giovedì 28 febbraio 2019

IRAN-USA: AVEVA RAGIONE AHMADINEJAD?

[ 28 febbraio 2019 ]

Il ripristino delle sanzioni contro l'Iran deciso dalla casa Bianca nel novembre scorso dimostra, semmai ce ne fosse stato bisogno, che l'imperialismo americano non muta la sua aggressiva agenda strategica in Medio oriente —tra cui la stretta alleanza con Israele e Arabia Saudita. Data la precarietà della situazione economica iraniana è chiaro l'intento americano, aggravare questa crisi nella speranza di suscitare una "rivoluzione colorata".
Come conseguenza del braccio di ferro con gli USA si è dimesso il Ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, sintomo di una crisi profonda ai vertici della Repubblica islamica dell'Iran. Su queste dimissioni ci sembra utile pubblicare un intervento malgrado le usuali sciocchezze di marca occidentalista e l'astio verso verso i cosiddetti e cattivi "ultra-conservatori" (sic!) che avrebbero messo ai margini il "bravo" Zarif...



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IL POSSIBILE SIGNIFICATO DELLE DIMISSIONI DEL MINISTRO DEGLI ESTERI IRANIANO

di Francesca Manenti

L’annuncio delle dimissioni del Ministro degli Esteri, Mohammad Javad Zarif, [nella foto] giunte nella serata di lunedì 25 febbraio ha aperto un possibile nuovo fronte di crisi interno alla compagine del governo iraniano. Benché la decisione dovrà essere accettata ora sia dal Presidente sia dalla Guida Suprema, Ali Khamenei, l’annuncio ha messo in luce l’attuale debolezza dell’esecutivo a Teheran. Giustificato dagli scarsi risultati portati dall’accordo per il Paese, il passo indietro di Zarif ha posto il Presidente Rouhani di fronte al rischio di perdere non solo uno dei pilastri dell’esecutivo, ma anche uno dei simboli di quella politica di apertura e riconciliazione con l’occidente di cui il Ministro degli Esteri è stato il volto negli ultimi sei anni.

Fin dall’insediamento del governo pragmatista nel 2013, Zarif è stata la prima scelta del Presidente Rouhani per ricoprire il difficile incarico di capo della diplomazia della Repubblica Islamica, in un momento in cui i rapporti tra Iran e Comunità Internazionale risentivano del lascito politico e della retorica antagonistica dei due mandati presidenziali di Mahmoud Ahmadinejad. I precedenti incarichi alla rappresentanza iraniana alle Nazioni Unite (dapprima come membro del corpo diplomatico e poi, dal 2000 al 2007, come rappresentante) e la consolidata esperienza nel mediare con la controparte statunitense (sia negli Anni ’80, in occasione della vicenda conosciuta con il nome di Iran Contra, sia nelle ore immediatamente successive all’11 settembre, quando il governo iraniano si era aperto ad una collaborazione con Washington in chiave anti-talebana e anti al-Qaeda) hanno reso Zarif il candidato ideale per prendere in mano la gestione delle relazioni internazionali di Teheran.

Il Ministro degli Esteri in questi anni è stato, di fatto, il fautore dell’apertura dell’Iran al dialogo e della costruzione del delicato processo di riavvicinamento alla Comunità Internazionale, sugellato dalla firma del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) con il gruppo dei 5+1 (i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu e la Germania). Il dicastero guidato da Zarif, infatti, è stato il principale interlocutore dei partner internazionali, in particolare di Stati Uniti e Paesi europei, per trovare tutti i possibili punti di convergenza da cui partire per distendere definitivamente i rapporti internazionali e porre termine a quell’isolamento politico ed economico di cui era stato oggetto l’Iran nei decenni precedenti. L’attività diplomatica assegnata a Zarif era stata prevista all’interno di un’agenda di governo di ampio respiro, in cui il ripensamento dei rapporti con l’occidente era funzionale a rivitalizzare le asfittiche condizioni in cui versava l’economia interna. Il fine ultimo di questo processo e i prospettati benefici per il Paese sono sempre state le principali motivazioni con le quali il Presidente Rouhani ha
Il Segretario di Stato USA Mike Pompeo
cercato di giustificare con le componenti più conservatrici della Repubblica Islamica l’ampio margine di manovra concesso al Ministero degli Esteri nel condurre le trattative. Nel sistema della Repubblica Islamica, in cui l’esecutivo non può prescindere dall’equilibrio con i poteri più tradizionalisti che permeano le istituzioni, infatti, Rouhani ha scommesso sui risultati del processo diplomatico per contenere le critiche del fronte conservatore e imporre una politica di stampo spiccatamente pragmatista. La conclusione dell’accordo nucleare e la ripresa, seppur lenta, degli scambi commerciali tra Iran e resto del mondo, in particolare con l’Europa, era stata così salutata dall’esecutivo come un’importante vittoria per consolidare il proprio margine di consensi interno.

In questo contesto, la de-certificazione del JCPOA da parte del Presidente statunitense Donald Trump ha segnato un importante ostacolo per l’implementazione della strategia politica del governo Rouhani. La re-imposizione delle sanzioni economiche, bilaterali e secondarie, contro il Paese, di fatto, ha fatto venir meno quella prospettiva di ripresa economica interna che era alla base dell’accordo e che aveva permesso alla parte iraniana di aprirsi ad una rimodulazione del proprio programma di ricerca nucleare. Inoltre, l’inerzia degli interlocutori europei nel trovare degli strumenti di salvataggio delle disposizione dell’accordo, che limitassero gli effetti della decisione statunitense sull’economia e sulla qualità di vita della popolazione, hanno creato un nuovo clima di risentimento nei confronti degli interlocutori occidentali e di sfiducia verso il governo. Agli occhi dell’opinione pubblica, infatti, l’antagonismo americano e il lassismo europeo sono state due facce della stessa medaglia, con la quale Stati Uniti ed Europa hanno cercato di prendere tempo per indebolire l’Iran e limitarne la capacità di influenza all’interno della regione mediorientale.

La battuta di arresto nel rapporto con i Paesi occidentali, dunque, ha creato un notevole danno reputazionale per l’esecutivo Rouhani, colpevole davanti all’elettorato e alla classe politica iraniana di aver dato fiducia ad una negoziazione che non ha portato ad un nulla di fatto. Ciò non solo ha provocato un drastico calo di consensi per la compagine di governo, ma ha anche portato l’esecutivo a prestare il fianco alle critiche sempre più pressanti dell’opposizione conservatrice, pronta a cavalcare la nuova ondata di antagonismo proveniente da Washington per riprendere il controllo del processo decisionale nella Repubblica Islamica.

In questo nuovo clima di acredine verso il dialogo con i Paesi occidentali, le dimissioni di Zarif sembrerebbero essere il segnale di un ri-orientamento in corso dell’atteggiamento politico del governo iraniano verso posizioni maggiormente conservatrici rispetto al passato. Non appare casuale, infatti, che la decisione del Ministro sia giunta in seguito alla vista inaspettata del Presidente siriano Bashar al Assad a Teheran, ricevuto sia da Rouhani sia dalla Guida Suprema Ali Khamenei. L’incontro, di cui il dicastero degli esteri non sarebbe stato a conoscenza, ha segnato un’accelerata diplomatica da parte della Repubblica Islamica nei confronti dell’alleato siriano e potrebbe diventare un nuovo punto di attrito nel già complicato dialogo tra Iran e interlocutori occidentali. Benchè il dossier Siria negli ultimi sei anni sia sempre stato di competenza della Guardie della Rivoluzione (esempio della strategia di do ut des portata avanti da Rouhani per mantenere il bilanciamento interno dei poteri), l’esclusione del Ministero degli Esteri da un momento tanto significativo ha suggellato una netta importanza delle questioni regionali rispetto alla politica di dialogo portata avanti fino ad ora dalla diplomazia. Il passo indietro di Zarif, dunque, potrebbe essere stato motivato dalla volontà del Ministro di prendere le distanze da un ripensamento della politica estera del governo motivata dalla necessità di Rouhani di dare nuovi spazi alle posizioni degli ultra-conservatori e di reinterpretare di conseguenza le priorità dell’agenda dell’esecutivo.


