29 giugno. Guido Viale, tra i promotori di ALBA, è uno dei pochi esponenti della sinistra che consideriamo intellettualmente onesto. Ma l'essere intellettualmente onesto non è sinonimo di chiarezza di pensiero. Vale la pena leggere l'articolo di Viale che pubblichiamo qui sotto, il cui titolo originale è "Ristrutturare il debito" (e non a caso pubblicato su il manifesto di ieri). Viale compie, dati alla mano, un'analisi ineccepibile sul debito pubblico e la sua assoluta insostenibilità. Allo stesso tempo interpola un discorso contrario all'uscita dall'euro. Una opposizione alla sovranità monetaria buttata lì, priva di fondamenti logici, economici e politici.
Vi chiederete, perché la pubblicate? Affinché i nostri lettori abbiano la misura della palude in cui è finita anche la parte migliore della sinistra italiana. Una palude eurista dalla quale questa sinistra sembra non potere e volere uscire mai più.
D'altra parte c'è chi sostiene che l'uscita dall'eurozona sia di per sé sufficiente a derubricare il debito pubblico. Con una lira che si svaluterà, diciamo del 20-30 per cento rispetto all'euro, dicono, il debito potrà diventare "sostenibile". Siamo sicuri che sia così? Nella situazione di collasso del tessuto economico il nostro paese non potrà permettersi di dissanguarsi per risarcire i creditori (siano essi esteri o grandi banche d'affari italiane) per una cifra che oscillerebbe attorno ai 1500 miliardi (a cui andrebbero aggiunti gli interessi). Ergo: l'uscita dall'euro non cozza affatto, va combinata anzi con un default programmato.
«Ci siamo assuefatti a convivere con un meccanismo economico e finanziario che ci conduce inesorabilmente a una progressiva distruzione del tessuto produttivo del paese e delle istituzioni fondanti della democrazia: in questo quadro la perdita di imprese, posti di lavoro, know-how e mercati in corso è irreversibile, come lo è la progressiva abolizione dei poteri degli elettori, del Parlamento e, soprattutto, degli Enti locali: cioè dei Comuni, che sono le istituzioni del nostro ordinamento giuridico più vicine ai cittadini. La Grecia, avanti a noi di un paio di anni in quel percorso di distruzione delle condizioni di esistenza di un'intera popolazione imposto, con una omogeneità impressionante, a tutti i paesi europei del Mediterraneo, ci mostra come alla devastazione provocata dai diktat della finanza e dalla governance europea non ci sia mai fine.
Il Governo italiano non sa dove trovare otto miliardi per soddisfare le richieste su Iva e Imu a cui Berlusconi ha subordinato la sua permanenza nella maggioranza. Ma nessuno mette in discussione il fatto che ogni anno lo Stato italiano riesca sempre a trovare - e paghi - 80-90 miliardi di interessi ai detentori del debito pubblico italiano. E nessuno dice che dall'anno prossimo, a quegli 80-90 miliardi se ne dovranno aggiungere ogni anno altri 45-50 per riportare in 20 anni il debito pubblico al 60 per cento del PIL. Nel frattempo il PIL cala e il debito cresce mentre interessi e quota del debito da restituire aumentano; e nessuno sa o dice dove troverà tutto quel denaro che, con il pareggio di bilancio in Costituzione, non può che essere estratto da nuove tasse - ovviamente a carico di chi già le paga - facendo precipitare ancor più in una spirale senza fine occupazione, redditi, bilanci aziendali e spesa pubblica, cioè scuola, sanità, pensioni, ricerca, salvaguardia del territorio e del patrimonio artistico. C'è stata una cessione di sovranità a favore della finanza internazionale sia in campo economico che politico e ciò a cui molti di noi si sono assuefatti è l'idea che a tutto ciò "non c'è alternativa".
