Il Pil mondiale previsto nel 2025 o la decadenza dell'Occidente |
a cura di SollevAzione
A forza di analizzare il decorso della malattia senile che affligge il capitalismo occidentale si rischia di dimenticarne la causa primaria, la crisi di sovrapproduzione. Essa non consiste, come a volte si sente dire, nel fatto che le capacità di consumo delle masse sono insufficienti.
Se fosse così dovremmo infatti parlare di crisi da sottoconsumo e allora il capitale potrebbe keynesianamente uscirne, ad esempio aumentando il potere d’acquisto dei salariati, e facendo leva sulle banche centrali spingendole a sfornare carta moneta a gogò —che è appunto la stravagante terapia proposta dalla Modern Monetary Theory e, più prosaicamente, adottata da Ben Bernanke.
La crisi di sovrapproduzione è un’altra cosa. E’ l’inevitabile, ed empiricamente sempre verificata, conseguenza di un periodo di espansione prolungata dell’economia capitalistica. Durante tale boom le aziende e i diversi settori produttivi, spinti dalla brama di cogliere le opportunità di guadagno, di occupare prima dei concorrenti ogni spazio di mercato, compiono investimenti ingenti per accrescere le loro capacità produttive. In tali periodi di slancio espansivo, la forza lavoro è spremuta al massimo, i tassi di plusvalore salgono verso l’alto e il capitale industriale registra elevati profitti. In questo contesto di vacche grasse affluiscono verso il capitale industriale un profluvio di quattrini—il danaro fluisce sempre dove ottiene la migliore remunerazione.
Animata dal desiderio di accrescere il profitto ogni azienda, temendo di essere fatta fuori dalla concorrenza, manifesta la tendenza a produrre senza limiti, a gettare merci sul mercato quantità crescenti, mentre quest’ultimo non si allarga alla medesima velocità e può anzi opporre barriere insormontabili.
Ad un certo punto il meccanismo s’inceppa. Con l’accresciuta capacità produttiva le merci hanno perduto valore —a causa dell’aumento della composizione organica che riduce la quantità di lavoro vivo incorporato nelle merci— e, per essere spacciate, devono essere vendute a prezzi decrescenti con la conseguenza di abbassare i profitti, mentre, per tenere almeno stabile il saggio, ci sarebbe bisogno di un loro aumento visti i costi crescenti affrontati per le spese di ammodernamento degli impianti.
Non conta solo la massa del profitto, conta il suo saggio, ovvero il rapporto tra tutto il capitale anticipato e il plusvalore prodotto. La tabella n.1 mostra il contributo al Pil mondiale delle varie aree macro-economiche. Risalta la decadenza delle tradizionali potenze imperialiste.
A forza di analizzare il decorso della malattia senile che affligge il capitalismo occidentale si rischia di dimenticarne la causa primaria, la crisi di sovrapproduzione. Essa non consiste, come a volte si sente dire, nel fatto che le capacità di consumo delle masse sono insufficienti.
Se fosse così dovremmo infatti parlare di crisi da sottoconsumo e allora il capitale potrebbe keynesianamente uscirne, ad esempio aumentando il potere d’acquisto dei salariati, e facendo leva sulle banche centrali spingendole a sfornare carta moneta a gogò —che è appunto la stravagante terapia proposta dalla Modern Monetary Theory e, più prosaicamente, adottata da Ben Bernanke.
La crisi di sovrapproduzione è un’altra cosa. E’ l’inevitabile, ed empiricamente sempre verificata, conseguenza di un periodo di espansione prolungata dell’economia capitalistica. Durante tale boom le aziende e i diversi settori produttivi, spinti dalla brama di cogliere le opportunità di guadagno, di occupare prima dei concorrenti ogni spazio di mercato, compiono investimenti ingenti per accrescere le loro capacità produttive. In tali periodi di slancio espansivo, la forza lavoro è spremuta al massimo, i tassi di plusvalore salgono verso l’alto e il capitale industriale registra elevati profitti. In questo contesto di vacche grasse affluiscono verso il capitale industriale un profluvio di quattrini—il danaro fluisce sempre dove ottiene la migliore remunerazione.
Animata dal desiderio di accrescere il profitto ogni azienda, temendo di essere fatta fuori dalla concorrenza, manifesta la tendenza a produrre senza limiti, a gettare merci sul mercato quantità crescenti, mentre quest’ultimo non si allarga alla medesima velocità e può anzi opporre barriere insormontabili.
