è a nostro giudizio essenziale dialogare. Ci concentreremo quindi su una breve cronaca delle formidabili lotte operaie che, partendo dallo stabilimento Honda di Foshan (nella provincia meridionale del Guangdong), hanno coinvolto centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori tra la primavera e l’estate di quest’anno – fino a conquistarsi una apposita voce su Wikipedia[1]. E cercheremo nelle caratteristiche di queste lotte, nella composizione di classe che ne è stata protagonista, gli elementi fondamentali che devono orientare il nostro sguardo sulla Cina.
Un’osservazione preliminare è necessaria. La rassegna di approcci alla Cina contemporanea che proporremo è ovviamente tutt’altro che esaustiva. Ha soltanto l’obiettivo di offrire un primo orientamento. Vi sono tuttavia due “discorsi” sulla Cina che terremo certo presenti sullo sfondo del nostro ragionamento, ma da cui consapevolmente scegliamo di prendere le distanze. Il primo è quello “ufficiale” della leadership cinese, che non manca di trovare sparuti sostenitori anche dalle nostre parti: è un discorso che si caratterizza per l’enfasi sulla costruzione del socialismo, sul nuovo equilibrio tra città e campagna, sulla perequazione sociale che la stessa “apertura” della Cina con l’inizio dell’età delle «riforme» avrebbe reso possibile. Si badi, non crediamo che si tratti semplicemente di “propaganda”: al di sotto di questo discorso c’è senz’altro un’idea di governo dello sviluppo che si tratta di cogliere e analizzare per quello che è. Ma certo la propaganda abbonda nelle parole dei dirigenti cinesi: basta salire di sera su uno dei citati grattacieli di Pudong per constatare che il più delle volte non si vede letteralmente nulla, si è avvolti in una densa coltre di smog che ci parla degli immani costi ambientali dello sviluppo cinese; così come basta addentrarsi nella sconfinata periferia di Pechino per arrivare al distretto di Daxing, dove sono sorte negli ultimi due anni 15 aree recintate in cui vivono in condizioni di vera e propria cattività migliaia di migranti poveri provenienti dalle campagne, per avere un’idea dei costi sociali di quello stesso sviluppo. E tutto il mondo è paese, verrebbe da dire scoprendo che questi 15 “villaggi recintati” sono stati istituiti, nell’ambito di un progetto municipale chiamato «management in stile comunitario», per contrastare la «criminalità» di cui i migranti sarebbero portatori[2].
Il secondo discorso da cui ci teniamo a distanza di sicurezza in questo articolo è quello mainstream occidentale sui «diritti umani», recentemente rilanciato in grande stile in occasione del conferimento del premio Nobel per la pace al dissidente incarcerato Liu Xiaobo. Proprio commentando quest’ultimo avvenimento, uno dei più acuti analisti europei della Cina contemporanea, Jean-Louis Rocca, ha affermato in modo convincente che il discorso sui «diritti umani» riferito alla Cina ha la medesima struttura e la medesima funzione del discorso occidentale sul «totalitarismo» sovietico negli anni della guerra fredda. Solo che, aggiunge Rocca, indipendentemente da quel che si può pensare del «totalitarismo sovietico» (e della stessa categoria di totalitarismo) la Cina non è l’Unione sovietica: se lo specchio cinese restituisce oggi all’Occidente l’immagine del medesimo capitalismo globale che domina il pianeta, lo specchio occidentale restituisce alla Cina l’immagine di una crisi della democrazia che è ben lungi dal suscitare passioni popolari. In questa situazione, il punto non è tanto (o soltanto) l’uso da parte di governi e altri attori occidentali del discorso sui «diritti umani»; è che quel discorso si presta a divenire un’arma utilizzata negli scontri politici interni alla leadership cinese sulla direzione e soprattutto sulla velocità del processo di cambiamento e di “riforma” politica di cui tutti riconoscono la necessità. E la decisione del comitato di Oslo rischia di favorire quanti sostengono in questi scontri le posizioni più “conservatrici”[3]. È quasi superfluo affermare che troviamo odiosa la carcerazione di Liu Xiaobo e di molti altri dissidenti, così come la censura esercitata dal governo cinese su Internet e più in generale sull’informazione. Ma riteniamo che queste stesse questioni (a cui se ne potrebbero aggiungere molte altre, a cominciare dalla situazione in Tibet e nello Xinjiang) vadano affrontate a partire da uno sguardo sulla Cina diverso da quello che viene orientato dal discorso mainstream sui diritti umani.
2. Il processo di «modernizzazione economica» intrapreso dalla Cina sul finire degli anni Settanta è una delle più straordinarie imprese di trasformazione sociale della storia, perché si è proposto una doppia transizione: da un «sistema economico statalista-socialista» e da un «regime politico semi-totalitario». Questa è la tesi di Minxin Pei[4]: in questo caso il cantore dello sviluppo economico e sociale cinese, che definisce senza precedenti per rapidità e scala, è tutt’altro che uno studioso disinteressato. Ispirandosi in modo esplicito a Samuel Huntington, Pei è un conservatore trasferitosi negli Stati Uniti ed esperto di relazioni sino-americane, direttore di un importante centro di studi internazionali e strategici americano. Sono il mancato progresso nelle riforme politiche, l’autoritarismo delle élite e la conseguente corruzione che – secondo l’autore – «intrappolano» la transizione cinese. Nello svolgere la sua analisi, Pei è sempre molto attento alle diverse posizioni e allo scontro interni al dibattito del Partito comunista cinese (PCC), già in questo rendendo alquanto sospetta l’etichetta di totalitarismo che costituisce uno dei postulati da cui muovono gli attacchi anti-cinesi in Occidente. In ogni caso, è un’altra dimostrazione di come il vento di critiche al regime della Repubblica Popolare che spira da Ovest abbia spesso non solo chiare motivazioni e finalità, ma anche referenti precisi tra le opzioni attualmente in campo nell’aspro, ancorché piuttosto imperscrutabile per occhi esterni, dibattito politico cinese (oltre che, ovviamente, visibili punti di attacco e intuibili mandanti). E tuttavia, va anche notato che le diverse prese di posizione sul piano internazionale, anche le più discutibili o apertamente reazionarie, ci restituiscono comunque una vivacità di dibattito sulla Cina perlopiù sconosciuta in Italia, dove il meno peggio è rappresentato dalle cronache giornalistiche di Rampini, che mescola buoni reportage con stucchevoli luoghi comuni, seri elementi di riflessione con il fascino ben poco discreto dell’orientalismo[5].
Tra la letteratura che invece nulla ha a che fare con gli obiettivi imperiali, va sicuramente segnalato il lavoro di Giovanni Arrighi, che proprio con Adam Smith a Pechino[6] ha purtroppo concluso il suo importante percorso di ricerca. La tesi del libro è ormai nota: recuperando le radici della «rivoluzione industriosa» dell’Asia orientale del XVIII secolo – radicalmente diversa o addirittura contrapposta alla rivoluzione industriale inglese[7] – la Cina ha intrapreso un percorso di sviluppo in direzione di un’economia di mercato potenzialmente non capitalistica. L’era delle riforme inaugurata da Deng Xiao Ping alla fine degli anni Settanta, con buona pace di Pei e di conservatori e progressisti occidentali, non attende di essere coronata dalla costruzione di un regime liberaldemocratico capitalistico, ma ha invece aperto la strada a una possibile fuoriuscita dal capitalismo stesso, happy end che potrebbe quindi coincidere con la fine dell’egemonia americana ipotizzata – con grande lungimiranza e indubbio coraggio – dagli studiosi della world system theory già negli anni Ottanta[8]. Per sostenere la sua tesi, Arrighi si avvale di una peculiare lettura di Smith, che cessa di essere il malinteso teorico della tradizione liberista per diventare invece l’assertore della necessità del governo dei processi economici e di una via «naturale», ovvero equilibrata, allo sviluppo: l’inascoltato profeta, appunto, di un’economia di mercato non capitalistica. Un confronto serio e approfondito con questa tesi e questa lettura richiederebbe, evidentemente, ben altro spazio. Certo, però, non è privo di interesse ricordare le parole con cui il primo ministro cinese Wen Jiabao rispondeva a Fareed Zakaria su “Newsweek” nel settembre 2008, cioè nel pieno montante della crisi economica globale: «Abbiamo adottato una politica economica in grado di consentire il funzionamento delle forze di mercato nell’assegnazione delle risorse, ma sotto la guida e la regolamentazione macroeconomica del governo. Negli ultimi trent’anni, abbiamo accumulato una grande esperienza nel facilitare il ruolo della mano visibile e della mano invisibile nel regolare le forze di mercato. Se conosce le opere classiche di Adam Smith, ricorderà La ricchezza delle nazioni e il libro sull’etica. Ne La ricchezza delle nazioni si parla della mano invisibile, ovvero delle forze di mercato. L’altra opera tratta invece di uguaglianza e giustizia sociale, e si ribadisce l’importanza del ruolo regolatore del governo nel distribuire con equità la ricchezza tra la popolazione. Se in un Paese la ricchezza è concentrata nelle mani di pochi, allora quel Paese non conoscerà mai stabilità e armonia. Lo stesso vale per l’attuale crisi economica americana. Per risolvere le difficoltà finanziarie ed economiche che oggi affliggono l’America, occorre applicare non solo la mano invisibile, ma anche quella visibile»[9].