Quell'alternativa va dunque trovata, ma bastano i pochi numeri citati per capire che a queste condizioni nessuna promessa, o anche solo proposta, di "rilancio produttivo" e di lotta alla disoccupazione e alla povertà ha la minima possibilità di funzionare; e che coloro che le fanno, ignorando volutamente questo quadro, mentono; forse anche a se stessi. Certo, all'interno del bilancio statale si potrebbero spostare molte poste: per esempio dalla spesa militare a quella civile; dalle grandi opere inutili e costose al reddito di cittadinanza; dalle 100mila pensioni oltre i 90mila euro (per un totale di 13 miliardi all'anno!) a quelle sotto i 10mila; oppure recuperare fondi dall'evasione: in fin dei conti il debito pubblico italiano (2.040 miliardi) è meno della somma dell'evasione fiscale e degli interessi sul debito degli ultimi 20-25 anni: e in gran parte, probabilmente, i beneficiari sono gli stessi.
Il debito pubblico italiano, con gli interessi, è insostenibile e incompatibile con qualsiasi prospettiva che non sia la chiusura e il degrado progressivo di tutte le nostre fonti di sostentamento; lo Stato italiano, come quello greco, di fatto è già fallito. Ridurre in misura sostanziale il debito svendendo il patrimonio pubblico, più che un'illusione è un imbroglio: la svendita della quota pubblica di Eni, Enel, FS, Finmeccanica e Fincantieri oggi frutterebbe poco più di 100 miliardi, meno di quanto continueremmo a pagare ogni anno tra interessi e quota di restituzione; la svendita di tutto il demanio e degli immobili di Stato ed Enti locali a prezzi di mercato frutterebbe ancor meno.
Meno che mai potrebbe funzionare, per rimettere in piedi il tessuto economico, "l'uscita dall'euro", che probabilmente si verificherà comunque come conseguenza dello sfascio di tutto l'edificio dell'UE a cui ci sta portando la sua governance; non prima, però, di aver ridotto a zero il potenziale economico di metà del continente. Né c'è da sperare che dopo le elezioni tedesche la musica cambi... Che una svalutazione anche consistente possa far ripartire esportazioni e domanda interna a un'economia ormai in frantumi è una mera illusione: il quadro internazionale è profondamente cambiato e niente è più come prima. E che il problema principale non sia la sopravvalutazione dell'euro ma il blocco della spesa pubblica lo dimostra il fatto che le imprese italiane rimaste solide hanno esportato e continuano a esportare anche con l'euro.
Il fatto è che senza una radicale ristrutturazione del debito (il suo consolidamento; o un "default" controllato; o una moratoria sul pagamento degli interessi) ben più radicale di quella attraverso cui, senza dirlo, è già passata la Grecia (senza peraltro trarne alcun beneficio, perché è stata insufficiente e tardiva) e possibilmente adottata congiuntamente da tutti i paesi non più in grado di far fronte al loro debito, non c'è che il tracollo. Ma ristrutturare il debito non basta. Senza una radicale riconversione del tessuto economico per dare nuovi sbocchi alle imprese che hanno perso il loro mercato interno o estero; o a quelle che per produrre fanno più danni che benefici - e non sono poche, dall'Ilva all'industria bellica, per non parlare dell'auto - non c'è alcuna possibilità di salvare quel che resta dell'apparato produttivo italiano, del suo patrimonio impiantistico, del suo know-how, dell'occupazione. E meno che mai di creare i milioni e milioni di nuovi posti di lavoro necessari a restituire a tutti un presente e un futuro decenti.
Una riconversione del genere non può essere fatta che mettendo al centro l'obiettivo della sostenibilità: sia per spostarsi sulle produzioni che hanno un futuro, anche di mercato; sia per prevenire i costi sempre più pesanti, e destinati a crescere, provocati dai cambiamenti climatici. Tutto ciò richiede produzioni e consumi ecologici e processi che esigono decentramento e ridimensionamento degli impianti, la loro differenziazione in base alle caratteristiche del territorio, la partecipazione ai processi decisionali di maestranze, cittadinanza attiva e governi locali e, soprattutto, riterritorializzazione (cioè rilocalizzazioni): attraverso accordi diretti tra produttori e consumatori o utilizzatori che non annullano certo le funzioni del mercato, ma che le regolano e lo sottraggono, senza cadere nel protezionismo, a quella competitività selvaggia e globalizzata che è solo una corsa verso il sempre peggio.