Ad un certo punto il meccanismo s’inceppa. Con l’accresciuta capacità produttiva le merci hanno perduto valore —a causa dell’aumento della composizione organica che riduce la quantità di lavoro vivo incorporato nelle merci— e, per essere spacciate, devono essere vendute a prezzi decrescenti con la conseguenza di abbassare i profitti, mentre, per tenere almeno stabile il saggio, ci sarebbe bisogno di un loro aumento visti i costi crescenti affrontati per le spese di ammodernamento degli impianti.
Tab.n1. La curva della decadenza imperialista |
Alle prese con la sovrapproduzione il capitale industriale non si limita a ridurre gli investimenti, deve limitare la produzione, fermare in tutto o in parte gli impianti, espellere forza lavoro. Un caso da manuale è l’industria automobilistica mondiale, che ha una sovraccapacità produttiva di circa il 40%. Non è che non si potrebbero vendere automobili, è che il capitale preferisce tagliare la produzione piuttosto che vendere a prezzi che non gli consegnano il profitto atteso. La recente denuncia di Marchionne secondo cui i tedeschi stanno vendendo le loro autovetture sottocosto è una evidente conferma che in fasi di crisi di sovrapproduzione, pur di non perdere quote di mercato e/o di chiudere impianti, chi può, ovvero chi ha solidità finanziaria, vende a prezzi che a malapena coprono i costi di produzione.
Quando i profitti crollano i capitali si svalorizzano, le loro azioni perdono quota, e per trovare denaro fresco debbono pagare interessi negativi più alti. Nota è la legge per cui, quando il saggio di profitto scende sale il tasso d'interesse del capitale monetario.
Quando i profitti crollano i capitali si svalorizzano, le loro azioni perdono quota, e per trovare denaro fresco debbono pagare interessi negativi più alti. Nota è la legge per cui, quando il saggio di profitto scende sale il tasso d'interesse del capitale monetario.
Questa è la crisi di sovrapproduzione, che definiamo generale, cronica e sistemica dal momento che afferra non questo o quel settore ma l’insieme della produzione capitalistica. Aggiungiamo quindi l’aggettivo strutturale per indicare che essa riguarda i modus essendi e operandi stessi del sistema capitalistico.
Tab. 2. La curva dei tassi di profitto negli Usa e in Europa |
L’attuale crisi non è sorta ieri, con l'esplosione della bolla finanziaria dei sub prime. Ha le sue radici più lontane nella fine degli anni ’60 del secolo scorso, con il tramonto del lungo ciclo espansivo postbellico. Di lì prese le mosse il neoliberismo, ovvero l'offensiva generale del grande capitale, concertata coi governi, per dare l'assalto alle conquiste operaie e sociali per rilanciare i tassi di profitto. Si guardi alla Tabella n.2. la curva dei tassi di profitto dopo la crisi degli anni '70 risale fino alla metà degli anni '90, quando la spinta si esaurisce. e i profitti ricominciano a scendere. E' a questo punto che prende il sopravvento, in Occidente, la tendenza alla iper-finanziarizzazione.
Del resto questa iper-finanziarizzazione prese avvio nello stesso quindicennio di crescita dei tassi di profitto iniziatosi a partire dagli inizi degli anni '80. Esso non si accompagnò ad una crescita del benessere sociale complessivo. I profitti non vennero reinvestiti su larga scala nelle sfere produttive, bensì in quelle improduttive della finanza speculativa. Lo attesta il decrescente tasso di accumulazione (vedi Tabella. n.3).
Tab. 3. La forbice tra tassi di profitto e di accumulazione: 1961-2007 |
Non c’è nessun arcano in questa metamorfosi. Abbiamo detto che la legge suprema del capitalismo è che il danaro, capitale solo in potenza, fluisce sempre dove ottiene la migliore remunerazione. Il capitale monetario dei paesi imperialisti e delle petromonarchie, che nel frattempo si era accumulato copioso, non trovando lucrosi gli investimenti nell’industria occidentale, doveva cercare altri approdi. Con l’ausilio indispensabile delle politiche liberistiche avviate negli anni ’80 dagli Usa e dal Regno Unito prima, e poi dal resto dell’Occidente, l'enorme massa di capitale monetario imboccò due strade complementari: (1) quella del capitalismo-casinò, dove il danaro poteva fruttare profitti senza passare per il ciclo faticoso della produzione di plusvalore, semplicemente captandolo, attraverso l’uso massiccio del credito ad usura, da ogni poro dell’economia e della società.; (2) quella di finanziare l'esportazione di capitali in paesi semicoloniali dove esistevano le condizioni affinché gli investimenti nel ciclo industriale consegnassero un alto plusvalore.