A partire da questi presupposti, Arrighi critica la tesi di David Harvey, secondo cui l’«accumulazione attraverso la spoliazione» avrebbe condotto la Repubblica Popolare sulla strada di un neoliberalismo tutt’al più «con caratteristiche cinesi»[10]. Se appare condivisibile la vis polemica di Arrighi nei confronti di un uso troppo largo, e in fondo indeterminato, del concetto di neoliberalismo, lascia invece perplessi l’idea che il successo economico cinese stia realizzando «l’intuizione di Smith di una società del mercato globale basata su una maggiore equità fra le diverse aree mondiali di civiltà»[11]. «Accumulazione senza spoliazione» nelle campagne, persistente influenza dell’eredità della rivoluzione, economia mista, cooperative, alta qualità del lavoro (per richiamare alcune delle formule utilizzate da Arrighi per descrivere l’economia cinese di oggi) finiscono per comporre un quadro davvero un po’ troppo simile alle retoriche dell’«armonia» proposte dall’attuale leadership cinese per risultare credibile. Tanto che, quando nelle ultime pagine del libro («contraddizioni sociali del successo economico») il lettore si trova di fronte alla descrizione di una formidabile «proliferare di lotte sociali nelle aree urbane come in quelle rurali»[12], non può mancare di domandarsi a che cosa sia dovuta questa straordinaria conflittualità sociale. E può finire per pensare che sia appunto una conflittualità meramente sociale, priva di radici nel «successo economico».
Non è d’altronde soltanto la memoria della feroce repressione messa in atto dal regime a farci cercare invano, se non per un fugace accenno, il nome di Piazza Tienanmen nelle oltre quattrocento pagine del volume di Arrighi. Il punto è che attorno a quel movimento, eterogeneo e complesso come tutti i movimenti di massa, si è giocata esattamente la partita dello sviluppo economico e sociale della Cina. In quell’89, sostiene in modo convincente Wang Hui[13] (che di quel movimento fu uno dei protagonisti), è necessario ricercare radici e genealogia del presente, lì bisogna tornare per comprendere la natura e la forma della transizione cinese. Nella sconfitta dei giovani di Tienanmen (studenti e operai, intellettuali e riformatori, critici dell’era delle riforme da posizioni liberali, democratiche e/o radicali) si è affermata quella che, sulla scorta di Andrew Ross[14], possiamo definire una vera e propria controrivoluzione culturale –la radice del radicale processo di spoliticizzazione che costituisce uno dei cardini su cui ha poggiato la stabilità del regime nei vent’anni successivi[15]. Arricchirsi è glorioso, si potrebbe chiosare, citando il titolo italiano del secondo volume dell’esilarante romanzo di Yu Hua, Brothers, eco lontana di altre restaurazioni[16]. Non è in questo senso un caso che uno dei punti centrali di quella che è stata definita la “nuova sinistra” cinese – etichetta attribuita in primo luogo agli intellettuali raccolti fino al 2007 attorno alla direzione della rivista “Dushu” da parte di Wang Hui e Huang Ping[17] – sia la reinterpretazione della Rivoluzione Culturale. Non c’è in questo una riproposizione delle retoriche maoiste, né tantomeno delle sue caricature occidentali: vi è, invece, una battaglia politica sulla contemporaneità, in quanto per il regime denghista – nota ancora Wang Hui – «ogni critica rivolta alla situazione presente può essere considerata un ritorno alla Rivoluzione Culturale e quindi respinta come del tutto irrazionale»[18].
Del resto in Adam Smith a Pechino, coerentemente con l’impostazione di Arrighi e, più in generale, della teoria del «sistema mondo», è lo Stato, colto nel suo costitutivo intreccio con il mercato, il cardine attorno a cui paiono ruotare i processi di trasformazione politica e sociale. Lo Stato e le istituzioni politiche attraverso cui esso si articola sono, per Arrighi, «i “contenitori di potenza” che, nei successivi cicli dell’accumulazione, hanno ospitato il quartier generale dell’organizzazione capitalistica egemone»[19]. Il rischio è che, in questa prospettiva, la lotta di classe finisca per essere ridotta alla mera funzione di pungolo e di acceleratore delle politiche del governo socialista, costringendo la leadership a fare i conti con i bisogni delle masse, a riadattare i propri indirizzi o a cambiare rotta: le lotte, in altri termini, insistono sul partito (e, attraverso la sua mediazione, sullo Stato) anziché sui rapporti di produzione. Nell’ultimo libro di Arrighi vi è certo un tentativo di andare oltre questo modello analitico e politico, in particolare nella sezione dedicata – attraverso un confronto con l’importante lavoro di Beverly Silver[20] - sulla straordinaria rilevanza delle lotte operaie nel determinare la dinamica della crisi in Occidente negli anni Settanta del Novecento. È una fondamentale indicazione di metodo, che pare però accantonata quando il discorso si concentra sulla Cina contemporanea.
In ogni caso, che si concordi o meno con la tesi di Arrighi, il suo lavoro ha l’indubbio merito di situare gli sguardi sulla Cina al di fuori del paradigma dell’eccezione (eccezione totalitaria, o del regime politico, o della cultura, o della tradizione, e via di questo passo). E produce molto spesso un salutare effetto di spiazzamento, come quando, ad esempio, si sofferma sulle forme di accumulazione in Cina: il loro perno non è costituito (ed è qui per noi d’obbligo aggiungere: esclusivamente) dal brutale sfruttamento di una forza lavoro apparentemente inesauribile, ma innanzitutto – scrive Arrighi – dal grande investimento in formazione e ricerca, che ha portato in tempi rapidi alla creazione di un’«immensa schiera di operai industriosi e alfabetizzati [e di] ingegneri, tecnici e scienziati in rapida espansione»[21]. Chi, dunque, rivolge il proprio sguardo alla Cina per cercare lì soltanto la fabbrica del mondo, fedele a quella discutibile idea del fordismo periferico che Harvey ha contribuito a forgiare, finirà invece per trovarvi – come in un gioco di specchi – l’imprescindibile piano di verifica di quelle trasformazioni del lavoro e della produzione contemporanei che si pensavano esclusiva dell’Occidente “avanzato”. Anziché poter incastrare la Cina nella casella ad essa riservata dalla divisione internazionale del lavoro, si sarà invece costretti ad ammettere la problematicità o addirittura lo sciogliersi di quella immagine dentro i nuovi processi globali di sviluppo e conflitto.
3. È il punto di vista delle lotte e della nuova composizione del lavoro a orientare il nostro sguardo all’interno del laboratorio Cina. Arrighi ne ha brevemente descritto il carattere di massa ed espansivo, Beverly Silver ne ha intelligentemente tracciato i nessi con i «cicli» di conflitto globali[22]. Ma quello che è avvenuto negli ultimi mesi rappresenta un salto di scala. La mattina dello scorso 17 maggio un gruppo di lavoratori addetti al reparto montaggio delle fabbriche Honda del distretto industriale di Foshan sono scesi in sciopero, bloccando le linee e rivendicando cospicui aumenti salariali. Nel giro di una settimana circa 1.900 lavoratori avevano disertato le catene di montaggio dei quattro principali stabilimenti della Honda per dar vita a quello che i cronisti hanno immediatamente definito il più grande e straordinario sciopero contro una multinazionale in Cina. Chiari gli obiettivi: salari e ritmi, più soldi e meno lavoro si sarebbe detto un tempo in questa parte del mondo. Inedita la composizione: gli operai che sono scesi in sciopero sono quasi tutti molto giovani (una parte consistente addirittura al di sotto dei vent’anni) e appartengono a una seconda generazione di quei lavoratori migranti che negli ultimi vent’anni sono stati soggetti centrali dei conflitti sul lavoro in Cina. La colossale migrazione interna che è stata una delle leve essenziali della crescita cinese – le statistiche ufficiali parlano di 150 milioni di migranti interni – è del resto all’origine di formidabili trasformazioni che hanno investito il piano del rapporto tra i generi in particolare nelle campagne, rivoluzionando la composizione demografica e del lavoro nel Paese intero. È il caso di sottolineare che i e le migranti “interni” si trovano di fronte in Cina, per via dell’esistenza del sistema di registrazione del domicilio noto come hukou, condizioni e problemi non del tutto dissimili da quelli che incontrano i migranti non comunitari in Italia e in Europa. E il fatto che lo sviluppo cinese sia proceduto attraverso tecniche di zoning che, a partire dall’istituzione delle prime “zone economiche speciali”, hanno introdotto forti elementi di eterogeneità sotto il profilo normativo e territoriale, dovrebbe chiarire l’importanza assunta dall’hukou nella gestione e nel controllo della mobilità del lavoro[23].