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NO AL REGIONALISMO DIFFERENZIATO di Stefano Fassina

[ 28 febbraio 2019 ]

Nel pubblicare questo ottimo contributo di Fassina ricordiamo ai lettori di sottoscrivere la petizione NO ALLO SPEZZATINO! DIFENDIAMO L'UNITÀ DELL'ITALIA .
Sullo stesso argomento l'importantissimo intervento di Leonardo Mazzei.


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Le ragioni per contrastare la cosiddetta "autonomia differenziata" sono state ben descritte, con un impegno inizialmente solitario, dal prof Viesti, dal prof Villone e pochissimi altri: determinerebbe la fine della scuola pubblica come fattore di integrazione nazionale, l'aggravamento delle condizioni del Servizio Sanitario Nazionale, l'indebolimento ulteriore della tutela dell'ambiente e del patrimonio culturale.

Grazie a Laterza, è scaricabile gratuitamente un pamphlet, scritto proprio da Gianfranco Viesti, dove viene illustrata in modo semplice un'analisi chiara e documentata della "secessione dei ricchi". Alla propaganda dei presidenti leghisti e della ineffabile ministra Stefani, sarebbe sufficiente contrapporre l'art. 4 delle pre-Intese sciaguratamente sottoscritte in limine mortis dal governo Gentiloni con Zaia, Maroni e Bonaccini: la "riforma" del Titolo V, per stupide ragioni tattiche, ha aperto varchi pericolosi, ma la responsabilità di legare i fabbisogni standard al gettito fiscale raccolto in ciascun Regione è "merito" dell'ultimo esecutivo dei buoni, dei competenti, dei responsabili.

L'autonomia differenziata, oltre che per il merito, è inaccettabile anche per la procedura parlamentare prevista per la sua approvazione: prendere o lasciare, senza possibilità di emendare i Disegni di Legge di portata costituzionale per attuare le "intese" tra governo e presidenti di Veneto, Lombardia e Emilia. Anche su tale pericolo, Piero Bevilacqua, attraverso Il Manifesto, ha inviato un'accorata lettera aperta al presidente Mattarella garante dell'unità nazionale.

Non vi è altro da aggiungere per spiegare la portata devastante sul piano dei principi costituzionali dei provvedimenti in segreta elaborazione. Le ragioni per fare le barricate sono divenute chiare. Ma su quale terreno combattiamo? È possibile fare la resistenza all'offensiva della Lega, Nord nonostante la riverniciatura salviniana, soltanto sulla base di astratte e fredde norme costituzionali? E come affrontiamo le cause strutturali

dell'offensiva secessionista? Vi sono? Oppure, siamo di fronte soltanto a egoismo da contrastare con lezioni di giustizia sociale, riteniamo che il "vincolo interno" alla solidarietà sia indipendente dal "vincolo esterno" all'europeismo liberista?

La controffensiva deve partire, innanzitutto, sul terreno "sentimentale": per denunciare e fermare la fine dell'unità nazionale va richiamato il nostro essere Nazione, come definito nella nostra Costituzione, ossia comunità non di sangue, ma di condivisione di Storia e storie, cultura, lingua e programma politico fondamentale, ossia la nostra Costituzione.

Ha colto molto efficacemente il punto Tomaso Montanari che, su Il Fatto, in un commento sulla prevista attribuzione alle Regioni in via di differenziazione della tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico, scrive: "Se c'è qualcosa che ci fa italiani differenziandoci da tutte le altre nazioni e unendoci tra noi al di là delle infinite diversità della penisola, ebbene quel qualcosa è il legame tra pietre e popolo...".

Senza "sentire" il legame condiviso di Nazione (la maiuscola è nella Costituzione), senza un sentimento di comune appartenenza alla Patria (Art. 52 della Costituzione), come possiamo considerare obbligo morale dei cittadini a maggior reddito e ricchezza redistribuire a chi ha meno?

In altri termini, perché non chiediamo solidarietà fiscale ai ricchi della Baviera, della Catalogna o della provincia di Amsterdam e, invece, la pretendiamo dai ricchi del Veneto, della Lombardia e dell'Emilia Romagna? La risposta è semplice: perché non esiste un legame transnazionale che "fa" popolo. Non esiste, ahimè, il demos europeo (da qui, l'inconsistenza storico-politica della prospettiva di 'riforma dei Trattati Europei' o degli 'Stati Uniti d'Europa' enunciata dalle sinistre riformiste e radicali, da Calenda a Varoufakis). Il legame comunitario di Nazione, impasto di Storia, cultura, lingua e pietre è fondativo, condizione necessaria, del programma costituzionale.

Veniamo alle cause strutturali dell'offensiva secessionista. Perché avviene ora? Perché ora che la Lega si auto-rappresenta e viene nel voto riconosciuta come Lega Nazionale? Anche qui la risposta è semplice: perché vincolo interno (alla redistribuzione fiscale prevista dalla Costituzione) e vincolo esterno (i Trattati europei, il mercato e la moneta unica, in primis) sono interdipendenti.

Perché anche i territori più forti sono in sempre più acuta difficoltà in un mercato unico europeo e con una moneta unica al servizio dell'estremismo mercantilista made in Germany, ora giustamente e inevitabilmente osteggiato dal protezionismo del presidente Trump. Sarebbe sufficiente guardare la sempre più ampia divaricazione, nell'ultimo quarto di secolo, del costo del lavoro per unità di prodotto di Italia e Germania per comprendere la domanda rabbiosa di alleggerimento fiscale e contributivo delle imprese del Lombardo-Veneto. Per le quali, va aggiunto, a differenza di quanto avveniva fino a un paio di decenni fa, il mercato interno offerto dal Mezzogiorno è sempre meno rilevante, data la drammatica caduta di potere d'acquisto lì avvenuta.

Nonostante le sinistre riformiste e cosiddette antagoniste si siano auto-confinate in un impotente, ma gratificante, suprematismo morale e culturale, le scelte politiche risentono anche di interessi materiali. Per sconfiggere il disegno secessionista, è quindi decisivo un movimento tra struttura e sovrastruttura: in primo luogo, rianimare il sentimento di Patria e di comunità nazionale; in secondo luogo, ricordare alle classi dirigenti padane l'utilità di essere Italia unita piuttosto che, sempre più, colonia tedesca; infine, allentare la tensione tra vincolo interno e vincolo esterno, sia attraverso un piano per lo sviluppo del Mezzogiorno, sia mediante le forzature necessarie alla regolazione mercantilista dell'Unione europea e dell'eurozona.

Soltanto così, possiamo "chiamare" il bluff della Lega Nord per l'indipendenza della Padania. Soltanto così, possiamo sfidare nelle loro responsabilità "territoriali" i "portavoce" del M5S. Soltanto così possiamo ritrovare una distintiva funzione storica.


* Fonte: Huffington Post

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mercoledì 27 febbraio 2019

UN AIUTO PER LA SINISTRA PATRIOTTICA

[ 28 febbraio 2019 ]

In molti leggete SOLLEVAZIONE e condividete le idee, le analisi e le proposte di Programma 101.

La maggior parte di voi, pur approvando, chi con il cuore chi anche con la testa le nostre battaglie, resta alla finestra, non si decide a darci fattivamente una mano, raggiungendo le nostre file. Prevale, anche tra i nostri tanti simpatizzanti, il disincanto, la sensazione d’impotenza, l’idea che fare militanza politica rappresenti, oltre che un enorme sacrificio, una lotta impari, destinata allo scacco.


Il fardello dell’impegno resta dunque sulle spalle di alcune decine di militanti che resistono facendosi in quattro affinché la nostra voce non scompaia.
Ci vorrebbero più militanti, più attivisti, più sedi, più iniziative pubbliche, un giornale stampato da diffondere, potenziare la nostra presenza sul Web. Per tutto questo occorrono più mezzi. Tra questi mezzi il più importante sono i soldi, e di soldi non ne abbiamo. Non abbiamo infatti santi in paradiso, le sole risorse finanziarie di cui disponiamo vengono dai contributi volontari dei nostri aderenti. E sono risorse scarse che non ci permettono di fare di più e meglio.

Per questo abbiamo avviato una campagna di sottoscrizione per sostenere SOLLEVAZIONE e Programma 101. In diversi hanno già fatto la loro parte.

Cosa ci faremmo con i soldi che arriveranno dalla campagna di finanziamento è presto detto: vorremmo aprire un ufficio centrale e pubblicare un giornale mensile.

