venerdì 31 maggio 2019

LETTERA APERTA AI CINQUE STELLE di Luca M. Climati

[ venerdì 31 maggio 2019 ]

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

TORNARE ALLE ORIGINI PER PROIETTARCI NEL FUTURO 

 LETTERA APERTA AL MOVIMENTO 5 STELLE ED AI SUOI ELETTORI E SIMPATIZZANTI


Ora che ottimismo della passione e intelligente senso di responsabilità, oltre ad una rinnovata appartenenza hanno largamente decretato la conferma del generoso Luigi Di Maio, ponendo fine a chi invano ha cercato di teleguidare una sfiducia nei suoi confronti per colpire il "governo del cambiamento", posso esprimermi da amico e fratello . Lo voglio fare nel modo più comprensibile e diretto, senza galanterie.

Tre sono i punti centrali del ragionamento proposto : PRIORITA' - LINEA POLITICA ED IMPATTO SISTEMICO - ORGANIZZAZIONE E TERRITORIO.

1 -  PRIORITÀ O "CONTRADDIZIONE PRIMARIA" : RESISTERE AL GOVERNO PONENDO LE BASI DELLA NUOVA GIOVANE ITALIA


Il vituperato "governo del Cambiamento" composto dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega è l'espressione più realistica della volontà comune del Popolo italiano; tale caratteristica è invisa ai poteri finanziari globalisti, alle multinazionali, a coloro i quali sfruttano le convenienze della UE: L'ASSE CAROLINGIO FRANCO-TEDESCO e la sua area. Essi hanno nel PD e nella fatiscente FI principalmente i loro referenti più fidati; ma la principale armata nemica del governo del cambiamento è costituita dalla micidiale macchina della disinformazione mediatica. Il giornalista non esiste più di fatto nella sua nobile e classica accezione anglosassone del secolo passato o prima; trattasi di quadri del partito liberista-globalista, esperti nella demonizzazione dell'avversario .

Tale governo che definisco di "compromesso" , visto il presidio "mattarelliano" del MEF e degli Esteri, dicasteri strategici, soprattutto il MEF in chiave TROIKA e UE, si è dovuto muovere sotto un bombardamento e tiro incrociato h24, interno ed esterno ed è dovuto,
per non fare la fine di Tsipras in Grecia, addivenire ad una intensa attività diplomatica, lavorando anche sulle contraddizioni internazionali in modo intelligente e senza perdere la faccia, ristabilendo un minimo prestigio della diplomazia tricolore, dopo anni di errori ed asservimento totale a logiche esterne all'interesse nazionale e dei Popoli del Mediterraneo, d'Africa e del Medio Oriente. La nostra storica diplomazia, in era repubblicana, è sempre stata amica con i Popoli in via di sviluppo, Arabi, Nord Africani e del "Mare Nostrum", pur rimanendo nel contesto del Patto Atlantico, avendo perso completa indipendenza l'8 settembre 1943, riconquistata parzialmente con l'insurrezione Patriottica Nazionale del 25 aprile 1945. Per questa causa di giustizia sociale e rispetto della autodeterminazione dei popoli sono caduti grandi Italiani, come Enrico, Mattei ed Aldo Moro, come nella battaglia contro i soprusi mafiosi Falcone e Borsellino.
Sigonella 10/10/1985: i carabinieri accerchiano il boeing coi dirottatori
palestinesi per impedire il loro sequestro da parte degli americani
L'episodio di Sigonella resta nella storia, come vi fosse un filo comune tra il nostro Risorgimento e il diritto ad ogni Popolo ad avere ed essere sovrano nella sua Terra e fratello del Mondo. E' giusto l'insieme delle Patrie Sovrane che non abbiano un unico padrone despota disumano finanziario. 
La delegazione governativa 5 stelle ha lavorato senza sosta per il bene del proprio popolo, nell'interesse generale, onestamente e chiaramente, nel rispetto, ricambiato, degli alleati al governo. Non è possibile risolvere tutto e subito, come non possibile accontentare tutte le specificità e le aspettative delle quali era carico il voto del 4 marzo 2018 . Ciò che conta è che si sia aperta una importante breccia e si sia interrotto, anche formalmente o parzialmente un paradigma lungo 45 anni di restringimento dei diritti sociali dei cittadini, al fronte di una giungla troppo estesa di privilegi ed inciuci.
Non è possibile per ora recedere da un governo che esprima un fronte ampio, anche a volte contrapposto di interessi: ma ITALIANO, VERO, RISPONDENTE AD UN PRIMATO PRODUTTIVO SULLE SPECULAZIONI FINANZIARIE, capace con il tempo di creare le dovute condizioni di una vera Sovranità ed uscita dai trattati-capestro. Fuori da questo contesto, a meno di raggiungere una impossibile maggioranza assoluta, mancando per ora "una terza gamba di sinistra patriottica non liberista" e Costituzionale, una crisi di governo sarebbe una jattura nel momento che sarebbe possibile accontentare i ceti medi e passare ad una fase successiva di realizzazione.

Possiamo sfidare la UE perché giusto ed indispensabile-ragionevole, per il bene del nostro Popolo. Non siamo un paese alla fame e la nostra ricchezza è ben 4 volte il debito pubblico. Dobbiamo per gradi trovare la giusta strada; non era possibile il primo giorno dichiarare guerra al mondo, con la macchina statale e la RAI ancora sotto il controllo nemico. Ci vuole tempo. Ora possiamo aggiungere elementi ed ora escono le prime nomine di qualità come un presidente all'INPS, Pasquale Tridico, area 5 stelle, che voglio citare come un grande uomo con idee giuste, dopo anni di Mastrapasqua e Boeri, sic.

Regalare ad un neo-bipolarismo il cammino iniziato è un errore che dobbiamo evitare: teniamoci uniti e determinati su questo punto. Sarebbe mortale per il 5 stelle un abbraccio con il PD


2- QUALE E' LA NOSTRA SEMENZA: FATTI NON FUMMO PER ESSER ....MODERATI .....



Inutile trovare alibi: la campagna elettorale è il risultato di una svolta moderata che la saggia presenza e laboriosa al governo non giustifica....

Dobbiamo con coraggio e pacatezza, nella chiarezza che non lasci strascico di malinteso ed a costo di separarci per due strade, ma tentando mille volte di percorrerne insieme una sola, producendo il massimo sforzo di inclusione-confronto. Abbiamo passato mesi con il freno a mano tirato , scimmiottando una sinistra trans-genica, il peggio del ciarpame post-moderno "omaggio", creato in laboratorio e funzionale alla società liquida, invece di attaccare anche l'alleato di governo, non soltanto sul giustizialismo, ma sulle problematiche sociali. Dovevamo spiegare meglio l'inganno della TAV, che invece doveva lasciare il passo alle priorità infrastrutturali strategiche, alle quali milioni di persone erano interessate ed avrebbero rilanciato il volano occupazionale vero in modo esponenziale.

