10 gennaio. Il rigore della critica al pensiero dominante.
«Augusto Graziani (nella foto) è morto il 5 gennaio, a Napoli, pochi mesi dopo le celebrazioni per i suoi ottant’anni. Scompare così il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante. Nell’opera di ricerca, così come nella didattica e nella divulgazione, Graziani ha incarnato una miscela per certi versi unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche. Quello stesso spirito tuttavia sembrò pure obbligarlo a un voto di perenne sobrietà: un velo di rigoroso understatement, sempre lì a celare la sua grandezza. Nell’epoca della mediocrità alla ribalta lo si potrebbe definire un uomo d’altri tempi. Appellativo condivisibile, purché ci si riferisca non solo al passato ma anche e soprattutto al futuro. In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici. Attualissimi, in questo senso, sono i suoi studi sulle contraddizioni tra sviluppo economico italiano e ristrutturazione del capitalismo continentale, che oggi dominano la scena politica e sollevano dubbi crescenti sulla sopravvivenza dell’Unione monetaria europea.
Nel 2002, a Napoli, nell’aula Vanvitelliana della facoltà di Scienze politiche, Graziani tenne una lezione sull’euro appena entrato in circolazione. I colleghi ad ascoltarlo vennero numerosi. La sensazione era che i più lo onorassero senza esser minimamente persuasi dal suo scetticismo sulla sostenibilità futura dell’eurozona. Sarebbe ingeneroso criticarli, col senno di poi. Dopotutto la grancassa dell’ideologia in quei giorni operava a pieno ritmo, seducendo persino le menti più brillanti e avvezze alla critica. Graziani peraltro è sempre parso alquanto refrattario alle opere di seduzione ideologica. I suoi dubbi sulla moneta unica, ben saldati sul terreno dei fatti, non si limitavano a trarre spunto dalla nota lezione keynesiana sulla insostenibilità di quelle unioni valutarie che pretendono di scaricare l’intero peso dei riequilibri commerciali sui soli paesi debitori. Vi era pure, nella sua analisi, una lettura implicita del concetto marxiano di centralizzazione dei capitali, e dei tremendi conflitti politici che possono derivare da essa. Il pessimismo di Graziani era dunque fondato su una consapevolezza profonda dell’equilibrio precario su cui verteva il processo di unificazione europea, e del rischio che prima o poi la situazione potesse precipitare sotto il giogo di meccanismi favorevoli all’economia più forte del continente. Veniva così a crearsi uno scenario propizio per la riscoperta del sinistro monito di Thomas Mann sull’essenza dello spirito prevalente in Germania: “Dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaismo dell’anima e alla costrizione, interviene il demonio”.
Nel clima di entusiasmo suscitato dalla nascita dell’euro, tuttavia, le preoccupazioni di Graziani non attecchirono. Nel nostro paese, piuttosto, trovò largo seguito l’improbabile ideologia del “vincolo esterno”. I suoi propugnatori sostenevano che i vincoli imposti dall’Europa sul governo della moneta, del tasso di cambio, dei bilanci pubblici, non costituivano la dimostrazione che l’Unione andava costituendosi a immagine e somiglianza degli interessi del più forte, ossia del capitalismo tedesco. Piuttosto, si diceva, quei vincoli avrebbero miracolosamente trasformato i piccoli ranocchi dello stagnante e frammentato capitalismo italiano in algidi principi della modernità globale, in vere e proprie avanguardie della produzione planetaria. Insomma, modernizzare il capitalismo italiano, renderlo più centralizzato e quindi più forte: alcuni padri della patria hanno incredibilmente sostenuto che il vincolo esterno imposto dall’Europa potesse spontaneamente fare tutto questo, sia pure in un deserto di progettualità e di investimenti. In tanti furono abbagliati da simili illusioni. Di contro, in un articolo pubblicato sempre nel 2002 sulla International Review of Applied Economics, Graziani fu tra i pochi a segnalare che il vincolo esterno avrebbe potuto determinare un effetto esattamente opposto a quello annunciato. Egli cioè previde che i capitalisti italiani avrebbero tentato di rimediare alla perdita delle ultime leve della politica economica tramite una ulteriore frammentazione dei processi produttivi, finalizzata a reiterare il lassismo in campo fiscale e contributivo e ad accelerare la precarizzazione del lavoro. Fino a scoprire, nella crisi, che questi rozzi tentativi di contrazione dei costi non potevano reggere a lungo.
Oggi sappiamo che le cose sono andate come Graziani aveva previsto. Sappiamo pure che, proseguendo di questo passo, l’inasprirsi dei conflitti tra capitalismi europei potrà condurre a un tracollo dell’Unione che porrà i decisori politici di fronte a una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro, ognuna delle quali avrà diverse implicazioni sui diversi gruppi sociali coinvolti. I contributi di Graziani, fondati su una visione moderna delle contrapposizioni tra e dentro le classi sociali, potranno aiutarci anche ad afferrare i termini di quello snodo decisivo che pian piano affiora all’orizzonte. Purtroppo, specialmente tra gli eredi più o meno diretti del movimento dei lavoratori, vi è oggi ancora chi preferisce distogliere lo sguardo da questa realistica prospettiva, e continua ad affidarsi alle sempre più flebili speranze di rilancio dei nobili ideali europeisti. Eppure in tempi più illuminati del nostro è stato detto acutamente che l’invito a sperare è in fondo un invito a ignorare. Chi conosce non spera ma prevede, e se le condizioni oggettive e la metodica organizzazione delle forze lo permettono, si dispone ad agire per il cambiamento. Credo che la vita intellettuale di Augusto Graziani abbia ben rappresentato questo saggio modus operandi».
* Fonte: Emiliano Brancaccio
2 commenti:
io non so se la speranza fosse quella di trasformare i ranocchi in principi, è una cosa troppo idiota.
posizione geografica, cultura, religione, storia, clima, geologia, tutti elementi generatori delle differenze tra ranocchi e principi, sono immodificabili.
secondo me, almeno in "qualcuno" in patria, ci fu la consapevolezza della convenienza dell'euro in termini di delocalizzazione e di ricatto verso la classe lavoratrice.
antonio.
Trovo piacevole, divertente e nello stesso tempo efficacemente paradigmatica, la storia dei ranocchi da far diventare principi con un qualche magistrale colpetto di bacchetta magica.
Effettivamente per realizzare una realtà politico- economica sovra nazionale non si può prescindere dalle etnie che si intendono coinvolgere, etnie le cui particolarità caratterizzanti si sono costruite nel corso di secoli se non di millenni.
Far finta di niente è totalmente idiota. E porta sicuramente al disastro.
Tutto induce a concludere che le nazionalità contano in modo determinante per ineludibile legge naturale conforme ai principi costitutivi delle realtà antropologiche.
Posta un commento