La restaurazione del capitalismo in Cina e il crollo dell’URSS da una parte (che hanno aperto nuovi enormi spazi di razzia e investimento ai capitali monetari occidentali) e dall’altra l’applicazione a scala globale delle nuove tecnologie informatiche diedero ossigeno al processo combinato di finanziarizzazione e delocalizzazione in Asia. Il capitalismo occidentale, non senza scoppi di bolle e numerose crisi di default, riuscì così a cavarsela per un altro ventennio, fino a quando, anche per l’insorgenza di nuove potenze capitalistiche, il capitalismo-casinò farà fiasco, esplodendo proprio negli Stati Uniti con la crisi dei mutui sub-prime del 2007-8, presto estesasi a tutto l’Occidente.
Alla domanda se possono le classi dominanti possono venire a capo di questa crisi, la risposta è quindi un rotondo no. O meglio, non ne possono venire a capo con le mezze misure. Dalle crisi generali di sovrapproduzione se ne esce soltanto con distruzione su larga scala di capitale. Solo in questo modo può ripartire un ciclo virtuoso di accumulazione e di creazione massiva di plusvalore, che è la linfa vitale senza la quale il capitalismo semplicemente muore. Questa distruzione, lenta, inesorabile, pilotata, è in effetti già in atto in Occidente da almeno un ventennio. Quando anche in Asia il motore si pianterà, avremo il grande cataclisma, con l’insorgenza di enormi conflitti inter-capitalistici.
L’Occidente imperialista, pur di sfuggire al suo destino di decadenza, sarà posto davanti alla necessità di organizzarsi per una guerra su due fronti: quella per piegare i nuovi nemici esterni e quella di rapina entro i suoi propri confini. Una guerra di classe non solo contro il proletariato, ma la grande maggioranza del popolo, che dovrà essere gettato in condizioni di semi-schiavitù affinché sia obbligato dissanguarsi per tenere in vita il vampiro capitale. Questa guerra interna, a ben vedere è già in corso, è alle sue prime battute. I tempi affinché si affacci, nella coscienza di grandi masse, la necessità di fuoriuscire dal capitalismo (e senza questa coscienza non ci sarà alcun rivolgimento sociale) non sono ancora maturi. Lo saranno prima o poi, ed è a questa svolta storica che ci si deve preparare.
Alla domanda se possono le classi dominanti possono venire a capo di questa crisi, la risposta è quindi un rotondo no. O meglio, non ne possono venire a capo con le mezze misure. Dalle crisi generali di sovrapproduzione se ne esce soltanto con distruzione su larga scala di capitale. Solo in questo modo può ripartire un ciclo virtuoso di accumulazione e di creazione massiva di plusvalore, che è la linfa vitale senza la quale il capitalismo semplicemente muore. Questa distruzione, lenta, inesorabile, pilotata, è in effetti già in atto in Occidente da almeno un ventennio. Quando anche in Asia il motore si pianterà, avremo il grande cataclisma, con l’insorgenza di enormi conflitti inter-capitalistici.
Tab. n.4. Neoliberismo: mentre i profitti salivano, decrescevano salari e consumi. % del Pil in Usa, Ue e Giappone |
L’Occidente imperialista, pur di sfuggire al suo destino di decadenza, sarà posto davanti alla necessità di organizzarsi per una guerra su due fronti: quella per piegare i nuovi nemici esterni e quella di rapina entro i suoi propri confini. Una guerra di classe non solo contro il proletariato, ma la grande maggioranza del popolo, che dovrà essere gettato in condizioni di semi-schiavitù affinché sia obbligato dissanguarsi per tenere in vita il vampiro capitale. Questa guerra interna, a ben vedere è già in corso, è alle sue prime battute. I tempi affinché si affacci, nella coscienza di grandi masse, la necessità di fuoriuscire dal capitalismo (e senza questa coscienza non ci sarà alcun rivolgimento sociale) non sono ancora maturi. Lo saranno prima o poi, ed è a questa svolta storica che ci si deve preparare.
