Incontro a Perugia con Alberto Bagnai
Giovedì 6 dicembre, ore 17:30 110 café
Alberto Bagnai è uno di quegli economisti che lotta come un leone per spiegare che l'euro è condannato a passare a miglior vita. Non lo fa perché è un apocalittico, tantomeno perché adotta una qualche variante delle teorie complottiste che vanno tanto di moda sul web. Nemmeno usa, per spiegare le sue tesi, paradigmi marxisti. Si attiene piuttosto all'a,b,c, dell'economia politica, quella che definiremmo, "borghese", ai principi fondamentali da sempre insegnati sin dal primo anno nelle facoltà di economia. Quei principi che la sbornia neoliberista degli ultimi decenni con tanta baldanza pareva aver derubricato. Di contro al neoliberismo appunto, Bagnai recupera decisive categorie keynesiane, tra cui quella della moneta. Concetti che espone nella sua recente fatica Il Tramonto dell'euro.
Alberto Bagnai è nato a Firenze e si è laureato in Economia alla Sapienza di Roma, dove ha conseguito il dottorato in Scienze Economiche. È professore associato di politica economica presso il Dipartimento di Economia dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Pescara. Si occupa di economie emergenti e della sostenibilità del debito pubblico ed estero. Ha pubblicato saggi su riviste scientifiche nazionali e internazionali. Collaboratore de lavoce.info e blogger del Fatto Quotidiano, col suo blog personale, goofynomics.blogspot.it, ha raggiunto in pochi mesi migliaia di accessi al giorno, diventando un punto di riferimento per i cittadini che credono in una visione alternativa del progetto europeo.
Dopo quattro anni di recessione i testi sulla crisi non mancano. La maggior parte però propone ricette per salvare l'euro da se stesso, modificando le regole europee in nome di un improbabile "più Europa". Mancava un testo che si ponesse il problema di salvare i cittadini dall'euro.
Sfondando la barriera dei luoghi comuni, questo libro illustra il legame fra l'euro e la disintegrazione economica, sociale e politica dell'Eurozona, descrive le modalità e le conseguenze pratiche di un eventuale percorso di uscita e, infine, indica la direzione lungo la quale riprendere - dopo l'infelice parentesi dell'unione monetaria - un reale percorso di integrazione culturale, sociale ed economica europea.
Un altro euro non è possibile. La sua fine segnerà l'inizio di un'altra Europa, possibile e desiderabile.
Alberto Bagnai è uno di quegli economisti che lotta come un leone per spiegare che l'euro è condannato a passare a miglior vita. Non lo fa perché è un apocalittico, tantomeno perché adotta una qualche variante delle teorie complottiste che vanno tanto di moda sul web. Nemmeno usa, per spiegare le sue tesi, paradigmi marxisti. Si attiene piuttosto all'a,b,c, dell'economia politica, quella che definiremmo, "borghese", ai principi fondamentali da sempre insegnati sin dal primo anno nelle facoltà di economia. Quei principi che la sbornia neoliberista degli ultimi decenni con tanta baldanza pareva aver derubricato. Di contro al neoliberismo appunto, Bagnai recupera decisive categorie keynesiane, tra cui quella della moneta. Concetti che espone nella sua recente fatica Il Tramonto dell'euro.
Alberto Bagnai è nato a Firenze e si è laureato in Economia alla Sapienza di Roma, dove ha conseguito il dottorato in Scienze Economiche. È professore associato di politica economica presso il Dipartimento di Economia dell’Università “Gabriele d’Annunzio” di Pescara. Si occupa di economie emergenti e della sostenibilità del debito pubblico ed estero. Ha pubblicato saggi su riviste scientifiche nazionali e internazionali. Collaboratore de lavoce.info e blogger del Fatto Quotidiano, col suo blog personale, goofynomics.blogspot.it, ha raggiunto in pochi mesi migliaia di accessi al giorno, diventando un punto di riferimento per i cittadini che credono in una visione alternativa del progetto europeo.
