7 giugno. I marxisti, dopo Marx, si sono divisi in molte correnti o, come dispregiativamente affermano i liberali, chiese ed eresie. Queste correnti non si sono solo date battaglia nella sfera del pensiero teorico, ma pure in quello politico, alcune senza esitare a ricorrere allo sterminio dei loro avversari. La madre di tutte queste battaglie venne condotta tra la Chiesa per eccellenza, la stalinista, e la più irriducibile di tutte le eresie, quella trotskysta.
Esattamente come nelle grandi dispute cristologiche e teologiche (le analogie sono sorprendenti), il trofeo per cui gli avversari si azzannavano era, accanto a più prosaiche questioni politiche, quello di stabilire chi avesse titolo per definirsi “vero marxista”.
Non erano in discussione gli assiomi, ma solo i teoremi che, come da causa effetto, ne dovevano “necessariamente” e inesorabilmente conseguire se si voleva raggiungere il fine socialista. Alcuni assiomi erano dunque, in realtà, dogmi intangibili, come certi misteri lo sono per i cristiani, siano essi ortodossi, cattolici o protestanti. Nessun cristiano che si definisca tale, ad esempio, può mettere in discussione che Gesù di Nazareth era figlio di Dio, inviato dal cielo sulla Terra per redimere i peccati del mondo e offrire agli uomini la salvezza eterna.
Può sembrare buffo, invece è tragico, che negli anni del Grande Terrore staliniano i carnefici fucilavano in nome del socialismo, mentre le vittime affrontavano il plotone d’esecuzione convinti di sacrificare la loro vita per il medesimo supremo ideale. Il generale Yakir, addirittura, gridò “Viva Stalin” mentre i boia lo spedivano nell’al di là.
Numerosi erano i dogmi che carnefici e vittime avevano in comune, i dogmi che per entrambi sostanziavano la concezione marxista del mondo. Vogliamo soffermarci solo su un paio.
Il primo era quello per cui la lotta di classe è il Leviatano assoluto dell’evoluzione sociale, il solo vero motore della storia. Il secondo consisteva nell’attribuire alla classe operaia moderna e solo ad essa, la funzione messianica e salvifica di creatrice del socialismo. La gran parte dei marxisti, a prescindere dalle loro specifiche liturgie, ritiene ancora oggi che ove si mettessero in discussione questi due dogmi il marxismo crollerebbe su stesso, cesserebbe di essere una “teoria scientifica”, diventerebbe dunque una “mera ideologia”. Proveremo a mostrare che è vero l’esatto contrario.
La controprova del carattere intangibile di questi due dogmi l’abbiamo osservando gli argomenti difensivi di chi ha rinnegato il marxismo. Essi hanno abbandonato il marxismo nel momento in cui non erano più convinti della loro validità.
Quelli che non hanno abiurato la fede, pur non essendo giunti alle stesse conclusioni dei rinnegati, la pensano esattamente come loro sulle premesse: quei dogmi sono i pilastri senza i quali il marxismo perderebbe ogni senso. Entrambi condividono la medesima forma mentis dogmatica, fideistica, irrazionale. E’ come se i fisici teorici, davanti alla tesi einsteiniana che non esistono lo spazio e il tempo assoluti, si fossero divisi tra coloro i quali avessero gettato Newton nella spazzatura, e quelli che avessero negato la teoria della relatività pur di difendere la concezione meccanicistica dell’universo.
In altre occasioni ci siamo dedicati ad una critica filologica ed esegetica del dogmatismo, invitando a non confondere il plastico e problematico marxismo di Marx, con quello meccanicistico e storicistico divulgato da Engels ai tempi della Seconda Internazionale. Ora vorremmo andare al cuore teoretico del problema, nel tentativo di mostrare che non solo una teoria rivoluzionaria della trasformazione sociale regge anche ove le due proposizioni in questione fossero popperianamente falsificate. Noi vorremmo mostrare che il marxismo, se non religiosamente inteso, se concepito come scuola scientifica di pensiero, non crolla perché due postulati si sono rivelati fallaci alla luce dell’esperienza storica.
In ballo, qui, c’è’ il materialismo storico, la concezione materialistica della storia. I due dogmi in questione, teoria della lotta di classe come motore esclusivo della storia e funzione messianica della classe operaia, sono in realtà i due aspetti di un altro: quello per cui i rapporti economici, ovvero i rapporti di produzione, sono il primigenio e esclusivo luogo in cui si costituiscono, come per necessitato riflesso, i più complessi rapporti sociali. La lotta di classe non sarebbe altro che lotta economica per il possesso dei mezzi di produzione e dunque della ricchezza sociale materiale; mentre la funzione guida della classe operaia verrebbe desunta dal movimento obiettivo del modo capitalistico di produzione, che non soltanto polarizzerebbe la società in due sole classi frontalmente contrapposte a antagonistiche ma che porterebbe con sé, come la larva la farfalla, un crescente e irreversibile grado di socializzazione della produzione.
Questa teoria riduzionistica è, filosoficamente parlando, monista, ovvero figlia del materialismo filosofico volgare, per cui il pensiero, res cogitans, è solo una protesi della res extensa, della materia, e l’agire umano non anche il frutto di uno slancio creativo, autodeterminantesi, ma meccanicamente causato dalle leggi fisiche del mondo materiale.
In termini marxistici ciò equivale a sostenere che la sovrastruttura sociale (l’insieme composto da idee, aspirazioni, passioni, affetti, usi, costumi, tradizioni) non ha alcuna dignità sua propria, né autonomia, né una storia, in quanto mero riflesso dei rapporti economici; che la coscienza sta al cervello come la bile al fegato (Moleschott).
