[ 27 agosto 2010 ]
«SIAMO PROPRIO FREGATI»
di Francesco Guerrera*
Da tempo andiamo sostenendo che il capitalismo occidentale non è alla prese con una mera recessione, ma con una crisi storico-sistemica, ovvero la fine del modello che ha costituito la base dell'egemonia mondiale del blocco imperialistico occidentale. Questo modello si fondava su quattro pilastri: (1) la rapina e il saccheggio di materie prime e forza lavoro a basso costo ai danni dei paesi "sottosviluppati"; (2) il "welfare state" (cetomedizzazione di massa) reso possibile dalla distribuzione di una parte del plusvalore captato a livello mondiale a favore dello stesso proletariato occidentale; (3) il consumismo di massa nei mercati interni, che ha rappresentato la vera e propria forza motrice dell'onda lunga di "prosperità economica". (4) last but not least: il costosissimo deterrente della supremazia militare planetaria degli USA e della NATO, con cui il blocco imperialista scoraggiava o schiacciava qualsivoglia forza ostile al proprio predominio.
Alla crisi di questo modello, già effettuale nei '70, l'imperialismo ha risposto con il lungo periodo del "capitalismo-casino" o della "finanza allegra", ovvero ricorrendo al businness del debito, privato e pubblico, sfociato infine nel crollo finanziario del 2007-2008.
«Il film della ripresa economica americana doveva essere una storia edificante di caduta e risurrezione tipo «Rocky», ma gli avvenimenti degli ultimi giorni l’hanno trasformato in un giallo. Secondo il copione hollywoodiano scritto da mercati, politici e banchieri centrali dopo la crisi, ormai dovremmo già essere nel secondo tempo, nel mezzo del clamoroso ritorno di fiamma di una nazione temprata da difficoltà senza pari. Ma dopo un’estate di mosse politiche maldestre, dati catastrofici e mercati nervosissimi, la più grande economia del mondo si trova ingarbugliata in una trama alla Hitchcock, dove niente è quello che sembra e il pericolo è sempre dietro l’angolo.
Ricapitoliamo i fatti. Martedì mattina, per colazione, gli operatori di Borsa a New York hanno dovuto digerire la notizia-bomba che le vendite delle case sono crollate di più del 27 per cento a luglio, il peggiore risultato in 15 anni.
La frana del settore immobiliare è arrivata quando Wall Street aveva appena finito di assorbire la decisione-choc della Federal Reserve di ricominciare a intervenire nei mercati finanziari, cinque mesi dopo aver gridato ai quattro venti che l’economia non aveva più bisogno di tali stimoli artificiali. I banchieri centrali hanno tentato di spiegare la mossa come una bagatella tecnica, una manovra di routine per tenere i tassi di interesse bassi e facilitare la ripresa, ma i mercati non hanno abboccato.
Gli investitori hanno scaricato i titoli azionari come se fossero materiali tossici, leggendo la mossa come un segnale che Washington è preoccupatissima per le sorti della ripresa. I mercati erano già in stato di fibrillazione da quando Ben Bernanke, il capo della Fed, aveva confessato al Congresso che la congiuntura economica è «insolitamente incerta», e le ultime vicissitudini hanno avuto un peso determinante per spingere il Dow Jones Industrials, l’indice guida, sotto il livello chiave dei 10.000 punti. Come mi ha detto uno dei grandi «fund manager» della costa Ovest, un tipo che ha studiato ad Harvard che di solito parla come un libro stampato: «Siamo proprio fregati. Se neanche Bernanke sa cosa fare, siamo proprio fregati».
Il mio amico di Los Angeles ha ragione a perdere la calma. Lo stillicidio di brutte notizie sta aumentando le probabilità del famigerato «double dip», il doppio tuffo nella recessione. Perfino ottimisti inveterati come David Wyss, il capo economista Standard & Poor’s, ora predicono un lungo periodo di ristagno economico à la japonaise. Altro che giallo hitchcockiano, se continua così, la saga dell’economia americana si trasformerà in Nightmare on Main Street con Bernanke nel ruolo di Freddy Krueger. Il dilemma è semplice ma non di semplice soluzione. Ogni Paese caduto nelle sabbie mobili della recessione ha bisogno di una forza trainante che lo trascini sulla terraferma, ma l’America di oggi non ha né trattori né locomotive a disposizione. I consumatori, che costituiscono circa il 70 per cento del Pil statunitense, mancano all’appello per ovvi motivi: hanno pochi soldi e ancor meno voglia di spenderli.
La caduta vertiginosa nelle vendite delle case nonostante il fatto che i tassi dei mutui siano a livelli bassissimi e che il governo abbia lanciato non meno di otto programmi di stimoli per incoraggiare gli acquisti, è veramente preoccupante. A meno di un miracolo, il mercato immobiliare americano è sull’orlo del «doppio tuffo» - un altro calo dei prezzi da aggiungere al crollo del 30 per cento visto durante la crisi. Con le case al ribasso e la disoccupazione intorno al 10 per cento, i consumatori rimarranno fuori dal gioco per parecchio tempo.