E sono state proprio le giovani generazioni di lavoratori migranti a produrre i leader degli scioperi, in un processo di autorganizzazione che si è svolto del tutto al di fuori dei sindacati ufficiali. Si dirà: scelta obbligata, perché i sindacati sono mere articolazioni dello Stato. Cosa certo indiscutibile, che suona del resto un po’ ironica nel Paese dei Marchionne e dei Bonanni: ma non ci sembra che sia questa l’unica dimensione del problema. Il punto è che le nuove figure del lavoro in Cina, non troppo diversamente da quelle alle latitudini a noi più conosciute, esprimono un insieme di tensioni soggettive difficilmente riducibili alle e rappresentabili dalle classiche griglie sindacali. Gli aumenti salariali rivendicati dagli operai della Honda, così come quelli faticosamente guadagnati dalle «operaie» intervistate da Leslie T. Chang[24], servono per inseguire comportamenti e aspirazioni (molto spesso in primo luogo caratterizzati da un’idea vaga ma potente di autonoma imprenditorialità) che sfuggono ai tradizionali codici del movimento operaio. È estremamente istruttivo, in questo senso, leggere un’intervista a Tan Guocheng, l’operaio migrante ventiquattrenne, della provincia dell’Hunan, che ha dato avvio allo sciopero di Foshan fermando le macchine e che ne è divenuto uno dei due principali leader, insieme a Xiao Lang. La narrazione della lotta ricorda gli scioperi operai “classici”, con in più l’elemento dell’uso delle nuove tecnologie di comunicazione e in particolare dei social networks[25]. Ma a colpire è quello che che Tan e Xiao hanno fatto prima di dare avvio allo sciopero: hanno inviato una lettera di dimissioni alla Honda, dando un’espressione davvero singolare al loro rifiuto della disciplina e del lavoro di fabbrica. Il loro futuro è comunque altrove: «volevo semplicemente lottare per ottenere qualche conquista per i miei colleghi di lavoro prima di andarmene», dichiara Tan un mese dopo l’inizio dello sciopero26.
Proprio il citato libro di Lesile Chang, del resto, dà indicazioni piuttosto precise – una volta che lo si legga facendo la tara delle intenzioni “apologetiche” dell’autrice – su che cosa sia questo “altrove” sognato da milioni di proletari e proletarie cinesi dall’interno dei dormitori in cui conducono la loro esistenza irregimentata[27]. Da questa impressionante inchiesta sulle condizioni di vita e di lavoro di giovani donne migranti a Dongguan (ancora nel Guangdong), «espressione perversa ed estrema della Cina contemporanea», gigantesca città fabbrica che produce per i mercati del mondo intero, a emergere è una radicale eterogeneità dei rapporti e delle forme di lavoro – che sembra concentrare diverse epoche e diverse temporalità dello sviluppo capitalistico[28]. Se Pun Ngai insiste giustamente sul fatto che in Cina esiste oggi una «forza lavoro ibrida e transitoria, in continua circolazione tra la fabbrica e la campagna», Chang ci permette di aggiungere che questa stessa forza lavoro è in continuo transito tra diversi regimi lavorativi senza cessare di essere sfruttata: le biografie delle giovani donne da lei intervistate si dipanano infatti non solo tra la città e la campagna, ma anche dagli sweatshop alla fabbrica, dal lavoro formalmente autonomo ai circuiti dello shan-zhai, l’imitazione cinese dei più celebri prodotti delle grandi marche occidentali, in particolare nel campo dell’elettronica – per ricondurci spesso nuovamente agli sweatshop.
Questa stessa mobilità e “transitorietà” contraddistingue anche la vita dei lavoratori e delle lavoratrici che possiamo definire “cognitivi”, assumendo non di rado i tratti di una sfida lanciata al capitale. Alcuni anni fa, in un’importante ricerca etnografica sull’outsourcing dagli Stati Uniti e i lavoratori della conoscenza in Cina, Andrew Ross[29] ha spiegato come le multinazionali che vogliono flessibilità a senso unico e subordinazione a basso costo, devono continuamente fare i conti con l’«egoismo dei lavoratori», ossia con il loro desiderio di essere mobili come i padroni. Sono lavoratori e lavoratrici impazienti e infedeli, riluttanti a un’etica del lavoro messa a dura prova nella quotidiana compravendita di forza lavoro nella regione del delta del Fiume delle perle, e ripagano così della stessa moneta gli imprenditori “fly-by-night”: l’obiettivo è, per le multinazionali così come per gli operai, intascare il bottino e dileguarsi nella notte. E non pare che questo valga soltanto per segmenti particolarmente qualificati del lavoro, se è vero che la direzione della Foxconn di Shenzen (la più grande fabbrica al mondo di outsourcing di prodotti elettronici, fornitrice di marchi come Apple o Dell, nota per il regime militare imposto ai 400.000 operai perlopiù ammassati in sterminati dormitori, e di recente balzata agli onori delle cronache per l’ondata di suicidi dei propri dipendenti) ha candidamente espresso la speranza che gli aumenti salariali strappati dalle lotte recenti possano almeno servire per combattere l’alto turnover della forza lavoro[30]. Il problema del management, in questo caso, non è dunque aumentarne flessibilità e mobilità, come vorrebbero le retoriche dell’impresa postfordista, ma al contrario stabilizzarla e fidelizzarla.
Ad ogni buon conto, è proprio questa ambivalente composizione soggettiva che ha messo in ginocchio la direzione della Honda, costringendola dopo due settimane di sciopero a concedere subito aumenti salariali che vanno dal 24% al 32%. Non solo: appena la notizia si è diffusa, gli operai di numerose fabbriche dell’indotto Honda, ma anche della Toyota e di altre imprese, sono scesi in sciopero nel Guandong e poi in altre province, rivendicando altrettanti aumenti salariali e paga doppia per gli straordinari. E quando nell’impianto della Honda Lock di Zhongshan sono stati offerti 100 yuan (circa 10 euro) in più al mese, 500 lavoratori indignati hanno definito la proposta «un insulto»[31]. Così i padroni, terrorizzati, si sono visti costretti a concedere consistenti aumenti preventivi, fino al 30-40%, per tentare di frenare la propagazione delle lotte – che viaggia veloce attraverso sms, chat, internet e quegli strumenti della tecnologia mobile che gli operai stessi producono. Inoltre, se la prima generazione di lavoratori migranti faceva spesso appello alla legalità socialista contro lo sfruttamento e la corruzione[32], la nuova generazione sembra aver reciso i ponti con il passato anche da questo punto di vista. Come spiega uno dei leader dello sciopero della Honda di Foshan: «dicono che il nostro sciopero è contro la legge, ma nessuno di noi la comprende bene. Tuttavia, nessuno è spaventato e si dice: se è illegale, è illegale. Potete licenziarci se volete; ma se ci licenziate tutti, tutta la vostra produzione si bloccherà»[33]. Dunque, se la legge è contro i lavoratori, i lavoratori sono contro la legge.
La potenza degli scioperi ha messo in discussione l’immagine di presunta docilità dei lavoratori cinesi, in particolare nella regione del delta del Fiume delle perle. La Honda, che ha pianificato di ingrandire di un terzo la sua produzione in Cina entro il 2012, di fronte allo spettro dei conflitti operai fa ora i conti con la vulnerabilità dei suoi cicli altamente automatizzati. Le innumerevoli lotte quotidiane che vengono accuratamente registrate in Cina (sia detto per inciso: le statistiche dei sindacati, degli studiosi e degli uffici del lavoro territoriali sono raccolti in libri pubblicamente accessibili e con una sistematicità che nella libera Italia è sconosciuta[34]) hanno trovato nello sciopero della nuova generazione operaia il detonatore e moltiplicatore di potenza. Dopo ciò che è avvenuto alla Honda, anche l’impressionante serie di suicidi alla Foxconn nei primi mesi di quest’anno ha smesso di essere ricondotta alle insondabili sfere della psicologia individuale, interpretazione fino ad allora prevalente, per disvelare non solo la drammaticità delle condizioni di centinaia di milioni di lavoratori e lavoratrici cinesi, ma soprattutto per fare emergere in controluce – sia pure in modo tragico – il loro diritto alla ribellione per la vita[35].