Questa concezione monista e riduzionistica non si presenta mai in una forma pura. Nemmeno l’economicista più incorreggibile nega “l’importanza delle sovrastrutture”. Nella sua forma pura l’economicismo è infatti una pittoresca parodia del marxismo. Questo economicismo si presenta sempre mascherato, deve cioè camuffarsi e imbellettarsi per essere preso in considerazione. Diversi sono i travestimenti dell’economicismo per sfuggire al suo destino (che è quasi sempre quello del disincanto).
Il principale è anche il più banale di tutti, è una forma di soggettivismo frustrato. Né la teoria marxista né la classe operaia sarebbero fallaci: la colpa è tutta dei cattivi dirigenti del “buon movimento operaio”, al massimo delle forme cattive che esso si è dato storicamente. Dirigenti e forme che spiegano come mai il naturale corso della storia verso il socialismo sia stato temporaneamente deviato. Questa tesi autoconsolatoria accomuna agli anarchici la più parte degli "eretici" marxisti: trotskysti, luxemburghiani, sindacalisti, consigliaristi.
Il travestimento secondario è quello crollista, ovvero l’economicismo portato alle sue estreme conseguenze. Se lo sbocco socialista non si è dato non è perché ci siano state perturbazioni di carattere politico o deviazioni —queste hanno ben poca importanza—, al contrario! i tempi “naturali” non sono ancora giunti a maturazione, e quindi occorre aspettare il fisiologico corso delle cose, ove per “fisiologico” si intende il pieno e dispiegato sviluppo capitalistico e a cui deve seguire, come la notte il giorno, la grande crisi, il crollo della struttura economica del capitalismo. In questa cornice, la sovrastruttura, le sfere ideali e spirituali sono del tutto irrisorie, la crisi, infatti, si incaricherà di “far entrare l’idea del socialismo anche nelle teste di legno”. Nella sua forma chimicamente pura questa eresia si rappresenta nel bordighismo.
Il travestimento terziario è un storicismo cristianizzato, un umanesimo escatologico. Il capitalismo non ha polarizzato la società in due sole classi antagoniste? Lo sviluppo capitalistico non produce affatto alcuna anticamera del socialismo (massima socializzazione delle condizioni della produzione e dello scambio)? La classe operaia lungi dall’aver rovesciato le classi dominanti ha finito per accettare nella sua stragrande maggioranza il dominio capitalistico? Poco importa, gli uomini, per loro natura, sono esseri buoni, e la storia, pur per contorte e imperscrutabili vie, muove sempre avanti, verso il progresso, verso il socialismo. Ogni altra direzione sarebbe priva di senso, e non può essere che la Storia non ne abbia di per sé alcuno, altrimenti avrebbe ragione il nichilismo. Del marxismo resta poco o niente ovviamente, se non il fatto che Marx avrebbe nominato questo destino, strappandolo dal cielo mistico della religione alla vita reale.
Noi non contestiamo, ovviamente, che i rapporti economici siano decisivi nello spiegare i fatti e le dinamiche sociali. Ciò che contestiamo è: (1) che essi costituiscano il luogo esclusivo dove si formano le classi sociali; (2) che essi siano la sola e principale causa delle lotte sociali; (3) che siano la sola fonte da cui sgorgano le idee e la coscienza —di classe all’occorrenza; (4) neghiamo infine che la pura e semplice lotta economica per l’appropriazione della ricchezza sia il terreno fondamentale dell’antagonismo tra oppressi e oppressori, tra proletari e capitalisti.
Partiamo dalle classi sociali. Non c’è una muraglia tra la classe in sé e la classe per sé. Il per sé, ciò che passa sotto il nome di “coscienza di classe”, è spesso inteso come mera forma, un portato necessitato dell’in sé. Questo non era vero nemmeno per Marx, che giustamente insisteva che non si da alcun contenuto che non abbia una forma adeguata. In altre parole è proprio la forma che connota il contenuto, che ci permette di coglierlo e di separare un contenuto da un altro.
Certo che le classi sociali esistono obiettivamente, a prescindere dalla coscienza che esse hanno dei propri interessi. Ma la teoria di Marx non si fermava a questa verità lapalissiana e sociologica (Marx stesso ebbe a dire che non fu lui a riconoscere che la società era divisa in classi). Considerata dal punto di vista obiettivo, di come il capitale la produce, la classe operaia è solo la parte variabile del capitale stesso, quella creatrice di plusvalore. Affinché essa sia creatrice di socialismo, che cioè assolva una funzione rivoluzionaria, c’è bisogno che prenda coscienza di questo suo non-essere, che prenda cioè forma come essere libero dalle catene del lavoro salariato, dallo sfruttamento e dall’alienazione. E’ quindi solo il prendere coscienza che fa eventualmente del proletariato un soggetto rivoluzionario. Senza questo atto esso resta un mesto fattore del processo capitalistico di valorizzazione.
E come avviene questo processo? Come si determina? Avviene forse spontaneamente, come risultato necessario e ineluttabile dello sviluppo capitalistico? Certo che no, e tutta la storia del capitalismo, dagli albori ad oggi, mostra in maniera incontrovertibile che non è così. Non la continuità, la linearità, la gradualità del processo; bensì la rottura del processo e la negazione della sua presunta obiettività, sono i principali momenti per mezzo dei quali una classe sfruttata prende forma, e da parte variabile del capitale diventa classe antagonista, soggetto rivoluzionario. La lotta di classe consiste in questi momenti di discontinuità, rottura, negazione, ovvero di autodeterminazione, non certo nella pura e semplice opposizione tra capitale e lavoro salariato. Come argutamente affermava Lenin, contestando l’economicismo e correggendo alcune illusioni affettivamente contenute nell’impianto di Marx e prendendo atto dell’evoluzione concreta dei paesi dove il capitalismo era più sviluppato: dalla pura e semplice opposizione capitale salario non sorge un movimento rivoluzionario, ma solo un tradeunionismo, o un corporativismo, i quali non solo non conducono alla rivoluzione, ma all’esito opposto: incatenano il proletariato ai piedi del capitale. Ovvero: “il tradunionismo è la politica borghese nella classe operaia”.