L’onere della ripresa dovrà dunque ricadere su altri due attori economici: il settore privato e quello pubblico. Le aziende e le banche non stanno male: gli ultimi risultati trimestrali sono stati positivi, i conti sono in nero e le esportazioni tirano. Il problema è che il mondo dell’industria è ancora in una posizione di difesa, anzi catenaccio: tagliare costi e non spendere nemmeno un centesimo più del dovuto. I capi aziendali con cui parlo utilizzano sempre lo stesso refrain: gli investimenti e gli acquisti arriveranno solo quando l’economia migliora - un discorso sensato in teoria ma contraddittorio in pratica, visto che la congiuntura non migliorerà se gli investimenti non si materializzano. A meno che... A meno che lo Stato non arrivi su un cavallo bianco a salvare l’economia sparpagliando miliardi di dollari freschi di zecca.
Una soluzione keynesiana - spendere adesso, tassare dopo - sembrerebbe ideale in questo frangente e non certo aliena alla mentalità di centro-sinistra di Barack Obama e i suoi. L’amministrazione ha già speso più di 700 miliardi di dollari per far ripartire l’economia e quasi tutti gli uomini del Presidente vorrebbero fare di più. Purtroppo, però, la realtà politica non lo permette. Con i Democratici in gravissima difficoltà nella campagna elettorale per le elezioni parlamentari di novembre, una nuova ondata di spese governative accompagnata dall’implicita promessa di tasse più alte in futuro, sarebbe un assist perfetto per i Repubblicani.
Obama potrebbe avere mano più libera dopo le elezioni, ma dipenderà da quanti seggi vinceranno i suoi avversari, soprattutto gli esponenti della corrente estremista di Sarah Palin. Il federalismo rampante degli Usa consentirebbe ai governi locali di soppiantare Washington nel ruolo di stimolatore dell’economia, ma molti Stati sono con l’acqua alla gola e devono tagliare i costi al più presto per evitare la bancarotta (anzi, visto che abbiamo parlato di cinema, la California di Schwarzenegger in bancarotta già ci è andata).
Rimane ovviamente la Fed. Un paio di alti funzionari con cui ho parlato questa settimana mi hanno accusato di essere un «profeta del disastro», ricordandomi che la Banca centrale ha molte frecce al suo arco per evitare una ricaduta nella recessione o un ristagno stile Giappone. E’ vero che la Fed può esercitare un controllo quasi totale sui prezzi di titoli, azioni e altri beni finanziari e ha le risorse per comprare mutui, obbligazioni e perfino titoli azionari qualora volesse immettere liquidità nei mercati. Ma è anche vero che la Fed, come tutte le banche centrali, ha poteri limitati sulla domanda economica - la voglia di consumatori, aziende e governi di spendere invece di risparmiare - ed è proprio questo che all’America manca oggi.
Forse l’unica soluzione sarebbe ristampare quei poster dell’esercito americano durante le guerre mondiali con una piccola chiosa sotto la faccia arcigna del vecchio signore. «Lo Zio Sam ha bisogno di te... e dei tuoi soldi».
*Francesco Guerrera è il capo redattore Finanza del Financial Times a New York
Ricapitoliamo i fatti. Martedì mattina, per colazione, gli operatori di Borsa a New York hanno dovuto digerire la notizia-bomba che le vendite delle case sono crollate di più del 27 per cento a luglio, il peggiore risultato in 15 anni.
La frana del settore immobiliare è arrivata quando Wall Street aveva appena finito di assorbire la decisione-choc della Federal Reserve di ricominciare a intervenire nei mercati finanziari, cinque mesi dopo aver gridato ai quattro venti che l’economia non aveva più bisogno di tali stimoli artificiali. I banchieri centrali hanno tentato di spiegare la mossa come una bagatella tecnica, una manovra di routine per tenere i tassi di interesse bassi e facilitare la ripresa, ma i mercati non hanno abboccato.
Gli investitori hanno scaricato i titoli azionari come se fossero materiali tossici, leggendo la mossa come un segnale che Washington è preoccupatissima per le sorti della ripresa. I mercati erano già in stato di fibrillazione da quando Ben Bernanke, il capo della Fed, aveva confessato al Congresso che la congiuntura economica è «insolitamente incerta», e le ultime vicissitudini hanno avuto un peso determinante per spingere il Dow Jones Industrials, l’indice guida, sotto il livello chiave dei 10.000 punti. Come mi ha detto uno dei grandi «fund manager» della costa Ovest, un tipo che ha studiato ad Harvard che di solito parla come un libro stampato: «Siamo proprio fregati. Se neanche Bernanke sa cosa fare, siamo proprio fregati».