Come si rapporterà il PCC a questa onda montante di scioperi e lotte? Verrebbe da pensare che essa possa costituire il motore di un nuovo processo di sviluppo e di una sperimentazione costituente, che abbia la composizione di classe emergente al centro del proprio disegno strategico. È davvero difficile, tuttavia, pensare che il Partito possa e intenda farsi carico di un progetto di questo genere. Certo, il nostro scetticismo nei confronti del Partito non deve fare dimenticare che il PCC è ben lungi dall’essere il monolite spesso presentato dai commentatori occidentali: un altro esponente della “nuova sinistra” cinese, il politologo Cui Zhiyuan, ha ad esempio insistito sul fatto che la struttura del potere politico in Cina si definisce all’incrocio tra almeno tre dimensioni – una dimensione “monarchica”, incarnata dal governo centrale e dalla leadership del Partito, una dimensione “aristocratica”, rappresentata dai governi locali e da una serie di gruppi di potere economici, e una dimensione “popolare”. Il PCC, a giudizio di Cui Zhiyuan, si articola su ognuno di questi livelli, tentando di mediare (ma anche interiorizzando) i conflitti che al loro interno si esprimono[36]. Secondo molti commentatori, lo Stato sta oggi tentando di usare le lotte per creare un circolo virtuoso tra crescita dei salari ed espansione del consumo interno, oltre che per stemperare un clima sociale che inizia a diventare minaccioso per la stabilità politica[37]: è infatti proprio il presupposto della “spoliticizzazione” della società, richiamato in precedenza, a essere messo in discussione dall’ondata di scioperi degli ultimi mesi e dalla diffusa solidarietà che ha incontrato in Cina (in particolare, sia pure non soltanto, nelle Università, dove docenti e studenti si sono mobilitati per offrire consulenze e assistenza agli operai in lotta, giungendo a organizzare embrionali gruppi di inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche delle zone economiche speciali).
In qualche modo, il PCC deve fare i conti con questa sfida, che sembra segnare la fine di un’epoca dello sviluppo cinese – quella in cui la Cina era appunto semplicemente la «fabbrica del mondo». E sarà bene tenere presenti gli scioperi del Guangdong seguendo nei prossimi mesi le stesse vicende della quotazione del renminbi. Quel che è certo, in ogni caso, è che l’irrompere della lotta di classe permette di collocare la questione della democrazia nella sua corretta forma, riconducendola alla continua invenzione determinata dai conflitti del lavoro vivo, anziché chiuderla nelle algebriche formule del pluralismo parlamentare: e come ha affermato recentemente Jon Solomon, in un commento all’assegnazione del Nobel a Liu Xiaobo, gli stessi temi dei diritti umani e della dissidenza politica appaiono in una luce nuova una volta che li si collochi nel nuovo scenario aperto dallo sviluppo delle lotte operaie e migranti[38]. Emerge qui il problema del passaggio dalle rivendicazioni economiche alle rivendicazioni politiche di cui parla Li Qiang, direttore di China Labour Watch, una delle tante organizzazioni che – al di fuori dei confini della Repubblica Popolare – fornisce preziosi resoconti e documenti dei conflitti in Cina[39]. Un passaggio, si potrebbe dire, alla questione del potere, da contestare e da istituire.
4. La Cina è un laboratorio, dicevamo. Un laboratorio del capitalismo globale e dello sfruttamento «con caratteristiche cinesi», un laboratorio del mescolarsi di eterogenee forme di sviluppo e produzione, un laboratorio delle nuove lotte operaie e della composizione di classe emergente, un laboratorio della scomposizione e ricomposizione della forma Stato oltre la sua crisi, un laboratorio di permanente anomalia nella costituzione del mercato mondiale e della governance imperiale? Probabilmente, tutte queste cose insieme, e proprio in questa misura – più che nelle ormai esauste retoriche del regime socialista – è o può diventare un laboratorio per la sinistra, o meglio per qualsiasi progetto che si proponga l’ambizioso compito di ripensare dalle fondamenta la sinistra stessa. Da questo punto di vista gli sguardi cinesi possono fare della Cina un metodo[40]. Sarebbe quindi ora di immergersi in questo laboratorio, e dismettere posizioni e retoriche subalterne al mainstream anti-cinese – la residualità di quelle che tessono lodi e giustificazioni della Repubblica Popolare ci pare sufficiente a liquidarle da sé. Non certo perché il regime cinese non vada criticato, al contrario! Ma per farlo è necessario mettere in discussione innanzitutto ciò che il suo sguardo riflette, cioè il mainstream del capitale globale, «con caratteristiche cinesi» naturalmente.
In queste pagine abbiamo provato a offrire una prima panoramica di alcuni dei più interessanti studi critici sulla Cina, a partire dai quali si profila una griglia di problemi teorici e politici con cui è necessario fare i conti – anche in Italia e in Europa. Consideriamo brevemente, per concludere, le tre questioni principali che abbiamo qui sollevato: lo sviluppo, la composizione di classe, le lotte. Una cosa ci pare evidente: le domande che il laboratorio cinese ci consegna non trovano risposte adeguate nella cassetta degli attrezzi della sinistra e del pensiero critico che attorno a essa si è andato costruendo. Riguardo alla prima delle questioni a cui si è fatto cenno, il dibattito politico a sinistra è troppo spesso rimasto intrappolato nella fuorviante alternativa tra le mitologie progressive dello sviluppo industriale e, quasi per reazione, quei richiami alla natura, alla frugalità e alla “decrescita” che, soprattutto in tempi di crisi, si candidano a imbarcare i delusi delle mancate promesse prometeiche del capitalismo. Gli uni e gli altri si nutrono, perlopiù in modo involontario, di uno sguardo conservatore sul mondo postcoloniale: timorosi i primi della minacciosa crescita del suo Pil, i secondi dell’accesso di massa a quei livelli di consumo che, fino a ora, sono stati consentiti esclusivamente alla popolazione occidentale. Dalla Cina, e più in generale dall’Asia[41], ci arrivano contributi fondamentali per ripensare la categoria di sviluppo al di fuori della paralizzante alternativa schematicamente richiamata, che ricorda molto da vicino quella diade sviluppo-sottosviluppo attorno a cui si sono ridefiniti il discorso coloniale nel secondo dopoguerra e quella divisione internazionale del lavoro che oggi abbiamo ipotizzato essere entrata in crisi.
Se orientiamo il nostro sguardo alle fabbriche e alle megalopoli del Guandong, ecco che i confini – tra “primo” e “terzo mondo”, tra zone avanzate e arretrate, tra città e campagna – tendono a scomporsi e ricomporsi su nuove direttrici. Ne emergono forme del lavoro e della produzione, biografie individuali e collettive costitutivamente mobili ed eterogenee, in cui hi-tech e catene di montaggio, smart phone e caserme-dormitorio, knowledge workers, operai e poveri si sovrappongono e mescolano quasi senza soluzione di continuità. Diversamente tanto da Harvey quanto da Arrighi, possiamo dire che la «spoliazione» non è l’eccezione ma la norma dei rapporti di produzione del capitalismo contemporaneo; non in remote aree periferiche ma nella zona economica speciale di Shenzhen o nella global city Shanghai.
Ancora una volta in ogni caso, indipendentemente dal giudizio di merito sulle tesi di Arrighi, il problema che lui pone – quello della direzione che lo sviluppo cinese intraprenderà nella crisi dell’egemonia statunitense – ci pare centrale. Il nocciolo della questione, per noi, non è tuttavia se la Cina sia avviata verso un’economia di mercato post-capitalistica oppure se abbia irrimediabilmente imboccato la strada di un «capitalismo con caratteristiche cinesi»[42]. Ci interessa, invece, distogliere lo sguardo dai palazzi del governo per afferrare un nuovo punto di vista sulle politiche di sviluppo della Repubblica Popolare a partire dagli scioperi della Honda e nel Guandong, apice di una lunga fase di conflitti condotti dalla molteplicità di soggetti che innervano la nuova composizione del lavoro vivo in Cina. Quello tra lotte e partito di governo non è un rapporto né lineare, né gerarchicamente ordinato una volta per tutte. Potremmo dire lo stesso se allargassimo il nostro sguardo verso altri straordinari e contraddittori laboratori della contemporaneità globale, primo tra tutti quello latinoamericano. Eppure, si ha l’impressione che proprio lì – in quel rapporto di conflitto e invenzione tra movimenti e governance, tra lotte e capacità istituente su cui, alla fine, la sinistra è colpevolmente crollata in Italia – si giochi la partita sulla direzione dello sviluppo e la possibilità di interrompere e potenzialmente sovvertire l’incedere dell’eterogenea costituzione dello spazio globale del capitale.