In questo processo un ruolo cruciale possono e devono giocarlo i servizi pubblici locali riconquistati al controllo dei poteri pubblici e, attraverso di loro, di una cittadinanza capace di imporre nuove forme di democrazia partecipata. E' l'unica strada per sottrarsi al dogma del "non c'è alternativa" e andrebbe sottoposta a una a un confronto pubblico tra tutte le forze che si ritengono "alternative"; ma soprattutto tra quelle miriadi di organizzazioni che operano, spesso in silenzio. per costruire un modo di vivere e convivere diverso, a volte senza nemmeno realizzare di essere la parte attiva di quel 99 per cento della popolazione vessata dal capitale finanziario. Un confronto del genere andrebbe esteso anche a livello europeo (con un occhio alle prossime elezioni) per ricavarne un programma generale, di respiro internazionale nel suo impianto, ma articolato e sorretto da una molteplicità di proposte, di rivendicazioni, di buone pratiche e di casi di successo a livello locale.
Per chi si pone in questa prospettiva governo significa innanzitutto autogoverno e le cose da fare non sono la "sintesi" - come spesso si dice e si cerca di fare - tra le mille istanze differenti che agitano il movimento; occorre invece aiutare queste stesse forze a fare loro stesse questa sintesi: a riconoscere nel proprio agire l'embrione insostituibile e irrinunciabile di un programma di governo alternativo. In tutti i luoghi dove già sono all'opera, queste forze sono le sedi potenziali di un'aggregazione di istanze consimili, di un confronto tra rivendicazioni diverse ma convergenti, di una volontà di coinvolgere nei propri progetti il governo del territorio. La riformulazione di un programma e l'aggregazione intorno a esso delle forze disponibili è la condizione per legittimare il rigetto dei patti di stabilità e per sostenere le ragioni di questa prospettiva a livello europeo.
Su questa stessa strada si costruiscono anche le premesse per fare fronte alle ritorsioni che immancabilmente seguirebbero alla scelta di ristrutturare i debiti; ma anche alle conseguenze di un'eventuale dissoluzione dell'euro causato dall'impasse politica in cui sta precipitando la governance europea; e, ancor più, per prevenire il progressivo deterioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione, se le cose continueranno a procedere nella direzione in cui le spinge il governo delle larghe intese».
Vi chiederete, perché la pubblicate? Affinché i nostri lettori abbiano la misura della palude in cui è finita anche la parte migliore della sinistra italiana. Una palude eurista dalla quale questa sinistra sembra non potere e volere uscire mai più.
D'altra parte c'è chi sostiene che l'uscita dall'eurozona sia di per sé sufficiente a derubricare il debito pubblico. Con una lira che si svaluterà, diciamo del 20-30 per cento rispetto all'euro, dicono, il debito potrà diventare "sostenibile". Siamo sicuri che sia così? Nella situazione di collasso del tessuto economico il nostro paese non potrà permettersi di dissanguarsi per risarcire i creditori (siano essi esteri o grandi banche d'affari italiane) per una cifra che oscillerebbe attorno ai 1500 miliardi (a cui andrebbero aggiunti gli interessi). Ergo: l'uscita dall'euro non cozza affatto, va combinata anzi con un default programmato.
«Ci siamo assuefatti a convivere con un meccanismo economico e finanziario che ci conduce inesorabilmente a una progressiva distruzione del tessuto produttivo del paese e delle istituzioni fondanti della democrazia: in questo quadro la perdita di imprese, posti di lavoro, know-how e mercati in corso è irreversibile, come lo è la progressiva abolizione dei poteri degli elettori, del Parlamento e, soprattutto, degli Enti locali: cioè dei Comuni, che sono le istituzioni del nostro ordinamento giuridico più vicine ai cittadini. La Grecia, avanti a noi di un paio di anni in quel percorso di distruzione delle condizioni di esistenza di un'intera popolazione imposto, con una omogeneità impressionante, a tutti i paesi europei del Mediterraneo, ci mostra come alla devastazione provocata dai diktat della finanza e dalla governance europea non ci sia mai fine.