Questa premessa è secondo noi del tutto confermata dall’evoluzione storica e quindi assolutamente imprescindibile. Sul piano puramente esegetico poi, Lenin non stravolgeva affatto il discorso di Marx, come taluni affermano. La verità è che in Marx ci sono due discorsi distinti, quello economicista come pure il suo opposto, per cui, è sempre Marx che parla: “La classe operaia è rivoluzionaria o non è nulla”. Oppure: “Ci vorranno decadi di guerre civili affinché il proletariato si tolga di dosso tutta la merda borghese e sia capace di costruire il socialismo”.
Di contro a tutti gli oggettivismi e ai determinismi che si cullano nell’illusione che sarà l’evoluzione economica del capitalismo a consegnarci su un piatto d’argento oltre che la rivoluzione il soggetto capace di farla, noi affermiamo che non è l’economia che crea il soggetto, ma la lotta di classe. Lotta di classe che non avviene anzitutto nella sfera delle mere relazioni economiche (queste sono solo la base), bensì in quella politica, il luogo in cui si formano le concezioni del mondo, in cui si forma la coscienza di classe —concezioni e coscienza senza le quali non solo è del tutto privo di senso parlare di missione storica di una classe, è anche aleatorio pensare di tracciare i confini “oggettivi” tra una classe e l’altra, dato che esse sono unite da mille fili sociali, sia economici che politici.
Quindi, per lo stupore di tutti gli economicisti, non è il soggetto sociale che crea quello politico, ma viceversa, quello politico crea, ovviamente in condizioni determinate, il soggetto sociale. In altre parole v’è una relazione biunivoca tra il fattore sociale e quello politico: affinché si possa parlare di classe c’è bisogno che essa esista fisicamente, materialmente, dentro l’organismo sociale. Ma siccome questa sua esistenza è proteiforme, mutevole, intrecciata inestricabilmente a tutto il resto; c’è’ bisogno di un soggetto politico che intervenga per astrarla, separarla dal tutto, dandogli cioè forma, coscienza di sé, che la trasformi in comunità autonoma, in forza antagonista. Il sistema capitalistico è un insieme composto di classi, come l’acqua contiene ossigeno e idrogeno uniti in una molecola unitaria. Separarli implica un’intervento deliberatamente scissorio, ovvero l’azione fecondante del soggetto politico. Del soggetto che non solo riconosce l’insieme, le sue contraddizioni come i suoi punti di forza, ma che sa ciò che vuole e possiede gli strumenti per condurre la sua missione.
Ora possiamo tornare ai due assiomi che il marxismo considera dogmi intangibili e affermare che:
(1) Né la storia né il “progresso” procedono solo a causa della lotta di classe. Questo processo storico esiste, ed ognuno può verificarlo empiricamente, anche ove la lotta di classe sia a bassa intensità o non si manifesti affatto. Entrano in gioco altri fattori, economici, tecnici, nazionali, statali, religiosi, ideologici che il soggetto politico deve tenere in somma considerazione se, appunto, vuole assolvere alla sua missione.
(2) E’ il partito proletario che sa di avere una missione, non la classe in sé, così come la sforna il modo capitalistico di produzione. La classe in sé è una leva della rivoluzione, la sua energia, l’acqua di una macchina a vapore che per poter rilasciare la sua potenza ha bisogno, non solo del fuoco del conflitto, ma di una complessa macchina politica che la raccolga come vapore in un cilindro a pistone.
Esattamente come nelle grandi dispute cristologiche e teologiche (le analogie sono sorprendenti), il trofeo per cui gli avversari si azzannavano era, accanto a più prosaiche questioni politiche, quello di stabilire chi avesse titolo per definirsi “vero marxista”.
Non erano in discussione gli assiomi, ma solo i teoremi che, come da causa effetto, ne dovevano “necessariamente” e inesorabilmente conseguire se si voleva raggiungere il fine socialista. Alcuni assiomi erano dunque, in realtà, dogmi intangibili, come certi misteri lo sono per i cristiani, siano essi ortodossi, cattolici o protestanti. Nessun cristiano che si definisca tale, ad esempio, può mettere in discussione che Gesù di Nazareth era figlio di Dio, inviato dal cielo sulla Terra per redimere i peccati del mondo e offrire agli uomini la salvezza eterna.
Può sembrare buffo, invece è tragico, che negli anni del Grande Terrore staliniano i carnefici fucilavano in nome del socialismo, mentre le vittime affrontavano il plotone d’esecuzione convinti di sacrificare la loro vita per il medesimo supremo ideale. Il generale Yakir, addirittura, gridò “Viva Stalin” mentre i boia lo spedivano nell’al di là.
Numerosi erano i dogmi che carnefici e vittime avevano in comune, i dogmi che per entrambi sostanziavano la concezione marxista del mondo. Vogliamo soffermarci solo su un paio.
Il primo era quello per cui la lotta di classe è il Leviatano assoluto dell’evoluzione sociale, il solo vero motore della storia. Il secondo consisteva nell’attribuire alla classe operaia moderna e solo ad essa, la funzione messianica e salvifica di creatrice del socialismo. La gran parte dei marxisti, a prescindere dalle loro specifiche liturgie, ritiene ancora oggi che ove si mettessero in discussione questi due dogmi il marxismo crollerebbe su stesso, cesserebbe di essere una “teoria scientifica”, diventerebbe dunque una “mera ideologia”. Proveremo a mostrare che è vero l’esatto contrario.