Non si è riusciti a trasmettere il fatto che il reddito fosse un intervento di pronto soccorso per i casi rasenti l'inedia e l'estrema povertà, troppo palettato e ridotto; doveva passare la rottura politica simbolica paradigmatica, con la promessa di un intervento più incisivo ma da conquistare sul campo e con il lavoro governativo futuro.

E' mancata insomma la cinghia di trasmissione e coesione ed appartenenza collettiva che la protesta del 4 marzo 2018 aveva trasmesso.

Ma il vero nocciolo del problema risiede nel nodo non sciolto di un pensiero forte che manca, di una chiarezza che latita, trasmettendo un segnale di inaffidabilità pur avendo fatto al governo cose importantissime.


Cari fratelli e sorelle del 5 stelle, semplici elettori come me, simpatizzanti o militanti o portavoce o eletti: cosa vogliamo essere o non essere? fare o non fare?
Sintetizzo con ferocia: vogliamo essere un partito modello "grunen" italiano dolcemente ambientalista, politicamente corretto, giustizialista , oppure
un partito che abbia maturato una forte natura Sociale , Keynesiana, Umanista, dalla parte del Lavoro e delle Imprese e del prodotto Locale e in difesa della Salute e della Terra con il cuore delle origini ma lo sguardo volto ad occupare un orizzonte immenso lasciato libero da una insulsa sinistra maritata al liberismo?

Mi espongo e mi batto e sono convinto che una futura egemonia, capace di intercettare ancora un grandissimo consenso sia nella seconda direzione indicata, nel rispetto di altre strade. Ci dobbiamo chiarire: credo sia indispensabile per il bene del Movimento tutto. Presto e con coraggio e decisione.

3- LE DOLENTI NOTE ORGANIZZATIVE 


Questa sconfitta è anche la conseguenza di un movimento troppo liquido che invece deve evolvere ed in questo senso ob torto collo, superare le rigidità iniziali: non possiamo perdere l'ardore delle origini, conservando la confusione iniziale tradotta in un comando corrispondente a un cerchio ristretto, formalmente orizzontale.

Occorre un livello locale-cittadino-regionale e nazionale, senza ipocrisie assembleari ma con un democratico riconoscimento a verifica almeno annuale. Le parole ed i seminari guerrieri e la formazione politica e culturale vanno promosse anche a livello locale; le gelosie di recinto vanno abbattute nel nome di un democratico interesse generale -centrale.

Lo dico fuori dai denti: nelle ultime elezioni sono stati promossi ancora dilettanti allo sbaraglio, troppe donne per seguire l'ideologia dei tempi, non per oggettivo riscontro: tipico della sinistra transgenica. L'italia è un paese evoluto e le discriminazioni sono una mera intenzione che invece perpetua il vero maschilismo e la sopraffazione arrogante. Alcune valide candidate e preparate sono state chiaramente osteggiate: la foto degli eletti alle europee sembra una foto di gruppo ad una gita scolastica.

Lo stesso Di Maio "si deve togliere quella giacchetta da agente in prova immobiliare e mettersi un bel giacchetto giovanile" fuori dalle compagini governative: la forma è sostanza a volte.
Anche un rosario può....comunicare un messaggio subliminale; il vate Beppe Grillo, da uomo di spettacolo ne era perfettamente a conoscenza.

Perché si promuove la mediocrità aziendalista e non guerrieri ed intellettuali preparati, esperti, salvo localmente affidarsi a tecnocrati capaci di valorizzare il danno sul danno?

Succeda quel che succeda intendevo parlare chiaro.

CONCLUSIONI 


Sappiamo che ogni sconfitta può anticipare e si può trasformare in una vittoria più grande; ma non possiamo confidare nell'effetto del differenziale tra elezioni politiche regionali europee o amministrative. Tutto scorre in fretta, ma i nodi vengono al pettine soprattutto durante e dopo una esperienza governativa. Ecco perché il nodo della appartenenza e del futuro va sciolto con onestà d'intenti

Ecco perché ritengo che noi pochi, noi felici, noi manipolo di onesti ed idealisti, di italiani per bene dovremmo tornare alle origini con un paradigma innovativo e rivoluzionario capace di interpretare la fase ed il futuro. Crediamoci.

Con franchezza e fraterna affinità

Luca Massimo Climati (lo zio Luca) elettore-sostenitore del 5 stelle 
31 maggio 2019 



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DEBITO PUBBLICO: IL MISTERO SVELATO di Piemme

[ venerdì 31 maggio 2019 ]




«Era prevista e, puntuale come la morte, è arrivata. Parliamo della lettera con cui la Commissione europea, preso atto che l'Italia non avrebbe mantenuto gli impegni sulla riduzione del debito pubblico, avverte il governo che potrebbe scattare la famigerata "procedura d'infrazione", con tanto di pesanti sanzioni». [SOLLEVAZIONE del 30 maggio]

Da decenni l’imperativo categorico del rimborso del debito, è il mantra assillante con cui i tecnocrati dell’Unione europea ed i pescecani della finanza predatoria giustificano la necessità di tenere l’Italia incatenata al ceppo dell’ortodossia ordoliberista. Ove non vi fosse la certezza del rientro, almeno nei parametri di Maastricht, sarebbe la catastrofe economica, lo sfacelo del paese.

In questa cornice sono cadute le "sorprendenti" dichiarazioni del ministro dell’Economia Giovanni Tria sulla “monetizzazione del debito”:
«Non dobbiamo dimenticare che esiste un secondo modo di finanziare un deficit, che è il finanziamento monetario».
Cosa sia, in ambiente Ue, la “monetizzazione del debito”, è presto detto: la Bce finanzierebbe le politiche fiscali di uno Stato stampando moneta, col che verrebbe meno il problema dello spread poiché i titoli di debito sarebbero acquistati direttamente dall’Istituto di Francoforte. L’idea di Tria, malgrado sia come la scoperta dell’acqua calda, ha suscitato vibranti rimostranze degli ambienti ordoliberisti oltranzisti. Rimostranze ingiustificate poiché, come vedremo, la proposta di Tria, si presta ad una lettura inquietante. Ma ci torneremo in fondo.

Tabella 1

Default non è bancarotta


La verità è che il debito italiano — per quanto, come si evince dalla tabella sopra (dati Bankitalia) esso sia in mano per il 70% a creditori "residenti", ovvero a banche italiane —, è debito destinato restare insoluto, a rimanere impagato. Lorisgnori lo sanno bene e, dicendo il contrario, sanno di mentire. Quel che essi temono come la peste è che prima o poi l’Italia, come han fatto nel passato decine e decine di stati (notare: l’Italia mai) lo metta in quel posto ai creditori facendo default. Al che sentiamo già alzarsi l’urlo degli ordoliberisti: “Default? Ma siete matti!? Sarebbe la bancarotta!”.


