La prima giornata, quella di sabato 12 gennaio, è aperta ai simpatizzanti e ad ogni compagno o compagna che fossero interessati ad ascoltarci. |
Il nostro progetto e la fase attuale
Segreteria pro tempore del Mpl
1. Le tre grandi crisi
2. A che punto è la notte: la crisi economica dopo un anno di governo Monti
3. La crisi politica dopo il golpe bianco Monti-Napolitano
4. Il blocco dominante alla ricerca dell'egemonia perduta
5. Il fronte
6. Le elezioni e la possibile spallata al montismo
7. Il vero nodo: l'Europa
Questo documento è stato approvato dalla segreteria nazionale pro-tempore il 14 dicembre 2012. Essendo stato scritto in un momento confuso, ancor più che dinamico, della vicenda politica nazionale (fine anticipata della legislatura, incertezza sulle candidature a premier, eccetera) esso dovrà essere certamente aggiornato in alcune sue parti dall’assemblea di Chianciano.
Il
progetto del Mpl ha ormai compiuto un anno. Le analisi che ci spinsero a
metterlo in campo hanno trovato, nella sostanza, un pieno riscontro nelle
vicende degli ultimi dodici mesi. Ciò nonostante il progetto non è progredito
come avremmo voluto. Compito prioritario di questa assemblea è dunque quello di
fare il punto della situazione, partendo dallo sviluppo della crisi nei suoi
vari aspetti.
Poiché
siamo sempre convinti della giustezza della nostra proposta, non ripeteremo qui
gli assi di fondo dai quali ci siamo mossi, e che consideriamo ormai assodati.
Ci sembra infatti più utile concentrarci su alcuni elementi che caratterizzano
la fase attuale, per poi addivenire ad una messa a punto della nostra proposta
politica.
1. Le tre grandi crisi
La
crisi sistemica del capitalismo (strettamente collegata, non dimentichiamolo,
alla crisi ambientale del pianeta che non tratteremo in questa sede) è nel
pieno del suo svolgimento. Non lo diciamo noi, ma tutti gli indicatori
economici fondamentali. Per ragioni che attengono al concreto sviluppo storico
del capitalismo nelle varie aree del pianeta, questa crisi ha la sua area
principale di infezione in occidente, dove si è affermato quello che abbiamo
definito capitalismo-casinò. All'interno di quest'area geografica, la crisi ha
colpito, colpisce e colpirà più duramente in Europa. Ciò è dovuto a due
fattori. Il primo, è la progressiva perdita di centralità - specie dopo la caduta dell'Urss - del Vecchio Continente (vecchio anche per
ragioni demografiche) all'interno del blocco imperialista occidentale ad
egemonia statunitense. Il secondo risiede nella follia dell'euro e di un
progetto di tendenziale unificazione politica che non si regge in piedi.
E'
in questo contesto che va collocata la crisi italiana. Una crisi economica
violentissima, che la maggioranza delle persone vive quotidianamente nella
perdita e nella precarizzazione del lavoro, nella riduzione del reddito, nel
peso insostenibile delle tasse, nella cancellazione di ogni diritto sociale. A
differenza delle tradizionali crisi cicliche del capitalismo - che l'Italia ha
conosciuto più o meno con una cadenza decennale nell'ultimo quarantennio (metà
anni '70, 1981-83, 1992-93 e 2002-03) - quella attuale ha ben altra durata e
profondità, oltre a non avere al momento alcuna realistica via d'uscita.
Proprio per questo essa investe vari aspetti, presentandosi ad un tempo come
crisi economica, crisi politico-istituzionale e crisi della tradizionale
egemonia sociale e culturale del blocco dominante. Tre crisi in una che
dobbiamo esaminare più da vicino, fermo restando la centralità dell'aspetto
economico.
2. A che punto è la notte: la
crisi economica dopo un anno di governo Monti
La
gravità della situazione non richiede troppi discorsi. Ma allineare i dati
macro-economici ufficiali, confrontando la situazione al novembre 2012 con
quella del novembre 2011, ad un anno esatto dall'insediamento di Monti, fa un
certo effetto. Vediamo allora i risultati della cura dei professori: Pil: +0,4% nel 2011, -2,3% nel 2012; domanda
interna: -1,0% nel 2011, -5,0% nel 2012; inflazione: +2,95% nel 2011, +3,2% nel
2012; tasso disoccupazione: 8,4% nel 2011, 10,6% nel 2012; famiglie in grado di
risparmiare: 35% nel 2011, 28% nel 2012. Ed infine, rapporto debito
pubblico/Pil: 120,7% nel 2011, 126,5% nel 2012; spesa per interessi/Pil: 4,9%
nel 2011, 5,4% nel 2012.
Potremmo
continuare a lungo, sia con altri dati relativi al 2012, sia con le previsioni
aggiornate al 2013 e 2014. Ma si tratterebbe di cose assai note, la cui sintesi
sta nel fatto che l'Italia è tuttora nel cuore della notte, che anzi il peggio
deve ancora venire e che proprio non si vede alcuna luce in fondo al tunnel, come invece pretenderebbe Monti.
Se
gli effetti sul popolo lavoratore sono devastanti, la cosa interessante è che
la politica dei tagli non sta producendo nessun vero effetto di freno alla
crescita inarrestabile del debito pubblico, con la conseguenza di renderlo
palesemente insostenibile. Da qui la conferma della centralità - dalla quale
siamo partiti - della cancellazione del debito, nelle forme e nei modi più
consoni alla ricostruzione di un'economia nazionale fondata sui reali bisogni
popolari.
Le
prospettive future sono rese più cupe dall'approvazione del Fiscal Compact, un trattato che incatena
l'Italia (e gli altri paesi europei) ad una politica di sacrifici, e certamente
di stagnazione economica, per almeno vent'anni.
Se
l'andamento negativo della cosiddetta «economia reale» è facilmente
prevedibile, nessuno si faccia illusioni sul superamento della crisi
finanziaria. Una crisi che è centrata sul debito pubblico, ma che è figlia di
un debito privato (in primo luogo dei grandi gruppi industriali) e delle sue
ricadute sulle banche, cioè sul cuore del capitalismo-casinò. Giusto per fare
un esempio, basti pensare al caso di una delle cosiddette «banche sistemiche»,
il Monte dei Paschi di Siena, banca tecnicamente fallita se non fosse per
l'imminente iniezione di ben 3,9 miliardi di euro da parte dello Stato. In
questo modo il governo Monti tappa una falla nel sistema bancario, ma ne apre
un'altra nei conti pubblici. La stessa cosa avviene, su scala internazionale,
con il finanziamento dei fondi europei. Essi servono ad impedire default
incontrollati (Grecia) e nuovi crac bancari (Spagna), ma contribuiscono ad
aprire nuovi buchi nei bilanci statali, compreso ovviamente quello italiano.
In
realtà la Grecia - con il riacquisto dei propri titoli spazzatura, imposto
dalla troika - ha fatto un secondo default
nella prima settimana di dicembre. I grandi beneficiari di questa operazione sono
proprio gli hedge fund, che hanno
rivenduto allo Stato a 30, titoli dal valore nominale uguale a 100, ma
acquistati sul mercato a 10 o a 20. In questo modo la finanza speculativa ha
fatto di nuovo bingo, ma chi ha pagato il conto? La Grecia ha ottenuto i soldi
dal fondo Esfs, garantito dagli Stati dell'Eurozona, con il relativo aggravio
per i bilanci pubblici di questi ultimi, alimentando così - anche per questa
via - la spirale debito-sacrifici-nuovo debito.