La controprova del carattere intangibile di questi due dogmi l’abbiamo osservando gli argomenti difensivi di chi ha rinnegato il marxismo. Essi hanno abbandonato il marxismo nel momento in cui non erano più convinti della loro validità.
Quelli che non hanno abiurato la fede, pur non essendo giunti alle stesse conclusioni dei rinnegati, la pensano esattamente come loro sulle premesse: quei dogmi sono i pilastri senza i quali il marxismo perderebbe ogni senso. Entrambi condividono la medesima forma mentis dogmatica, fideistica, irrazionale. E’ come se i fisici teorici, davanti alla tesi einsteiniana che non esistono lo spazio e il tempo assoluti, si fossero divisi tra coloro i quali avessero gettato Newton nella spazzatura, e quelli che avessero negato la teoria della relatività pur di difendere la concezione meccanicistica dell’universo.
In altre occasioni ci siamo dedicati ad una critica filologica ed esegetica del dogmatismo, invitando a non confondere il plastico e problematico marxismo di Marx, con quello meccanicistico e storicistico divulgato da Engels ai tempi della Seconda Internazionale. Ora vorremmo andare al cuore teoretico del problema, nel tentativo di mostrare che non solo una teoria rivoluzionaria della trasformazione sociale regge anche ove le due proposizioni in questione fossero popperianamente falsificate. Noi vorremmo mostrare che il marxismo, se non religiosamente inteso, se concepito come scuola scientifica di pensiero, non crolla perché due postulati si sono rivelati fallaci alla luce dell’esperienza storica.
In ballo, qui, c’è’ il materialismo storico, la concezione materialistica della storia. I due dogmi in questione, teoria della lotta di classe come motore esclusivo della storia e funzione messianica della classe operaia, sono in realtà i due aspetti di un altro: quello per cui i rapporti economici, ovvero i rapporti di produzione, sono il primigenio e esclusivo luogo in cui si costituiscono, come per necessitato riflesso, i più complessi rapporti sociali. La lotta di classe non sarebbe altro che lotta economica per il possesso dei mezzi di produzione e dunque della ricchezza sociale materiale; mentre la funzione guida della classe operaia verrebbe desunta dal movimento obiettivo del modo capitalistico di produzione, che non soltanto polarizzerebbe la società in due sole classi frontalmente contrapposte a antagonistiche ma che porterebbe con sé, come la larva la farfalla, un crescente e irreversibile grado di socializzazione della produzione.
Questa teoria riduzionistica è, filosoficamente parlando, monista, ovvero figlia del materialismo filosofico volgare, per cui il pensiero, res cogitans, è solo una protesi della res extensa, della materia, e l’agire umano non anche il frutto di uno slancio creativo, autodeterminantesi, ma meccanicamente causato dalle leggi fisiche del mondo materiale.
In termini marxistici ciò equivale a sostenere che la sovrastruttura sociale (l’insieme composto da idee, aspirazioni, passioni, affetti, usi, costumi, tradizioni) non ha alcuna dignità sua propria, né autonomia, né una storia, in quanto mero riflesso dei rapporti economici; che la coscienza sta al cervello come la bile al fegato (Moleschott).
Questa concezione monista e riduzionistica non si presenta mai in una forma pura. Nemmeno l’economicista più incorreggibile nega “l’importanza delle sovrastrutture”. Nella sua forma pura l’economicismo è infatti una pittoresca parodia del marxismo. Questo economicismo si presenta sempre mascherato, deve cioè camuffarsi e imbellettarsi per essere preso in considerazione. Diversi sono i travestimenti dell’economicismo per sfuggire al suo destino (che è quasi sempre quello del disincanto).
Il principale è anche il più banale di tutti, è una forma di soggettivismo frustrato. Né la teoria marxista né la classe operaia sarebbero fallaci: la colpa è tutta dei cattivi dirigenti del “buon movimento operaio”, al massimo delle forme cattive che esso si è dato storicamente. Dirigenti e forme che spiegano come mai il naturale corso della storia verso il socialismo sia stato temporaneamente deviato. Questa tesi autoconsolatoria accomuna agli anarchici la più parte degli "eretici" marxisti: trotskysti, luxemburghiani, sindacalisti, consigliaristi.
Il travestimento secondario è quello crollista, ovvero l’economicismo portato alle sue estreme conseguenze. Se lo sbocco socialista non si è dato non è perché ci siano state perturbazioni di carattere politico o deviazioni —queste hanno ben poca importanza—, al contrario! i tempi “naturali” non sono ancora giunti a maturazione, e quindi occorre aspettare il fisiologico corso delle cose, ove per “fisiologico” si intende il pieno e dispiegato sviluppo capitalistico e a cui deve seguire, come la notte il giorno, la grande crisi, il crollo della struttura economica del capitalismo. In questa cornice, la sovrastruttura, le sfere ideali e spirituali sono del tutto irrisorie, la crisi, infatti, si incaricherà di “far entrare l’idea del socialismo anche nelle teste di legno”. Nella sua forma chimicamente pura questa eresia si rappresenta nel bordighismo.
Il travestimento terziario è un storicismo cristianizzato, un umanesimo escatologico. Il capitalismo non ha polarizzato la società in due sole classi antagoniste? Lo sviluppo capitalistico non produce affatto alcuna anticamera del socialismo (massima socializzazione delle condizioni della produzione e dello scambio)? La classe operaia lungi dall’aver rovesciato le classi dominanti ha finito per accettare nella sua stragrande maggioranza il dominio capitalistico? Poco importa, gli uomini, per loro natura, sono esseri buoni, e la storia, pur per contorte e imperscrutabili vie, muove sempre avanti, verso il progresso, verso il socialismo. Ogni altra direzione sarebbe priva di senso, e non può essere che la Storia non ne abbia di per sé alcuno, altrimenti avrebbe ragione il nichilismo. Del marxismo resta poco o niente ovviamente, se non il fatto che Marx avrebbe nominato questo destino, strappandolo dal cielo mistico della religione alla vita reale.