Dopo quattro anni di recessione i testi sulla crisi non mancano. La maggior parte però propone ricette per salvare l'euro da se stesso, modificando le regole europee in nome di un improbabile "più Europa". Mancava un testo che si ponesse il problema di salvare i cittadini dall'euro.
Sfondando la barriera dei luoghi comuni, questo libro illustra il legame fra l'euro e la disintegrazione economica, sociale e politica dell'Eurozona, descrive le modalità e le conseguenze pratiche di un eventuale percorso di uscita e, infine, indica la direzione lungo la quale riprendere - dopo l'infelice parentesi dell'unione monetaria - un reale percorso di integrazione culturale, sociale ed economica europea.
Un altro euro non è possibile. La sua fine segnerà l'inizio di un'altra Europa, possibile e desiderabile.
9 commenti:
Un'altra Europa senza una moneta comune che roba sarebbe? Non si è ancora visto nella storia, almeno mi pare, alcun grande regno, né alcuna federazione di stati senza una moneta unica. Talvolta sono esistiti imperi con monete varie, ma sempre una di esse era egemone. Come per l'Impero USA oggi: varie monete circolano negli stati più o meno palesemente soggetti, ma comanda il Dollaro. L'Europa, facendo già parte (più o meno palesemente) dell'impero USA non poteva diventare un'aggregazione indipendente, tuttavia l'Euro la stava avviando a porsi economicamente contro l'Impero visto che stava riscuotendo fiducia in ambito internazionale. Era inammissibile, intollerabile e quindi fu guerra, prima contro le velleità dello SME (l'Italia attaccata nel 1992), poi con la bufera totale che ha reso odiosissimo l'Euro agli stati membri. Non poteva finire altro che così, date le premesse. Significativo il fatto che l'inghilterra non abbia mai voluto saperne di adottare l'Euro.
1)
Scusate e abbiate pazienza, invece di questo "mostro sacro" di Bagnai, voglio consigliare la seguente lettura dal blog:(DICIOTTOBRUMAIO) http://diciottobrumaio.blogspot.it/2012/12/perche-il-comunismo.html
PERCHE' IL COMUNISMO
Il superamento del modo di produzione capitalistico è il comunismo. Non c’è alternativa al di fuori di questa possibilità/necessità a meno di non voler immaginare una regressione a forme generali di produzione e di scambio – e delle condizioni del lavoro – precapitaliste. Piaccia o no, chi parla di superamento del modo di produzione capitalistico deve misurarsi con questa realtà storica, e chi, per contro, considera il modo di produzione capitalistico come assoluto, si accorge adesso che esso stesso genera dei limiti che però non attribuisce alla produzione, bensì in primis a fenomeni della sfera della circolazione e della finanziarizzazione. In ciò sta l’incomprensione delle cause della crisi e del fallimento dei rimedi proposti (*).
S’è vero che, in ultima analisi, è la crescita, l’espansione delle forze produttive (**), l’elemento promotore delle trasformazioni sociali, ciò non di meno essa avviene sempre sotto il segno ed il dominio dei rapporti di produzione dominanti. Così, per esempio, nel modo di produzione capitalistico, la crescita delle forze produttive si realizza per e attraverso l’accumulazione capitalistica, ed è perciò la razionalità del plusvalore che definisce, in ultima istanza, la forma delle modificazioni che vengono ad esse apportate.
2)
Il saggio del profitto costituisce la forza motrice della produzione capitalistica: viene prodotto solo quello che può essere prodotto con profitto e nella misura in cui tale profitto può essere ottenuto. Proprio nella determinazione del saggio del profitto nel processo di produzione capitalistico, quindi nell’accumulazione, sono insite una serie di contraddizioni che determinano non solo la possibilità della crisi, ma la sua necessità. La forma astratta della sua possibilità diventa realtà. Tanto è vero che lo sviluppo capitalistico, la sua accumulazione, può avvenire soltanto attraverso momenti successivi di crisi.