Ma questa equivalenza, se si parla di uno Stato è falsa. Uno Stato può ricorre al default (insolvenza) ove non riesca più a rimborsare le proprie obbligazioni coi suoi creditori. E’ vero l’inverso semmai, che in bancarotta, rischiano di andarci propri i creditori che
s’ingrassano con lo strozzinaggio a spese degli stati. La bancarotta (colposa o dolosa) designa infatti il fallimento di un’azienda privata quando questa, non potendo più far fronte ai suoi debiti, è costretta a chiudere i battenti ed a consegnare quindi il proprio patrimonio ai suoi debitori. Uno Stato non può, con tutta evidenza, chiudere i battenti, a meno che esso non venga fagocitato ed il suo patrimonio passi nelle mani dei suoi creditori. Nei centinaia di casi di default della storia moderna ciò è accaduto una sola volta, per la precisione al piccolo Stato di Terranova (oggi Canada) quando, in conseguenza della crisi del 1929 che fece impennare il suo debito pubblico, esso perdette la sua autonomia per ridiventare colonia dell’Impero britannico — che era il suo unico creditore.

Debito pubblico: numeri alla mano


Non passa giorno che gli ordoliberisti esortino l’Italia (per il suo proprio bene s’intende) a ridurre il debito pubblico, quindi invitando chi governa a ridurre la spesa pubblica. In verità, non sembri un paradosso, quel che interessa davvero ai pescecani della finanza privata che finanziano lo Stato — dato che l’Italia non avendo più la sua propria Banca centrale come principale finanziatore — è infatti che il debito resti perpetuo, così prendendo due piccioni con una fava: mantenere l’Italia sotto permanente ricatto a fare profitti predatori staccando le cedole dell’interesse sul debito appunto. La sola reale preoccupazione di chi detiene i titoli di debito è che non si svaluti il loro valore.


Vediamo, numeri alla mano, di dimostrare perché il debito dello Stato italiano è destinato ad essere perpetuo, a meno che, appunto, non giungerà quel fatidico giorno in cui non si trovi il coraggio sovrano di dichiarare default

Teniamo a mente due dati: il Pil italiano (2018) è stato di 1.753 miliardi di euro, mentre il debito (a fine 2018) si è attestato a 2.359 miliardi — il 134,5%.

Ora supponiamo che l’Italia, nel rispetto del pareggio di bilancio, decida di rispettare il famigerato parametro di Maastricht (il rapporto tra il debito pubblico lordo e il Pil, com’è noto, non deve superare il 60%), di abbassare il debito da 2.359 miliardi a 944 miliardi

Si tratta di racimolare la bellezza di 1.415 miliardi.

E supponiamo pure che avvenga il miracolo che la Ue accetti che la Bce adotti politiche di “monetizzazione del debito” pubblico italiano, portando quindi l’interesse sul debito futuro a zero — si tenga a mente che pur in calo a causa del Qe l’Italia ha sborsato, nel 2018, 65miliardi di euro solo per interessi, ovvero il 3,7% del Pil.
Si tratterebbe quindi di trovare questi 1.415 miliardi.

Supponiamo infine che l’Italia s’impegni a concordare coi suoi creditori un piano di rientro trentennale. In questo caso, dividendo 1.415 per 30 anni avremmo che ogni anno l’Italia dovrebbe sborsare la cifra di 47 e passa miliardi.

Ci sono solo due maniere per reperire queste risorse: o con tagli draconiani e costanti nel tempo alla spesa pubblica o incrementando stabilmente il Pil.

Ebbene, visto che la spesa pubblica italiana è già tra le più basse d’Europa, ovvero secondo gli analisti difficilmente comprimibile, non resta che affidarsi alla lotteria della “crescita”.

Chiediamoci, in questa ipotesi di scuola, di quanto dovrebbe crescere, il Pil ogni anno a spesa pubblica invariata?

Risposta: se oggi il Pil sta a 1753 miliardi — aggiungendo ogni anno 47 miliardi —, il Pil italiano dovrebbe raggiungere nel 2049 la cifra di 3.168 miliardi. Ciò significherebbe nei primi anni una “crescita” attorno al 2,7%, e comunque superiore al 2% per tutto il primo quindicennio.

Viene dunque la domanda: è realistico questo tasso di “crescita”? Ovviamente no, e per diverse ragioni, la prima delle quali, visto che entrano in gioco rilevanti fattori esogeni, è che a scala mondiale l’economia globale, nei prossimi trent’anni, non solo non conosca gravi recessioni ma  registri una “crescita” costante. Condizione altamente improbabile dato che l’economia capitalistica è un susseguirsi di cicli espansivi e recessivi —impossibile ove avessero ragione quegli economisti che sostengono che saremmo entrati in una “stagnazione secolare”.

Piedi per terra signori!


Ricapitoliamo. (1) Abbiamo posto l’ipotesi (ripetiamo, di scuola) che l’Italia adotti un piano di rientro trentennale per far scendere il suo debito al 60% del Pil; (2) abbiamo quindi considerato che, anche ammesso che la Bce accetti di “monetizzarlo”, cioè finanziarlo in prima persona, ciò non basterebbe, poiché (2) ci sarebbe bisogno di una seconda e più importante condizione: una “crescita” economica costante di un 2% costante nell’arco del periodo considerato.
Abbiamo visto che questa seconda condizione è, come minimo, altamente improbabile. Resta ora da stabilire quanto realistica sia la prima, ovvero che la Bce si decida per la monetizzazione.
Ebbene, anche questa è irrealistica, per la precisione inverosimile, dato che essa, come abbiamo detto, implica che i paesi dell’Unione europea, all’unanimità, cambino lo statuto della Bce, detto altrimenti che aboliscano il principale dei dogmi ordoliberisti, che consiste appunto nel divieto fatto alla banca centrale di finanziare il fabbisogno degli stati. Una decisione che ognuno che abbia i piedi per terra sa quanto sia impossibile.

Per la verità la Bce può acquistare già oggi titoli di debito pubblico di uno Stato ma solo nel quadro dell’Outright monetary transactions (Omt). Lo Stato che chiedesse alla Bce di attivare l’Omt, che cioè si trovasse in una situazione di grave crisi con lo spread fuori controllo, dovrebbe aderire ad un programma draconiano di “riforme strutturali e consolidamento fiscale (leggi: austerità e macelleria sociale).

E quindi veniamo alle dichiarazioni di Tria. Perché abbiamo detto che sono inquietanti? Perché essendo che l’Omt è di fatto una forma di monetizzazione, è proprio a questa che il Tria, da bravo segugio del mondo finanziario e bancario ordoliberista, allude.

Per concludere: resta che il debito pubblico italiano non è solvibile, che è impagabile e che, a meno di non fare la fine della Grecia, fare default è inevitabile. Aggiungiamo noi: sarà uno degli atti con cui il nostro Paese riconquisterà la sua sovranità.