Noi non contestiamo, ovviamente, che i rapporti economici siano decisivi nello spiegare i fatti e le dinamiche sociali. Ciò che contestiamo è: (1) che essi costituiscano il luogo esclusivo dove si formano le classi sociali; (2) che essi siano la sola e principale causa delle lotte sociali; (3) che siano la sola fonte da cui sgorgano le idee e la coscienza —di classe all’occorrenza; (4) neghiamo infine che la pura e semplice lotta economica per l’appropriazione della ricchezza sia il terreno fondamentale dell’antagonismo tra oppressi e oppressori, tra proletari e capitalisti.
Partiamo dalle classi sociali. Non c’è una muraglia tra la classe in sé e la classe per sé. Il per sé, ciò che passa sotto il nome di “coscienza di classe”, è spesso inteso come mera forma, un portato necessitato dell’in sé. Questo non era vero nemmeno per Marx, che giustamente insisteva che non si da alcun contenuto che non abbia una forma adeguata. In altre parole è proprio la forma che connota il contenuto, che ci permette di coglierlo e di separare un contenuto da un altro.
Certo che le classi sociali esistono obiettivamente, a prescindere dalla coscienza che esse hanno dei propri interessi. Ma la teoria di Marx non si fermava a questa verità lapalissiana e sociologica (Marx stesso ebbe a dire che non fu lui a riconoscere che la società era divisa in classi). Considerata dal punto di vista obiettivo, di come il capitale la produce, la classe operaia è solo la parte variabile del capitale stesso, quella creatrice di plusvalore. Affinché essa sia creatrice di socialismo, che cioè assolva una funzione rivoluzionaria, c’è bisogno che prenda coscienza di questo suo non-essere, che prenda cioè forma come essere libero dalle catene del lavoro salariato, dallo sfruttamento e dall’alienazione. E’ quindi solo il prendere coscienza che fa eventualmente del proletariato un soggetto rivoluzionario. Senza questo atto esso resta un mesto fattore del processo capitalistico di valorizzazione.
E come avviene questo processo? Come si determina? Avviene forse spontaneamente, come risultato necessario e ineluttabile dello sviluppo capitalistico? Certo che no, e tutta la storia del capitalismo, dagli albori ad oggi, mostra in maniera incontrovertibile che non è così. Non la continuità, la linearità, la gradualità del processo; bensì la rottura del processo e la negazione della sua presunta obiettività, sono i principali momenti per mezzo dei quali una classe sfruttata prende forma, e da parte variabile del capitale diventa classe antagonista, soggetto rivoluzionario. La lotta di classe consiste in questi momenti di discontinuità, rottura, negazione, ovvero di autodeterminazione, non certo nella pura e semplice opposizione tra capitale e lavoro salariato. Come argutamente affermava Lenin, contestando l’economicismo e correggendo alcune illusioni affettivamente contenute nell’impianto di Marx e prendendo atto dell’evoluzione concreta dei paesi dove il capitalismo era più sviluppato: dalla pura e semplice opposizione capitale salario non sorge un movimento rivoluzionario, ma solo un tradeunionismo, o un corporativismo, i quali non solo non conducono alla rivoluzione, ma all’esito opposto: incatenano il proletariato ai piedi del capitale. Ovvero: “il tradunionismo è la politica borghese nella classe operaia”.
Questa premessa è secondo noi del tutto confermata dall’evoluzione storica e quindi assolutamente imprescindibile. Sul piano puramente esegetico poi, Lenin non stravolgeva affatto il discorso di Marx, come taluni affermano. La verità è che in Marx ci sono due discorsi distinti, quello economicista come pure il suo opposto, per cui, è sempre Marx che parla: “La classe operaia è rivoluzionaria o non è nulla”. Oppure: “Ci vorranno decadi di guerre civili affinché il proletariato si tolga di dosso tutta la merda borghese e sia capace di costruire il socialismo”.
Di contro a tutti gli oggettivismi e ai determinismi che si cullano nell’illusione che sarà l’evoluzione economica del capitalismo a consegnarci su un piatto d’argento oltre che la rivoluzione il soggetto capace di farla, noi affermiamo che non è l’economia che crea il soggetto, ma la lotta di classe. Lotta di classe che non avviene anzitutto nella sfera delle mere relazioni economiche (queste sono solo la base), bensì in quella politica, il luogo in cui si formano le concezioni del mondo, in cui si forma la coscienza di classe —concezioni e coscienza senza le quali non solo è del tutto privo di senso parlare di missione storica di una classe, è anche aleatorio pensare di tracciare i confini “oggettivi” tra una classe e l’altra, dato che esse sono unite da mille fili sociali, sia economici che politici.
Quindi, per lo stupore di tutti gli economicisti, non è il soggetto sociale che crea quello politico, ma viceversa, quello politico crea, ovviamente in condizioni determinate, il soggetto sociale. In altre parole v’è una relazione biunivoca tra il fattore sociale e quello politico: affinché si possa parlare di classe c’è bisogno che essa esista fisicamente, materialmente, dentro l’organismo sociale. Ma siccome questa sua esistenza è proteiforme, mutevole, intrecciata inestricabilmente a tutto il resto; c’è’ bisogno di un soggetto politico che intervenga per astrarla, separarla dal tutto, dandogli cioè forma, coscienza di sé, che la trasformi in comunità autonoma, in forza antagonista. Il sistema capitalistico è un insieme composto di classi, come l’acqua contiene ossigeno e idrogeno uniti in una molecola unitaria. Separarli implica un’intervento deliberatamente scissorio, ovvero l’azione fecondante del soggetto politico. Del soggetto che non solo riconosce l’insieme, le sue contraddizioni come i suoi punti di forza, ma che sa ciò che vuole e possiede gli strumenti per condurre la sua missione.