Tutto ciò, le teste gloriose degli economisti borghesi lo sanno bene, solo che ne danno un’interpretazione di comodo scaricando la responsabilità della caduta del saggio del profitto sulla produttività dell’operaio piuttosto che sulle leggi oggettive che la riguardano. Il che non è casuale per gente remunerata per tamponare in qualche modo le falle teoriche delle dottrine dello sfruttamento e falsificare e diffamare il marxismo.
In tal modo passano in silenzio proprio il fatto che dovrebbe chiarire la contraddizione di fondo, ossia che lo sviluppo della forza produttiva del lavoro, determinando la caduta del saggio del profitto, genera una legge che, ad un dato momento, si oppone inconciliabilmente al suo ulteriore sviluppo e che deve quindi di continuo essere superata per mezzo di crisi. È quindi la legge fondamentale dello sviluppo capitalistico, la caduta del saggio generale del profitto, scoperta da Marx, che determina la necessità della crisi (***).
3)
La contraddizione intrinseca cerca una compensazione mediante l’allargamento del campo esterno della produzione. All’interno dell’area investita dalla crisi di sovrapproduzione assoluta, si ha una crisi generale della struttura produttiva e creditizia. Se questa mattina come ogni altro giorno usciamo dal nostro guscio possiamo constatare con i nostri occhi questo fenomeno. Che fanno allora i nostri bravi “imprenditori”? Ampliano costantemente il mercato, cosicché i suoi rapporti e le condizioni che li regolano assumono sempre di più l’apparenza di una legge naturale indipendente dai produttori, sfuggono sempre di più al controllo.
Ecco allora che solo una parte del capitale esistente – e precisamente quello a composizione più elevata, quindi più concorrenziale – potrà continuare, pur tra grosse difficoltà, a valorizzarsi, concentrandosi a spese di altri capitali, mentre un’altra parte è esportata all’estero, in zone dove il saggio del profitto, ossia il saggio di sfruttamento, è più elevato e, quindi, può essere investito più produttivamente. Anche questo fenomeno, noto oggi come globalizzazione, esternalizzazione, ecc., i salariati lo possono constatare con i loro occhi e anzi sentirlo sulla propria pelle.
Non voglio tirarla per le lunghe e vengo al dunque: in tal modo il capitale supera le crisi aumentando il suo grado di concentrazione, quindi aumentando la sua composizione organica, ampliando la sua base produttiva e di mercato. Tutto bene? Manco per il cazzo. Marx ci dice che “a partire da questo momento il medesimo circolo vizioso verrebbe ripetuto con mezzi di produzione più considerevoli, con un mercato più esteso e con una forza produttiva più elevata”.
Qualsiasi intelligenza, anche la meno evoluta e coltivata, a questo punto dovrebbe trarre delle conclusioni. Tranne i rotti in culo di cui sopra. È evidente che il capitalismo non può esistere senza espansione e che nella sua espansione esso distrugge tutti i modi precedenti di produzione e si estende su tutta l’area mondiale. Ma è anche vero che in tal modo le sue contraddizioni si universalizzano e inaspriscono ulteriormente. La caduta del saggio del profitto diventa sempre più rapida e le crisi sempre più distruttive e generalizzate. L’allargamento della base di un’area produttiva può avvenire solo a spese di un’altra (nord Europa-sud Europa, Cina – Usa e Europa, ecc.), occupando un’altra area capitalistica e minacciando i suoi relativi interessi. Pertanto le guerre per una nuova spartizione del mondo diventano indispensabili per ogni ulteriore sviluppo.
Mai come ora l’essenza del capitalismo (e il suo limite storico) si rivela ai nostri occhi per ciò che essa effettivamente è, di là delle chiacchiere sulla libertà e la democrazia: “produrre per distruggere, distruggere per produrre”.