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In questo articolo presentiamo alcune note: note di viaggio di uno di noi, che ha trascorso tre settimane in Cina nel giugno di quest’anno, note di ricerca e di riflessione politica di entrambi. L’obiettivo che ci proponiamo è sostanzialmente di metodo, ed è in questo senso che utilizziamo la categoria di sguardo che abbiamo inserito nel titolo. La domanda che guida le nostre considerazioni potrebbe essere formulata pressappoco in questi termini: che tipo di sguardo è oggi opportuno e politicamente produttivo rivolgere alla Cina per quanti, in Italia e in Europa, hanno a cuore le ragioni della critica radicale del modo di produzione capitalistico e della costruzione, qui e ora, di un altro mondo possibile? Cercheremo in primo luogo di estrapolare, dall’ampia letteratura critica internazionale sulla Cina contemporanea, quelli che ci sembrano gli approcci più interessanti, con cui è a nostro giudizio essenziale dialogare. Ci concentreremo quindi su una breve cronaca delle formidabili lotte operaie che, partendo dallo stabilimento Honda di Foshan (nella provincia meridionale del Guangdong), hanno coinvolto centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori tra la primavera e l’estate di quest’anno – fino a conquistarsi una apposita voce su Wikipedia[1]. E cercheremo nelle caratteristiche di queste lotte, nella composizione di classe che ne è stata protagonista, gli elementi fondamentali che devono orientare il nostro sguardo sulla Cina.
Un’osservazione preliminare è necessaria. La rassegna di approcci alla Cina contemporanea che proporremo è ovviamente tutt’altro che esaustiva. Ha soltanto l’obiettivo di offrire un primo orientamento. Vi sono tuttavia due “discorsi” sulla Cina che terremo certo presenti sullo sfondo del nostro ragionamento, ma da cui consapevolmente scegliamo di prendere le distanze. Il primo è quello “ufficiale” della leadership cinese, che non manca di trovare sparuti sostenitori anche dalle nostre parti: è un discorso che si caratterizza per l’enfasi sulla costruzione del socialismo, sul nuovo equilibrio tra città e campagna, sulla perequazione sociale che la stessa “apertura” della Cina con l’inizio dell’età delle «riforme» avrebbe reso possibile. Si badi, non crediamo che si tratti semplicemente di “propaganda”: al di sotto di questo discorso c’è senz’altro un’idea di governo dello sviluppo che si tratta di cogliere e analizzare per quello che è. Ma certo la propaganda abbonda nelle parole dei dirigenti cinesi: basta salire di sera su uno dei citati grattacieli di Pudong per constatare che il più delle volte non si vede letteralmente nulla, si è avvolti in una densa coltre di smog che ci parla degli immani costi ambientali dello sviluppo cinese; così come basta addentrarsi nella sconfinata periferia di Pechino per arrivare al distretto di Daxing, dove sono sorte negli ultimi due anni 15 aree recintate in cui vivono in condizioni di vera e propria cattività migliaia di migranti poveri provenienti dalle campagne, per avere un’idea dei costi sociali di quello stesso sviluppo. E tutto il mondo è paese, verrebbe da dire scoprendo che questi 15 “villaggi recintati” sono stati istituiti, nell’ambito di un progetto municipale chiamato «management in stile comunitario», per contrastare la «criminalità» di cui i migranti sarebbero portatori[2].
Il secondo discorso da cui ci teniamo a distanza di sicurezza in questo articolo è quello mainstream occidentale sui «diritti umani», recentemente rilanciato in grande stile in occasione del conferimento del premio Nobel per la pace al dissidente incarcerato Liu Xiaobo. Proprio commentando quest’ultimo avvenimento, uno dei più acuti analisti europei della Cina contemporanea, Jean-Louis Rocca, ha affermato in modo convincente che il discorso sui «diritti umani» riferito alla Cina ha la medesima struttura e la medesima funzione del discorso occidentale sul «totalitarismo» sovietico negli anni della guerra fredda. Solo che, aggiunge Rocca, indipendentemente da quel che si può pensare del «totalitarismo sovietico» (e della stessa categoria di totalitarismo) la Cina non è l’Unione sovietica: se lo specchio cinese restituisce oggi all’Occidente l’immagine del medesimo capitalismo globale che domina il pianeta, lo specchio occidentale restituisce alla Cina l’immagine di una crisi della democrazia che è ben lungi dal suscitare passioni popolari. In questa situazione, il punto non è tanto (o soltanto) l’uso da parte di governi e altri attori occidentali del discorso sui «diritti umani»; è che quel discorso si presta a divenire un’arma utilizzata negli scontri politici interni alla leadership cinese sulla direzione e soprattutto sulla velocità del processo di cambiamento e di “riforma” politica di cui tutti riconoscono la necessità. E la decisione del comitato di Oslo rischia di favorire quanti sostengono in questi scontri le posizioni più “conservatrici”[3]. È quasi superfluo affermare che troviamo odiosa la carcerazione di Liu Xiaobo e di molti altri dissidenti, così come la censura esercitata dal governo cinese su Internet e più in generale sull’informazione. Ma riteniamo che queste stesse questioni (a cui se ne potrebbero aggiungere molte altre, a cominciare dalla situazione in Tibet e nello Xinjiang) vadano affrontate a partire da uno sguardo sulla Cina diverso da quello che viene orientato dal discorso mainstream sui diritti umani.
2. Il processo di «modernizzazione economica» intrapreso dalla Cina sul finire degli anni Settanta è una delle più straordinarie imprese di trasformazione sociale della storia, perché si è proposto una doppia transizione: da un «sistema economico statalista-socialista» e da un «regime politico semi-totalitario». Questa è la tesi di Minxin Pei[4]: in questo caso il cantore dello sviluppo economico e sociale cinese, che definisce senza precedenti per rapidità e scala, è tutt’altro che uno studioso disinteressato. Ispirandosi in modo esplicito a Samuel Huntington, Pei è un conservatore trasferitosi negli Stati Uniti ed esperto di relazioni sino-americane, direttore di un importante centro di studi internazionali e strategici americano. Sono il mancato progresso nelle riforme politiche, l’autoritarismo delle élite e la conseguente corruzione che – secondo l’autore – «intrappolano» la transizione cinese. Nello svolgere la sua analisi, Pei è sempre molto attento alle diverse posizioni e allo scontro interni al dibattito del Partito comunista cinese (PCC), già in questo rendendo alquanto sospetta l’etichetta di totalitarismo che costituisce uno dei postulati da cui muovono gli attacchi anti-cinesi in Occidente. In ogni caso, è un’altra dimostrazione di come il vento di critiche al regime della Repubblica Popolare che spira da Ovest abbia spesso non solo chiare motivazioni e finalità, ma anche referenti precisi tra le opzioni attualmente in campo nell’aspro, ancorché piuttosto imperscrutabile per occhi esterni, dibattito politico cinese (oltre che, ovviamente, visibili punti di attacco e intuibili mandanti). E tuttavia, va anche notato che le diverse prese di posizione sul piano internazionale, anche le più discutibili o apertamente reazionarie, ci restituiscono comunque una vivacità di dibattito sulla Cina perlopiù sconosciuta in Italia, dove il meno peggio è rappresentato dalle cronache giornalistiche di Rampini, che mescola buoni reportage con stucchevoli luoghi comuni, seri elementi di riflessione con il fascino ben poco discreto dell’orientalismo[5].
Tra la letteratura che invece nulla ha a che fare con gli obiettivi imperiali, va sicuramente segnalato il lavoro di Giovanni Arrighi, che proprio con Adam Smith a Pechino[6] ha purtroppo concluso il suo importante percorso di ricerca. La tesi del libro è ormai nota: recuperando le radici della «rivoluzione industriosa» dell’Asia orientale del XVIII secolo – radicalmente diversa o addirittura contrapposta alla rivoluzione industriale inglese[7] – la Cina ha intrapreso un percorso di sviluppo in direzione di un’economia di mercato potenzialmente non capitalistica. L’era delle riforme inaugurata da Deng Xiao Ping alla fine degli anni Settanta, con buona pace di Pei e di conservatori e progressisti occidentali, non attende di essere coronata dalla costruzione di un regime liberaldemocratico capitalistico, ma ha invece aperto la strada a una possibile fuoriuscita dal capitalismo stesso, happy end che potrebbe quindi coincidere con la fine dell’egemonia americana ipotizzata – con grande lungimiranza e indubbio coraggio – dagli studiosi della world system theory già negli anni Ottanta[8]. Per sostenere la sua tesi, Arrighi si avvale di una peculiare lettura di Smith, che cessa di essere il malinteso teorico della tradizione liberista per diventare invece l’assertore della necessità del governo dei processi economici e di una via «naturale», ovvero equilibrata, allo sviluppo: l’inascoltato profeta, appunto, di un’economia di mercato non capitalistica. Un confronto serio e approfondito con questa tesi e questa lettura richiederebbe, evidentemente, ben altro spazio. Certo, però, non è privo di interesse ricordare le parole con cui il primo ministro cinese Wen Jiabao rispondeva a Fareed Zakaria su “Newsweek” nel settembre 2008, cioè nel pieno montante della crisi economica globale: «Abbiamo adottato una politica economica in grado di consentire il funzionamento delle forze di mercato nell’assegnazione delle risorse, ma sotto la guida e la regolamentazione macroeconomica del governo. Negli ultimi trent’anni, abbiamo accumulato una grande esperienza nel facilitare il ruolo della mano visibile e della mano invisibile nel regolare le forze di mercato. Se conosce le opere classiche di Adam Smith, ricorderà La ricchezza delle nazioni e il libro sull’etica. Ne La ricchezza delle nazioni si parla della mano invisibile, ovvero delle forze di mercato. L’altra opera tratta invece di uguaglianza e giustizia sociale, e si ribadisce l’importanza del ruolo regolatore del governo nel distribuire con equità la ricchezza tra la popolazione. Se in un Paese la ricchezza è concentrata nelle mani di pochi, allora quel Paese non conoscerà mai stabilità e armonia. Lo stesso vale per l’attuale crisi economica americana. Per risolvere le difficoltà finanziarie ed economiche che oggi affliggono l’America, occorre applicare non solo la mano invisibile, ma anche quella visibile»[9].