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giovedì 30 maggio 2019

L'ONDA NERA (E LA DIGA ROSA FUCSIA)

[ giovedì 30 maggio 2019 ]

Abbiamo in questi giorni parlato della disfatta elettorale del M5s. Vale la pena segnalare quella della cosiddetta "sinistra radicale": 469.943 voti, ovvero l'1,75% (del 56% dei votanti). 
Il peggior risultato sin dai tempi della sinistra extraparlamentare degli anni '70.
Primo responsabile di questa Caporetto, assieme a Rifondazione, è senza dubbio Nicola Fratoianni (portavoce della vendoliana  Sinistra Italiana) il quale in un'intervista a il manifesto oggi in edicola, riconosciuto il disastro, svicola alla domanda se intenda dimettersi da capo politico ma, bontà sua, indica la luminosa via della riscossa: l'alleanza col Pd, indispensabile diga contro...l'onda nera
Non ci credete? Riportiamo l'intervista per intero. 

*  *  *



Fratoianni: «Ora anche la sinistra si impegni nell’alternativa all’onda nera»


L'intervista. Il leader di Sinistra italiana: la nostra lista non è stata percepita come utile a fermare le destre, adesso non richiudiamoci fra noi. Basta frammentazioni, darò il mio contributo. Serve il dialogo con M5S e Pd. Anche con Calenda. Ma continuare a inseguire l’avversario sul suo stesso terreno non porta a nulla.


«La nostra proposta è stata schiantata dal richiamo al voto utile». Per Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana, l’analisi della sconfitta della lista La Sinistra, nata dopo il deragliamento di un’altra lista, Liberi e uguali, è amara. «Più in profondità, questa fase politica è stata segnata dalla polarizzazione di uno scontro. E in questo scontro il bisogno di difendersi dall’onda nera ha prevalso su tutto il resto. Un racconto a cui tutti abbiamo contribuito e che ha portato i cittadini a votare dove sembrava più forte la possibilità di fare resistenza.

D. L’onda nera non c’è?

R. C’è, c’è. E ha messo in secondo piano i contenuti necessari per recidere le radici su cui quell’onda ha costruito la sua forza. Ma, sia chiaro, questo non ci assolve.

D. Dare la colpa al ‘voto utile’ non è autoassolversi dai limiti della vostra proposta?
R. È il contrario. Gli elettori hanno scelto chi sentivano più efficace per fermare le destre. Ci hanno considerati insufficienti e poco credibili. Poi ci sono altri elementi, la costruzione tardiva della lista per esempio, ma non credo che questo sia il punto.

D. Davate l’impressione degli stessi ceti politici che si rimescolano, dalla Sinistra Arcobaleno a L’Altra Europa a Leu?

R. Magari, nel 2014 abbiamo preso il 4 per cento. Ma certo, il tema del mancato ricambio e rinnovamento c’è. Ma non è centrale. È paradossale un risultato così proprio mentre nel paese si avverte un risveglio democratico.

D. Lei è stato un protagonista della lista, per alcuni suoi compagni sembrava il leader. Troppo?

R. In questa campagna ho messo tutte le mie energie, fino all’ultima goccia. Come tutti e tutte. Non è bastato. Quando si è trattato di ammettere la sconfitta ci ho messo la faccia.

D. Il 9 giugno ci sarà l’assemblea della lista. Altre volte le spaccature sono arrivate proprio dopo il voto. Quale sarà la proposta di Si per il futuro della lista?

R. Si ha riunito la segreteria, sabato terrà la direzione. Decideremo insieme. Io andrò all’assemblea: è doveroso ragionare sul futuro. Abbiamo di fronte una stagione complicata e un percorso lungo, dobbiamo riconquistare un insediamento sociale nel paese, fin qui ci siamo dispersi in sperimentazioni generose ma evanescenti. La frammentazione della sinistra, dai Verdi a noi al Prc a Possibile, l’Altra Europa, Diem, Dema, èViva e le esperienze civiche, va superata. È percepita come insopportabile. Anche se questa lista ha provato a costruire la più larga unità. Proverò a dare un contributo. Ma non basta. Il voto ci pone un’altra questione: collocare lo sforzo di ricomposizione e rigenerazione dentro la costruzione di un’alternativa alle destre. Il nodo non può essere più aggirato. Non possiamo chiuderci fra noi dicendo che abbiamo ragione ma non ci hanno capiti. Senza rinunciare ai nostri valori e contenuti, occorre dichiararsi pienamente coinvolti dalla richiesta che viene dal paese: costruire un’alternativa a una destra che raggiunge il 50 per cento e in cui la destra radicale sta sul 40.

D. Dal 2 per cento al 50 mancano 48 punti. A chi si rivolge?
R. A tutti quelli che sono oggi interessati a costruire un’alternativa a questa destra. Rispetto l’entusiasmo del Pd, non lo contesto perché ho il senso della misura, ma se immagina un’alternativa concreta non può limitarsi alla riproposizione di schemi vecchi. Tanto meno il centrosinistra. Serve rivolgersi ai 5 Stelle e favorirne il cambio di prospettiva. Per tirarlo dentro questo campo.

D. Riaprire un dialogo con il Pd dopo gli anni del freddo? Come?
R. Costruendo uno spazio di discussione in una prospettiva diversa. Perché questa alternativa abbia gambe serve un lavoro sociale per riconquistare tutti quelli che sono andati a destra e che hanno smesso di votare. Serve mettere mano ai nodi su cui il centrosinistra è stato sconfitto. Non pretendo che il programma sia il nostro. Ma si devono porre al centro i diritti e le libertà, lo dico a M5S. E i diritti sociali, il lavoro, la distribuzione della ricchezza, la protezione di chi non ce la fa, e questo lo dico al Pd. Altrimenti anche le forme più larghe di coalizione sono inefficaci. Guardiamo al Piemonte: un’alleanza larghissima, ma ugualmente non competitiva. Lavoriamo su una piattaforma, su parole nuove. L’exploit di Bartolo (il medico di Lampedusa, ndr) vorrà ben dire qualcosa.

D. C’è stato anche l’exploit di Calenda, però.
R. Sarebbe persino una buona notizia se nascesse una forza centrista. Ognuno fa il suo mestiere e organizza pezzi di società. I contenitori di tutto e il contrario di tutto non funzionano.

D. Quindi lei potrebbe dialogare anche con Calenda?
R. Se il tema è la costruzione di un’alternativa la discussione si fa tra diversi. Ma non si può immaginare un’alternativa continuando a inseguire l’avversario sul suo stesso terreno.

D. Per il Prc la pregiudiziale anti Pd sembrerebbe un dato acquisito.
R. Sarebbe un errore se fosse così. Lo dico qui e lo dirò all’assemblea del 9 giugno. Non ho cambiato giudizio sul Pd e sui suoi governi. Ma non possiamo non misurarci con la realtà. Non sto proponendo di affrontare la questione riducendola soltanto a un problema di alleanze. Ripeto: il centrosinistra, non c’è più, serve uno schema nuovo.

D. Lei si dimette?

R. A questa domanda risponderò alla direzione del partito. È un dovere comunicare le mie scelte innanzitutto davanti agli organismi dirigenti e alla mia comunità politica.