Ce la faremo? Dipende anche da voi, dalla vostra generosità.



SOTTOSCRIVI PER SOLLEVAZIONE E P101

ADESIONE DI P101 ALLA MANIFESTAZIONE DI ROMA

[ 27 febbraio 2019 ]

Contro il razzismo ma anche contro la trappola ideologica immigrazionista che vorrebbe far passare l'emigrare come un "diritto" mentre semmai lo è quello a restare nel proprio Paese. Per ribadire che l'emigrazione è la moderna tratta degli schiavi, funzionale sia al capitalismo occidentale a cui serve forza lavoro a basso costo, sia alle corrotte borghesie africane che incoraggiano l'esodo della gioventù per evitare le rivolte sociali.


Programma 101 aderisce alla manifestazione di sabato prossimo a Roma indetta da alcune comunità africane residenti in Italia e dal portavoce del Movimento panafricanista Mohamed Konaré.

Aderiamo condividendo le quattro parole d’ordine della protesta:

1. L’abolizione del FCFA, Franco delle colonie d’Africa francofone

2. La fine dello sfruttamento e del saccheggio delle risorse naturali dell’Africa

3. L’abolizione degli accordi coloniali

4. La fine dei colpi di Stato e degli assassini di presidenti e dirigenti africani che vogliono la libertà e la democrazia nei loro paesi.






In questo messaggio Konaré spiega le ragioni della manifestazione


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EURO: DISASTRO PER L'ITALIA (lo dicono i tedeschi) di Eros Cococcetta

[ 27 febbraio 2019 ]


CON L’EURO, NEL PERIODO 1999-2017, OGNI ITALIANO HA PERSO CIRCA 73.600 EURO E L’ECONOMIA NAZIONALE NEL SUO INSIEME HA ACCUMULATO PERDITE PER COMPLESSIVI 4.325 MILIARDI DI EURO.

Un importante articolo di Fabio LUGANO è stato pubblicato su “Scenari Economici”: scioccante ricerca del Cep: ogni italiano ha perso 73.600 euro con l’introduzione dell’euro e su Youtube: Euro-Truffa: Italia e Germania dopo 20 anni.

L’articolo in questione riprende un importante studio del Cep – “Centre for European Policy”, con sede a Friburgo (Germania). Il Cep è un gruppo di esperti di politica europea della fondazione senza scopo di lucro Stiftung Ordnungspolitik. E’ un centro di eccellenza indipendente per l'esame, l'analisi e la valutazione della politica della UE. Lo studio è stato effettuato dal Dr. Matthias KULLAS, capo del Dipartimento di economia e politica fiscale, e Alessandro GASPAROTTI, analista politico presso il Dipartimento di economia e politica fiscale.

Nello studio è stato calcolato quale è stato l’incremento o il decremento di reddito dovuto all’Euro per diversi Stati Eurozona e pro capite nell’anno 2017 e nel periodo dal 1999 (anno in cui furono adottati i cambi fissi) al 2017. I risultati sono a dir poco disastrosi per Italia e Francia mentre, invece, risultano estremamente positivi per Germania e Olanda, come risulta dalle seguenti tabelle e relativi commenti ripresi e tradotti dall’articolo del Cep, di cui si riportano alcuni passi principali:

Per ciascuno dei paesi esaminati della zona euro, la tabella 1 indica in euro quanto più alto o più basso il loro PIL pro-capite sarebbe stato nel 2017 (colonna 2) e nel complesso (colonna 3), se non avessero introdotto l'euro.

Nel 2017 solo la Germania e i Paesi Bassi hanno guadagnato dall’Euro.

In Germania, il PIL è aumentato di € 280 miliardi e il PIL pro capite di € 3.390.

L'Italia ha perso di più. Senza l'euro, il PIL italiano sarebbe stato più alto di 530 miliardi di euro, che corrisponde a 8.756 euro pro capite.

Anche in Francia l'euro ha comportato significative perdite di benessere per 374 miliardi di euro complessivi, che corrisponde a € 5.570 pro capite.

La tabella 2 mostra gli effetti dell'introduzione dell'euro sulla prosperità, pro capite (colonna 2) e nel complesso (colonna 3), per l'intero periodo dall'anno dell'introduzione - 1999 in tutti i paesi, tranne la Grecia (dal 2001 al 2017).




In Italia, quindi, l'introduzione dell'euro ha comportato un calo della prosperità di circa 74.000 euro pro capite o 4,3 trilioni di euro per l'economia nel suo insieme, nel periodo 1999-2017.

Per la Francia, la perdita è pari a quasi € 56.000 pro capite o € 3.6 trilioni rispettivamente.

La Germania ha conseguito un aumento della prosperità di € 23.000 pro capite e € 1.9 trilioni rispettivamente.

Il fatto che gli effetti dell'euro sulla prosperità in Grecia siano ancora positivi si spiega perché la Grecia ha guadagnato enormemente dall'euro nei primi anni dopo la sua introduzione. Questo è cambiato nel 2011 dopo la bolla, creata negli anni precedenti, scoppiata nel 2009. Da allora, l'euro ha avuto un’influenza negativa sulla prosperità greca.

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Conclusione: ad eccezione del 2004 e del 2005, la Germania ha beneficiato ogni anno dell’introduzione dell'euro, soprattutto dopo la crisi dell'euro nel 2011. Nel periodo 1999 - 2017, l'euro ha portato ad un aumento della prosperità in Germania di € 1.9 trilioni complessivi o € 23.116 pro capite.

Quindi, tra i paesi esaminati, la Germania ha guadagnato di più dall'euro.







Conclusione: in nessun altro paese di quelli esaminati l'euro ha portato a perdite così elevate di prosperità come in Italia. Le perdite sostenute dall'introduzione dell'euro ammontano a 4,3 trilioni di euro complessivi o 73.605 euro pro capite. Ciò è dovuto al fatto che il PIL pro capite italiano è rimasto stagnante dall'introduzione dell’euro.

L'Italia non ha ancora trovato un modo per diventare competitivo all'interno dell'eurozona. Nei decenni prima dell'introduzione dell'euro, l'Italia svalutava regolarmente la propria valuta per questo scopo. Dopo il introduzione dell'euro ciò non fu più possibile. Invece, erano necessarie riforme strutturali. La Spagna mostra come le riforme strutturali possono invertire la tendenza negativa di perdite sempre crescenti nella prosperità.


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Qualche commento a questi dati impressionanti. Senza queste perdite annuali, pro capite e complessive, quale sarebbe stato ora il PIL dell’Italia, ma anche l’occupazione, il reddito delle famiglie, il livello dei servizi pubblici, delle infrastrutture, della cura del territorio, della ricerca, ecc.? Sicuramente come PIL non avremmo raggiunto il Giappone (PIL 2017 = $ 4.872 Mld), ma forse la Germania si, considerati anche i vantaggi di cui ha beneficiato con l’euro (PIL 2017 = $ 3.677 Mld). Il PIL dell’Italia nel 2017 è stato di $ 1.935 Mld (€ 1.725 Mld).

Qui è disponibile un grafico, molto significativo, sull’andamento della bilancia commerciale dell’Italia e della Germania 16 anni prima e 16 anni dopo l’entrata in vigore dell’euro nel 2002 (dal sito www.ernestopreatoni.com). I danni prodotti dall’euro sono stati così gravi e duraturi che sembra quasi che l’Italia ha combattuto e perso una terza guerra mondiale.

Poi c’è il capitolo delle “riforme strutturali”, un argomento che sta molto a cuore a Mario Draghi (guarda caso). Lo studio del Cep, nel commentare i dati dell’Italia, definisce la Spagna un paese virtuoso perché avrebbe attuato “le riforme”, a differenza dell’Italia. Ma alla Spagna, dopo la crisi del 2008, è stato consentito di effettuare dei deficit mostruosi: 11% nel 2009, e poi in media il 10% nei 3 anni successivi (fino al 2012), senza disdegnare il 7 – 6 - 5,3 e 4,5% dal 2013 al 2016. Cioè le manovre strutturali della Spagna sono stati i deficit elevati, guarda caso proprio quelli che servirebbero ora all’Italia. Qualcuno potrebbe obiettare che la Spagna nel 2008 aveva un DP al 35%, molto basso, quindi poteva aumentarlo senza problemi (ora infatti è intorno al 100% del PIL). Una logica molto strana: se uno Stato sta bene ha diritto a stare meglio, mentre se uno Stato ha problemi seri non può fare nulla e deve, anzi, scivolare rapidamente verso il fallimento e, soprattutto, verso la svendita dei suoi beni alle élite finanziarie ed economiche. Sembra proprio che nella UE domini la logica degli avvoltoi.