La
verità, ed anche questo secondo default greco lo dimostra, è che non se ne esce
senza una ristrutturazione (cioè un taglio) del debito. Il nodo, in definitiva,
non è tanto il default, ma le sue modalità e la sua gestione. Che il debito
vada abbattuto lo sanno bene anche gli strateghi del blocco dominante, che tuttavia
non vogliono pagare il conto. E' da questo impasse che nasce la politica del
rigore come unico orizzonte presente e futuro. Ma questa politica cozza con la
stessa necessità capitalistica (quantomeno della sua frazione industriale) di
uscire dalla recessione. Nonostante queste contraddizioni interne al blocco
dominante, ad oggi non vi è alcun segnale di revisione sostanziale
dell'indirizzo rigorista tracciato ed imposto dalle oligarchie europee. Questo
indirizzo non riuscirà tuttavia ad impedire nuove e più gravi acutizzazioni
della crisi finanziaria.
E'
vero che in questi ultimi mesi la situazione sui mercati finanziari si è
relativamente stabilizzata. Ciò è dovuto agli impegni assunti dalla Bce
nell'estate scorsa. Impegni ai quali, ad oggi, non è seguito alcun intervento
sostanziale. Un risultato dunque basato soltanto sull'«effetto annuncio»,
destinato ad andare in crisi assai presto. Gli annunci, infatti, hanno la loro
forza nella credibilità, ma essa, nel nostro caso, è legata ad uno sviluppo
politico - gli «Stati Uniti d'Europa» - al quale non credono neppure gli euristi più spinti, salvo qualche
fanatico senza troppo seguito. Le condizioni reali dell'ipotetico processo di
unificazione europea sono state recentemente evidenziate dal mancato accordo
sul bilancio comunitario. I paesi dell'Unione non sono riusciti a mettersi
d'accordo su qualche miliardo da spendere nei prossimi anni, figuriamoci su un
processo di unificazione politica...
Non
passerà molto, dunque, prima di ritrovarci di fronte ad un ennesimo allarme spread, ancora oggi comunque ben al di
sopra della soglia 200, indicata come obiettivo dal governo. Molti potranno
essere gli inneschi di questa nuova crisi, che ha comunque sempre sullo sfondo
la pessima situazione dell'economia reale con il crollo della ricchezza, della
produzione, dell'occupazione. E' con questo quadro che dovrà fare i conti il
governo che uscirà dalle prossime elezioni politiche.
3. La crisi politica dopo il golpe bianco Monti-Napolitano
Che
l'Italia viva non una semplice crisi, bensì una vera emergenza politica,
dovrebbe essere chiaro a tutti. Il golpe
bianco del novembre 2011 dovrebbe aver aperto gli occhi anche ai ciechi. Le
stesse vicende che ne sono seguite non hanno fatto altro che evidenziare un
tipico quadro da «stato d'eccezione».
Il golpista in primis, il presidente
della repubblica Napolitano, ha continuato a pilotare i passaggi politici più
rilevanti, con un interventismo a getto continuo che ha spaziato dall'articolo
18, ai nodi europei, alla legge elettorale, all'Ilva. Il governo ha operato in
spregio alle più elementari regole di una repubblica parlamentare, riducendo le
camere ad un vero parco buoi chiamati
solo a dire sì agli innumerevoli voti di fiducia. Tutto lo schieramento parlamentare
(partiti inclusi) è stato come preso in ostaggio dai diktat europei e dai dogmi
euristi.
La
risultante di tutto ciò è stata l'ulteriore riduzione della politica a mera
amministrazione di scelte fatte altrove, nei circoli dominanti della finanza internazionale,
nella Bce, nelle chiuse stanze di Bruxelles. Ma se la politica viene ridotta a
tecnica, senza di che non avrebbe avuto giustificazioni plausibili la stessa
ascesa del «governo dei tecnici», è proprio la politica a ritrovarsi in
profonda crisi. Tutto questo potrebbe sembrare oro colato per una classe
dominate che ama pensarsi ultra-liberista e votata all'eliminazione di ogni laccio e lacciuolo che gli si ponga
d'intralcio. Ma un «governo dei tecnici»,
configurandosi appunto come conseguenza di uno «stato d'eccezione», può trovare consenso solo a due condizioni: che
l'eccezione sia riconosciuta come
tale (e fin qui ci siamo); che produca degli effetti tangibili sulla condizione
che ha determinato quella eccezionalità (e
qui non ci siamo proprio).
Lo
«stato d'eccezione» rende insomma in
qualche modo accettabile (ovviamente non per noi, ma per i più sì) anche ciò
che legittimo non è. Ma proprio perché in casi come questo sono i risultati a
contare, al di là della stessa legittimità, è sui risultati che
l'eccezionalismo (e dunque nel nostro caso il governo Monti) verrà giudicato.
Ed il giudizio è ormai chiaro, come dimostrato dalle elezioni amministrative di
primavera, da quelle siciliane di fine ottobre, da innumerevoli sondaggi e da
un sentire diffuso che non è difficile percepire nei più diversi strati sociali
della popolazione.
Lo
stato dei partiti della strana coalizione
che ha fin qui sostenuto Monti è anch'esso indicativo. Il Pdl, dopo lunghe
convulsioni su primarie, leadership, propositi scissionisti e politica delle
alleanze, sembrava aver sciolto questi dilemmi in nome dell'ennesima ridiscesa
in campo di quello che è stato il suo capo indiscusso. Questa mossa ha
cancellato le primarie, ha avvicinato la data delle elezioni in modo da rendere
difficilmente praticabili scissioni consistenti se non concordate (il caso
eventuale degli ex-An), sembrava aver posto le premesse sia per una riedizione
dell'alleanza con la Lega che per una campagna elettorale basata sui temi
tradizionali della destra, fisco in primo luogo. Una mossa, dunque,
tatticamente azzeccata, tesa a limitare le perdite, ma ben lungi dal
rappresentare una vera risposta al declino politico della destra.
Gli
sviluppi successivi al «rientro» berlusconiano sono lì a dimostrarlo. La Lega
ha fatto i suoi calcoli e non sembra ora disponibile ad una nuova alleanza se
Berlusconi sarà il candidato premier.
Le varie correnti del Pdl sono entrate in fibrillazione. L'isolamento di
Berlusconi non è mai stato così grande. Un isolamento che l'ex premier potrebbe
sfruttare a proprio vantaggio solo se avesse il coraggio di andare fino in
fondo su una linea di contrapposizione con l'Unione Europea. Noi non abbiamo
mai escluso, al contrario, la possibilità dell'emersione di un «sovranismo di
destra», tra l'altro reso più probabile dall'«europeismo a prescindere» della
sinistra, ma riteniamo altamente improbabile che la destra in questa campagna
elettorale sia capace di impugnarlo con sufficiente coerenza.
Quando
la nostra assemblea si svolgerà il quadro sarà necessariamente più chiaro, ma quel
che possiamo dire fin d'ora è che il primo partito del 2008 non riuscirà
neppure a prendere la metà della percentuale di allora, dei voti neanche a
parlarne. In tanti, dopo aver considerato il paese ormai completamente
berlusconizzato solo quattro anni fa, leggono ora il declino del Pdl come la
semplice conseguenza del compimento della parabola berlusconiana, che la
ricandidatura in extremis non è certo
in grado di raddrizzare. Non possiamo dire che in questa analisi non vi sia una
qualche verità, ma la ragione principale del tracollo della destra risiede piuttosto
nella profondità della crisi, che - al di là dei meriti e dei demeriti di
ciascuna forza politica - non poteva non travolgere le forze che sono state al governo
8 anni nel periodo 2001-2011.