... Amen

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RIXI: UBI MAIOR MINOR CESSAT

[ giovedì 30 maggio 2019 ]

Condanna attesa (3 anni e 5 mesi) quella emessa dal tribunale di Genova ai danni dell’attuale viceministro alle Infrastrutture Edoardo Rixi. E' la terza "tegola" giudiziaria in poche settimane per il Carroccio.
I giornaloni di regime da giorni stavano montando la maionese per farla impazzire, scrivendo che questa vicenda sarebbe diventata (addirittura) il definitivo casus belli tra Lega e M5s: "i pentastellati chiederanno la dimissioni immediate di Rixi, Salvini farà muro in sua difesa".
E invece...
E invece ci sono rimasti con un palo di naso, visto che Rixi si è dimesso col consenso di Salvini: «Le accetto per tutelare l’esecutivo».
Bene ha fatto Salvini a non dare un alibi a chi sperava che il governo si spaccasse e cadesse su questa vicenda, la quale, rispetto all'ordine dei fattori, soprattutto dopo la minacciosa Lettera della Commissione, è del tutto irrilevante.
Un gesto intelligente, evidentemente distensivo verso i cinque stelle e un assist a Di Maio, che così potrà facilmente superare l'esame degli iscritti al M5s.
Dato a Cesare quel che è di Cesare, tutto sta a vedere quali saranno le prossime mosse del Cesare.
Si tratta davvero di un gesto per tutelare (come è sperabile) il governo affinché si faccia quadrato contro le prossime imboscate di Bruxelles, oppure è una mossa tattica che precede l'offensiva proprio contro i pentastelati finiti nel marasma — magari per dividerli sulla base della considerazione che oramai il governo è già defunto? 
La risposta l'avremo presto con la prossima mossa di Salvini, se cercherà un accordo coi cinque stelle su quelli che ha già annunciato dovranno essere i prossimi passi del governo: la sciagurata Autonomia differenziata, la TAV, lo sblocca cantieri e la flat tax. O se invece, come fece Brenno dopo il Sacco di Roma, porrà la sua spada sul piatto della bilancia.


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DIETRO L'ANGOLO....

[ giovedì 30 maggio 2019 ]

Era prevista e, puntuale come la morte, è arrivata. Parliamo della lettera con cui la Commissione europea, preso atto che l'Italia non avrebbe mantenuto gli impegni sulla riduzione del debito pubblico — SULLA QUESTIONE DEL DEBITO PUBBLICO UN ARTICOLO IMPORTANTE IN GIORNATA —, avverte il governo che potrebbe scattare la famigerata "procedura d'infrazione", con tanto di pesanti sanzioni.
La Commissione ci ricorda così a chi spetti la decisione di ultima istanza, chi abbia nella Ue lo scettro della sovranità.
In buona sostanza la Commissione chiede una "manovra bis" che riporti il Paese in austerità invertendo la rotta (per quanto noi la si giudichi incerta e timida) del governo giallo-verde. 
La mossa della Commissione, ove ce ne fosse stato il bisogno, è la prova lampante di quanto fosse utopistica e velleitaria la speranza che con le elezioni l'eurocrazia avrebbe abbassato la cresta.
L'affondo di Bruxelles coglie il Paese mentre il governo è in pieno marasma, e Mattarella, forte dei suoi cavalli di Troia — a palazzo Chigi, nel M5s come nella Lega — svolge implacabilmente la sua trama.
Per capire cosa bolla in pentola segnaliamo questi due articoli del Corriere della Sera.
Quello del quirinalista (che di norma la sa lunga) MARZIO BREDA, e quello di FRANCESCO VERDERAMI.
I nodi, prima o poi, vengono al pettine, le questioni decisive prendono il sopravvento, lasciando quelle secondarie scivolare sullo sfondo.
Come andiamo dicendo da mesi e come abbiamo ribadito in sede di bilancio delle elezioni il compromesso di dicembre era solo una tregua momentanea, la tregua è finita e ora inizia il round decisivo. Avendo Bruxelles gettato il guanto di sfida, il braccio di ferro è ricominciato...



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mercoledì 29 maggio 2019

AL POSTO DI DI MAIO... di Sandokan

[ 29 maggio 2019 ]

NON POTEVA ESSERE DIVERSAMENTE.


La DRAMMATICA disfatta elettorale del Movimento 5 stelle sta provocando un terremoto che tocca i suoi vertici politici.
Domani gli iscritti sono chiamati a votare sulla piattaforma Rousseau per dire sì o no alle dimissioni di Di Maio come "capo politico".

Tante MALELINGUE già dicono che sarà una consultazione truccata, che tanto decideranno i capoccia in camera caritatis. Voglio sperare che non sarà così.

Dico subito che le dimissioni di "giggino" sono auspicabili. Della batosta infatti, dato che grazie ai suoi "super-poteri" e letteralmente saltando da una Tv all'altra è APPARSO l'unico simbolo del M5S, egli ne porta le principali (non certo esclusive) responsabilità.

Domanda: chi sarà eventualmente il successore di Di Maio come capo politico?
Non so voi ma io vedrei bene, come "capo politico", Gianluigi Paragone. Improbabile, mi suggeriscono i maligni, poiché troppo intelligente a verace antieuro.
Gira la notizia che Di Maio sarà rimpiazzato da Di Battista, col che il Movimento darebbe un segnale di ritorno alla radicalità delle origini. Come subordinata potrebbe andare bene.Ma Di battista si candida davvero? e che dice?
Per sapere quel che dice si deve andare alla sua pagina facebook di oggi.
Tra le pieghe del discorso leggiamo:
«Abbiamo fatto un mucchio di cazzate evidentemente. Cazzate politiche, strategiche, comunicative, di atteggiamento».
Esatto! Il problema è che resta sul vago e si guarda bene dal dirci quali siano state queste "cazzate". Insomma, non scopre le sue carte. Prima o poi, più prima che poi, sarà costretto a farlo ove Di Maio facesse l'auspicato un passo di lato. In questo caso gli attivisti del M5S saranno tenuti a scegliere chi prenderà il suo posto. E allora vedremo quale sarà, tra le due principali anime (quella radicale e quella moderata), quale avrà la meglio.

Una cosa però Di Battista, alla fine — chi ha orecchie per intendere intenda —, la dice:
«Siamo sempre stati impertinenti e sfrontati di fronte al potere. Continuiamo ad esserlo anche se al potere ci siamo noi. E un'ultima cosa. Provate a pensare che non abbiamo nulla da perdere. Nè ruoli, né poltrone, né carriera. Sono gli altri i politici di professione, non noi. Perché è proprio quando non si ha più nulla da perdere che si ricomincia a vincere.»
Solo una dichiarazione d'intenti, direte voi. Meglio comunque del gattopardismo (europeista) del Di Maio.



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SUICIDIO DELLE SINISTRE-LEMMING di Carlo Formenti

[ mercoledì 29 maggio 2019]

Ci segnalano e volentieri pubblichiamo...