La svalutazione della moneta non è una furbizia, come molti vogliono far credere, ma un adeguamento monetario assolutamente opportuno e legittimo nei rapporti commerciali con l’estero. E’ come mettere un dazio sulle importazioni e il volano alle esportazioni. In uno Stato sovrano che vuole tutelare gli interessi nazionali è una misura del tutto appropriata e legittima. E’ per questo che la Germania e la Francia ci tenevano tanto a farci entrare nell’euro, per legarci le mani dietro la schiena. E i nostri inqualificabili politici dell’epoca glielo hanno pure consentito. Ma per fare le svalutazioni competitive occorre avere la MONETA SOVRANA, da introdurre subito, visti gli effetti nefasti dell’euro.


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martedì 26 febbraio 2019

AQUISGRANA: LA FINE DELL'EUROPA POLITICA di Domenico Moro

[ 27 febbraio 2019 ]

Sul cosiddetto "Patto di Aquisgrana", data la sua importanza, siamo già intervenuti due volte: QUI e QUI. Ci torniamo con questo articolo ottimo di Domenico Moro


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Il 6 febbraio 2019 la commissaria alla concorrenza della Ue, Margrethe Vestager, ha bocciato la fusione tra Alstom e Siemens nel settore ferroviario. Immediatamente la Francia e la Germania hanno dichiarato che avrebbero dato avvio a un processo di revisione delle regole della concorrenza. Ben diverso è stato l’atteggiamento dei due Stati in occasione della fusione tra Fincantieri e Stx France, nella cantieristica. In questo caso la Francia, sostenuta immediatamente dalla Germania, ha chiesto alla commissione alla concorrenza di esaminare la fusione alla luce del regolamento sulle concentrazioni. Si tratta di un esempio che dimostra quanto l’Europa sia tutt’altro che un organismo unitario. La Ue, in realtà, è un sistema intergovernativo dove gli Stati non solo continuano ad esistere ma agiscono, sempre di più, secondo interessi e strategie nazionali. Al di là dei numerosi esempi in tal senso degli ultimi anni, specie dopo lo scoppio della crisi del debito pubblico, il Trattato di Aquisgana, siglato a gennaio dai governi di Francia e Germania, sancisce definitivamente l’inesistenza dell’Europa non solo come soggetto politico unitario, ma persino come terreno politico di coordinamento tra Stati.
La scelta della città di Aquisgrana ha una forte valenza simbolica. Infatti, Aquisgrana fu la capitale dell’Impero carolingio, che unì in uno stesso organismo politico Francia e Germania. Attorno al nucleo centrale composto da questi due Paesi, l’impero di Carlo Magno riuniva gli attuali Belgio, Olanda, Austria, Italia centrosettentrionale e Catalogna, insomma quello che ora è il nocciolo duro dell’area euro. Mentre l’Europa si scopre sempre più divisa su molte tematiche, e le divergenze economiche tra i Paesi si sono allargate sempre di più, la Francia e la Germania anziché lavorare, come vorrebbe la retorica europeista, ad una maggiore integrazione europea, si focalizzano sull’integrazione franco-tedesca con obiettivi e istituzioni proprie.
Infatti, all’art. 20 del cap. V si dichiara che il fine dell’integrazione è la creazione di “una zona economica franco-tedesca con regole comuni”, la cui attuazione è coordinata dal Consiglio economico e finanziario franco-tedesco. Inoltre, sono previste la riunione del Consiglio dei ministri francesi e tedeschi, una volta l’anno, e la partecipazione di un membro del governo di uno dei due stati, almeno una volta ogni trimestre e alternativamente, al Consiglio dei ministri dell’altro Stato.
Per la verità le norme del trattato, oltre che stabilire una integrazione economica e culturale tra i due Paesi, rappresentano una vera e propria alleanza di politica estera e militare. In primo luogo, Francia e Germania, come detto, sanciscono, con la loro aspirazione a egemonizzare la Ue, l’inesistenza della Ue come organismo di stati posti su un piano di parità. Infatti, i due contraenti stabiliscono (Cap. I, art. 2) “di definire, prima dei grandi eventi europei, posizioni comuni e di concordare dichiarazioni coordinate dei rispettivi ministri”. In questo modo, il blocco franco-tedesco acquista un potere di condizionamento enorme sulle scelte europee, che vengono predeterminate.
Il senso politico dell’accordo: lo scambio tra Germania e Francia
Mentre il precedente punto del Trattato in qualche modo formalizza, pur aggravandola, una situazione già esistente de facto, l’aspetto forse più innovativo è quello militare. All’articolo 4 del capitolo II si dice: “Essi [Francia e Germania] si prestano reciprocamente aiuto e assistenza con tutti i mezzi a loro disposizione, comprese la forze armate, in caso di aggressione armata contro il loro territorio”. Tale specificazione non sembrerebbe avere una particolare giustificazione, dal momento che l’art. 51 del Trattato sul funzionamento della Ue già prevede una tale assistenza, però senza fare esplicito riferimento all’impiego delle forze armate; soprattutto tale norma appare curiosa, dal momento che entrambi gli stati fanno parte della Nato, una alleanza militare di assistenza reciproca in caso di aggressione, e che la Germania ospita diverse basi militari americane.
Ma non basta: “i due stati agiscono congiuntamente, ogniqualvolta possibile, conformemente alle rispettive norme nazionali, per mantenere la pace e la sicurezza (…) si impegnano a rafforzare ulteriormente la cooperazione tra le loro forze armate al fine di stabilire una cultura comune e di effettuare spiegamenti congiunti. Essi stanno intensificando lo sviluppo di programmi comuni di difesa e la loro estensione ai partner”. A questo proposito, l’integrazione tra Francia e Germania è in stato avanzato. I due paesi stanno perfezionando l’accordo per un nuovo carro armato e soprattutto per un nuovo caccia. Per questa ragione la Germania, su richiesta della Francia, ha escluso lo statunitense F-35 dall’asta per la sostituzione del Tornado, con l’immaginabile irritazione degli Usa e per la felicità dell’industria aeronautica francese, che rappresenta uno dei pochi settori ancora forti della manifattura d’oltralpe. Anche in questo caso, l’accordo è sancito da una istituzione ad hoc: “I due Stati istituiscono il Consiglio franco-tedesco per la difesa e la sicurezza quale organico politico per orientare questi impegni reciproci” (art. 4).
Il senso del Trattato di Aquisgrana consiste certamente in un accordo per il controllo delle decisioni Ue, ma anche in un vero scambio politico più complessivo tra gli Stati della Francia e della Germania. La Germania sostiene la Francia sia dal punto di vista economico sia dal punto di vista della sua politica estera in Africa. Non dimentichiamo che se lo spread francese è più basso di quello italiano, a dispetto dei fondamentali non certo migliori (alto debito commerciale con l’estero, mentre l’Italia ha un surplus consistente; più alto debito delle famiglie e delle imprese e più alto deficit pubblico dell’Italia), è anche perché la Germania acquista i titoli di stato francesi. Inoltre, la Francia è un paese deindustrializzato e con una economia sempre più dipendente dall’espansione esterna, cioè basata sugli investimenti esteri di capitale. Soprattutto è dipendente da una politica di espansione in Africa, dove il suo interventismo politico, economico e militare è aumentato in questi ultimi anni. L’appoggio tedesco alla politica imperialista francese in Africa è sancito all’art. 7 del capitolo II, dove i due stati prevedono esplicitamente l’intervento militare congiunto, impegnandosi alla “prevenzione dei conflitti, risoluzione delle crisi, anche nel mantenimento della pace e gestione delle situazioni postbelliche”.
In cambio dell’appoggio tedesco, la Francia, oltre a confermare il suo sostegno alla Germania nelle decisioni europee, le permette di uscire dalla sua condizione di gigante economico e nano politico-diplomatico e militare. Dopo il 1945 nessun sistema militare è credibile senza “dissuasione nucleare”. Ora, con questo trattato, la Germania, che non ha né è in condizioni di dotarsi di armi nucleari, si pone sotto la copertura di quelle della Francia. Altrettanto importante è il raggiungimento di uno status diplomatico di grande potenza. In quanto potenza sconfitta ed erede morale del nazismo, la Germania è stata esclusa dall’importante ruolo di membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, come l’Italia e il Giappone, malgrado fosse stato membro permanente, come l’Italia e il Giappone, del consiglio della Società delle nazioni fino al 1933. Suo obiettivo è ritornarci, tanto che qualche mese fa il vice-cancelliere tedesco aveva addirittura caldeggiato la cessione del seggio permanente della Francia alla Ue. Con il Trattato, invece, la Francia si impegna a far entrare la Germania come membro permanente (art. 8).
Il significato del Trattato di Aquisgrana è negativo sia per gli Usa sia per gli altri Paesi europei, in particolare per l’Italia. L’appoggio della Francia alla candidatura tedesca al Consiglio di sicurezza è uno schiaffo in faccia alla strategia diplomatica italiana che ha sempre cercato di utilizzare la via europea per accedere al Consiglio, battendosi per un seggio permanente alla Ue. Inoltre, l’accordo franco-tedesco, oltre a dissolvere le illusioni italiane di una alleanza con la Francia per ottenere modifiche ai trattati, la mette in una posizione di maggiore debolezza. Una debolezza che si manifesta non solo all’interno dell’Europa ma anche nel quadrante africano, dove l’Italia confligge permanentemente con la Francia e dove si sta ancora leccando le ferite dell’aggressione francese alla Libia, quello che in qualche modo era un suo “protettorato” economico. I contrasti degli ultimi mesi tra il governo giallo-verde e il governo Macron nascondono, dietro le polemiche sugli immigrati, i gilet verdi, il franco Fca, e il richiamo dell’ambasciatore francese, la concorrenza tra i due Stati a livello internazionale e soprattutto africano.
Il Trattato e il disvelamento della vera natura dell’integrazione europea
Per concludere, questo Trattato non è assolutamente in contraddizione con i Trattati europei né con le istituzioni dell’euro, dimostrando quanto ho sostenuto più volte, ad esempio ne La gabbia dell’euro. La Ue e l’euro non hanno eliminato lo Stato nazionale, perché solamente alcune delle sue importanti funzioni, il bilancio e la moneta, sono state alienate al livello sovranazionale, mentre le altre funzioni decisive dello Stato – il monopolio della forza e la politica estera – rimangono saldamente nelle sue mani. Questa apparente contraddizione è coerente con le ragioni di classe – la difesa degli interessi del grande capitale internazionalizzato – che stanno dietro l’integrazione europea: da una parte, mediante la Ue e l’euro, aggirare il controllo democratico sulle decisioni di politica economica, e, dall’altra parte, mediante lo Stato nazionale, continuare a usare dello strumento della forza e della politica estera per l’espansione all’estero. Nelle sue funzioni della forza e della politica estera, lo Stato nazionale francese e tedesco viene persino rafforzato, come dimostra egregiamente proprio il Trattato di Aquisgrana, che, a scanso di equivoci, non va inteso come una misura propedeutica all’unificazione tra Francia e Germania, sulla cui base possa fondarsi una unità politica europea.
Al contrario, il Trattato è il matrimonio di interesse tra due stati distinti con obiettivi diversi ma convergenti. Né, per le stesse ragioni, rappresenta la base di un imperialismo europeo autonomo. Esso è, piuttosto, il tentativo di rafforzamento dell’imperialismo francese e soprattutto sancisce la pericolosa rinascita della Germania come grande potenza. Lo scopo è controllare il processo decisionale europeo e sostenersi l’un l’altro nei confronti sia degli altri Stati europei sia delle potenze extra-europee, a partire proprio dall’alleato statunitense, che, soprattutto con la presidenza Trump, non ha mai mancato di rinfacciare all’Europa il suo scarso contributo alle spese della Nato e alla Germania il suo eccessivo surplus commerciale. Il punto è la rinascita di un contrasto neoimperialista tra Stati, anche a causa di una crisi del sistema capitalistico che non vuole passare, di una globalizzazione sempre più spinta e di una competizione sempre più accesa tra capitali.
È illusorio continuare a invocare più Europa contro gli stati nazionali, perché l’Europa non esiste né può esistere, visto che una modifica dei trattati può essere fatta solo all’unanimità e che l’integrazione europea è stata costruita dalle fondamenta con certe caratteristiche, cioè come sistema intergovernativo e interstatale. In caso contrario, un accordo come il Trattato di Aquisgrana non sarebbe stato concepibile. Soprattutto invocare più Europa è suicida. È stata proprio l’Europa ad aver risvegliato o accentuato il nazionalismo e la dinamica imperialista degli Stati. Più Europa, nelle attuali condizioni, significherebbe la realizzazione di un superstato in funzione imperialista. Del resto, l’euro, aumentando le divergenze tra i vari Paesi e contraendo i mercati domestici, accentua la spinta a espandersi all’estero e, come suo derivato, la concorrenza tra capitali e la competizione tra stati. Per queste ragioni, non può esistere non solo una politica di crescita dell’occupazione e dei salari, ma neanche una strategia realistica di lotta per la pace e contro l’imperialismo che non inserisca al suo interno, in una posizione centrale, il tema del superamento dell’euro e di Trattati.