Il
Pd gode apparentemente di uno stato di salute migliore. Avere avuto Berlusconi
come avversario gli ha dato qualche evidente vantaggio. Ed ora, dopo un anno di
sostegno assoluto al peggior governo della storia repubblicana, si candida a
governare. Un governo di coalizione ovviamente, ma nel quale il partito di
Bersani ritiene di poter avere il ruolo di Primus
inter pares. Mediaticamente, le recenti primarie hanno dato forza a questa
prospettiva, ma è sempre bene ricordare che dopo le primarie ci sono le
secondarie, cioè le elezioni vere, che sono poi quelle che contano. Sulle
primarie si è parlato a sproposito, molto a sproposito, di un successo di
partecipazione, di un riaccostarsi della gente alla politica e via delirando.
In
realtà, secondo i dati ufficiali, hanno votato alle primarie di coalizione
circa 3 milioni e centomila elettori, esattamente come quelle che incoronarono
Bersani segretario (ma quelle riguardavano ovviamente solo il Pd) nell'ottobre
2009; mentre il confronto non regge con le precedenti primarie dell'ottobre
2005 vinte da Prodi, visto che allora votarono 4 milioni e trecentomila
persone. Ecco allora che la mistificazione mediatica risulta evidente. La
realtà è quella di un calo del 28%, per giunta in primarie vere, cioè
combattute, a differenza di quelle di 7 anni fa, e con un'attenzione mediatica
senza precedenti. Perché allora i mezzi di informazione hanno fatto a gara a
venderci la favola della grande partecipazione? E' presto detto, perché il Pd
va aiutato visto che è il vero «partito sistemico», nel senso che è oggi
l'unico che appare in grado, a certe condizioni, di tenere in piedi l'attuale
sistema politico in base agli architravi rigoristi ed europei. Ed è inoltre
l'unico partito in grado di competere con il M5S per la conquista del maggior
numero di consensi. Ma è anche quello che dispone - dal bombardatore D'Alema al
privatizzatore Bersani - di un personale politico abbastanza collaudato, un
particolare questo che certo non dispiace alle oligarchie dominanti.
Il
fatto che, grazie all'altrui crisi, il Pd abbia conquistato questa posizione
centrale, non va scambiato con suo rafforzamento, in termini di radicamento e di
consenso. E' semmai vero il contrario. Al più il Pd potrà realizzare un «sorpasso
in discesa» (ricordiamoci che nel 2008 raggiunse il 33,2% dei consensi), così
com'è avvenuto in Sicilia, dove ha vinto una coalizione con poco più del 30%,
all'interno della quale il partito di Bersani ha ottenuto il 13,4% dei voti,
pari al 5,6% sull'intero corpo elettorale... Certo, il Pd ora guida la giunta
regionale siciliana, ma da qui a parlare di consenso ce ne corre. Peraltro una
cosa è amministrare localmente, altra cosa è governare il paese. E farlo senza
consenso non sarà facile. Insomma, il Pd potrà andare al governo, ma i guai per
Bersani e soci verranno subito dopo.
A
completare la triplice che sostiene il governo insediato con il golpe
novembrino rimane la mini-Dc casiniana dell'Udc, ora alla ricerca di un accordo
con la lista che fa capo a Montezemolo. Si tratta della componente più
smaccatamente montista, un posizionamento scelto da Casini anche per accreditarsi come il miglior custode
dell'ortodossia liberista, rigorista ed europeista. Ma è probabilmente anche
per questa collocazione, che i cosiddetti «centristi» proprio non riescono a
venir fuori da un peso politico-elettorale assai modesto. Un peso che Casini
vorrebbe rendere decisivo, magari rispolverando la teoria andreottiana dei «due
forni». Ma questa tattica, già resa più complicata dal disfacimento della
destra, si è ora ulteriormente indebolita con il naufragio della riforma della
legge elettorale.
Il
dato comunque interessante è che la somma dei voti della triplice di cui sopra
raggiunse nel 2008 il 77,6% dei voti, mentre oggi i sondaggi danno la somma
Pd+Pdl+Udc attorno alla soglia del 50%. Un'indicazione sul consenso reale alle
politiche di Monti da non sottovalutare. Ne consegue - e l'incapacità di
riformare la legge elettorale lo dimostra - che il sistema politico è ben lungi
da risolvere la sua crisi.
4. Il blocco dominante alla
ricerca dell'egemonia perduta
La
crisi del sistema politico non nasce solo dalle dinamiche delle forze
politiche, non deriva né dal solo berlusconismo né dal presunto trionfo
dell'«antipolitica». E' piuttosto la conseguenza di molteplici fattori storici
(la fine della Guerra Fredda, la costante erosione della sovranità nazionale) e
culturali (l'americanizzazione e la spettacolarizzazione di ogni ambito della
vita sociale). Il sistema ha pensato di traghettare la vecchia forma della
rappresentanza politica nella nuova dimensione asettica, a-ideologica (e
verrebbe da dire «apolitica») della governance,
producendo così un'inedita forma di totalitarismo sotto mentite spoglie
democratiche.
Questo
traghettamento - che in Italia ha coinciso grosso modo con il passaggio dalla
Prima alla Seconda Repubblica - è sempre stato un po' traballante, ma aveva
raggiunto in fin dei conti i suoi scopi fino allo scoppio della crisi
economica. Con l'inizio della crisi, pilotata in senso sempre più autoritario
dalle oligarchie europee, si è fatta via via più stridente la contraddizione
tra una politica sempre più antipopolare nelle sue scelte di fondo e la
necessità di mantenere un minimo di consenso e di coesione sociale. Una
contraddizione sciolta un anno fa con la nomina quirinalizia di Monti, che se
da un lato ha garantito al meglio gli interessi dei suoi committenti,
dall'altro non ha certo contribuito a riconquistare il consenso perduto.
Il
fatto è che il blocco dominante non ha più niente da dare né da dire, né in
termini materiali, ma neppure in quelli spirituali. La politica dei tecnocrati
è naturalmente arida, fredda come le loro cifre, asociale e quasi autistica. Il
fine dell'azione politica è ormai solo quello di ottenere un bel voto, od
almeno una sufficienza, dai mercati finanziari. Le umane aspirazioni ad una
vita ed un lavoro migliore, ad un'istruzione e ad una sanità come diritto
veramente di tutti sono ormai al di fuori del discorso dominante. Siamo al
tentativo di restaurare un modello ottocentesco di società ma nel contesto del
ventunesimo secolo.
L'unica
sfera dove ancora sembra ci sia spazio per qualcosa è quello dei diritti
civili. Il che non avviene per caso, bensì per lasciare uno spazio residuo ad
un «discorso pubblico» che altrimenti resterebbe confinato ai commenti sulle
partite di calcio, che non a caso hanno comunque la meglio su tutto il resto.
Diritti civili come diritti individuali, perché l'individuo va esaltato, ma
solo ed esclusivamente nella sua dimensione privata. Su questa materia è
ammesso ancora discutere, ma guai a trasferire l'individuo nella società, guai
ad ogni progetto collettivo, ad ogni visione che travalichi sul serio
l'esistente.