Prima impressione a botta calda sull'esito elettorale. Dovessi scrivere un articolo sul tema lo intitolerei "Il suicidio delle sinistre lemming". 

Come saprete, i lemming sono dei simpatici roditori che vivono nelle zone artiche e che, periodicamente, si suicidano in massa gettandosi in mare per motivi non del tutto chiari. Secondo alcuni l'evento sarebbe associato a una pulsione istintuale che scatta quando la loro popolazione cresce troppo rapidamente in rapporto alle risorse alimentari disponibili. Per le sinistre vale il principio opposto: quanto più diventano residuali e diminuiscono numericamente sia in termini di militanti che di voti, tanto più si comportano in modo da diminuire ancora più rapidamente. 

Era evidente che, accodandosi al carrozzone dei partiti e dei media liberal liberisti che invitavano a costruire un fronte comune europeista contro populisti e sovranisti - invece di assumere in prima persona gli interessi delle classi subalterne che, nella misura in cui pagano il prezzo salatissimo delle politiche liberali, si rivolgono per disperazione ai populismi di destra - avrebbero fatto una misera fine. Eppure si sono buttati a capofitto, come i lemming, nel burrone. Risultato: Podemos - già calato di cinque punti alle politiche per aver sostenuto il Psoe in cambio di nulla - ne perde altri cinque; France Insoumise, che ha sacrificato sull'altare del rientro nelle file della sinistra classica l'originale ispirazione populista di sinistra, vede ridotti di due terzi i propri consensi, Corbyn - incapace di scegliere una linea chiara sulla Brexit, regala i voti operai a Farage e i voti della sinistra fighetta ai verdi; la Linke che aveva sdegnosamente respinto le critiche di Oskar Lafontaine arretra a sua volta; le nostre sinistre "radicali" crollano sotto il 2% ecc.; socialisti francesi e socialdemocratici tedeschi proseguono la loro allegra corsa verso l'estinzione. 

Le uniche "sinistre" che avanzano (o recuperano parte di quanto avevano perso) sono il Psoe e il Pd che più di altre analoghe formazioni europee hanno saputo lucrare sul paradigma del "voto utile" per arginare le destre. Quindi i voti degli ex antagonisti si si distribuiscono fra vecchie e nuove sirene liberali (vedere l'affermazione dei verdi) e populismi di destra, secondo appartenenze di classe (i piccolo borghesi ai verdi, i proletari alle destre). 

Quanto alla batosta dell'M5S segue dinamiche simili, anche se questo movimento non è classificabile come parte della sinistra (ma molta della sua base elettorale viene da lì): se prima inneggi ai gilet gialli e poi fai capellucce alla Ue cos'altro vuoi aspettarti? I nostri impareranno la lezione? Temo proprio di no: la degenerazione è troppo avanzata, quindi continueranno la ì corsa verso il burrone e troveranno una meritatissima fine annegando nel mare dell'insipienza politica e culturale più assoluta. Per trovare alternative rivolgersi altrove...


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LA NOSTRA LINEA IN SETTE PUNTI Cc di P101

[ mercoledì 29 maggio 2019]

Comunicato n. 6-2019 del Comitato centrale di P101


Il doppio risultato


Alle porte di elezioni europee che l’élite eurocratica aveva trasformato in un referendum pro o contro la sua supremazia invitammo ad un voto contro l’Unione europea, augurandoci dunque la tenuta del governo giallo-verde. Mentre a livello europeo il variopinto blocco a guida eurocratica ha momentaneamente vinto, in Italia è stato nuovamente sconfitto, a conferma che quella della protesta affermatasi il 4 marzo 2018 è un’onda forte e lunga. L’Italia e la Gran Bretagna si confermano come le due temibili spine nel fianco all’eurocrazia, ed i paesi dove più profonda è la crisi dell’élite e del loro tradizionale sistema di comando bipolare.

Alleanza giallo-verde a rischio


Quell’onda lunga ha sì confermato che il “campo populista” conserva un consenso maggioritario nel Paese ma ha prodotto un profondo ribaltamento dei rapporti di forza al suo interno: la Lega ha raddoppiato i suoi voti mentre i 5 stelle hanno subito un vero e proprio tracollo elettorale. Questo capovolgimento potrebbe avere conseguenze letali per il governo ove Salvini cercasse un nuovo assetto in seno al governo umiliando i 5 stelle. Per questo, mentre chiamavamo ad un voto di resistenza che sostenesse il governo giallo-verde,  scongiuravamo uno sfondamento della Lega e un forte indebolimento dei pentastellati.

La prova del 9 di Salvini


E’ legittimo, dato il responso delle urne, mettere mano alla composizione del governo? Sì, lo è. Ma ciò può avvenire in due opposte maniere: a spese dei 5 stelle oppure a quelle del Cavallo di Troia dei poteri forti“, il partito di Mattarella” il quale, vale ricordarlo, non è solo la terza forza della coalizione ma quella che detiene l’ultima parola sulle decisioni che contano. Se la Lega vuole più potere in seno al Consiglio dei ministri, avocasse a sé i Ministeri chiave dell’Economia e degli Esteri. Se invece Salvini non attaccherà in quella direzione — ove ad esempio ponesse sul tavolo in modo ultimativo questioni come una flat tax a favore dei più ricchi o la sciagurata “autonomia differenziata” che approfondirebbe il solco già enorme tra Nord e Sud del Paese  —, vorrà dire che avrà ceduto alle frazioni nordiste e anti-nazionali della Lega che hanno già deciso di rompere l’alleanza col M5s per andare ad elezioni anticipate. Soluzione gradita ai poteri forti che così vedono la possibilità di restaurare il sistema bipolare o delle “larghe intese”.

La partita decisiva dell’autunno


Ove Salvini chiedesse la sostituzione di Tria e Moavero vorrà dire non solo che la Lega è davvero nelle sue mani, che egli farà seguire alle parole — “non rispetteremo i vincoli di bilancio che la Ue vuole imporre, non torneremo a politiche austeritarie” — i fatti, sfidando così l’Unione europea in vista della prossima, fatale partita da cui molto dipende, quella della Legge di bilancio. L’augurio della Sinistra patriottica è dunque che il governo resti in sella, che la Lega non rompa il patto coi 5 stelle e non precipiti il Paese verso elezioni anticipate che sancirebbero, come spera l’élite eurocratica, la disintegrazione del “campo populista”. 