Ora possiamo tornare ai due assiomi che il marxismo considera dogmi intangibili e affermare che:
(1) Né la storia né il “progresso” procedono solo a causa della lotta di classe. Questo processo storico esiste, ed ognuno può verificarlo empiricamente, anche ove la lotta di classe sia a bassa intensità o non si manifesti affatto. Entrano in gioco altri fattori, economici, tecnici, nazionali, statali, religiosi, ideologici che il soggetto politico deve tenere in somma considerazione se, appunto, vuole assolvere alla sua missione.
(2) E’ il partito proletario che sa di avere una missione, non la classe in sé, così come la sforna il modo capitalistico di produzione. La classe in sé è una leva della rivoluzione, la sua energia, l’acqua di una macchina a vapore che per poter rilasciare la sua potenza ha bisogno, non solo del fuoco del conflitto, ma di una complessa macchina politica che la raccolga come vapore in un cilindro a pistone.
13 commenti:
"Quindi, per lo stupore di tutti gli economicisti, non è il soggetto sociale che crea quello politico, ma viceversa, quello politico crea, ovviamente in condizioni determinate, il soggetto sociale"
E infatti, guai a parlare di sforzi per costruire un soggetto politico dal basso, sul blog di un noto ecnomi(ci)sta! Chi ci prova viene ricoperto di insulti. Voi siete i trotskisti scalzi della Valnerina, io il leninista ciociaro (chissà perché poi), Stefano è il sovranista marsicano. Ovvero: caro popolo, nun te 'mpiccià, che pe' sistemà le cose ce stanno li tecnici, quelli bravi; te aspetta che te famo ricomincià a consumà, ma nun rompe er cazzo.
Condiviso l'analisi parola per parola. La storia del movimento operaio degli ultimi 70 anni (o giù di lì) si è giocata tutta su questa capacità/incapacità del "soggetto politico" ad "estrapolare" la classe sociale rivoluzionaria, a formarla, ad attrezzarne idealmente e strumentalmente in direzione del cambiamento sociale, politico ed economico.
In altre parole, il movimento operaio è stato sconfitto, esattamente perchè ha mancato questo compito imprescindibile.
E le responsabilità sono oggettivamente a 360 gradi.
Per me rimangono alcuni problemi di fondo.
Uno di questi è che il Partito Proletario è sempre messianico, perchè sempre prospetta un avvenire radioso a cui per la sua realizzazione è disposto a sacrificare le conquiste sociali dei lavoratori che vengono viste come concessioni della borghesia in tempi di 'pace' economica.
Ma se fa ciò si aliena il consenso della classe lavoratrice.
In situazioni di forti crisi, lì dove è comunque compromesso il tenero di vita dei lavoratori si salta il fosso e sembra naturale al lavoratore, anche se non è risvegliato dal partito, chiedere di abbattere un sistema che non può più essere accettato.(Che poi non è detto, abbattere un re non è abbattere la monarchia)
Ma le esperienze storiche testimoniano che in questi casi il Partito Proletario ci comporta come avanguardia, cavalca gli eventi e fa sua la sollevazione del popolo (o il semplice malcontento) chiamandola rivoluzione.
Ma a quel punto sto' partito proletario potrebbe anche esse Fascista e metterci il cappello.
Ho detto potrebbe ma solitamente è sempre fascistoide, perchè in situazioni di crisi il diritto, senza uno stato che abbia la forza di imporlo, si eclissa e l'unica cosa che rimane sono i gretti rapporti di forza tra le parti. Ed il potere di una parte sola e senza limiti si chiama arbitrio.
E ce potrebbe anche stà, sostituisci all'arbitrio della borghesia quello del proletariato, ma poi? Dando per scontato e pacifico che gli esseri perfetti non esistono all'atto pratico quando vengono prese decisioni sbagliate quale meccanismo porrà un limite a tali decisioni?
Dice c'è la teoria scientifica... di nuovo i tecnici? Ma le teorie poi le devi sperimentà sul campo per vedere se hanno un fondamento e che fai quando quei numerini sul tuo foglio di carta son reali morti di fame? Allora no ai tecnici, ma gente che sa come si fanno le rivoluzioni fino in fondo, diciamo gente di buon senso che si accolla il peso delle scelte, diciamo dirigenti... Vuoi il dirigismo? Allora non ti lamentare se fanno Stalin papa
Allora si potrebbe tornà a monte famo un partito dei lavoratori, inteso come quelli che traggono dal proprio lavoro di che vivere contrapposti a quelli che campano di rendita e conquistiamo diritti via via finchè la palla non passa alle generazioni successive, ma non famo come l'ultima volta che nel mentre si discuteva del sesso degli angeli ce semo fattì scippà prima la banca d'italia e poi la scala mobile.
pa. erano contentini dello stato borghese? allora scusate per l'intromissione...
Complimenti, è proprio di questo che bisogna parlare.
Mo' sto a New YOrk e c'ho da fa', ma stasera dopo cena, notte fonda da voi, penso che scriverò qualche mia osservazione. Non perché la mia opinione abbia un particolare valore ma perché l'argomento è fondamentale; teniamo presente che l'errore sarebbe credere che si possa giungere a una concettualizzazione "definitivamente vera" mentre si tratta di un work in progress la cui efficacia dipende dalla collaborazione di tutti a una discussione basata sull'idea di una continua reinterpretazione e verifica sul campo.