HA RAGIONE DA VENDERE

[ 26 febbraio 2019 ]

Come si fa a non essere d'accordo con quanto afferma e denuncia MOHAMED KONARÉ?








IL REGIONALISMO, IL CAOS E L'UNITÀ NAZIONALE di Leonardo Mazzei

[ 26 febbraio 2019 ]

«Se passasse il regionalismo differenziato l'Italia diventerebbe, come disse il Metternich nel 1847, una mera "espressione geografica"...»

Questa del Mazzei è senza dubbio la migliore analisi critica del cosiddetto "regionalismo differenziato".




* * *
Diciamo le cose come stanno: con il fallimento del Consiglio dei ministri del 14 febbraio il cosiddetto "regionalismo differenziato" è stato messo su un binario morto. Per ora è solo un rinvio, ma adesso fermarlo è possibile. Lo stop imposto dai ministri M5S alle richieste di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna non è dunque roba di poco conto.
La scadenza di metà mese sembrava quella del giudizio divino: o il progetto passava, o il governo cadeva. Così tuonava Giorgetti all'inizio dell'anno, puntualmente rilanciato dai capibastone della Lega nordista. E invece, né l'una né l'altra cosa. Bene, anzi benissimo, a condizione che il dibattito che si è finalmente aperto conduca al definitivo affossamento del disegno in questione.



Quel che è incredibile è come in tanti ancora non si rendano conto della posta in gioco, che non è solo lo spostamento delle risorse dalle regioni più povere a quelle più ricche — che già di per sé griderebbe vendetta —, ma l'avvio di un processo disgregativo potenzialmente in grado di minare la stessa unità nazionale. Il tutto per la gioia dei potentati euro-tedeschi che non potrebbero chiedere di meglio.

Sulla materia la confusione è tanta. Proviamo perciò a mettere un po' di ordine, affrontando sette questioni: 
1) che cos'è il "regionalismo differenziato"; 2) da dove arriva, ovvero il problema di una Costituzione "incostituzionale"; 3) cosa chiedono le tre regioni del nord; 4) il trucco dei "fabbisogni standard"; 5) la truffa dei "residui fiscali primari"; 6) il caos di un regionalismo "fai da te"; 7) un  secessionismo di fatto che farebbe il gioco dell'oligarchia eurista.

1. Regionalismo: più che "differenziato" totalmente incasinato

Che cos'è dunque il "regionalismo differenziato"? E' il percorso, che teoricamente può essere attivato da ogni Regione, per ottenere più autonomia in ben 23 materie fissate dall'art. 117 della Costituzione, così come modificato con la (contro)riforma del 2001.

Se la Regione muove il primo passo, il secondo compete allo Stato (di fatto al governo del momento), chiamato ad una trattativa con la regione richiedente al fine di raggiungere un accordo da sottoporre poi al voto del parlamento, la cui approvazione è valida solo se viene raggiunta la maggioranza assoluta dei membri di ognuna delle due camere.