Il tracollo dei 5 stelle


Vero è che le elezioni europee, più delle altre, sono contraddistinte da un’accentuata volatilità elettorale, che sono niente di più che un grande sondaggio. Tuttavia le dimensioni della sconfitta elettorale dei 5 stelle (sei milioni di voti persi in un anno) hanno messo in evidenza sia i suoi lampanti punti deboli che i suoi errori. Tra i punti deboli la sua effimera e aleatoria struttura d’organizzazione, e  l’assenza di una netta identità ideologica. O si riforma come partito democratico di massa o il M5s sparirà come fugace figlio di una stagione di transizione. E se non vorrà sparire deve darsi una nuova e più combattiva direzione ed una spiccata identità politica . La sola che può scegliere, dato che il populismo reazionario salviniano occupa quasi tutto il lato destro dello spettro politico, mentre il vecchio “centro moderato” è presidiato dall’élite euro-liberale coi suoi ammennicoli libertari di sinistra, è quella di un deciso “populismo di sinistra” che sfidi entrambi per l’egemonia. Di Maio, con la sua furbizia trasformistica, è l’incarnazione stessa di questo vuoto identitario e ideologico. Egli (e chi lo ha piazzato come capo politico) ha sulle spalle gran parte della responsabilità del tracollo. Avendo un cuore che pulsa a destra Di Maio ha prima fatto enormi concessioni a Salvini, consentendogli di passare come il dominus del governo, poi, in campagna elettorale ha tentato di contrastarlo ma adottando un profilo moderato, europeista, anti-populista, gradito ai poteri forti e alla Confindustria. Al primo grave errore ha fatto dunque seguito il secondo, peggiore. V’è infine, per spiegare il tonfo, la discrepanza avvertita tra i settori colpiti dalla povertà tra le aspettative suscitate dal cosiddetto “Reddito di cittadinanza” e l’effettivo risultato: date le stringenti condizionalità reddituali per riceverlo (fissate per rispettare i parametri euro liberisti sul deficit pubblico) troppi non l’hanno ricevuto, moltissimi percependo un umiliante “assegno di povertà”. Un tonfo elettorale che il m5s ha infatti subito anzitutto nel Mezzogiorno, dove di fatto ha vinto il “partito dell’astensione” mentre solo un anno fa il Movimento aveva ottenuto consensi anche oltre il 50%.

L’avanzata precaria di Salvini


Non c’è quindi da stupirsi se Salvini ha stravinto il duello con Di Maio, ed ha stravinto non solo per la sua straordinaria abilità populista di parlare a milioni di italiani, ma perché ha raccolto una serie di istanze ideali, domande sociali e aspettative inevase, indirizzando la protesta e il desiderio di un cambiamento contro i poteri forti, tra cui anzitutto l’eurocrazia. No all’immigrazione di massa, sicurezza, stato forte, fine dell’austerità, lavoro, giustizia sociale, rispetto democratico della volontà dei cittadini, orgoglio nazionale. Da intelligente populista non ha solo fatto sue questa catena di disparate domande, le ha ordinate in una scala gerarchica, incardinandole a quella principale — quella del no all’immigrazione —, le ha quindi impastate con una forte identità di tradizionalismo cattolico. Ma la stessa onda che lo ha portato in alto può presto trascinarlo in basso. La gerarchia dei fattori che lo hanno portato alla vittoria non corrisponde infatti a quella di chi comanda davvero, che imporrà ben presto — lettera Commissione Ue in arrivo con minaccia di procedura d’infrazione su deficit e debito — la sua propria agenda, che al primo posto pone il rientro dell’Italia, già con la prossima Legge di bilancio, nei ranghi delle politiche austeritarie ed eurocratiche. La tregua tra Bruxelles e Roma siglata a dicembre aveva una scadenza ed è già finita. Vedremo presto se Salvini vorrà resistere ai diktat di Bruxelles e Francoforte o se cederà. Non potrà ubbidire a due padroni, rispettare al medesimo tempo le principali quanto contraddittorie domande sociali che ha raccolto ed i desiderata dell’eurocrazia. 

La Sinistra Patriottica


La sinistra radicale esce nuovamente malconcia dalla prova elettorale. L’aggressiva quanto velleitaria politica anti-salviniana in nome dell’antifascismo, dell’immigrazionismo come atto di fede, del prima i diritti civili di piccole minoranze rispetto a quelli sociali delle masse popolari — quindi la sua prossimità ideologica con l’élite dominante liberal-liberista —, l’ha fatta precipitare ad un nuovo minimo storico di consensi. Potrà sopravvivere come satellite del Pd o come pulviscolo settario e autoreferenziale. A causa di questo disastro nel vecchio perimetro della sinistra radicale ed ex-rivoluzionaria prevale l’idea che quello attuale sia “il più nero periodo di sempre”. Una visione allucinata che indica quanto siderale sia la distanza non solo dalla grande maggioranza del popolo lavoratore ma dalla realtà effettuale. Non serve frustare un cavallo morto, chi vorrà vivere vivrà. Alla divisa Sinistra Patriottica, spetta unire le forze e mettere da parte vecchie incrostazioni, per costruire una nuova e solida casa dei rivoluzionari. La crisi sistemica è di lunga durata, ed aperta a sbocchi diversi e opposti. Proprio adesso i rivoluzionari debbono organizzarsi, prepararsi, non commettere errori tattici che potrebbero rivelarsi strategicamente fatali. Chi è minoranza oggi può diventare maggioranza domani. Siamo solo alla prima fase del “momento populista”, seguirà la seconda, quella in cui larghe e giovani masse entreranno finalmente in scena dando la spinta che serve al “populismo di sinistra” per sfidare e battere quello della nuova-vecchia destra.

Non c’è liberazione sociale senza liberazione nazionale!
Costruire il partito della sinistra patriottica!

Il Comitato centrale di Programma 101
Roma, 28 maggio 2019


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martedì 28 maggio 2019

FRANCIA: IL DISASTRO FRANCE INSOUMISE di Jacques Sapir

[ martedì 28 maggio 2019 ]

Successo non pienissimo per il Rassemblement National, sconfitta attenuata per En Marche, una mezza sorpresa per gli ambientalisti e opposizione per il resto atomizzata, sia a destra che a sinistra: ecco il panorama politico che sta emergendo dopo le elezioni europee. Se gli avversari di Macron vogliono contare qualcosa, dovranno avviare cambiamenti radicali.

Le elezioni europee in Francia si sono basate principalmente su temi francesi. Questa è la prima lezione che se ne può trarre: erano un voto sul Presidente.

Questo spiega perché il numero di astensionisti è stato molto inferiore rispetto al 2014. Sebbene le classi lavoratrici, e anche i giovani, si siano ampiamente astenuti, il tasso di partecipazione è aumentato di quasi otto punti percentuali rispetto al livello eccezionalmente basso del 2014.



Il fallimento di Emmanuel Macron


Queste elezioni hanno visto il relativo successo del Rassemblement National (RN), che batte la lista La République En Marche (LREM) – Mouvement Democrate (MoDem)- Renaissance, guidata da Nathalie Loiseau. Il relativo insuccesso di questa lista, nonostante il sostegno attivo ricevuto da parte del presidente, è degno di nota. Emmanuel Macron aveva appoggiato oltre ogni decenza, visto il suo ruolo, la lista LREM. Questo sostegno, per molti aspetti scandaloso, non ne ha evitato il fallimento. È quindi una sconfitta personale e inciderà sulla capacità del presidente di rianimare la sua politica. Emmanuel Macron ora è costretto in una posizione difensiva e un po’ più screditato, sia a livello nazionale che a livello europeo.