@ECODELLARETE
Purtroppo non è vero che il soggetto politico che crea il soggetto sociale. Entrambi i soggetti da voi citati (politico e sociale) dipendono a loro volta dalla nascita di un "soggetto-comunità" tout court, ossia da un senso di appartenenza che crei un gruppo e appunto una comunità. Qualcosa che non ha una designazione o finalità precipuamente politiche e la cui essenza va decisamente oltre quella molto banale di "classe" ( la classe dominante non si sente minimamente una classe come intendete voi ).
Che questa coscienza di ogni persona di appartenere ed essere definiti dall'appartenenza a questo "soggetto-comunità" possa attualmente nascere "dal basso" è assolutamente escluso. Occorrono persone di buona volontà ma purtroppo anche delle figure di riferimento che abbiano accesso materiale e linguistico alla classe dominante.
In due minuti, due esempi cinematografici.
Django Unchained in cui si rappresenta benissimo il fatto che lo schiavo nero ha bisogno di un bianco che lo svegli e,caratteristica molto interessante del film, ne curi l'evoluzione linguistica.
Secondo esempio bellissimo ma molto raffinato, da cinema d'essai: Il Mistero dei Giardini di Compton House, di Peter Greenaway in cui si racconta cosa succede al brillante e incauto piccolo borghese che armato della propria cultura, intelligenza e preparazione professionale pensa di poter affrontare con questi miseri mezzi razionali individuali la complessità simbolica del senso di appartenenza della aristocrazia.
Francisco Goya scrive: "Occorrono persone di buona volontà ma purtroppo anche delle figure di riferimento che abbiano accesso materiale e linguistico alla classe dominante"
Io penso che il dramma più grave della situazione che stiamo vivendo sia l'assenza di un'organizzazione politica che rappresenti gli interessi della "plebe", in antagonismo con quelli del "patriziato". Uso questi due termini per concisione, perché mi piacciono e perché intendo limitare il discorso all'Italia.
Ora, il patriziato ce l'ha, eccome, le sue organizzazioni politiche, sia manifeste che nascoste, la plebe non più. Quelle che esistevano sono state sussunte dal patriziato. La plebe, dunque, non ha più una sua classe dirigente. Far rinascere, con molteplici iniziative dal basso, la classe dirigente della plebe è, a mio parere, il primo obiettivo che dobbiamo mettere in agenda.
Già immagino l'obiezione: ma poi la classe dirigente della plebe sarà di nuovo sussunta dal patriziato, forte del suo potere corruttivo. Ebbene, può non essere così per tante ragioni, ma una mi preme sottolinearla: per classe dirigente della plebe non dobbiamo intendere un'élite che, per dimostrare di essere dalla parte degli interessi plebei, debba necessariamente vivere in povertà. Si può essere dirigenti della plebe anche con un buon reddito, purché resti chiaro che si accede a quel tipo di carriera attraverso una legittimazione sul campo. Per dirla fuori dai denti: a un grillino che prende 2.500 euro al mese, preferisco di gran lunga un Pasquinelli che ne guadagnasse 20.000! Ovvio che il figlio, o il nipote, o l'amica di Pasquinelli non dovrebbero avere nessun vantaggio nella carriera di tribuni della plebe, se non quello di aver imparato da cotanto padre come si lotta.
Come si può essere certi che questa classe dirigente plebea non venga, pian piano, sussunta dal patriziato? Solo se essa riesce a costruire una vera coscienza di classe. E, poiché può essere suo interesse farlo, non è escluso che possa riuscirci.
Nella mia visione, sia la classe dirigente plebea, sia quella del patriziato, dovrebbero sentirsi parte della stessa comunità, che è la patria italiana. Questa (che già esiste) è (a mio parere) la comunità invocata da Francisco Goya. Solo ed esclusivamente la "chiamata dello straniero", eventualmente operata dal patriziato, potrebbe giustificare il "suonare le nostre campane", cioè la sollevazione. Siccome i bastardi lo hanno già fatto, sarebbe anche giusto "suonarle 'ste campane", ma non abbiamo la forza per farlo. Dunque non resta che abbozzare, almeno per il momento, e dedicarsi all'opera di costruire il tribunato della plebe.
L'elemento unificante di questo processo non deve essere un'ideologia, sebbene nulla vieti che ve ne siano molteplici in dialettica tra loro, bensì il dato puro e semplice di fare sempre, sempre, sempre gli interessi della plebe. Subordinati solo, negli stati di eccezione, all'interesse della Patria.
Ovviamente... devono essere veri stati di eccezione. Accà nisciune è fesso.
Ho letto con attenzione l'articolo e mi e piaciuto molto questo netto cambio di registro sia sul piano del livello di elaborazione che nello spirito decisamente meno attendista di certe posizioni gia espresse in questo blog.
Cito i due passaggi che ritengo più importanti:
"Non la continuità, la linearità, la gradualità del processo; bensì la rottura del processo e la negazione della sua presunta obiettività, sono i principali momenti per mezzo dei quali una classe sfruttata prende forma, e da parte variabile del capitale diventa classe antagonista, soggetto rivoluzionario"
Perfetto. Sulla parola "forma" avrei qualcosa da dire ma l'idea chiave è "la rottura del processo" in contrapposizione a una linearità forse troppo comoda.
La seconda:
"Noi non contestiamo, ovviamente, che i rapporti economici siano decisivi nello spiegare i fatti e le dinamiche sociali. Ciò che contestiamo è: (1) che essi costituiscano il luogo esclusivo dove si formano le classi sociali; (2) che essi siano la sola e principale causa delle lotte sociali; (3) che siano la sola fonte da cui sgorgano le idee e la coscienza —di classe all’occorrenza; (4) neghiamo infine che la pura e semplice lotta economica per l’appropriazione della ricchezza sia il terreno fondamentale dell’antagonismo tra oppressi e oppressori, tra proletari e capitalisti. "
Un bel salto di qualità filosofico che condivido pienamente.