Il Governo italiano non sa dove trovare otto miliardi per soddisfare le richieste su Iva e Imu a cui Berlusconi ha subordinato la sua permanenza nella maggioranza. Ma nessuno mette in discussione il fatto che ogni anno lo Stato italiano riesca sempre a trovare - e paghi - 80-90 miliardi di interessi ai detentori del debito pubblico italiano. E nessuno dice che dall'anno prossimo, a quegli 80-90 miliardi se ne dovranno aggiungere ogni anno altri 45-50 per riportare in 20 anni il debito pubblico al 60 per cento del PIL. Nel frattempo il PIL cala e il debito cresce mentre interessi e quota del debito da restituire aumentano; e nessuno sa o dice dove troverà tutto quel denaro che, con il pareggio di bilancio in Costituzione, non può che essere estratto da nuove tasse - ovviamente a carico di chi già le paga - facendo precipitare ancor più in una spirale senza fine occupazione, redditi, bilanci aziendali e spesa pubblica, cioè scuola, sanità, pensioni, ricerca, salvaguardia del territorio e del patrimonio artistico. C'è stata una cessione di sovranità a favore della finanza internazionale sia in campo economico che politico e ciò a cui molti di noi si sono assuefatti è l'idea che a tutto ciò "non c'è alternativa".
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Quell'alternativa va dunque trovata, ma bastano i pochi numeri citati per capire che a queste condizioni nessuna promessa, o anche solo proposta, di "rilancio produttivo" e di lotta alla disoccupazione e alla povertà ha la minima possibilità di funzionare; e che coloro che le fanno, ignorando volutamente questo quadro, mentono; forse anche a se stessi. Certo, all'interno del bilancio statale si potrebbero spostare molte poste: per esempio dalla spesa militare a quella civile; dalle grandi opere inutili e costose al reddito di cittadinanza; dalle 100mila pensioni oltre i 90mila euro (per un totale di 13 miliardi all'anno!) a quelle sotto i 10mila; oppure recuperare fondi dall'evasione: in fin dei conti il debito pubblico italiano (2.040 miliardi) è meno della somma dell'evasione fiscale e degli interessi sul debito degli ultimi 20-25 anni: e in gran parte, probabilmente, i beneficiari sono gli stessi.
Il debito pubblico italiano, con gli interessi, è insostenibile e incompatibile con qualsiasi prospettiva che non sia la chiusura e il degrado progressivo di tutte le nostre fonti di sostentamento; lo Stato italiano, come quello greco, di fatto è già fallito. Ridurre in misura sostanziale il debito svendendo il patrimonio pubblico, più che un'illusione è un imbroglio: la svendita della quota pubblica di Eni, Enel, FS, Finmeccanica e Fincantieri oggi frutterebbe poco più di 100 miliardi, meno di quanto continueremmo a pagare ogni anno tra interessi e quota di restituzione; la svendita di tutto il demanio e degli immobili di Stato ed Enti locali a prezzi di mercato frutterebbe ancor meno.
Meno che mai potrebbe funzionare, per rimettere in piedi il tessuto economico, "l'uscita dall'euro", che probabilmente si verificherà comunque come conseguenza dello sfascio di tutto l'edificio dell'UE a cui ci sta portando la sua governance; non prima, però, di aver ridotto a zero il potenziale economico di metà del continente. Né c'è da sperare che dopo le elezioni tedesche la musica cambi... Che una svalutazione anche consistente possa far ripartire esportazioni e domanda interna a un'economia ormai in frantumi è una mera illusione: il quadro internazionale è profondamente cambiato e niente è più come prima. E che il problema principale non sia la sopravvalutazione dell'euro ma il blocco della spesa pubblica lo dimostra il fatto che le imprese italiane rimaste solide hanno esportato e continuano a esportare anche con l'euro.
Il fatto è che senza una radicale ristrutturazione del debito (il suo consolidamento; o un "default" controllato; o una moratoria sul pagamento degli interessi) ben più radicale di quella attraverso cui, senza dirlo, è già passata la Grecia (senza peraltro trarne alcun beneficio, perché è stata insufficiente e tardiva) e possibilmente adottata congiuntamente da tutti i paesi non più in grado di far fronte al loro debito, non c'è che il tracollo. Ma ristrutturare il debito non basta. Senza una radicale riconversione del tessuto economico per dare nuovi sbocchi alle imprese che hanno perso il loro mercato interno o estero; o a quelle che per produrre fanno più danni che benefici - e non sono poche, dall'Ilva all'industria bellica, per non parlare dell'auto - non c'è alcuna possibilità di salvare quel che resta dell'apparato produttivo italiano, del suo patrimonio impiantistico, del suo know-how, dell'occupazione. E meno che mai di creare i milioni e milioni di nuovi posti di lavoro necessari a restituire a tutti un presente e un futuro decenti.