Come si può ben capire siamo qui di fronte ad una sorta di "trattativa privata", il cui esito dipenderà dagli orientamenti e dal colore politico sia della Regione che del governo in quel dato momento. Tutto questo perché nell'art. 116, anch'esso modificato nel 2001, non sono previsti criteri generali, norme o limiti vincolanti. Tutto è invece lasciato all'iniziativa regionale ed al suo eventuale accoglimento da parte dello Stato.

Abbiamo così che alcune regioni potrebbero chiedere maggiore autonomia in 23 materie, altre in dieci o quindici, mentre altre ancora potrebbero non richiedere affatto nuovi poteri. Di più: siccome ogni materia è costituita da un certo numero di funzioni da trasferire, avremo chi ne chiederà 30, altri 50, altri ancora 100. E siccome ad ogni funzione corrispondono dei costi, ecco che la partita dei "fabbisogni", dunque delle risorse economiche da trasferire e poi da trattenere, si farà più o meno alta a seconda dei casi.

Gli esempi di cui sopra non sono semplici casi di scuola. Ad esempio Veneto e Lombardia chiedono più poteri in tutte le 23 materie, l'Emilia Romagna in 15. Ma altre cinque regioni (Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Marche) sono in rampa di lancio. Alcune di queste richieste ancora non sono chiare, ma si parla comunque di una media di otto/dieci materie a regione.

Ci fermiamo qui, dato che questi esempi ci dicono l'essenziale: quel che ne viene fuori, più che un "autonomismo differenziato", ha proprio le mostruose sembianze di un regionalismo incasinato che sembra avere l'unico scopo di mandare a gambe all'aria lo Stato unitario.

2. Una Costituzione "incostituzionale"?

Ma da dove è arrivata questa ventata di follia? Nella più ampia cornice di messa in discussione degli Stati nazionali, il regionalismo esasperato è un potente strumento in mano ad élite che puntano da sempre allo "Stato minimo" liberal-liberista. Ma veniamo all'Italia. Un ventennio fa, mentre la Lega Nord oscillava tra posizioni autonomiste e spinte marcatamente indipendentiste, ecco la trovata del centrosinistra nel 2001: la famigerata riforma del Titolo V della Costituzione messa a segno dai governi D'Alema ed Amato.

Quella riforma dava più poteri alle Regioni, legittimava il federalismo fiscale e poneva le basi giuridiche e costituzionali a quel che sta avvenendo oggi. Mentre nella Costituzione del 1948 (leggi qui l'art. 117) erano chiaramente indicate le 18 materie di competenza regionale, nel pasticciaccio del 2001 si introduceva l'assurdo principio della "legislazione concorrente"

«Sono materie di legislazione concorrente quelle relative a: rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni; commercio con l’estero; tutela e sicurezza del lavoro; istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione della istruzione e della formazione professionale; professioni; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; alimentazione; ordinamento sportivo; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; ordinamento della comunicazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; previdenza complementare e integrativa; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; valorizzazione dei beni culturali e ambientali e promozione e organizzazione di attività culturali; casse di risparmio, casse rurali, aziende di credito a carattere regionale; enti di credito fondiario e agrario a carattere regionale». 
Al di là della follia della "legislazione concorrente", questo elenco è importante, perché sono queste le materie oggetto del passaggio dei poteri dallo Stato alle regioni richiedenti, cui se ne aggiungono addirittura altre tre (organizzazione giustizia di pace, norme generali sull'istruzione, tutela dell'ambiente e dei beni culturali) anch'esse sottraibili alla competenza dello Stato, che pure viene affermata al secondo comma dell'art. 117.

Dopo aver parlato delle Regioni a statuto speciale, così recita infatti l'art. 116 (versione 2001) al terzo comma: 
«Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata».
Ecco che la frittata è fatta. Quella che è stata definita come la "secessione dei ricchi" ha certamente la Lega come principale forza promotrice, ma ha una base giuridica scritta a chiare lettere nella Costituzione dal centrosinistra. Una Costituzione di fatto stuprata nel 2001, con un Titolo V in palese contraddizione con il suo spirito originario, ed in particolare col principio di uguaglianza (art. 3).

Siamo così arrivati, diciamolo in un modo solo apparentemente paradossale, ad una sorta di "Costituzione incostituzionale", il cui snaturamento è proseguito nel 2012 (governo Monti) con la modifica dell'art. 81 che sancisce il pazzesco vincolo del pareggio di bilancio.

Ma, tornando al "regionalismo differenziato", è chiaro come esso collida anche con il principio perequativo pure previsto all'art. 119. Abbiamo quindi la schizofrenia di uno
Stato che mentre con una mano dovrebbe favorire le differenziazioni, dunque le regioni più ricche; con l'altra dovrebbe invece compensare quelle più povere. Inutile dire che un simile pasticcio andrebbe cancellato al più presto. In caso contrario il caos, dunque il disfacimento dell'unità nazionale, non potrà che progredire rapidamente.

I nomi di chi ha creato questo guazzabuglio li abbiamo già fatti. Politicamente, destra e centrosinistra ne sono ugualmente responsabili. Non è un caso che l'arma dell'art. 116 sia già stata impugnata sia da regioni guidate dalla destra, che da altre governate dal centrosinistra.

3. Cosa chiedono Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna?

Abbiamo già visto come le richieste di queste tre regioni siano parzialmente diverse, ma tutte ugualmente pesanti. Veneto e Lombardia chiedono praticamente il massimo. Si veda qui, ad esempio, la bozza del Veneto. 

Tra i temi più rilevanti, oggetto della trattativa tra Stato e Regioni, basti pensare all'energia, alle grandi infrastrutture, ai beni ambientali e culturali, alla richiesta di regionalizzazione delle casse di risparmio e delle ferrovie locali. 

Particolarmente pesante il capitolo riguardante la scuola (art. 10), che se passasse condurrebbe di fatto ad una regionalizzazione dell'istruzione, dalla programmazione scolastica all'assunzione degli insegnanti, dalla gestione del personale ai livelli retributivi, ponendo così le premesse per la differenziazione tra scuole di serie A (nelle regioni più ricche) e di serie B (nelle altre).

Andrebbe così a farsi benedire il fondamentale principio del diritto all'istruzione, da garantire in primo luogo proprio ai soggetti più deboli, anche con interventi perequativi nelle aree più svantaggiate. Con il "regionalismo differenziato" questo principio verrebbe non solo negato, ma addirittura rovesciato.

Anche se non tutte le regioni lo fanno in maniera sfacciata, ed altre addirittura lo negano ipocritamente, il vero movente delle iniziative in atto è chiaro: avere più soldi oltre che più poteri. Il tutto in base al principio anti-solidaristico secondo cui le tasse dovrebbero alla fine restare nei territori dove sono state versate, cancellando così una volta per tutte l'utilizzo della leva fiscale come strumento di redistribuzione della ricchezza, dunque la funzione dello Stato come fattore di perequazione e di coesione sociale e territoriale.

Naturalmente questo meccanismo di rapina viene tenuto largamente nascosto all'opinione pubblica. Per far ciò si è inventata un'apposita terminologia. Stiamo parlando del trucco dei "fabbisogni standard" (che vedremo al prossimo punto 4) e della truffa dei "residui fiscali primari", che esamineremo al punto 5.

4. Il trucco dei "fabbisogni standard"

Se la richiesta del riconoscimento delle spese sostenute per le funzioni trasferite è ovvia e naturale, il passaggio decisivo è quello dai "fabbisogni storici" (ciò il costo effettivamente sostenuto dallo Stato in ogni regione per assolvere un determinata funzione) ai nuovi "fabbisogni standard", vera chiave di volta dei privilegi che si vogliono ottenere.

Secondo tutte le bozze, fortunatamente per ora deragliate sul binario morto di cui abbiamo parlato all'inizio, la determinazione dei "fabbisogni standard" dovrebbe avvenire entro un anno dall'entrata in vigore della legge. Ma come dovrebbero essere definiti questi "fabbisogni"? 