I dubbi invece sono su:
"c’è’ bisogno di un soggetto politico che intervenga per astrarla, separarla dal tutto, dandogli cioè forma, coscienza di sé, che la trasformi in comunità autonoma, in forza antagonista"
Quello che voi chiamate forma o coscienza di classe e che io chiamo senso di appartenenza nasce in primissimo luogo con la condivisione e la continua rielaborazione di categorie ermeneutiche per l'interpretazione del momdo; il primo e fondamentale atto di imperio della classe dominante è privare i subalterni della capacità di elaborare e rielaborare INSIEME un'interpretazione della realtà e della posizione della propria comunità nella società secondo delle autonome categorie ermeneutiche.
Non la faccio troppo lunga anche perché non so se interessi a qualcuno ma mi limito a mettere in evidenza l'aspetto chiave della questione: la forma o coscienza di classe o senso di appartenenza nasce coagulandosi attorno a un nucleo di continua e vitale interpretazione e reinterpretazione, da lì nasce tutto, da lì derivano appunto il soggetto politico e, per ognuno, la definizione del proprio sé in funzione dell'appartenenza.
Se sapremo far nascere e tener vivo questo nucleo di stem cells costituito dall'interpretazione dei fatti storici, sociali, culturali etc etc secondo categorie condivise (non statiche ma in evoluzione continua e CONDIVISA) vedremo finalmente il formarsi di una nuova coscienza comunitaria dalla quale deriverà automaticamente il nuovo soggetto politico.
@ECODELLARETE
Per la verità non intendevo "la Patria" ma un senso di appartenenza degli oppressi che sia, auspicabilmente, antagonista a quello dei dominanti.
Non sono d'accordo sul dare alla formazione di un classe dirigente della plebe quella assoluta importanza che dai tu.
Perché una classe dirigente della plebe se non si riconoscerà PRIMA in un senso di appartenenza così forte da definire il proprio sé (come accade imvece all'interno della aristocrazia sociale odierna o ad esempio in certi gruppi etnico-religiosi che poi si costituiscono soggetto politico ed economico) tenderà automaticamente a diventare una nuova classe dominante necessariamente diversa e "sopra" al proprio gruppo sociale di provenienza (se non a desiderare addirittura la semplice ascesa tra le élites con le quali, essendo diventati "classe dirigente della plebe" si troveranno a condividere i codici linguistici propri dello stesso livello di evoluzione culturale e un ruolo-seppur in ambiti sociali diversi- comunque "egemone").
Bisogna a mio avviso con urgenza parlare delle modalità del "dominio" sociale, delle modalità della "sottomissione" sociale sia politico economica che culturale/ linguistica e di come si manifesta nelle interazione fra membri di gruppi diversi; non per giungere a un certo punto a una definizione concettuale "giusta" del problema ma per far nascere un'ermeneutica condivisa, autonoma e culturalmente antagonista.
All'inizio però, come ho detto prima, occorrono anche delle figure di riferimento con accesso materiale e linguistico/culturale alla classe dominante perché, attenzione, il risveglio dei subalterni non si realizza per vie in prima battuta intellettuali ma passa innazitutto per un momento affettivo che può essere solo l' "identificazione". In una prima fase questa identificazione avviene solo se la figura di riferimento, come ho appena scritto, possiede accesso e codici linguistici dei padroni perché come è intuitivo il subalterno ha come unico obiettivo esistenziale poter far parte, anche come servo, della classe aristocratica.
Quel certo economista lo sapeva e si è avvalso di questi mezzi in un modo abbastanza spregiudicato.
Quello che mi stupisce è come potesse non risultare del tutto evidente fin dalla lettura di un paio di post più i commenti; evidentemente ho ragione nell'enfatizzare l'importanza di una discussione sui rapporti sociali...
Francisco Goya scrive: "Bisogna a mio avviso con urgenza parlare delle modalità del 'dominio' sociale, delle modalità della 'sottomissione' sociale sia politico economica che culturale/ linguistica e di come si manifesta nelle interazione fra membri di gruppi diversi;"
Ti rispondo subito in anglo-francese: action now, l'intendance suivra.
@ECODELLARETE
Ti rispondo in franco spagnolo.
Si l'intendance no entiende nada la armada se la chingan bien gacho.
@REDAZIONE
Per favore si può conoscere il nome dell'autore dell'articolo? Forse è Costanzo Preve?
Grz
Francisco Goya, c'è scritto a caratteri cubitali: Moreno Pasquinelli.
BY
IL VILE BRIGANTE
In effetti...
Pensa che avevo letto come se la critica fosse a una visione troppo economicista di Pasquinelli.
Non sono un lettore regolare qui e pensavo a una "discrasia"interna.
Vedi che anche a me sfugge qualcosa.
Ad altri invece sfuggono altre cose e poi ci rimangono male...
Sto leggendo l’ultimo libro di Giulietto Chiesa, che affronta anche questo argomento: la differenza tra classe in sé e classe per sé, ossia la presenza o assenza di coscienza di classe, in presenza di rapporti economici di sfruttamento. Secondo lui la grande novità dell’epoca contemporanea sono i MEZZI DI COMUNICAZIONE DI MASSA che, essendo nelle mani dei capitalisti, sono stati in grado di realizzare l’egemonia culturale (al contrario), cioè ad annullare la coscienza di classe. L’Italia, e il mondo occidentale in generale, è ora popolato da proletari che si credono borghesi, di sfruttati che si credono consumatori, di schiavi che si credono liberi.
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