Una riconversione del genere non può essere fatta che mettendo al centro l'obiettivo della sostenibilità: sia per spostarsi sulle produzioni che hanno un futuro, anche di mercato; sia per prevenire i costi sempre più pesanti, e destinati a crescere, provocati dai cambiamenti climatici. Tutto ciò richiede produzioni e consumi ecologici e processi che esigono decentramento e ridimensionamento degli impianti, la loro differenziazione in base alle caratteristiche del territorio, la partecipazione ai processi decisionali di maestranze, cittadinanza attiva e governi locali e, soprattutto, riterritorializzazione (cioè rilocalizzazioni): attraverso accordi diretti tra produttori e consumatori o utilizzatori che non annullano certo le funzioni del mercato, ma che le regolano e lo sottraggono, senza cadere nel protezionismo, a quella competitività selvaggia e globalizzata che è solo una corsa verso il sempre peggio.
Il debito pubblico degli U.S.A. |
In questo processo un ruolo cruciale possono e devono giocarlo i servizi pubblici locali riconquistati al controllo dei poteri pubblici e, attraverso di loro, di una cittadinanza capace di imporre nuove forme di democrazia partecipata. E' l'unica strada per sottrarsi al dogma del "non c'è alternativa" e andrebbe sottoposta a una a un confronto pubblico tra tutte le forze che si ritengono "alternative"; ma soprattutto tra quelle miriadi di organizzazioni che operano, spesso in silenzio. per costruire un modo di vivere e convivere diverso, a volte senza nemmeno realizzare di essere la parte attiva di quel 99 per cento della popolazione vessata dal capitale finanziario. Un confronto del genere andrebbe esteso anche a livello europeo (con un occhio alle prossime elezioni) per ricavarne un programma generale, di respiro internazionale nel suo impianto, ma articolato e sorretto da una molteplicità di proposte, di rivendicazioni, di buone pratiche e di casi di successo a livello locale.
Per chi si pone in questa prospettiva governo significa innanzitutto autogoverno e le cose da fare non sono la "sintesi" - come spesso si dice e si cerca di fare - tra le mille istanze differenti che agitano il movimento; occorre invece aiutare queste stesse forze a fare loro stesse questa sintesi: a riconoscere nel proprio agire l'embrione insostituibile e irrinunciabile di un programma di governo alternativo. In tutti i luoghi dove già sono all'opera, queste forze sono le sedi potenziali di un'aggregazione di istanze consimili, di un confronto tra rivendicazioni diverse ma convergenti, di una volontà di coinvolgere nei propri progetti il governo del territorio. La riformulazione di un programma e l'aggregazione intorno a esso delle forze disponibili è la condizione per legittimare il rigetto dei patti di stabilità e per sostenere le ragioni di questa prospettiva a livello europeo.
Su questa stessa strada si costruiscono anche le premesse per fare fronte alle ritorsioni che immancabilmente seguirebbero alla scelta di ristrutturare i debiti; ma anche alle conseguenze di un'eventuale dissoluzione dell'euro causato dall'impasse politica in cui sta precipitando la governance europea; e, ancor più, per prevenire il progressivo deterioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione, se le cose continueranno a procedere nella direzione in cui le spinge il governo delle larghe intese».
6 commenti:
http://il-main-stream.blogspot.it/2013/06/ristrutturare-il-debito-inutile-anzi.html
Avevo già letto l'articolo di Viale, e ciò che più impressiona non è il diniego dell'uscita dall'euro, ma l'impressionante serie di illusioni buonistico-sessantottine che sciorina nella seconda parte dell'articolo.
L'uscita dalla crisi si realizzerà esaltando al tempo stesso la democrazia ed esaltando al tempo stesso l'economia sostenibile ed ecologica e valorizzando gli enti locali e nel consenso di tutti i cittadini......