Tutto
ciò è, e non da oggi, sotto i nostri occhi. Ma un processo gigantesco è in atto
da tempo, senza che se ne riesca ancora a cogliere tutta la sua portata. Se il
blocco dominante del capitalismo globalizzato, quello che definiamo
capitalismo-casinò, ha sostituito la vecchia egemonia costruita sui
tradizionali valori tipici della cultura novecentesca, con una nuova forma di
egemonia basata su un individuo strutturalmente incapace di progettualità,
immerso in una sorta di eterno presente allietato dal consumismo; la crisi dei
consumi non ha allora solo una ricaduta economica, ce l'ha anche sul modo di
pensare delle classi subalterne.
Il
capitalismo non è più il «migliore dei mondi possibili». Questa (per noi)
semplice verità comincia a insinuarsi nella testa di tante persone, senza che
per questo si tramuti spontaneamente in coscienza anticapitalista. Questo
processo di lento distacco dai miti della fase precedente, che avevano
contribuito in maniera decisiva a produrre un lungo periodo di letargia delle
masse, è in atto. Solo chi saprà coglierlo potrà indirizzarlo in senso rivoluzionario,
e niente ci garantisce che questo passaggio, dal distacco alla sollevazione, possa
davvero compiersi. Ma la scommessa è
questa.
Il
blocco dominante avverte il problema, ma è strutturalmente impossibilitato a farvi
fronte. L'abbandono della tradizionale cultura borghese rende ora impossibile
il ritorno ai vecchi «valori». La tattica dei dominanti è allora un'altra:
quella di prendere tempo, illudendo su un ritorno all'età dell'oro del
consumismo diffuso. Da qui la necessità, per quelli come noi, di prospettare
non solo un insieme di misure per uscire dalla crisi, salvaguardando in primo
luogo le classi popolari, ma anche una visione più generale sulla società e sul
percorso che dovrà portarci fuori dal capitalismo.
Incapace
di delineare una propria visione egemonica, il blocco dominante ha saputo però
costruirsi un comodo nemico: il «populismo». Dentro questa
categoria-ricettacolo vengono ricomprese tutte le opposizioni che si collocano
fuori dall'attuale teatrino della politica, od anche quelle che si pensa
potrebbero essere tentate di farlo. Nel linguaggio delle oligarchie, populista
è chiunque si opponga alla loro ideologia, alla loro visione del mondo, alle
loro leggi, ai loro interessi. E' «populista» chi non aderisce al liberismo
globalista del capitalismo-casinò, chi vorrebbe costruire un'alternativa ad un
mondo dominato dai mercati finanziari, chi si oppone alla precarizzazione del
lavoro, chi dice che le banche vanno nazionalizzate. Ma nella loro visione
totalitaria, le oligarchie vanno ben oltre: è «populista» chiunque metta in
discussione i dogmi europei, l'euro, le privatizzazioni, ma pure chi si
permette di opporsi anche a semplici provvedimenti governativi. Si tratta,
insomma, di un tentativo di criminalizzazione che va respinto con forza.
Per
le oligarchie perseguire il bene per le classi popolari (semplificate nel
concetto di «popolo) è per sua natura pernicioso. Chi lo fa è gente che vuol
vezzeggiare il popolo, conoscendone il comune sentire, per trarne vantaggi,
seguito e consenso politico. Solo loro, classe eletta, conoscendo la
complessità delle cose, sono abilitati a discernere quel che è possibile da ciò
che è improponibile, se non addirittura indicibile.
In
realtà il vero populismo è anche e soprattutto inganno del popolo, con promesse
irrealizzabili che servono a giustificare un presente che diversamente verrebbe
rifiutato. Per sua natura il vero populismo non può essere che quello delle
classi dirigenti. E' populista la menzogna dell'«equità» modello Fornero, ma
pure lo sfortunato «anche i ricchi piangono» di un manifesto con il quale il
Prc cercava di nascondere la vera politica del governo Prodi. E' populista
l'illusione sparsa a piene mani sulla «ripresa» imminente, sulla «fine del tunnel»,
eccetera. Ma nel vero populismo c'è anche l'idea di un popolo che deve
affidarsi alla guida sicura di che ne sa di più, sia esso un leader carismatico
oppure un governo «tecnico» insediato dall'élite.
In
conclusione, i veri populisti sono loro. I veri ingannatori sono loro. L'accusa
va perciò rispedita al mittente. Accusano di populismo perché disprezzano il
popolo ed odiano quella democrazia che dicono di rappresentare. E' anche questo
un segno di debolezza del blocco dominante, un'incapacità di argomentare e
convincere, cui fanno fronte con il totalitarismo di un pensiero unico che ha
sempre più spesso bisogno di anatemi. L'alternativa al loro populismo è la
discesa in campo del popolo lavoratore, la riconquista del protagonismo
sociale, la ridefinizione di un'idea superiore di democrazia. Quando questo
avverrà le accuse di populismo del blocco dominante faranno solo
sorridere.
5. Il fronte
Da
quanto abbiamo fin qui affermato discendono compiti giganteschi per chiunque
creda davvero alla necessità ed alla possibilità della sollevazione,
dell'alternativa, del socialismo. Se sul piano economico si tratta di costruire
una piattaforma programmatica, in grado di indicare dei precisi obiettivi
immediati per impedire la completa catastrofe sociale - e su questo crediamo di
essere stati finora, come Mpl, quelli che hanno avanzato da tempo una chiara
proposta organica -, sul piano politico il problema è innanzitutto quello della
costruzione di un fronte in grado di sostenere quegli obiettivi, nella prospettiva
della sollevazione e di un governo popolare d'emergenza.
Facile
a dirsi, difficile a farsi. L'esigenza del fronte inizia infatti a farsi strada
in diversi ambienti, ma in quanto a passi concreti siamo ancora molto indietro.
E tuttavia, non vediamo alternative alla strada del fronte. Non si tratta solo
di unire su un progetto le forze sparse esistenti, ad esempio quelle
meritevolmente raggruppate dal Comitato No Debito, si tratta anche di trovare
un ambito ed una forma per immettere nel percorso della sollevazione le
decisive forze giovanili che hanno iniziato ad esprimere una nuova e decisiva
radicalità.
Il
fronte è però necessario anche per altri due motivi. Il primo è che non è oggi
pensabile riunificare i tanti filoni dispersi all'interno di un contenitore di tipo
partitico. Il secondo è che, anche ove ciò fosse possibile, esso non sarebbe in
grado di intercettare una nuova disponibilità alla politica che spesso si
abbina al rifiuto della forma partitica. Ci piaccia o meno, è questo un aspetto
della realtà attuale che non possiamo minimamente trascurare. Lo abbiamo sempre
detto, anche impegnandoci in aperte campagne astensionistiche, che non dobbiamo
scambiare l'esodo da questa politica (quella ciò costruita dal sistema negli
ultimi decenni) con la cosiddetta «antipolitica», una categoria quest'ultima
inventata di sana pianta dall'èlite dominante per spaventare le anime pie di
una certa «sinistra».
Il
fronte dovrà essere dunque ampio, ma diretto dalle forze più consapevoli della
gravità della situazione e della necessità della sollevazione, consapevoli cioè
del fatto che il nodo vero da affrontare, in tempi difficili da prevedere ma
certamente non biblici, è quello del potere.