A partire da questi presupposti, Arrighi critica la tesi di David Harvey, secondo cui l’«accumulazione attraverso la spoliazione» avrebbe condotto la Repubblica Popolare sulla strada di un neoliberalismo tutt’al più «con caratteristiche cinesi»[10]. Se appare condivisibile la vis polemica di Arrighi nei confronti di un uso troppo largo, e in fondo indeterminato, del concetto di neoliberalismo, lascia invece perplessi l’idea che il successo economico cinese stia realizzando «l’intuizione di Smith di una società del mercato globale basata su una maggiore equità fra le diverse aree mondiali di civiltà»[11]. «Accumulazione senza spoliazione» nelle campagne, persistente influenza dell’eredità della rivoluzione, economia mista, cooperative, alta qualità del lavoro (per richiamare alcune delle formule utilizzate da Arrighi per descrivere l’economia cinese di oggi) finiscono per comporre un quadro davvero un po’ troppo simile alle retoriche dell’«armonia» proposte dall’attuale leadership cinese per risultare credibile. Tanto che, quando nelle ultime pagine del libro («contraddizioni sociali del successo economico») il lettore si trova di fronte alla descrizione di una formidabile «proliferare di lotte sociali nelle aree urbane come in quelle rurali»[12], non può mancare di domandarsi a che cosa sia dovuta questa straordinaria conflittualità sociale. E può finire per pensare che sia appunto una conflittualità meramente sociale, priva di radici nel «successo economico».
Non è d’altronde soltanto la memoria della feroce repressione messa in atto dal regime a farci cercare invano, se non per un fugace accenno, il nome di Piazza Tienanmen nelle oltre quattrocento pagine del volume di Arrighi. Il punto è che attorno a quel movimento, eterogeneo e complesso come tutti i movimenti di massa, si è giocata esattamente la partita dello sviluppo economico e sociale della Cina. In quell’89, sostiene in modo convincente Wang Hui[13] (che di quel movimento fu uno dei protagonisti), è necessario ricercare radici e genealogia del presente, lì bisogna tornare per comprendere la natura e la forma della transizione cinese. Nella sconfitta dei giovani di Tienanmen (studenti e operai, intellettuali e riformatori, critici dell’era delle riforme da posizioni liberali, democratiche e/o radicali) si è affermata quella che, sulla scorta di Andrew Ross[14], possiamo definire una vera e propria controrivoluzione culturale –la radice del radicale processo di spoliticizzazione che costituisce uno dei cardini su cui ha poggiato la stabilità del regime nei vent’anni successivi[15]. Arricchirsi è glorioso, si potrebbe chiosare, citando il titolo italiano del secondo volume dell’esilarante romanzo di Yu Hua, Brothers, eco lontana di altre restaurazioni[16]. Non è in questo senso un caso che uno dei punti centrali di quella che è stata definita la “nuova sinistra” cinese – etichetta attribuita in primo luogo agli intellettuali raccolti fino al 2007 attorno alla direzione della rivista “Dushu” da parte di Wang Hui e Huang Ping[17] – sia la reinterpretazione della Rivoluzione Culturale. Non c’è in questo una riproposizione delle retoriche maoiste, né tantomeno delle sue caricature occidentali: vi è, invece, una battaglia politica sulla contemporaneità, in quanto per il regime denghista – nota ancora Wang Hui – «ogni critica rivolta alla situazione presente può essere considerata un ritorno alla Rivoluzione Culturale e quindi respinta come del tutto irrazionale»[18].
Del resto in Adam Smith a Pechino, coerentemente con l’impostazione di Arrighi e, più in generale, della teoria del «sistema mondo», è lo Stato, colto nel suo costitutivo intreccio con il mercato, il cardine attorno a cui paiono ruotare i processi di trasformazione politica e sociale. Lo Stato e le istituzioni politiche attraverso cui esso si articola sono, per Arrighi, «i “contenitori di potenza” che, nei successivi cicli dell’accumulazione, hanno ospitato il quartier generale dell’organizzazione capitalistica egemone»[19]. Il rischio è che, in questa prospettiva, la lotta di classe finisca per essere ridotta alla mera funzione di pungolo e di acceleratore delle politiche del governo socialista, costringendo la leadership a fare i conti con i bisogni delle masse, a riadattare i propri indirizzi o a cambiare rotta: le lotte, in altri termini, insistono sul partito (e, attraverso la sua mediazione, sullo Stato) anziché sui rapporti di produzione. Nell’ultimo libro di Arrighi vi è certo un tentativo di andare oltre questo modello analitico e politico, in particolare nella sezione dedicata – attraverso un confronto con l’importante lavoro di Beverly Silver[20] - sulla straordinaria rilevanza delle lotte operaie nel determinare la dinamica della crisi in Occidente negli anni Settanta del Novecento. È una fondamentale indicazione di metodo, che pare però accantonata quando il discorso si concentra sulla Cina contemporanea.
In ogni caso, che si concordi o meno con la tesi di Arrighi, il suo lavoro ha l’indubbio merito di situare gli sguardi sulla Cina al di fuori del paradigma dell’eccezione (eccezione totalitaria, o del regime politico, o della cultura, o della tradizione, e via di questo passo). E produce molto spesso un salutare effetto di spiazzamento, come quando, ad esempio, si sofferma sulle forme di accumulazione in Cina: il loro perno non è costituito (ed è qui per noi d’obbligo aggiungere: esclusivamente) dal brutale sfruttamento di una forza lavoro apparentemente inesauribile, ma innanzitutto – scrive Arrighi – dal grande investimento in formazione e ricerca, che ha portato in tempi rapidi alla creazione di un’«immensa schiera di operai industriosi e alfabetizzati [e di] ingegneri, tecnici e scienziati in rapida espansione»[21]. Chi, dunque, rivolge il proprio sguardo alla Cina per cercare lì soltanto la fabbrica del mondo, fedele a quella discutibile idea del fordismo periferico che Harvey ha contribuito a forgiare, finirà invece per trovarvi – come in un gioco di specchi – l’imprescindibile piano di verifica di quelle trasformazioni del lavoro e della produzione contemporanei che si pensavano esclusiva dell’Occidente “avanzato”. Anziché poter incastrare la Cina nella casella ad essa riservata dalla divisione internazionale del lavoro, si sarà invece costretti ad ammettere la problematicità o addirittura lo sciogliersi di quella immagine dentro i nuovi processi globali di sviluppo e conflitto.
3. È il punto di vista delle lotte e della nuova composizione del lavoro a orientare il nostro sguardo all’interno del laboratorio Cina. Arrighi ne ha brevemente descritto il carattere di massa ed espansivo, Beverly Silver ne ha intelligentemente tracciato i nessi con i «cicli» di conflitto globali[22]. Ma quello che è avvenuto negli ultimi mesi rappresenta un salto di scala. La mattina dello scorso 17 maggio un gruppo di lavoratori addetti al reparto montaggio delle fabbriche Honda del distretto industriale di Foshan sono scesi in sciopero, bloccando le linee e rivendicando cospicui aumenti salariali. Nel giro di una settimana circa 1.900 lavoratori avevano disertato le catene di montaggio dei quattro principali stabilimenti della Honda per dar vita a quello che i cronisti hanno immediatamente definito il più grande e straordinario sciopero contro una multinazionale in Cina. Chiari gli obiettivi: salari e ritmi, più soldi e meno lavoro si sarebbe detto un tempo in questa parte del mondo. Inedita la composizione: gli operai che sono scesi in sciopero sono quasi tutti molto giovani (una parte consistente addirittura al di sotto dei vent’anni) e appartengono a una seconda generazione di quei lavoratori migranti che negli ultimi vent’anni sono stati soggetti centrali dei conflitti sul lavoro in Cina. La colossale migrazione interna che è stata una delle leve essenziali della crescita cinese – le statistiche ufficiali parlano di 150 milioni di migranti interni – è del resto all’origine di formidabili trasformazioni che hanno investito il piano del rapporto tra i generi in particolare nelle campagne, rivoluzionando la composizione demografica e del lavoro nel Paese intero. È il caso di sottolineare che i e le migranti “interni” si trovano di fronte in Cina, per via dell’esistenza del sistema di registrazione del domicilio noto come hukou, condizioni e problemi non del tutto dissimili da quelli che incontrano i migranti non comunitari in Italia e in Europa. E il fatto che lo sviluppo cinese sia proceduto attraverso tecniche di zoning che, a partire dall’istituzione delle prime “zone economiche speciali”, hanno introdotto forti elementi di eterogeneità sotto il profilo normativo e territoriale, dovrebbe chiarire l’importanza assunta dall’hukou nella gestione e nel controllo della mobilità del lavoro[23].