Un'impressionante parata dello wishful thinking che mostra alla perfezione il volto della sinistra odierna, totalmente svirilizzata ed assimilata al sistema, o meglio alla narrazione che il sistema offre di se stesso.
Pur non condividendolo secondo me in realtà c'è coerenza nel discorso di Viale.
Egli parla di ristrutturazione del debito. Ma molti indicano che tale risutrutturazione non servi a nulla, anzi addirittura deleteria.
Un'uscita dall'euro e il ritorno alla sovranità potrebbe risolvere il problema in un batter di ciglia. Mentre restando l'unica cosa che si può fare è una ristrutturazione.
Qui sta la coerenza secondo me nell'articolo di Viale.
Che come ripeto, non condivido.
Rispetto l'opinione di Viale che ricordo persona preparata quando interveniva a Torino alla fine degli anni '60.
Non ho più seguito il suo percorso successivo da quando sono emigrato agli inizi degli anni '70, ma leggendo oggi questo articolo mi sembra che il suo modo di analizzare i problemi sia rimasto lo stesso che conoscevo. Rimanere nell'euro o uscirne non è forse più il problema principale per due motivi:
1) l'euro farà la stessa fine della moneta unica dell'Unione Latina. Uscirà la Germania, usciranno uno alla lvolta i Paesi mediterranei, sarà un processo preparato o un crollo improvviso ... non sappiamo ed è impossibile avanzare previsioni poiché i dati pubblici di cui disponiamo sono troppo inaffridabili per non dire falsi. L'unica cosa sicura è che l'euro non ha futuro. E ancora più sicuro: con l'euro l'Europa non ha prospettive di uscire dalla crisi. Una cosa sembra che Viale e con lui molti altri non l'abbiano ancora individuata: che l'euro è stato introdotto per volontá della Germania e pochi altri Paesi meno convinti (Francia, Olanda, Austria) per swervire ad uno scopo ben preciso: creare un tipo di sviluppo capitalistico in cui lo smantellamento dei diritti dei lavoratori potesse apparire come non solo passo necessario per garantire la piena occupazione, ma addirittura un'innovazione sociale. La parte dei macellai l'hanno egregimente svolta Tony Blair prima e Gerhard Schröder poi, laburisti e socialdemocratici e quindi con capacitá di circonvenzione degli incapaci sindacati che hanno finito per accettare ogni sorta di smantellamento dei diritti dei lavoratori. Questo perfido disegno aveva possibilità di riuscire, senonché parallelamente è stato smantellato anche quello che in Germania era la serie di meccanismi di controllo del capitale e delle finanze, la base cioé della "Soziale Markwirtschaft", che garantiva un controllo da parte dello Stato del sistema di credito. Chiaramente il modello era quello reaganiano/thacheriano, sviluppato e condotto fino in fondo dai macellai di sinistra summenzionati. Cito solo loro poiché negli altri Paesi (Francia, Spagna, Italia, Grecia ecc. ) più che di macellai di sinistra si può parlare di umili garzoni, per non dire leccaposteriori delle destre. La crisi è sfuggita al controllo nel momento in cui la demolizione dello stato sociale si é sommata all'allegra finanza libera da ogni controllo degno di questo nome.
L'euro nel disegno iniziale doveva servire a cementare il ridimensionamento dello stato sociale, ma ci si è accorti troppo tardi che la manovra era sfuggita ad ogni controllo.
Il tentativo di salvare l'euro è quindi un po' come lo sforzo della lumaca di acchiappare una mosca: impossibile frenare e rimettere sotto controllo la finanza per ritornare ad un capitalismo
a "irresponsabilità limitata". Nessun governo può riuscire ormai nell'intento. Per ricostruire un'Europa dei popoli, dei lavoratori, avviata verso uno sviluppo umano e sostenibile, nel rispetto dei diritti dei lavoratori e piena occupazione deve essere travolto insieme all'euro anche quanto ne ha costituito le premesse. Ecco perché l'obiettivo è la riconquista del terreno perduto per l'imbecillità e/o la connivenza di sinistre e sindacati.