Oggi
la precipitazione della crisi politica, che va ben al di là della semplice
chiusura della legislatura, ci mette di fronte a due/tre mesi di fibrillazione
elettorale, un periodo nel quale, lo si voglia o meno, la scena principale sarà
occupata dai soggetti in campo sul terreno delle elezioni. Occorre però pensare
già da ora - ed è questa la proposta che facciamo da subito, a partire dalle
forze che vorranno confrontarsi con noi a Chianciano - ad un vero rilancio
della proposta del fronte da mettere in campo subito dopo le elezioni.
A
quel punto non sarà più possibile tergiversare. Archiviata nei fatti l'epoca
berlusconiana, chiusa almeno formalmente quella dei «tecnici», si aprirà quella
di un governo «politico» sotto il totale controllo delle oligarchie euriste.
Avremo dunque la prosecuzione dell'attuale politica, messa nelle mani di
soggetti parzialmente (solo parzialmente) diversi. E siccome, mentre la
recessione continuerà a colpire pesante, nuove misure draconiane si imporranno,
anche a seguito della probabilissima richiesta d'«aiuto» necessaria per
attivare il programma Omt (cioè l'acquisto dei titoli da parte della Bce), sarà
quello il momento dell'accensione dello scontro sociale.
Non
siamo né economicisti né deterministi, siamo però convinti che il 2013 sarà
probabilmente l'anno della ripresa - in forme largamente imprevedibili e
necessariamente diverse dal passato - dello scontro sociale nel nostro paese.
Il rilancio della proposta del fronte, la sua precisazione in termini più
concreti, la sua effettiva costruzione come fronte politico-sociale è perciò la
più grande scommessa dei prossimi mesi. Per quanto è nelle nostre possibilità e
nelle nostre modeste forze è in questa direzione che lavoreremo.
6. Le elezioni e la possibile
spallata al montismo
Se
dobbiamo avere lo sguardo già proiettato sul dopo-elezioni, non bisogna fare
l'errore di disinteressarci alla contesa elettorale. Contrariamente a quel che
qualcuno pensa, le elezioni non saranno il momento del redde rationem. Potranno, però, essere quello di un ulteriore
indebolimento del sistema politico. Possiamo essere indifferenti a questo
aspetto? Ovviamente no.
Non
saranno il momento del redde rationem,
perché il sistema politico ha oggi l'unico obiettivo di sopravvivere in qualche
modo per poter proseguire (magari negandolo) con le politiche della cosiddetta
«Agenda Monti». In questo delicato passaggio il blocco dominante sa di non
poter avere il consenso (dunque i voti), gli basterà invece avere i seggi per
mettere in piedi un governo che prosegua l'opera del professore, magari
insediando lo stesso al Quirinale come custode dell'ortodossia eurista.
Il
tanto vituperato Porcellum sarà alla
fine lo strumento migliore per perseguire questo scopo. Se fino a qualche
settimana fa l'obiettivo sembrava piuttosto quello di una specie di Montellum, teso ad impedire la vittoria
di un qualsiasi schieramento (in pratica del centrosinistra), onde «obbligare»
alla riedizione del Monti bis; oggi il quadro è cambiato in direzione di un
probabile governo Bersani, comunque allargato ai cosiddetti «centristi».
Tanti
gli elementi che hanno spinto in questo senso: il disfacimento della destra, la
difficoltà dei centristi a farsi polo credibile, un certo (ma sempre molto
relativo) recupero di immagine del Pd, ma soprattutto la mossa berlusconiana
(difficile immaginare la riedizione di un tripartito con Berlusconi ancora
leader del Pdl) e la popolarità insufficiente del Quisling della Bocconi. A patetica tutela di quest'ultimo, quasi
fosse una specie di «oro della patria», è sceso ad un certo punto in campo
Napolitano decretandone ad un tempo la (falsa) «ineleggibilità» e la
«riutilizzabilità» post festum. Un
percorso ad personam assai rivelatore
della consapevolezza del rischio di un numero inadeguato di consensi elettorali.
Come
noto, dopo il «ritorno» di Berlusconi, la possibilità di una candidatura a premier di Monti ha ripreso invece
quota. A livello europeo tutti i leader del Ppe (e non solo, basti pensare ad
Hollande) si sono pronunciati a favore di questa ipotesi. In Italia sono molte
le spinte in questo senso, in particolare dal blocco centrista che certo se ne
avvantaggerebbe. Molte, però, anche le controindicazioni (un insuccesso avrebbe
seri effetti ben al di là del momento elettorale), ed in definitiva la
decisione verrà presa in base ai sondaggi. Così funziona la «democrazia
americanizzata» e tecnicizzata di questo critico passaggio di fine Seconda
Repubblica.
Arretrato
nella trincea di un governo purchessia a condizione che sia «dei nostri», il
blocco dominante riuscirà senz'altro nell'impresa. Ma come, con quale forza di
reggere agli urti tremendi della fase successiva? Questo è il punto. Ed è
esattamente su questo punto che non possiamo essere indefferenti.
Posto
che con il Porcellum i seggi per fare
un governo siffatto ci saranno, non sarà indifferente vedere se a quella
maggioranza di seggi corrisponderà
anche una maggioranza di voti (in quanto ad una maggioranza nell'intero corpo
elettorale, questa è evidentemente da escludersi a priori). Il nostro obiettivo
dovrà dunque essere quello dell'insuccesso elettorale (sempre in termini di
voti) delle forze di punta del blocco eurista: cioè il centrosinistra e i
cosiddetti «centristi». Occorre portare questo blocco sotto il 50% dei
consensi. Sarà questa la soglia simbolica che ci dirà se la spallata al
montismo sarà riuscita oppure no.
Bisogna
prefiggersi questo obiettivo senza alcuna indulgenza nei confronti
dell'antiberlusconismo di ritorno, che tanto comodo farebbe all'asse
Bersani-Casini-Monti. E' questo asse - al di là dei diversi equilibri interni
che possono determinarsi - quello che intende proseguire l'opera del «governo
tecnico». Berlusconi farà (se la farà) la sua partita, ma senza alcuna
possibilità di vincere. Il suo obiettivo è quello di limitare i danni di un
partito ed uno schieramento allo sfascio. Chi agiterà lo spauracchio del
berlusconismo lo farà, oggi più di ieri, per imbrogliare le carte sulla vera
posta in gioco: continuare il massacro sociale imposto dall'Europa od iniziare
a costruire un consenso ed una forza per provare a liberarsene. Il nemico principale
non è oggi Berlusconi, ma l'asse dell'euro, della Bce, delle banche, del Fiscal compact, dei sacrifici per il
popolo lavoratore. L'inganno dell'antiberlusconismo ha fatto il suo tempo ed è
venuto il momento di liberarsene definitivamente.
Come
perseguire l'obiettivo della sconfitta dell'asse montista Bersani-Casini-Monti
è il vero problema che abbiamo di fronte. In linea generale avremmo ovviamente
preferito il costituirsi di un raggruppamento sul modello della Syriza greca. Non che non ci siano chiari
i limiti di Syriza, ma nel quadro
italiano un simile raggruppamento avrebbe di certo rappresentato un vero passo
in avanti, anche nella direzione della costruzione del fronte.