Qui è utile fare un passo indietro. E' il 28 febbraio 2018, mancano 4 giorni al voto che li caccerà dalle stanze del potere, ma gli uomini del governo Gentiloni hanno da compiere la loro ultima missione prima di riempire gli scatoloni per il trasloco. E a cosa si dedicano? Ovviamente al regionalismo differenziato. E così, con la firma del sottosegretario agli
Affari Regionali, Gianclaudio Bressa, vengono sottoscritti in fretta e furia gli Accordi preliminari con i governatori di VenetoLombardia ed Emilia Romagna.

Sulla questione delle risorse economiche e dei "fabbisogni standard" questi tre documenti sono identici. Il tentativo del governatore emiliano, Bonaccini, di presentarsi come fautore di un "regionalismo buono", diverso da quello anti-solidale del veneto Zaia, è dunque destituito di ogni fondamento.

Cosa dicono i tre accordi sul punto? Leggiamo: 
«Progressivamente, entro cinque anni (i fabbisogni standard, ndr), dovranno diventare, in un'ottica di superamento della spesa storica, il termine di riferimento, in relazione alla popolazione residente e al gettito dei tributi maturati nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali».
Ci sono qui quattro concetti decisivi, quelli da noi sottolineati in grassetto. Il primo indica chiaramente l'obbiettivo di arraffare più risorse, il secondo ed il terzo ci dicono come, il quarto ci rimanda alla truffa concettuale di cui ci occuperemo al punto successivo.

Le bozze presentate dalla ministra Stefani il 14 febbraio scorso (leggi QUIQUI QUI) ricalcano alla lettera gli Accordi sottoscritti con il governo Gentiloni, ma per la determinazione dei "fabbisogni standard" scompare — per ora — il riferimento al «gettito dei tributi maturati nel territorio regionale». Diciamo per ora, perché l'esatta definizione dei "fabbisogni standard" è demandata ad un apposito comitato Stato-Regioni da istituirsi una volta approvata la legge.

In ogni caso quel che resta nelle "Bozze Stefani" basta ed avanza per disegnare l'avvio in grande stile del "secessionismo dei ricchi". Al comma 1 dell'art. 5 si legge che:
«Decorsi tre anni dall’entrata in vigore dei decreti di cui all’art. 4 comma 1, qualora non siano stati adottati i fabbisogni standard, l’ammontare delle risorse assegnate alla Regione per l’esercizio delle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia di cui alla presente intesa non può essere inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale per l’esercizio delle stesse».
Il riferimento alla popolazione residente, e dunque al «valore medio nazionale pro-
capite», potrebbe sembrare neutrale e perfino equo, ma così non è. Il trucco sta nel fatto che i costi pro-capite dei servizi e delle funzioni è mediamente più basso nelle regioni pianeggianti e maggiormente popolate (com'è appunto il caso di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna), rispetto a quelle montuose e meno popolate. E' evidente, ad esempio, che organizzare il trasporto pubblico, la sanità o la scuola ha costi pro-capite ben diversi in realtà cosi differenti tra loro. Chiedere l'applicazione del valore medio nazionale è quindi un modo per ottenere di più a discapito delle regioni più povere.

Ci viene qui in soccorso il Sole 24 Ore del 16 febbraio, secondo il quale il pacchetto delle funzioni potenzialmente trasferibili alle tre regioni vale 21 miliardi annui. Ma, visti gli stop arrivati dai ministri M5S sulle materie di loro competenza, la partita si ridurrebbe ad 11 miliardi. Di questi, il 74% (pari ad 8,4 miliardi) riguarderebbe la scuola. Ebbene, applicando solo a questa materia il criterio del riferimento al valore medio nazionale pro-capite, il Veneto e la Lombardia otterrebbero di botto 1 miliardo di euro in più all'anno. 

Ma non pensiamo che questo gli basti. Pur scomparso per ora come elemento per la determinazione dei "fabbisogni standard", il riferimento al gettito dei tributi maturati sul territorio regionale riemerge ossessivamente nella "Bozza Stefani". Al comma 3 del già citato art. 5, chiarendo come dovrebbe funzionare il finanziamento delle nuove competenze riconosciute alle tre regioni, si precisa che esso avverrebbe: 
a) con la «compartecipazione al gettito maturato nel territorio regionale dell'imposta sui redditi delle persone fisiche e di eventuali altri tributi erariali» e b) con «aliquote riservate, nell'ambito di quelle previste dalla legge statale, sulla base imponibile dei medesimi tributi riferibile al territorio regionale». Come se questo non fosse già abbastanza la "Bozza" (comma 4, art.5) sancisce che: «l'eventuale variazione di gettito maturata nel territorio della Regione» dei tributi di cui sopra «è di competenza della Regione».
Si dice che con questo dispositivo l'obiettivo del governatore veneto Zaia sia quello di arrivare a trattenere in regione il 90% dei tributi. E pensare che a qualcuno la questione sembra secondaria rispetto ai temi quotidianamente trattati dal circo mediatico, tipo il "processo" a Salvini, l'arresto dei Renzi, il funzionamento della "piattaforma Rousseau" e chi più ne ha più ne metta.  

Concludendo sul punto, qui l'importante è capire come — contrariamente a quel che qualcuno vorrebbe far credere — il "regionalismo differenziato" punti, e con decisione, ad un micidiale trasferimento di risorse verso le regioni più ricche. Da segnalare in particolare il trucco semantico dei "fabbisogni standard", dove la parola "standard" va a definire non una norma generale, come comunemente si intende, bensì una regola da applicarsi in maniera differenziata ad ogni regione in base alla rispettiva ricchezza di ciascuna di esse. Si codifica così, peraltro tramite una legge ordinaria, che lo standard della sanità o della scuola nelle regioni del nord potrà essere superiore, notevolmente superiore, a quello del sud. Qui qualcuno osserverà che nei fatti è già così adesso: vero, ma con il "regionalismo differenziato" si andrebbe a legalizzare questa situazione, per giunta accentuandola notevolmente con i meccanismi che abbiamo visto.

5. La truffa dei "residui fiscali primari"

Per giustificare questa operazione si ricorre ai soliti discorsi sull'efficienza, od addirittura
sui diversi livelli di corruzione nelle varie aree del Paese. Come dire: noi del nord siamo più bravi, datevi una mossa anche voi al sud e vedrete che le differenze si appianeranno. Oddio, viste le vicende giudiziarie dei più importanti governatori lombardo-veneti, da quel Maroni che regnava prima dell'attuale Fontana, all'insuperabile "CelesteRoberto Formigoni, fino al predecessore di Zaia, Giancarlo Galan, tutte queste nordiche virtù paiono un po' dubbie. Ma c'è un altro argomento che va per la maggiore: quello del cosiddetto "residuo fiscale primario".

Nelle "Bozze" non se ne parla, probabilmente perché si presterebbe ad un immediato ricorso alla Corte Costituzionale, ma il tema riemerge di continuo. Ed è inevitabile che sia così, dato che è questa la base di ogni ragionamento fiscale basato sul «gettito dei tributi maturati nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali», come scritto negli Accordi preliminari del febbraio 2018.

Come chiarisce Sergio Marotta, citando Giannola e Stornaiulo, concettualmente non esiste invece alcun residuo fiscale primario:
«La "secessione dei ricchi" si baserebbe, in realtà, su un equivoco consistente nel ritenere effettivamente esistente nelle pieghe del bilancio dello Stato un residuo fiscale a favore di alcune Regioni e, in particolare, della Lombardia, del Veneto e dell’Emilia-Romagna. Il residuo fiscale, infatti, sarebbe nient’altro che la "differenza tra l’ammontare di risorse (sotto forma di imposte pagate dai cittadini) che lo Stato centrale riceve dai territori e l’entità della spesa pubblica che lo stesso eroga (sotto forma di servizi) a favore dei cittadini degli stessi territori". Secondo Giannola e Stornaiuolo, da un punto di vista di contabilità pubblica, saremmo di fronte a un equivoco perché in uno Stato unitario non ci sono residui fiscali dal momento che il rapporto fiscale si svolge tra il cittadino e lo Stato e non con lo specifico territorio di residenza dei soggetti che pagano le imposte». 
Di più, aggiungiamo noi: anche qualora l'Italia fosse uno stato federale la richiesta nordista non si reggerebbe in piedi. Questo perché quando si parla di «gettito tributario maturato sul territorio regionale» ci si riferisce in primo luogo ad Irpef ed Iva, tasse che negli stati federali sono chiamate appunto "federali", cioè destinate allo Stato centrale. 