La caduta dell'euro diventa un aspetto collaterale di questa battaglia, e vista in questa ottica un passo necessario ma da inquadrare in una lotta più ampia e radicale. Si tratta non meno che di ricostruire rapporti di potere annientati negli ultimi 20-30 anni, e di fronte ad un fronte capitalista che controlla ormai tutti i partiti in tutti i Paesi europei. Il compito passa ai Movimenti, ed è un cammino difficile e rischioso, ma anche l'unica possibilità di cambiare indirizzo prima di finire contro il muro. Graziano da Praga(gianavello@atlas.cz)
L'affezione all'euro di molti intellettuali è motivata dall'affezione al processo di unione europea, che è visto a rischio in caso di frantumazione della moneta unica.
In fondo è un po' vero, il processo UE è stato mosso dal motore euro, un motore "truccato", che spinge in realtà nella direzione opposta, quella dello scontro di interessi tra paesi UE, come funzionale all'agonizzante economia USA.
Questi intellettuali ad ampio spettro sono coerentemente carenti sulla conoscenza della moneta e della macroeconomia, pur capendone, o intuendone qualcosa.
Così capita spesso di sentire bestemmie del tipo "l'euro non è il problema", "l'uscita dall'euro è un falso problema", e via cazzeggiando.
Il problema per costoro, e non solo, è che da un lato l'euro è una non-moneta, dall'altro la moneta in generale è molto più della definizione "classica" che ne danno economisti e banchieri.
L'euro ha tutto ciò che di marcio può avere una moneta al contorno (che è "polpa", non bruscolini), mentre gli manca il nocciolo, una Banca Centrale degna di questo nome, anche nel paradigma vigente della moneta-debito-credito.
E' perciò un frutto senza nocciolo e dalla polpa marcia, intrisa di dogmi fasulli neoliberisti.
E non sarebbe un problema?
Chissenefrega se poche aziende selezionate e di nicchia riescono ad esportare anche con questo euro, a fronte del grosso della PMI che agonizza sul mercato interno! Ci hanno scippato il nostro stesso mercato, e questo è il più grosso cetriolo che potessimo aspettarci, grazie a questo euro dei banchieri.
Semmai è la ristrutturazione del debito che non è un problema, ma un di cui degli scenari reali che ci attendono.
Io mi domando e dico, ma se uno dichiara apertamente di non capirci di economia, ma che parla a fare?
Questa è comunque un occasione d'oro, unica nella storia per mettere on luce che cos'è una moneta e la sua importanza nel determinare un ordinamento sociale nel bene o nel male.
Il punto su cui non si batte mai abbastanza è che una moneta non è solo gestione bancaria, ma fiscalità, politiche economiche, indirizzamento di Stato dell'economia, dove lo Stato è non solo arbitro e garante, ma il player principale, di fronte al quale i "portatori d'interesse" "privati", cioè particolari, devono avere il massimo rispetto, a cominciare dalla non-ingerenza (basta mettere fuori legge il lobbysmo palese e occulto).
ancora una volta mi sembrano meglio i commenti dell'articolo.
Ripeto che nessun paese può sopravvivere se il proprio lavoro costa dieci volte di più di un altro e il commercio è libero.
Soluzioni: Dazi sulle importazioni esentando i prodotti costruiti in italia, sono le politiche che usano tutti i paesi ex in via, ora sviluppati, mentre noi stiamo morendo.
Iva al 30% suo prodotti elettronici che sono tutti importati e sui software.
Bloccare l'immigrazione, esportazione di capitali, rimesse immigrati verso estero e pensioni pagate all'estero.
Ridurre la spesa pubblica: regaliamo la rai ai dipendenti e togliamo il canone, enti inutili tutti a casa, stipendi manager pubblici max 100.000 anno lordi.
Detassare i profitti finanziari per attirare qui i broker del mondo: preferite giocare in borsa da un casale toscano o dalla city di Londra ormai ridotta ad un luna park?.
A la guerre comme a la guerre. Perfida albione.
Nazionalizzare le reti, le banche indebitate con lo stato, le autostrade, pagando con BTP a 50 anni, riportare il debito pubblico in italia mediante prelievo cambio BTP 10 anni 3%, uscire dall'euro, tutti a lavorare: campi foreste, demolire tutte le brutture e fare dell'italia il paese più bello del mondo.
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