Le
cose non sono andate così, e quello che oggi si agita a sinistra del Pd oscilla
pericolosamente tra l'irrilevanza di una residualità incapace di confrontarsi
con la nuova situazione e la tradizionale tendenza alla subalternità verso il
centrosinistra. Una subalternità assai manifesta nelle posizioni del sindaco di
Napoli, De Magistris, che (a dispetto di affermazioni di segno opposto) ha
rivendicato l’alternatività degli arancioni a Berlusconi, Monti e... Grillo, ma
non a Bersani. Il Movimento Arancione (segnato peraltro da posizioni
giustizialiste alla Di Pietro vecchia maniera) è di fatto obbligato ad
unificarsi con il blocco Prc-Alba. Un'operazione elettoralistica che salta
opportunisticamente ogni verifica sui contenuti e sui programmi. E' un fatto
che a due mesi dalle elezioni la confusione regna ancora sovrana, in assenza di
un simbolo, di un nome, di un leader e di un programma minimamente degno specie
sui temi della crisi, del debito, dell’Europa e dell’euro. Naturalmente, ci
auguriamo il prevalere delle tendenze anti-Pd, ma quel che appare certo è che
da quest'area non verrà niente di veramente credibile ed incisivo.
Restano
dunque due possibilità: quella di schierarci su una posizione astensionista,
come molti di noi hanno fatto negli ultimi anni; quella di utilizzare
tatticamente il voto al Movimento 5 Stelle.
La
forza della posizione astensionista è stata quella di incontrare una forte
spinta popolare, nel segno di un esodo delegittimante di un sistema politico
ormai avvertito come estraneo e nemico. I fatti hanno dimostrato come quella
scelta sia stata giusta e centrata. Oggi quella stessa spinta tende ad usare il
momento elettorale utilizzando il canale del M5S.
Abbiamo
detto che oggi il sistema punta alla costruzione del governo, infischiandosene giocoforza
del consenso. Il problema non è dunque più quello di dare uno strumento che
rendesse possibile il manifestarsi dell'esodo popolare, ma piuttosto quello di
rendere quanto più dura possibile la vita al futuro esecutivo. Non siamo cioè
più nella fase della delegittimazione, ma in quella in cui occorre pensare sul serio
la lotta per il potere.
Chiari
ci sembrano i limiti del Movimento 5 Stelle, quelli programmatici e di
prospettiva politica ancor più di quelli relativi al sistema di democrazia
interna (sulla quale comunque ci sembrano ben poco credibili le accuse dei
partiti, inclusi quelli della sinistra). Altrettanto chiaro è che, piaccia o
non piaccia, il vero no al montismo comunque declinato, si misurerà in queste
elezioni principalmente con i consensi che verranno raggiunti dal movimento di
Beppe Grillo.
Il
problema, venuta meno la possibilità di una Syriza
italiana (di una lista caratterizzata cioè da un rifiuto integrale di ogni possibilità di alleanza con
il Pd) non è più quello di esprimere un voto in base ad una vicinanza
ideologica, ma di farlo con il limitato ma essenziale obiettivo di colpire il
sistema politico, con lo scopo di rendere debole quanto più possibile il futuro
governo.
Positivi
saranno dunque tutti i voti espressi alle liste che si presenteranno in chiara
contrapposizione al montismo e al centrosinistra, ma solo quello dato al M5S
avrà la forza di un corpo contundente. Un corpo contundente non è un progetto
politico, ma se ha la forza di colpire l'avversario va usato senza esitazioni.
Usato proprio nella prospettiva della sollevazione, perché non sarà
indifferente trovarsi di fronte un governo debole piuttosto che uno forte.
Certo
non scommettiamo su ciò che faranno i «grillini» una volta sbarcati in
parlamento. Non è escluso, ad esempio, che finiscano per dividersi di fronte a
scelte politiche per le quali non sembrano troppo preparati. In ogni caso,
proprio per i limiti intrinseci al M5S, non ci facciamo nessuna illusione in
proposito. Quel che non pensiamo possa venir meno è però l’opposizione al
sistema politico dominante ed all’asse degli eurosacrifici
Bersani-Casini-Monti. E questo, considerata la situazione, è già sufficiente
per esprimere un orientamento.
7. Il vero nodo: l'Europa
Ma
qual è la vera discriminante in base alla quale orientare le future scelte
politiche, non solo quelle elettorali? Ecco, noi pensiamo che il vero elemento
discriminante sia rappresentato dalla posizione sull'Europa. E' vero che la
crisi sistemica del capitalismo - in particolare della sua variante occidentale
di capitalismo-casinò - prescinde e sta a monte della questione europea. E'
però altrettanto vero che non avremmo la recessione attuale, la politica dei
sacrifici spinta alle estreme conseguenze, il vincolo del Fiscal Compact e quello del pareggio di bilancio inserito nella
Costituzione, se non avessimo a sovraintendere il tutto l'Unione Europea. Così
come non avremmo avuto il governo Monti se non vi fossero state ad imporlo le
oligarchie europee.
Non
è dunque possibile affrontare alcuna questione sociale, dalla disoccupazione
alla precarizzazione del lavoro, dalle pensioni da fame alla condizione più in
generale degli anziani, dai livelli salariali ai diritti dei lavoratori, dalla
necessità di ridurre la pressione fiscale a quella di diminuire il peso degli
interessi sul debito, prescindendo dalla questione europea. Che questa sia la
pratica di una sinistra che parla, sempre più a sproposito, di una inesistente
«altra Europa», ci dice solo a quali livelli di mistificazione della realtà si
possa giungere pur di non prendersi le responsabilità che il momento richiede.
L'unica
Europa che c'è - oggi, non in un ipotetico futuro - è quella di Draghi e della Merkel.
Altre non ve ne sono, né si annunciano all'orizzonte. E' l'Europa, tanto per
stare all'attualità, che ha approvato la cosiddetta «supervisione unica delle
banche», che si applicherà (come voleva la Germania) alle sole banche di
maggiori dimensioni (circa 150), ma che garantirà il salvataggio di queste
ultime attingendo direttamente al fondo salva-Stati (in realtà salva-banche)
Esm. Fondo ovviamente alimentato dagli Stati, con denaro pubblico, per tenere
in piedi aziende private come le banche, senza che nessuno avanzi almeno la
richiesta di nazionalizzarle.
Lo
stesso meccanismo dei fondi europei produce effetti devastanti sulle economie
del sud dell’Unione. Il costo del finanziamento, a causa degli alti spread tuttora esistenti, è infatti ben
diverso tra stato e stato. Avviene così che se per la Germania trasferire il
salvataggio delle banche dallo Stato al fondo Esm è un affare, per l’Italia e
gli altri paesi del sud è un disastro, producendo in questo modo uno dei
paradossi dell’euro: il trasferimento di ricchezza dalla parte più povera a
quella più ricca dell’Eurozona.
In
questo quadro, lo stesso progetto di costruzione degli «Stati Uniti d'Europa»,
a prescindere dal fatto che per noi rappresenterebbe un mostro imperialista ed
autoritario, ancor più vorace di diritti e di democrazia di quanto lo sia già
oggi, non ha in realtà alcuna possibilità di andare avanti.
Non
è più dunque tollerabile l'ambiguità di troppi sul punto dirimente dell’Europa.