18 commenti:
Ma se usciamo dal capitalismo cosa resta?
Quindi alla fin fine è l'avidità dell'uomo ad aver provocato tutti questi danni?
Quando parlate di guerra su due fronti:
1)Nemici esterni..intendete dire Cina,India ecc ecc?
2)Nemici interni... il popolo, che dovrà essere schiavizzato, affinchè il minor costo del lavoro vada a remunerare il capitale.
Ho capito bene?
Scusa anonimo sopra: è proprio così. Si legge:
"una guerra su due fronti: quella per piegare i nuovi nemici esterni e quella di rapina entro i suoi propri confini. Una guerra di classe non solo contro il proletariato, ma la grande maggioranza del popolo, che dovrà essere gettato in condizioni di semi-schiavitù affinché sia obbligato dissanguarsi per tenere in vita il vampiro capitale. Questa guerra interna, a ben vedere è già in corso, è alle sue prime battute."
(1) Sovrapproduzione e crisi; di Domenico Moro
Secondo la maggior parte dei mass media, degli economisti e dei governi, quella attuale è una crisi finanziaria, che successivamente si sarebbe estesa all’economia “reale”. Con questo tipo di analisi si coglie, però, solo la forma in cui la crisi si è manifestata. Se ne ignora invece il contenuto, che risiede nei meccanismi di accumulazione del capitale. Infatti, le crisi sono la modalità tipica in cui emergono le contraddizioni del modo di produzione attuale. La principale di queste contraddizioni è quella tra produzione e mercato. Lo scopo delle imprese è produrre per fare profitti e per fare ciò riducono i costi delle merci in modo da aumentare il loro margine, cioè la differenza tra costi e prezzi di produzione. La riduzione dei costi di produzione passa per la realizzazione di economie di scala, cioè per la produzione di masse di merci sempre più grandi nello stesso tempo di lavoro. A questo scopo vengono introdotte tecnologia e macchine sempre più moderne al posto di lavoratori, e aumentati ritmi e intensità del lavoro. Astrattamente si tratta di un fatto positivo, in quanto lo sviluppo della produttività mette a disposizione dei consumatori masse di merci più grandi prodotte in un tempo minore. Il problema è che la produzione capitalistica è diretta non verso semplici consumatori ma verso consumatori in grado di pagare un prezzo adeguato a raggiungere il profitto atteso, cioè verso un mercato. Ebbene la questione è proprio questa: la produzione capitalistica è una produzione che si estende progressivamente senza alcun riguardo per il mercato cioè per le capacità di acquisto delle merci prodotte.
(2)
Inoltre, visto che il profitto è dato dal lavoro non pagato dei lavoratori, la riduzione proporzionale di questi ultimi sul capitale complessivo impiegato provoca una caduta del saggio di profitto, che si cerca di compensare con l’aumento dello sfruttamento e quindi producendo un numero maggiore di merci.
Tutto questo implica che la produzione tende sempre ad eccedere le capacità di assorbimento del mercato, determinando un permanente squilibrio tra le capacità produttive e la limitatezza del mercato. Una limitatezza che viene accentuata proprio dal meccanismo che sostituisce forza lavoro con macchinari e che conseguentemente provoca l’espulsione di lavoratori dal processo produttivo. Secondo uno studio della Banca dei regolamenti internazionali [2], dagli anni ’80 ad oggi in tutti i principali paesi industrializzati si è avuto uno spostamento del Pil dai salari ai profitti. In Italia la quota andata ai profitti è aumentata dal 23,1% del 1993 al 31,3% del 2005. Si tratta dell’8% del Pil, equivalente a 120 miliardi di euro ossia a 7mila euro per ognuno dei 17 milioni di salariati italiani che annualmente passano dai salari ai profitti. Ma la cosa più interessante dello studio della Bri è che la causa di questo fenomeno viene individuata, non nella concorrenza dei lavoratori dei paesi “in via di sviluppo”, ma nella introduzione di nuova tecnologia che, espellendo lavoratori e destrutturando l’organizzazione del lavoro, riduce le capacità di resistenza e negoziazione dei lavoratori. In questo modo, si è determinata la perdita di capacità d’acquisto dei salari ed i lavoratori si sono trovati costretti al lavoro straordinario con l’effetto di ridurre ancora di più la domanda di forza lavoro e di aggravare la disoccupazione. Inoltre, avendo le nuove tecnologie una forte componente informatica, che diventa obsoleta più rapidamente, le ristrutturazioni sono divenute più frequenti. Dunque, mentre da una parte si moltiplica l’offerta di merci sul mercato, dall’altra parte si riduce la domanda, che per la maggior parte è costituita da lavoratori salariati, o, nel caso migliore, non si permette alla domanda di crescere in modo proporzionale all’offerta. Del resto, nella anarchia della concorrenza, ancorché oligopolistica, che regna nel modo di produzione capitalistico, ogni singolo capitale, per battere i concorrenti, tende a realizzare sempre maggiori economie di scala e a ridurre i salari dei propri lavoratori, trattandoli come costi da ridurre e non come compratori. Si produce così una tendenza alla sovrapproduzione di merci che, però, ha alla sua base la sovrapproduzione di capitale sotto forma di mezzi di produzione. Ciò che è importante capire, però, è che la sovraccapacità produttiva è tale entro il modo di produzione capitalistico, che produce solo per il profitto, e che la sovrapproduzione di merci si determina entro i limiti del mercato capitalistico.