Il successo della lista RN, guidata da Jordan Bardella, è innegabile, ma non si tratta affatto di un trionfo. L’RN fatica a riconquistare la percentuale del 24% ottenuta nel 2014.

L’insuccesso della lista Loiseau è comunque relativo, per due motivi: il primo è la percentuale ottenuta, superiore al 22% della lista LREM. Quindi non si tratta di un crollo.

La seconda ragione è il vero collasso, invece, del partito Les Républicains (LR), guidato da François-Xavier Bellamy. Con poco più dell’8% e il quarto posto, la lista LR subisce una vera e propria disfatta, che può solo mettere in discussione la direzione esercitata da Laurent Wauquiez. Una sconfitta che può essere spiegata dalla polarizzazione tra RN e LREM che si è imposta nelle ultime settimane della campagna.

Un certo numero di elettori di LR sono passati a uno di questi due partiti, e probabilmente più verso LREM che su RN. Questo non è sorprendente. Emmanuel Macron è diventato, a causa del movimento dei gilet gialli, il simbolo del partito dell’ordine. È quindi naturale che una parte dell’elettorato della destra legittimista, come una parte degli elettori di François Fillon nel primo turno della presidenziale 2017, si sia ritrovato tra gli elettori che hanno votato per la lista LREM.

Le conseguenze di questa situazione sono contraddittorie. Emmanuel Macron ha sicuramente limitato i danni e può cantare vittoria a breve termine. Ma il suo potenziale serbatoio di voti si è ridotto e ha esaurito le sue riserve. Ciò avrà conseguenze sulle prossime elezioni amministrative del 2020, perché i Repubblicani possono sperare di recuperare solo schierandosi apertamente all’opposizione, contro Emmanuel Macron. Liste unitarie ora sono meno probabili a livello locale. Tuttavia, è attraverso queste elezioni che la capacità di LREM di mettere radici a livello locale sarà persa o vinta, il che è la condizione della sua sopravvivenza e quindi della capacità di Emmanuel Macron di ripresentarsi nel 2022.



Il successo di EELV, il fallimento di France Insoumise


Il successo di Europe Écologie Les Verts (EELV) è indiscutibile. La lista dell’EELV arriva terza, con oltre il 12% dei voti. Ma bisogna ricordare che le elezioni europee sono sempre state favorevoli alle formazioni ecologiste. Le percentuali di domenica sera non sono il risultato più alto mai raggiunto dagli ambientalisti. Inoltre, questo risultato è collegato all’altra sorpresa di queste elezioni: il crollo, non c’è altra parola, della lista di La France Insoumise (LFI), guidata da Manon Aubry, così come il cattivo risultato registrato dalla lista del Partito Comunista Francese (PCF), guidata da Yan Brossat, con il 2,4% circa.

Per La France Insoumise il problema è più grave. Con poco più del 6,5%, alla pari con la lista di PS – Place Publique, LFI registra una sconfitta che è un vero disastro. Le cause sono note. Proprio come in Spagna, dove Podemos paga a caro prezzo le sue esitazioni e la sua politica confusa, LFI paga fino all’ultimo spicciolo il suo cambio di linea, che si è verificato a partire dalla fine della primavera 2018, e che ha provocato manovre interne indegne e l’esclusione o l’abbandono volontario dei cosiddetti “sovranisti di sinistra”.

L’abbandono della linea di “assemblea del popolo”, che ha portato Jean-Luc Mélenchon a quasi il 20% nel primo turno delle elezioni presidenziali del 2017, è la causa di questo collasso. Lo testimoniano le dichiarazioni di Jean-Luc Mélenchon, rilasciate nella serata di domenica 26: nelle frasi esitanti, nel vocabolario che si voleva gollista, appariva l’estrema confusione di quello che è il leader di fatto di LFI. La France Insoumise non potrà risparmiarsi una profonda autocritica, che implichi un raddrizzamento della linea politica – che dovrebbe tornare alle posizioni della primavera 2017 – e una istituzionalizzazione democratica, con strutture di funzionamento chiare e trasparenti.

Il problema principale è quello della linea politica. Alcuni, che sognano solo di riportare LFI sulle sterili posizioni di una unione delle sinistre, lo hanno capito bene. Abbiamo potuto vederlo durante la serata post-elettorale. Ma anche la questione della democrazia interna e della trasparenza ha giocato un ruolo in questa sconfitta. LFI non ha certo mostrato il suo volto migliore negli ultimi nove mesi. C’è tuttavia da temere che la vittoria del RN spinga alcuni dei quadri in una logica di farlocco antifascismo da operetta, mentre la logica dovrebbe essere quella di sfidare la presa di RN sulle masse rispondendo alle loro aspirazioni e rilanciando il tema della sovranità.



Sovranisti, il prezzo della divisione


Bisogna analizzare inoltre il fallimento delle diverse formazioni che rivendicano anche la sovranità. Pagano tutti la mancanza di maturità politica. Il partito di Nicolas Dupont-Aignan, Debout la France (DLF), a fronte della drammatica caduta della lista LR, a rigor di logica avrebbe dovuto progredire. E invece ha fatto marcia indietro rispetto al risultato del primo turno delle elezioni presidenziali. Un’analisi seria della strategia, ma anche dello stile di leadership, è essenziale come condizione per la sopravvivenza stessa di questo partito.

Questo vale anche per l’Union Populaire Républicaine (UPR) e Les Patriotes. L’UPR supera di poco l’1% e Les Patriotes si è fermata allo 0,7%. Eppure la loro esposizione mediatica è stata superiore a quella del partito animalista, arrivato circa al 2,4%. Siamo ben oltre il momento in cui bisogna smetterla con le esclusioni reciproche, con il comportamento settario degli uni verso gli altri. L’esistenza di tanti micropartiti non è giustificata e li condanna a vegetare, come avviene oggi. Si pone la questione di una fusione tra DLF, UPR e Les Patriotes, tanto più importante quanto è evidente il fallimento della strategia di DLF, che aveva moderato le sue posizioni sull’UE nella speranza di strappare qualche voto ai repubblicani. La legittimità dell’esistenza di questi tre partiti è posta direttamente in questione, dopo le elezioni europee del 26 maggio. E quando si rivendicano gollismo e sovranità, si dovrebbe dare una certa importanza alla questione della legittimità.



Un’opposizione in briciole?


Resta vero che, nonostante la RN, l’opposizione a Emmanuel Macron è a pezzi. La sua forza deriva dalla debolezza dei suoi avversari. Possono solo sperare di rifondare la loro legittimità e costruire le condizioni della loro unità attraverso i comitati per raccogliere i 4,7 milioni di voti necessari per il referendum sulla privatizzazione dell’Aéroports de Paris. L’impegno per questa campagna, senza alcun calcolo di bottega e senza esclusioni, sarà quindi nelle prossime settimane il test per capire se un’opposizione a Emmanuel Macron è in grado di ricostituirsi, ripartire e lavorare insieme, chiave per il suo successo.


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