Non si può svicolare da questo nodo, né in virtù di un astratto
internazionalismo, né in nome di europeismo alternativo «democratico e di
classe». Certo che siamo per l'unità internazionale del popolo lavoratore
contro le oligarchie dominanti, certo che siamo per la solidarietà tra i
popoli, ci mancherebbe altro. Ma non siamo degli illusi. Se, in futuro, potrà
nascere un'Europa dei popoli, essa sarà il frutto di un lungo, tortuoso,
doloroso processo storico. Ed esso passerà, inevitabilmente, dalla distruzione
non dalla riforma dell'attuale Unione Europea. Essa non è qualcosa di
plasmabile a piacere. E' invece una struttura nata su un impianto prima
liberale, poi liberista ed infine ultra-liberista. Essa risponde a precisi
interessi di classe. E l'euro - definito giustamente da qualcuno il Reagan d'Europa - è stato ed è lo
strumento per bastonare, impoverire e sconfiggere i vari segmenti del popolo
lavoratore.
La
questione dell'euro, la necessità di abbandonare la moneta unica per
riconquistare la sovranità monetaria, è ormai un fatto riconosciuto da molti.
Non si contano più gli economisti convinti della insostenibilità, quanto meno
per i paesi mediterranei, dell'euro. Le rigidità imposte dalla moneta unica ad
economie e paesi spesso assai diversi sono servite ad un duplice scopo:
favorire i surplus commerciali dei paesi più forti (Germania in primis), costruire una ferrea
disciplina del lavoro nell'intera Eurozona, ma in particolare nelle economie
più deboli. A chi, a sinistra, diffonde ipotesi terroristiche di svalutazione
ove l'euro saltasse, bisogna ricordare che in nome ed a causa dell'euro
un'altra svalutazione è già in corso da anni: quella del salario, nelle sue
forme di salario diretto, «salario indiretto» e «salario sociale».
L'euro
è lo strumento utilizzato per piegare ogni resistenza di classe, per
distruggere ogni diritto sociale, per dettare ai governi le scelte economiche
fondamentali. Senza riconquistare la leva della politica monetaria non è
neppure immaginabile la benché minima inversione di tendenza rispetto al quadro
attuale delle politiche di austerità. Per questo ribadiamo l'obiettivo
dell'uscita dall'euro come uno dei punti qualificanti del programma su cui
dovrà nascere il governo popolare d'emergenza, che riteniamo debba essere lo
sbocco naturale di una sollevazione popolare che o sarà contro l'Unione Europea
e la sua moneta, o semplicemente non sarà.
Pensare
di poter riformare l'Europa solo perché Hollande ha preso il posto di Sarkozy,
o perché Bersani prenderà quello di Monti è palesemente ridicolo. Ma anche chi
pensa che un'intera struttura plasmata sugli interessi del ristretto blocco
dominante, possa essere cambiata attraverso la semplice protesta, declinata in
versione sindacale o no-global, è assolutamente fuori dalla realtà. Pretendere
di riformare l'Unione Europea sarebbe un po' come pensare di poter riformare la
Nato. Detto questo è detto tutto, anche perché non ci pare proprio che i
«riformatori» abbiano in testa qualcosa di più del vuoto slogan dell'«altra Europa».
Il
Movimento Popolare di Liberazione non pretende che questa posizione sia
condivisa in toto dalle altre forze potenzialmente interessate alla costruzione
del fronte, ma ritiene che questo nodo non sia più aggirabile per nessuno.
Consideriamo perciò, oggi ancor più di ieri, come centrale la rivendicazione
della piena sovranità nazionale. Non si tratta, del resto, di una
rivendicazione astratta. Si tratta di rifiutare a priori il quadro in cui
opererà il nuovo governo che nascerà in primavera. Se la sua collocazione
europeista è scontata, chi vi si opporrà dovrà farlo a partire proprio dalla
contestazione della subordinazione dell'Italia ai vincoli europei.
Ove
non avvenisse, si aprirebbe probabilmente la strada ad un sovranismo
reazionario e/o territorializzato (tipo Lega). Una ragione di più per
rafforzare e sviluppare un sovranismo democratico e solidale, da immettere in
una prospettiva di liberazione sociale affiancata dalla costruzione di nuove
istituzioni statali, democratiche e soggette al controllo popolare.
Per
queste ragioni il Mpl chiamerà a raccolta, nei prossimi mesi, le forze che si
riconoscono in un'impostazione sovranista come quella sopra indicata, per porre
con forza gli obiettivi dell'uscita dall'Unione Europea e dall'euro, e per la
riconquista di una piena sovranità nazionale. Si tratta, in definitiva, di
obiettivi imprescindibili, senza i quali non è neppure pensabile l'applicazione
del programma di misure economiche che da tempo abbiamo elaborato, a partire
dall'intervento di taglio drastico del debito pubblico.
8. La sollevazione
Ovviamente,
tutto ciò sarebbe pia illusione senza un vera sollevazione popolare. Questo è
chiaro. La domanda che molti ci pongono riguarda piuttosto la realizzabilità di
questo passaggio rivoluzionario.
In
proposito niente può essere dato per scontato. Compito nostro è quello di
indicare un percorso logico, benché necessariamente tortuoso, per uscire dalla
catastrofe in corso. Se avessimo creduto alle ricette riformiste o menopeggiste
non avremmo dato vita al Mpl. Il nostro movimento, pur nella sua attuale
modestia, nasce su un'idea attuale e concreta di rivoluzione. Non crediamo
infatti ad altre strade. Ed oggi ben più di ieri, vediamo come unica
alternativa a questo progetto un progressivo imbarbarimento della società.
Ma
quali potranno essere le forze della sollevazione? Noi pensiamo anzitutto ad
ampi strati del popolo lavoratore, inclusa buona parte del lavoro autonomo e di
quella che si definisce piccola borghesia. Lo stesso ceto medio - una
definizione mai stata soddisfacente, come tutte quelle che vorrebbero
descrivere ciò che sta in mezzo - è oggi solcato da fratture profonde e
difficilmente componibili. Giusto per fare un esempio, basti pensare alle
differenze che vi sono tra i membri di questo «ceto» che vivono ancora oggi di
rendita, e quelli che si sono invece indebitati per salvare magari l'azienda a
conduzione familiare.
Quel
che può fare la differenza, nella prospettiva della sollevazione, è la frattura
tra i pochi che si stanno ancora arricchendo e la maggioranza che si sta (sia
pure a livelli diversissimi) impoverendo.
Non
esiste uno strumento in grado di misurare la soglia massima di sopportazione di
un declino economico, che per molte famiglie di disoccupati e di lavoratori
impoveriti significa ormai un pesante tirare la cinghia. Esiste però
l'esperienza storica. Ed essa ci dice che non si esce da crisi sistemiche di
questa portata con piccoli ed indolori aggiustamenti. Se ne esce soltanto con
giganteschi processi di riassestamento generale del sistema, attraverso
sconquassi traumatici che ridefiniscono in genere non solo i rapporti tra le
classi, ma anche quelli tra gli stati con il ricorso alle armi ed alla guerra.
Ma è proprio in tali contesti che si aprono le possibili finestre
rivoluzionarie. E' ben noto che una tale condizione oggettiva è di per sé
insufficiente in assenza di quella soggettiva. Ed è proprio per questo che
occorre lavorare sul soggetto, ma partendo dalla consapevolezza della partita
che possiamo giocare.
Sempre
l'esperienza storica ci insegna che le finestre rivoluzionarie si aprono negli
anelli deboli della catena. In quei paesi, quei luoghi, dove il presente è
diventato maggiormente insopportabile. Non è forse oggi l'Italia un anello
debole? Noi pensiamo che oggi - oggi non 30 o 40 anni fa - l'Italia abbia tutte
le caratteristiche dell'anello debole. Un anello che ha ancora bisogno di
logorarsi, ma che è pensabile di poter spezzare in un futuro non troppo lontano.