4)
(*) Scrive Marx, a riguardo degli economisti, che “l’“horror” che essi sentono dinanzi alla tendenza alla diminuzione del saggio del profitto è provocato soprattutto dal fatto che il modo di produzione capitalistico trova, nello sviluppo delle forze produttive, un limite che ha nulla a che vedere con la produzione della ricchezza in quanto tale; e questo particolare limite testimonia del carattere ristretto, semplicemente storico, transitorio, del modo di produzione capitalistico; prova che esso non costituisce affatto l’unico modo di produzione in grado di generare ricchezza, ma, al contrario, arrivato ad un certo punto entra in conflitto con il suo stesso ulteriore sviluppo” (Terzo Libro, cap. 15).
(**) Per forze produttive capitalistiche si deve intendere anzitutto i lavoratori produttivi (di capitale) insieme ai mezzi di produzione (tanto gli strumenti del lavoro che i materiali del lavoro, quindi le risorse naturali). Questi concetti si trovano sviluppati nelle opere economiche di Marx.
(***) La tendenza progressiva alla diminuzione del saggio generale del profitto non è quindi che un’espressione peculiare del modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro. Ciò non significa che il saggio del profitto non possa temporaneamente diminuire anche per altri motivi, ma significa che, in conseguenza della stessa natura della produzione capitalistica e come una necessità logica del suo sviluppo, il saggio generale medio del plusvalore deve esprimersi in un calo del saggio generale del profitto. Dato che la massa di vivo lavoro utilizzato diminuisce di continuo rispetto alla massa di lavoro oggettivato che essa ha posto in movimento (cioè rispetto ai mezzi di produzione consumati produttivamente), anche la parte di questo vivo lavoro che non è pagato e che si oggettiva in plusvalore dovrà essere in proporzione sempre decrescente nei confronti del valore del capitale complessivo impiegato. Questo rapporto fra la massa del plusvalore ed il capitale complessivo impiegato costituisce però il saggio del profitto, che dovrà di conseguenza diminuire costantemente (Marx, cit., cap. 13).
Lavoratore...Franco
Scusa, ma direi che tu non abbia letto attentamente: "Sfondando la barriera dei luoghi comuni, questo libro (...) e, infine, indica la direzione lungo la quale __riprendere__ - dopo l'infelice parentesi dell'unione monetaria - un reale percorso di integrazione culturale, sociale ed economica europea." Mentre noi di sinistra abbaiamo contro quello stronzo di un cowboy americano, le élite nord europee e nostrane ci tolgono pure le mutande...
Ma che pippe mentali sono queste? L' Itali fuori dallo sme perché dava fastidio all' impero americano? Ragazzi l' imperialismo usa sta sul cavolo anche a me ma smettiamola di dire cavolate. Semplicemente la permanenza dell' italia dello sme a banda ristretta che imponeva tassi d' interesse alti era incompatibile in un regime di totale liberalizzazione dei movimenti di capitale, ovvero ciò che è avvenuto nell' 88 con l' istituzione del mercato unico, dove la germania è riuscita ad attirare capitale per la propria riunificazione.
La questione prima che politica E' TECNICA. La moneta unica è il modo PIU' SBAGLIATO per creare collaborazione e solidarietà tra gli stati europei. Se poi l' obbiettivo invece è creare un polo imperialista europeo che tenga testa agli usa ditelo chiaramente ma siamo in disaccordo.
A me pare che gli Stati che hanno adottato l'euro sono 17. E gli altri? Non fanno parte dell'europa la danimarca, la polonia, la romania, la croazia, ecc...? Cos'è questa discriminazione, l'europa esisterà sempre, mentre l'euro no.
Anonimo tutti quelli dentro questo sito l'hanno letto Marx... abbiamo capito... basta!!!!
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