E sono state proprio le giovani generazioni di lavoratori migranti a produrre i leader degli scioperi, in un processo di autorganizzazione che si è svolto del tutto al di fuori dei sindacati ufficiali. Si dirà: scelta obbligata, perché i sindacati sono mere articolazioni dello Stato. Cosa certo indiscutibile, che suona del resto un po’ ironica nel Paese dei Marchionne e dei Bonanni: ma non ci sembra che sia questa l’unica dimensione del problema. Il punto è che le nuove figure del lavoro in Cina, non troppo diversamente da quelle alle latitudini a noi più conosciute, esprimono un insieme di tensioni soggettive difficilmente riducibili alle e rappresentabili dalle classiche griglie sindacali. Gli aumenti salariali rivendicati dagli operai della Honda, così come quelli faticosamente guadagnati dalle «operaie» intervistate da Leslie T. Chang[24], servono per inseguire comportamenti e aspirazioni (molto spesso in primo luogo caratterizzati da un’idea vaga ma potente di autonoma imprenditorialità) che sfuggono ai tradizionali codici del movimento operaio. È estremamente istruttivo, in questo senso, leggere un’intervista a Tan Guocheng, l’operaio migrante ventiquattrenne, della provincia dell’Hunan, che ha dato avvio allo sciopero di Foshan fermando le macchine e che ne è divenuto uno dei due principali leader, insieme a Xiao Lang. La narrazione della lotta ricorda gli scioperi operai “classici”, con in più l’elemento dell’uso delle nuove tecnologie di comunicazione e in particolare dei social networks[25]. Ma a colpire è quello che che Tan e Xiao hanno fatto prima di dare avvio allo sciopero: hanno inviato una lettera di dimissioni alla Honda, dando un’espressione davvero singolare al loro rifiuto della disciplina e del lavoro di fabbrica. Il loro futuro è comunque altrove: «volevo semplicemente lottare per ottenere qualche conquista per i miei colleghi di lavoro prima di andarmene», dichiara Tan un mese dopo l’inizio dello sciopero26.
Proprio il citato libro di Lesile Chang, del resto, dà indicazioni piuttosto precise – una volta che lo si legga facendo la tara delle intenzioni “apologetiche” dell’autrice – su che cosa sia questo “altrove” sognato da milioni di proletari e proletarie cinesi dall’interno dei dormitori in cui conducono la loro esistenza irregimentata[27]. Da questa impressionante inchiesta sulle condizioni di vita e di lavoro di giovani donne migranti a Dongguan (ancora nel Guangdong), «espressione perversa ed estrema della Cina contemporanea», gigantesca città fabbrica che produce per i mercati del mondo intero, a emergere è una radicale eterogeneità dei rapporti e delle forme di lavoro – che sembra concentrare diverse epoche e diverse temporalità dello sviluppo capitalistico[28]. Se Pun Ngai insiste giustamente sul fatto che in Cina esiste oggi una «forza lavoro ibrida e transitoria, in continua circolazione tra la fabbrica e la campagna», Chang ci permette di aggiungere che questa stessa forza lavoro è in continuo transito tra diversi regimi lavorativi senza cessare di essere sfruttata: le biografie delle giovani donne da lei intervistate si dipanano infatti non solo tra la città e la campagna, ma anche dagli sweatshop alla fabbrica, dal lavoro formalmente autonomo ai circuiti dello shan-zhai, l’imitazione cinese dei più celebri prodotti delle grandi marche occidentali, in particolare nel campo dell’elettronica – per ricondurci spesso nuovamente agli sweatshop.
Questa stessa mobilità e “transitorietà” contraddistingue anche la vita dei lavoratori e delle lavoratrici che possiamo definire “cognitivi”, assumendo non di rado i tratti di una sfida lanciata al capitale. Alcuni anni fa, in un’importante ricerca etnografica sull’outsourcing dagli Stati Uniti e i lavoratori della conoscenza in Cina, Andrew Ross[29] ha spiegato come le multinazionali che vogliono flessibilità a senso unico e subordinazione a basso costo, devono continuamente fare i conti con l’«egoismo dei lavoratori», ossia con il loro desiderio di essere mobili come i padroni. Sono lavoratori e lavoratrici impazienti e infedeli, riluttanti a un’etica del lavoro messa a dura prova nella quotidiana compravendita di forza lavoro nella regione del delta del Fiume delle perle, e ripagano così della stessa moneta gli imprenditori “fly-by-night”: l’obiettivo è, per le multinazionali così come per gli operai, intascare il bottino e dileguarsi nella notte. E non pare che questo valga soltanto per segmenti particolarmente qualificati del lavoro, se è vero che la direzione della Foxconn di Shenzen (la più grande fabbrica al mondo di outsourcing di prodotti elettronici, fornitrice di marchi come Apple o Dell, nota per il regime militare imposto ai 400.000 operai perlopiù ammassati in sterminati dormitori, e di recente balzata agli onori delle cronache per l’ondata di suicidi dei propri dipendenti) ha candidamente espresso la speranza che gli aumenti salariali strappati dalle lotte recenti possano almeno servire per combattere l’alto turnover della forza lavoro[30]. Il problema del management, in questo caso, non è dunque aumentarne flessibilità e mobilità, come vorrebbero le retoriche dell’impresa postfordista, ma al contrario stabilizzarla e fidelizzarla.
Ad ogni buon conto, è proprio questa ambivalente composizione soggettiva che ha messo in ginocchio la direzione della Honda, costringendola dopo due settimane di sciopero a concedere subito aumenti salariali che vanno dal 24% al 32%. Non solo: appena la notizia si è diffusa, gli operai di numerose fabbriche dell’indotto Honda, ma anche della Toyota e di altre imprese, sono scesi in sciopero nel Guandong e poi in altre province, rivendicando altrettanti aumenti salariali e paga doppia per gli straordinari. E quando nell’impianto della Honda Lock di Zhongshan sono stati offerti 100 yuan (circa 10 euro) in più al mese, 500 lavoratori indignati hanno definito la proposta «un insulto»[31]. Così i padroni, terrorizzati, si sono visti costretti a concedere consistenti aumenti preventivi, fino al 30-40%, per tentare di frenare la propagazione delle lotte – che viaggia veloce attraverso sms, chat, internet e quegli strumenti della tecnologia mobile che gli operai stessi producono. Inoltre, se la prima generazione di lavoratori migranti faceva spesso appello alla legalità socialista contro lo sfruttamento e la corruzione[32], la nuova generazione sembra aver reciso i ponti con il passato anche da questo punto di vista. Come spiega uno dei leader dello sciopero della Honda di Foshan: «dicono che il nostro sciopero è contro la legge, ma nessuno di noi la comprende bene. Tuttavia, nessuno è spaventato e si dice: se è illegale, è illegale. Potete licenziarci se volete; ma se ci licenziate tutti, tutta la vostra produzione si bloccherà»[33]. Dunque, se la legge è contro i lavoratori, i lavoratori sono contro la legge.
La potenza degli scioperi ha messo in discussione l’immagine di presunta docilità dei lavoratori cinesi, in particolare nella regione del delta del Fiume delle perle. La Honda, che ha pianificato di ingrandire di un terzo la sua produzione in Cina entro il 2012, di fronte allo spettro dei conflitti operai fa ora i conti con la vulnerabilità dei suoi cicli altamente automatizzati. Le innumerevoli lotte quotidiane che vengono accuratamente registrate in Cina (sia detto per inciso: le statistiche dei sindacati, degli studiosi e degli uffici del lavoro territoriali sono raccolti in libri pubblicamente accessibili e con una sistematicità che nella libera Italia è sconosciuta[34]) hanno trovato nello sciopero della nuova generazione operaia il detonatore e moltiplicatore di potenza. Dopo ciò che è avvenuto alla Honda, anche l’impressionante serie di suicidi alla Foxconn nei primi mesi di quest’anno ha smesso di essere ricondotta alle insondabili sfere della psicologia individuale, interpretazione fino ad allora prevalente, per disvelare non solo la drammaticità delle condizioni di centinaia di milioni di lavoratori e lavoratrici cinesi, ma soprattutto per fare emergere in controluce – sia pure in modo tragico – il loro diritto alla ribellione per la vita[35].