(finisce al link)
http://www.leparoleelecose.it/?p=2219
Ciao a tutti!
Sono di Rifondazione e vorrei capire perché voi vi ritenete così lontani dalle nostre posizioni. Lo avete letto il libro di Ferrero? A me non sembra che le posizioni della Federazione siano così morbide né su Monti né sull'Europa.
Il problema di Ferrero, e quindi del gruppo dirigente di Rifondazione, è non aver capito che la questione che si pone ora è l'uscita dall'Euro e dall'Unione Europea.
Aggiungo che Rifondazione stenta anche a capire che sarebbe una cosa da esplorare l'idea di un fronte con il M5S, con i forconi, con i pastori sardi, etc.
Si poi se la fanno col centrosinistra in tutte le regioni italiane, si alleano col manettaro Di Pietro, votano le missioni di guerra
Crisi di sovrapproduzione, caduta tendenziale del saggio del profitto e crollo dei consumi sono tre aspetti dello stesso problema.
Il crollo dei consumi, che può essere creato anche artificialente, è il punto debole del capitalismo. Se crollano i consumi, crolla tutto.
Se rafforzassimo le rivolte di massa rinunciando ai consumi indotti e proclamando lo sciopero fiscale, la nostra vittoria sarebbe rapida, netta e definitiva.
Ma questo progetto è per adesso irrealizzabile a causa del numero ancora alto di persone completamente disinformate.
L'idea di fare un fronte comune del M5S con i numerosi Movimenti esistenti in Italia e con IDV, SEL e Federazione della sinistra è oramai accarezzata da un gran numero di cittadini. Un fronte siffaatto raggiungerebbe senza problemi il 35% dei consensi. Ma i partiti che dovrebbero farne parte non sembrano in grado di capirlo. Forse con l'aggravarsi della crisi occidendale saranno costretti a crearlo.
Mi meraviglia il commento di Anonimo numero 1: "Se il capitalismo cade cosa resta?"
Il capitalismo non può non cadere, perché si fonda sui peggiori isstinti degli omuncoli. Resta il socialismo, che significa solidarietà, collaborazione, giustizia sociale, prevalenza del bene comune sul privato, in altre parole fuga dalla barbarie e ritorno alla civiltà.
Penso che questo sia uno dei migliori articoli di sempre pubblicati su questo blog.
Penso al contempo che utlimamente non siate conseguenti fra le vostre analisi di fondo, che ho sempre apprezzato (dalla prima conferenza "fuori dal debito, fuori dall'euro" e che per inciso secondo me dovevate continuare su quella strada invece di fare un partitino) e poi la vostra azione politica quotidiana.
Non mi riferisco soltanto al sostegno elettorale a questo o quel movimento, al flirt coi grillini, ma proprio alle proposte concrete profonde.
Come si può fare una analisi del genere, che condivido al 100%, e poi proporre una sorta di socialismo in un solo paese (stalista non nel senso di autoritarismo, ma nel senso teorico-economico), ovvero usciamo dall'euro, prendiamo il potere in Italia, facciamo default e nazionalizziamo la banca d'Italia. Che se poi non aggiungete l'esproprio delle aziende, la collettivizzazione dei mezzi di produzione, dallo stalinismo (socialismo in un solo paese) si passa al keneisismo in un solo paese: cioè hai espropriato la banca d'italia, sei uscito dall'euro, la usi per stampare moneta e bon...