Il mio amico di Los Angeles ha ragione a perdere la calma. Lo stillicidio di brutte notizie sta aumentando le probabilità del famigerato «double dip», il doppio tuffo nella recessione. Perfino ottimisti inveterati come David Wyss, il capo economista Standard & Poor’s, ora predicono un lungo periodo di ristagno economico à la japonaise. Altro che giallo hitchcockiano, se continua così, la saga dell’economia americana si trasformerà in Nightmare on Main Street con Bernanke nel ruolo di Freddy Krueger. Il dilemma è semplice ma non di semplice soluzione. Ogni Paese caduto nelle sabbie mobili della recessione ha bisogno di una forza trainante che lo trascini sulla terraferma, ma l’America di oggi non ha né trattori né locomotive a disposizione. I consumatori, che costituiscono circa il 70 per cento del Pil statunitense, mancano all’appello per ovvi motivi: hanno pochi soldi e ancor meno voglia di spenderli.
La caduta vertiginosa nelle vendite delle case nonostante il fatto che i tassi dei mutui siano a livelli bassissimi e che il governo abbia lanciato non meno di otto programmi di stimoli per incoraggiare gli acquisti, è veramente preoccupante. A meno di un miracolo, il mercato immobiliare americano è sull’orlo del «doppio tuffo» - un altro calo dei prezzi da aggiungere al crollo del 30 per cento visto durante la crisi. Con le case al ribasso e la disoccupazione intorno al 10 per cento, i consumatori rimarranno fuori dal gioco per parecchio tempo.
L’onere della ripresa dovrà dunque ricadere su altri due attori economici: il settore privato e quello pubblico. Le aziende e le banche non stanno male: gli ultimi risultati trimestrali sono stati positivi, i conti sono in nero e le esportazioni tirano. Il problema è che il mondo dell’industria è ancora in una posizione di difesa, anzi catenaccio: tagliare costi e non spendere nemmeno un centesimo più del dovuto. I capi aziendali con cui parlo utilizzano sempre lo stesso refrain: gli investimenti e gli acquisti arriveranno solo quando l’economia migliora - un discorso sensato in teoria ma contraddittorio in pratica, visto che la congiuntura non migliorerà se gli investimenti non si materializzano. A meno che... A meno che lo Stato non arrivi su un cavallo bianco a salvare l’economia sparpagliando miliardi di dollari freschi di zecca.
Una soluzione keynesiana - spendere adesso, tassare dopo - sembrerebbe ideale in questo frangente e non certo aliena alla mentalità di centro-sinistra di Barack Obama e i suoi. L’amministrazione ha già speso più di 700 miliardi di dollari per far ripartire l’economia e quasi tutti gli uomini del Presidente vorrebbero fare di più. Purtroppo, però, la realtà politica non lo permette. Con i Democratici in gravissima difficoltà nella campagna elettorale per le elezioni parlamentari di novembre, una nuova ondata di spese governative accompagnata dall’implicita promessa di tasse più alte in futuro, sarebbe un assist perfetto per i Repubblicani.
Obama potrebbe avere mano più libera dopo le elezioni, ma dipenderà da quanti seggi vinceranno i suoi avversari, soprattutto gli esponenti della corrente estremista di Sarah Palin. Il federalismo rampante degli Usa consentirebbe ai governi locali di soppiantare Washington nel ruolo di stimolatore dell’economia, ma molti Stati sono con l’acqua alla gola e devono tagliare i costi al più presto per evitare la bancarotta (anzi, visto che abbiamo parlato di cinema, la California di Schwarzenegger in bancarotta già ci è andata).
Rimane ovviamente la Fed. Un paio di alti funzionari con cui ho parlato questa settimana mi hanno accusato di essere un «profeta del disastro», ricordandomi che la Banca centrale ha molte frecce al suo arco per evitare una ricaduta nella recessione o un ristagno stile Giappone. E’ vero che la Fed può esercitare un controllo quasi totale sui prezzi di titoli, azioni e altri beni finanziari e ha le risorse per comprare mutui, obbligazioni e perfino titoli azionari qualora volesse immettere liquidità nei mercati. Ma è anche vero che la Fed, come tutte le banche centrali, ha poteri limitati sulla domanda economica - la voglia di consumatori, aziende e governi di spendere invece di risparmiare - ed è proprio questo che all’America manca oggi.
Forse l’unica soluzione sarebbe ristampare quei poster dell’esercito americano durante le guerre mondiali con una piccola chiosa sotto la faccia arcigna del vecchio signore. «Lo Zio Sam ha bisogno di te... e dei tuoi soldi».
*Francesco Guerrera è il capo redattore Finanza del Financial Times a New York
Fonte: LA STAMPA
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