Come si rapporterà il PCC a questa onda montante di scioperi e lotte? Verrebbe da pensare che essa possa costituire il motore di un nuovo processo di sviluppo e di una sperimentazione costituente, che abbia la composizione di classe emergente al centro del proprio disegno strategico. È davvero difficile, tuttavia, pensare che il Partito possa e intenda farsi carico di un progetto di questo genere. Certo, il nostro scetticismo nei confronti del Partito non deve fare dimenticare che il PCC è ben lungi dall’essere il monolite spesso presentato dai commentatori occidentali: un altro esponente della “nuova sinistra” cinese, il politologo Cui Zhiyuan, ha ad esempio insistito sul fatto che la struttura del potere politico in Cina si definisce all’incrocio tra almeno tre dimensioni – una dimensione “monarchica”, incarnata dal governo centrale e dalla leadership del Partito, una dimensione “aristocratica”, rappresentata dai governi locali e da una serie di gruppi di potere economici, e una dimensione “popolare”. Il PCC, a giudizio di Cui Zhiyuan, si articola su ognuno di questi livelli, tentando di mediare (ma anche interiorizzando) i conflitti che al loro interno si esprimono[36]. Secondo molti commentatori, lo Stato sta oggi tentando di usare le lotte per creare un circolo virtuoso tra crescita dei salari ed espansione del consumo interno, oltre che per stemperare un clima sociale che inizia a diventare minaccioso per la stabilità politica[37]: è infatti proprio il presupposto della “spoliticizzazione” della società, richiamato in precedenza, a essere messo in discussione dall’ondata di scioperi degli ultimi mesi e dalla diffusa solidarietà che ha incontrato in Cina (in particolare, sia pure non soltanto, nelle Università, dove docenti e studenti si sono mobilitati per offrire consulenze e assistenza agli operai in lotta, giungendo a organizzare embrionali gruppi di inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche delle zone economiche speciali).
In qualche modo, il PCC deve fare i conti con questa sfida, che sembra segnare la fine di un’epoca dello sviluppo cinese – quella in cui la Cina era appunto semplicemente la «fabbrica del mondo». E sarà bene tenere presenti gli scioperi del Guangdong seguendo nei prossimi mesi le stesse vicende della quotazione del renminbi. Quel che è certo, in ogni caso, è che l’irrompere della lotta di classe permette di collocare la questione della democrazia nella sua corretta forma, riconducendola alla continua invenzione determinata dai conflitti del lavoro vivo, anziché chiuderla nelle algebriche formule del pluralismo parlamentare: e come ha affermato recentemente Jon Solomon, in un commento all’assegnazione del Nobel a Liu Xiaobo, gli stessi temi dei diritti umani e della dissidenza politica appaiono in una luce nuova una volta che li si collochi nel nuovo scenario aperto dallo sviluppo delle lotte operaie e migranti[38]. Emerge qui il problema del passaggio dalle rivendicazioni economiche alle rivendicazioni politiche di cui parla Li Qiang, direttore di China Labour Watch, una delle tante organizzazioni che – al di fuori dei confini della Repubblica Popolare – fornisce preziosi resoconti e documenti dei conflitti in Cina[39]. Un passaggio, si potrebbe dire, alla questione del potere, da contestare e da istituire.
4. La Cina è un laboratorio, dicevamo. Un laboratorio del capitalismo globale e dello sfruttamento «con caratteristiche cinesi», un laboratorio del mescolarsi di eterogenee forme di sviluppo e produzione, un laboratorio delle nuove lotte operaie e della composizione di classe emergente, un laboratorio della scomposizione e ricomposizione della forma Stato oltre la sua crisi, un laboratorio di permanente anomalia nella costituzione del mercato mondiale e della governance imperiale? Probabilmente, tutte queste cose insieme, e proprio in questa misura – più che nelle ormai esauste retoriche del regime socialista – è o può diventare un laboratorio per la sinistra, o meglio per qualsiasi progetto che si proponga l’ambizioso compito di ripensare dalle fondamenta la sinistra stessa. Da questo punto di vista gli sguardi cinesi possono fare della Cina un metodo[40]. Sarebbe quindi ora di immergersi in questo laboratorio, e dismettere posizioni e retoriche subalterne al mainstream anti-cinese – la residualità di quelle che tessono lodi e giustificazioni della Repubblica Popolare ci pare sufficiente a liquidarle da sé. Non certo perché il regime cinese non vada criticato, al contrario! Ma per farlo è necessario mettere in discussione innanzitutto ciò che il suo sguardo riflette, cioè il mainstream del capitale globale, «con caratteristiche cinesi» naturalmente.
In queste pagine abbiamo provato a offrire una prima panoramica di alcuni dei più interessanti studi critici sulla Cina, a partire dai quali si profila una griglia di problemi teorici e politici con cui è necessario fare i conti – anche in Italia e in Europa. Consideriamo brevemente, per concludere, le tre questioni principali che abbiamo qui sollevato: lo sviluppo, la composizione di classe, le lotte. Una cosa ci pare evidente: le domande che il laboratorio cinese ci consegna non trovano risposte adeguate nella cassetta degli attrezzi della sinistra e del pensiero critico che attorno a essa si è andato costruendo. Riguardo alla prima delle questioni a cui si è fatto cenno, il dibattito politico a sinistra è troppo spesso rimasto intrappolato nella fuorviante alternativa tra le mitologie progressive dello sviluppo industriale e, quasi per reazione, quei richiami alla natura, alla frugalità e alla “decrescita” che, soprattutto in tempi di crisi, si candidano a imbarcare i delusi delle mancate promesse prometeiche del capitalismo. Gli uni e gli altri si nutrono, perlopiù in modo involontario, di uno sguardo conservatore sul mondo postcoloniale: timorosi i primi della minacciosa crescita del suo Pil, i secondi dell’accesso di massa a quei livelli di consumo che, fino a ora, sono stati consentiti esclusivamente alla popolazione occidentale. Dalla Cina, e più in generale dall’Asia[41], ci arrivano contributi fondamentali per ripensare la categoria di sviluppo al di fuori della paralizzante alternativa schematicamente richiamata, che ricorda molto da vicino quella diade sviluppo-sottosviluppo attorno a cui si sono ridefiniti il discorso coloniale nel secondo dopoguerra e quella divisione internazionale del lavoro che oggi abbiamo ipotizzato essere entrata in crisi.
Se orientiamo il nostro sguardo alle fabbriche e alle megalopoli del Guandong, ecco che i confini – tra “primo” e “terzo mondo”, tra zone avanzate e arretrate, tra città e campagna – tendono a scomporsi e ricomporsi su nuove direttrici. Ne emergono forme del lavoro e della produzione, biografie individuali e collettive costitutivamente mobili ed eterogenee, in cui hi-tech e catene di montaggio, smart phone e caserme-dormitorio, knowledge workers, operai e poveri si sovrappongono e mescolano quasi senza soluzione di continuità. Diversamente tanto da Harvey quanto da Arrighi, possiamo dire che la «spoliazione» non è l’eccezione ma la norma dei rapporti di produzione del capitalismo contemporaneo; non in remote aree periferiche ma nella zona economica speciale di Shenzhen o nella global city Shanghai.
Ancora una volta in ogni caso, indipendentemente dal giudizio di merito sulle tesi di Arrighi, il problema che lui pone – quello della direzione che lo sviluppo cinese intraprenderà nella crisi dell’egemonia statunitense – ci pare centrale. Il nocciolo della questione, per noi, non è tuttavia se la Cina sia avviata verso un’economia di mercato post-capitalistica oppure se abbia irrimediabilmente imboccato la strada di un «capitalismo con caratteristiche cinesi»[42]. Ci interessa, invece, distogliere lo sguardo dai palazzi del governo per afferrare un nuovo punto di vista sulle politiche di sviluppo della Repubblica Popolare a partire dagli scioperi della Honda e nel Guandong, apice di una lunga fase di conflitti condotti dalla molteplicità di soggetti che innervano la nuova composizione del lavoro vivo in Cina. Quello tra lotte e partito di governo non è un rapporto né lineare, né gerarchicamente ordinato una volta per tutte. Potremmo dire lo stesso se allargassimo il nostro sguardo verso altri straordinari e contraddittori laboratori della contemporaneità globale, primo tra tutti quello latinoamericano. Eppure, si ha l’impressione che proprio lì – in quel rapporto di conflitto e invenzione tra movimenti e governance, tra lotte e capacità istituente su cui, alla fine, la sinistra è colpevolmente crollata in Italia – si giochi la partita sulla direzione dello sviluppo e la possibilità di interrompere e potenzialmente sovvertire l’incedere dell’eterogenea costituzione dello spazio globale del capitale.
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