Mentre invece, proprio da un articolo come questo, e che io non posso che apprezzare e divulgare nella sua chiarezza, si denuncia già da subito il fatto che la crisi non è da sotto consumo, non basta distribuire reddito per uscirne, non serve a niente stampare moneta, se non ad impoverire tutti per alleviare le sofferenze dello Stato (che per me è Il nemico). Da una analisi così precisa mi sarei aspettato una deduzione pratica diversa. Ad esempio all'esproprio alla banca d'Italia aggiungere l'esproprio delle aziende in crisi.
Perché se espropri solo la banca d'italia e ti metti a stampare moneta, forse si esce dalla crisi, ma la fai pagare ai lavoratori con l'inflazione, mentre il padrone ci guadagna perché risollevi l'esport. Al contrario, se aggiungete quel piccolo punto (espropri delle aziende in crisi), dichiari sin da subito che il padrone non otterrà nessun regalo, mentre al lavoratore spetterà l'azienda un domani salvata da queste politiche monetarie. Certo poi vediamo i Forconi, le partite iva, i grillini (che sono tutti professioni, avvocati, archittetti), con cui flirtate cosa ne pensano dell'esproprio dell'azienda.
Eppure e' proprio il vostro illuminante articolo ad insegnarmi come le politiche keneisiane siano inutili. Perché allora continuate a proporle? Perché riconquistare la sovranità monetaria solo per stampare moneta, senza un piano di espropri di massa, è una politica keneisiana. E' proprio la versione estremista e socialisteggiante (chavezzeggiante toccherebbe dire) della Modern Monetary Theory.
Sinceramente data la situazione il socialismo lo vedo come un obiettivo fondamentale, ma lontano. Ora si tratta di capire se è possibile rompere l'ingranaggio del sistema europeo, per creare lo spazio per qualcosa di diverso. E sottolineo che ovviamente non è assolutamente garantito che qualcosa di diverso sia migliore, questo dipende dalla qualità delle formazioni politiche che lo metteranno in pratica.
@ Michele
grazie dell'encomio. A breve approfondiremo sulla crisi di sovrapproduzione cronica, con un secondo articolo. Come vedi dal commento precedente a quello tuo, è dura a morire l'idea che la crisi dipenda dal fatto che le masse "non possono consumare causa basso reddito". Solo in depositi bancari c'è accumulata in Italia una ricchezza pari a tre volte il Pil (dati Bankitalia. E forse anche per questo cetomediogenerale che non scoppia una rivolta generale). A causa della crisi questo cetomediogenerale, sì diminuisce i consumi, ma per accantonare in risparmio. Non siamo insomma al pauperismo generale. Ciò non vale evidentemente per gli strati più poveri, ma che esistano i poveri in permanente sottocosumo non solo non causda la crisi ma è condizione di sviluppo e e accumulazione di capitale (vedi Cina).
Detto questo dove sta la divergenza di carattere teorico e strategico?
Noi Mpl non pensiamo che la prossima rivoluzione sarà socialista, che una volta rovesciato questo regime avremo un sistema socialista, tantomeno comunista. Non ce ne sono le condizioni oggettive e soggettive.
la rivoluzione socialista è un punto di arrivo, diciamo dei prossimi decenni, non il punto di partanza. La rivoluzione tuttavia è alle porte, sarà lo scatenamento incontenibile delle contraddizioni materiali e sarà segnata dall'ingresso in scena di milioni di cittadini delle più diverse estrazioni sociali. Noi siamo assolutamente convinti che una volta rovesciato il regime attuale non saremo usciti dal capitalismo, avremo, per dirla molto schematicamente, un capitalismo di stato con la politica al primo posto e nuove forze popolari e rivoluzionarie al posto di comando. Dipenderà da noi, dai rivoluzionari che questo sia un passaggio verso la futura rivoluzione socialista, un momento della rivoluzione permanente, che non si fermerà fino a quando non ci saremo emancipati dal capitalismo.
Sappiamo bene che ciò è considerato da alcuni troppo poco. Ma la storia non la fanno gli "alcuni" ma i molti, e la rivoluzione si fa coi molti, per i quali quanto noi proponiamo è già troppo temerario.