L'idea
della sollevazione non è dunque astratta. Essa nasce piuttosto dall'analisi
concreta della situazione concreta. Ed ogni scelta che qui andiamo a compiere -
da quella elettorale, al rilancio del fronte, allo sviluppo di uno schieramento
sovranista, fino all'approvazione della nostra Carta dei principi ed alla
costruzione del Mpl - va ad inscriversi in questa prospettiva.
7 commenti:
Vengo da veri anni di astensionismo, ma la lettura di questa analisi mi ha convinto a votare per il m5s. Certo, non tutti i dubbi mi si sono dissipati,e nei due/tre mesi di distanza dalle elezioni potrebbero succedere cose clamorose e impreviste, e altre analisi, in parte convincenti ( http://www.main-stream.it/ ), creano forti perplessità (tra l'altro sulla questione della democrazia interna anche qui sollevata in post precedenti), ma l'idea di contribuire a dare una spallata al governo unico eurista ed oligarchico è stimolante. Certo, magari il m5s subito dopo le elezioni si spaccherà, o magari io mi troverò a dissentire da loro dopo averli votati.
Ieri sera ho rivisto su Italia1 V for vendetta.
Mi chiedo come cazzo abbia fatto Grillo ad appropriarsi così volgarmente di un simbolo e di un personaggio agli antipodi.
V fa omicidi politici, mette bombe, fa saltare parlamento e tribunali. Grillo dal canto suo sta coi giudici, afferma che chi fa gli scontri è pagato da Monti, espelle la gente dal partito con una lettera dell'avvocato?
E' questo il vostro modello?
Penso che se l'obbiettivo è far scende il blocco euro-montiano sotto il 50% e non entrare in parlamento, ci sono mezzi migliori che votare Grillo.
Il migliore di tutti è una lista MPL. Anche se prendesse un voto in più di quelli che convincereste a votare per Grillo sarebbe comunque una goccia in più verso quel 50% di cui avete scritto. Inoltre pensate all'opportunità data dalla par condicio per pubblicizzare le nostre idee.
Viceversa invitare a votare Grillo sarebbe secondo me in contraddizione con la prospettiva della Sollevazione.
In carcere i detenuti fanno la battitura e chiedono l'amnistia, nel silenzio generale. Grillo che fa? Dice che le prigioni sono degli alberghi!
E' la stessa obbiezione che ho fatto ai miei amici di rifondazione: con de magistris come la mettate la battaglia per l'amnistia?
Lasciamo queste battaglie ai radicali? a Pannella?
Ma avete una idea di cosa significhi Sollevazione? Sollevazione significa scontri, morti, feriti, arrestati, processati... Con chi? Co Grillo ah ah ah
Io ho un mio caro parente in prigione per fatti di droga. Lo dico sinceramente. Napolitano e alcuni poteri forti stanno spingendo per un'amnistia dopo il voto. Questa sarà possibile solo se la somma fra Grillo, l'Idv, Fli, La Destra, La Lega e ora questo gruppo di La Russa non superi il 33,3%. Ogni parlamentare che Grillo elegge è un parlamentare in meno per l'amnistia e un perbenista in più in parlamento.
A me fa schifo Pannella e il suo euro-americanismo. Ma se voi pur di andare contro l'euro vi mettete dalla parte di sbirri e magistrati regalerete tutta una generazione proprio a Pannella.
Torno dopo pochi minuti, poi prometto che mi taccio, ma l'Anonimo sopra mi ha tirato una voltata alla quale non riesco a rinunciare.
Credo che il tema dell'amnistia scoperchi un pentolone di contraddizioni. Premesso che Pannela è una carogna e se non morirà di sete lo faremo morire di freddo noi in Siberia il Gran Giorno...questa volta gli va riconosciuto si è infilato come un coltello nel burro in una tempesta di contraddizioni.
Come la mette Ferrero che si allea con De Magistris e Di Pietro? Ma anche: come la mette Casini con Fini che è sempre stato contrario? E ancora: che fa Berlusconi, che deve salvare se stesso e i suoi, con La Russa e con Storace?
Insomma il tema dell'amnistia farà scoppiare tutto. Credo che se parta una Sollevazione, come voi la chiamate, partirà dalle carceri. Non c'è giorno che qualcuno non salga sui tetti, che non ci sia una battitura, uno sciopero della fame. Pannela è solo espressione mediatica di una protesta che è reale.
Chissa se sul tema dell'amnistia non tramonti anche l'amore non ricambiato del Moro per Grillo
Bah... io non escludo che se i padroni del vapore sono così accaniti sulla linea del rigore, e la componente industriale-produttiva non si oppone a quella finanziario-usuraria, sia perché sanno che il sistema è talmente alla frutta da essere pronto per un tracollo catastrofico al primo inciampo serio.
E volete saperne una? Io sospetto che il gregge, nella pienezza empatica e di buon senso che fa tutt'uno colla sua inesistenza concettuale, questo lo presenta e anche per questo ingoi tutto senza reagire. Queste baldracche della vita vogliono fare ancora un po' di festa prima del massacro.
Vedo comunque che vi state indirizzando nella giusta direzione, quella di contribuire allo sfascio di questa società in putrefazione alleandovi con ogni forza che si opponga al regime, anziché selezionare sulla base della contiguità di vedute sulla strada di un socialismo democratico che non sapete neppur voi immaginarvi.
L'unico socialismo che sia esistito e che valga la pena di ricreare è quello instaurato a Leningrado durante l'assedio tedesco, quando tutti, dal comandante della guarnigione all'ultima massaia ricevevano la stessa razione e c'era la pena di morte anche per il furto di un laccio da scarpe (che essendo fatti di fibre vegetali erano commestibili e quindi ricercatissimi). In un socialismo del genere fa poca differenza che l'aggettivo suoni 'proletario' ovvero 'nazionale'.
In proposito delle carceri... bisogna liberare i compagni reclusi, infatti si sa che la delinquenza ha radici di classe e non antropologiche, tanto che negli stati che si richiamano al socialismo non esistono galere.
Vedo che i commenti sono interessati solo alla questione elettorale. In realtà il documento la contestualizza dentro un quadro ben preciso. Comunque:
1. Anonimo dice che la soluzione migliore sarebbe una lista MPL. D'accordo, ma MPL ha la forza per poterlo fare? A me pare di no e dunque la scelta di usare tatticamente il voto al M5S mi pare saggia.
2. Nel documento si dice chiaramente che non bisogna farsi illusioni su ciò che faranno i "grillini" in parlamento. In compenso sappiamo già cosa faranno gli altri. Per il Mpl si tratta di usare il voto al M5S come "corpo contundente", niente di più, niente di meno. Qualcuno dispone di un corpo contundente più efficace?
3. Giusta invece la preoccupazione sull'amnistia. Giusto contrastare tutte le posizioni forcaiole. Giusto, fra l'altro, contestare una "sinistra" che ormai sa solo proporre un magistrato dopo l'altro. Ma io direi di dare tempo al tempo. Nel M5S c'è indubbiamente una componente giustizialista, ma mi pare che Grillo sia stato l'unico, il 14 novembre scorso, a denunciare con forza la repressione poliziesca contro gli studenti.
Luca
Condivido la vostra analisi.Il M5S è il "grilletto" per resettare il sistema, e nel frattempo elaborare un progetto di ricostruzione su basi socialiste.Lasciamoci ispirare dall'esperienza del Venezuela.
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