Moreno Pasquinelli
"Ma la storia non la fanno gli "alcuni" ma i molti, e la rivoluzione si fa coi molti, per i quali quanto noi proponiamo è già troppo temerario"
Ma non è vero, è colpa vostra che rimanete su internet invece di andare per strada. Se spiegate le cose con chiarezza risulterà evidente a chiunque che l'attuale sistema porterà al depauperamento anche del cetomediogenerale e che l'unica speranza (in prima battuta) è smettere con il rigore e adottare dei nuovi sistemi di distribuzione del reddito.
Se dici che la rivoluzione si fa coi molti bisogna pure che li andiamo a cercare.
Caro Moreno, quello che tu dici è molto realistico. E' probabile, ne sono convinto, che le cose andranno come dici te. Ma che una cosa realisticamente accada, non è equivalente a dire che è giusto che accada. Da anarchico, io ritengo che all'interno di questo magma che si solleva non sia l'obbiettivo principale la presa del potere politico, piuttosto un lavoro chimista più che avanguardista per rendere la sollevazione il più libertaria e meno autoritaria possibile (per questo insisto molto sulla necessità di isolare grillini e manettari vari).
Ma tutto questo ci porterebbe molto lontano e non è di questo che voglio parlare.
L'articolo che avete pubblicato, lo ripeto, è uno dei migliori di sempre. Il succo è il seguente: il kenesismo non ci porterà fuori dalla crisi. Il tuo commento è ancora più chiaro: ci sono talmente tanti soldi in banca che se non si vende non è colpa dei liberisti che non stimolano il mercato pubblicamente, ma di una ragione intrinseca, in sé, inseparabile del capitalismo.
Ebbene io dico: avente completamente ragione. Allora perché proponete una via di uscita kenesiana (controllo della banca d'italia e stampare moneta) e non socialista (esproprio dei mezzi di produzione)?
Ho capito la tua analisi politica sul fatto che questo non si avvererà domani, ma secondo te, in un secondo momento. A parte che io non sono così attendista (questa volta il bordighista sei tu eh eh), ma in ogni caso: perché da ora non dire le proprie opinioni con schiettezza? perché invece di fondare l'mpl, se credete che ci saranno due o più step verso il socialismo, non prenderla su un livello più teorico, continuare a fare articoli come questo e ogni tanto conferenze come la prima Chianciano (fuori dal debito fuori dall'euro) di grande successo?
complimenti ancora per l'articolo
A me non pare che la proposta del MPL sia keynesiana.
Tu Michele vedi solo l'aspetto estetico formale secondario della questione.
Ma lo capisci che valanga si metterebbe in modo se uscissimo dall'Unione europea e dall'euro? Se nazionaliziamo banche, energia e i grandi gruppi industriali di questo cazzo di paese e li mettiamo in mano ai lavoratori? Se ci allaiamo con i paesi anti-NATO? Se il governo cadesse in mano ad un fronte rivoluzionario con forze come il MPL? sarebbe una catastrofe per il potere e ce la farebbero pagare cara. Cioè si aprirebbe la seconda fase rivoluzionaria. E quando il gioco si farà duro i duri cominceranno a giocare!!!!!
SPero di essermi spiegato.
Grazie molto!
Veramente utile e ben spiegato! Bravo!
Fulvio
"Ma lo capisci che valanga si metterebbe in modo se uscissimo dall'Unione europea e dall'euro? Se nazionaliziamo banche, energia e i grandi gruppi industriali di questo cazzo di paese e li mettiamo in mano ai lavoratori?"
Nazionalizzare banche e uscita dall'euro sì, ma non c'è la nazionalizzazione dei mezzi di produzione nella proposta dell'mpl. Michele dice, malignamente, cosa ne penserebbero i Forconi? E' il fatto di non proporre la nazionalizzazione delle industrie, ma solo della banca d'italia e l'uscita dall'euro che rende keneysiana la proposta: stampare moneta e alleggerire quindi il peso del debito, a spese dei lavoratori che pagano l'inflazione.
E poi il tuo mi sembra uno scenario da fantapolitica. Farebbero molto prima un golpe, ci sparerebbero addosso immediatamente. Per questo servirebbe organizzare le masse, preparare la resistenza nelle fabbriche. Cosa ci farete coi grillini che scappano al primo rumore di manganelli quando vi manderanno contro i carri armati?
con gli anarchici è sempre il solito problema, che non vedono che la rivoluzione è sempre un processo, non nel senso della riformistica gradualità, ma del passare da un salto ad un altro, da una conquista a quella successiva.
o.Iu.
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