C'è poi l'altra faccia della medaglia. Purtroppo il nostro Paese, pur non essendo uno stato federale, conosce ormai da tanto tempo una multiforme varietà di quel federalismo fiscale (regionale e municipale) che prese piede negli anni '90 del secolo scorso, su sollecitazione della Lega Nord ma non solo. Attraverso queste tasse locali le regioni e i comuni più ricchi godono già oggi di privilegi enormi rispetto alle aree interne, ai centri più piccoli, alle regioni del sud.

E' questo un fatto di cui spesso ci si scorda. Ma Imu, Irap, Tasi, addizionali Irpef (regionali e comunali), cosa sono se non tasse locali che aumentano di fatto già ora le sperequazioni territoriali? Quanto pesino queste tasse ce lo dice il Bollettino delle Entrate tributarie del Mef. 

Nell'anno 2017 (l'ultimo disponibile) l'addizionale regionale Irpef ha fruttato 11,9 miliardi (md) di euro, quella comunale 4,4 md. Mentre le regioni hanno incassato 23,6 md con l'Irap, la quota di competenza dell'Imu ha portato nelle casse comunali 16 md netti, a cui si aggiungono 1,2 md della Tasi. Nel complesso la bellezza di 57,1 md, di cui 35,5 alle regioni e 21,6 ai comuni. Non proprio una bazzecola! 

Insomma, può piacere oppure no, ed a noi non piace affatto, ma il federalismo fiscale in Italia c'è già da tempo. E proprio non si sente il bisogno di un'ulteriore virata in quella direzione.

Ma c'è un altro punto della massima importanza. Anche volendo ammettere il concetto di "residuo fiscale primario", e noi non lo ammettiamo affatto ed il perché ce lo dice la Costituzione e ce l'ha ben spiegato Marotta, i conti sono truccati. Il fatto è che le tabelle che vengono diffuse conteggiano soltanto il saldo tra entrate e spese pubbliche di ogni regione, mentre lasciano fuori dal computo il valore degli interessi riscossi nelle stesse dai possessori dei titoli del debito pubblico. Questa voce rappresenta chiaramente una spesa per lo Stato ed un'entrata per i titolari. Dunque, se proprio vogliamo calcolare il bilancio fiscale regionale, essa va invece inclusa nel conteggio.

Cosa accadrebbe includendola ce lo dice il presidente della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno) Adriano Giannola, citato dal Corriere Economia del 28 gennaio scorso:
«Nel saldo tra entrate e spese pubbliche si omette di includere l'onere per gli interessi che lo Stato corrisponde ai titolari del debito pubblico (famiglie e imprese, banche, ecc) di quelle regioni. Se al residuo fiscale si sottrae l'incasso degli interessi, la Lombardia passa dai 40 miliardi pretesi a meno di 13 miliardi. Il Veneto e l'Emilia Romagna, da oltre 12 e oltre 11 miliardi a circa 2».

Ecco così svelato il trucco degli inaccettabili «residui fiscali primari», ecco così ridimensionata la loro effettiva consistenza. 

6. Il caos di un regionalismo "fai da te"

Chiarite le questioni fiscali, torniamo ora agli aspetti propriamente politici. Anche un bambino capirebbe che non si può cambiare in questo modo la forma dello Stato. Qualora si volesse davvero il passaggio ad un modello federalista servirebbe una modifica costituzionale profonda, da realizzarsi in forma organica, non contraddittoria e
pasticciata come avvenuto nel 2001. Ma a quel punto servirebbe una vera assemblea costituente, eletta con un sistema rigorosamente proporzionale.

In ogni caso, qualora la maggioranza degli italiani volesse davvero dare più poteri alle regioni — cosa di cui dubitiamo assai — ciò dovrebbe avvenire con un precisa idea dello Stato e della società. Con la (contro)riforma del 2001 abbiamo invece almeno tre tipi di regione: le 5 a statuto speciale, quelle a statuto ordinario che chiedono ed ottengono più poteri in base all'art. 116, quelle che non li chiedono.

Ma, dato che ogni regione può avanzare richieste differenziate da tutte le altre, questa tripartizione è il minimo che possa avvenire. E già oggi, con i casi di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna è così. In ipotesi, escluse le cinque a statuto speciale, potremmo perfino arrivare a 15 regioni ognuna diversa dall'altra.

Il regionalismo "fai da te" prefigura dunque un caos che solo dei folli potrebbero augurarsi, ma ovviamente c'è del metodo in questa follia.

7. Un  secessionismo di fatto che farebbe il gioco dell'oligarchia eurista

E' evidente come il dispiegarsi di questo disegno porterebbe con sé una crisi esistenziale dello Stato nazionale. Nulla di più bello, indubbiamente, per i neoliberisti delle
istituzioni, della cultura dominante, dell'informazione al loro servizio. E nulla di più eccitante per le oligarchie finanziarie come per gli anarco-capitalisti di ogni risma.

I più felici, però, sarebbero certamente gli ottimati dell'aristocrazia eurista, specie quelli con domicilio a nord delle Alpi. Per costoro se l'Italia andasse in pezzi sarebbe la fine di tanti problemi. Se poi lo spezzatino portasse in dote il nord del Paese all'asse Carolingio a dominanza tedesca, lasciando il sud nelle mani di un capitalismo straccione ed in parte malavitoso, tanto di guadagnato.

L'Italia tornerebbe così ad essere una mera "espressione geografica", come disse il Metternich nel 1847. E la sua normalizzazione politica sarebbe cosa fatta.

Del resto, se esiste una possibilità su un milione di arrivare davvero all'incubo del super-Stato europeo, la strada non può essere che quella della disgregazione degli stati nazionali, da sostituirsi con una moltitudine di regioni prive di vera sovranità.

E' questa un'idea ricorrente - anche se ad oggi decisamente fallimentare - delle èlite europee. Significativo ad esempio quel che diceva Romano Prodi nel 2014. L'intervistatore gli chiede: 
«Lei crede che sia possibile un’Europa delle Regioni in un momento in cui la crisi economica, almeno in Italia, sembra gonfiare le vene di un nuovo centralismo statale?». Ecco la sua illuminante risposta: «Oggi c’è un’Europa degli Stati. Attenzione però: la contrapposizione vera non è tra Europa degli Stati e Europa delle Regioni, ma tra un’Europa guidata da un’autorità sovranazionale molto forte, cioè un’Europa federale, e un’Europa delle nazioni. Non vedo le Regioni in contrapposizione a un’Europa federale, due regioni non fanno uno Stato nuovo».
Dunque, secondo il mortadella-pensiero, gli Stati sono il male, le Regioni sono il bene. Ma questo pensiero disgregazionista non è certo del solo Prodi. Al quale va semmai riconosciuto il merito di parlar chiaro, rivelando quale sia il vero sentimento dei tecnocrati di Bruxelles, e chiarendo al tempo stesso come il regionalismo esasperato - di fatto un secessionismo sotto mentite spoglie - non sia certo patrimonio esclusivo della destra leghista.  

Conclusioni

Che dire in conclusione? L'abbiamo già fatta troppo lunga e chiudiamo limitandoci a tre punti.

In primo luogo, il dato politico è piuttosto chiaro: qualora passasse il principio del "regionalismo differenziato", anche se in una prima fase parzialmente annacquato, si avvierebbe di fatto un processo disgregativo quasi impossibile poi da fermare. Lo stop imposto dai Cinque Stelle è positivo, ma bisogna arrivare all'affossamento definitivo di quel progetto. Non ci si illuda di aggirare questo nodo con qualche pasticciato compromesso. Il "secessionismo dei ricchi" va semplicemente respinto; la (contro)riforma del 2001 — in assoluto contrasto con la lettera e lo spirito della Costituzione del 1948 — va cancellata.

In secondo luogo, la contraddizione nella Lega salviniana è stridente e va fatta esplodere. Il ministro dell'interno deve decidersi: "prima gli italiani" o "prima i lombardo-veneti"? Le due cose palesemente non possono stare insieme. Come non stanno insieme l'idea della battaglia anti-Ue e quella di indebolire lo Stato che dovrebbe condurla. Ma anche le contraddizioni interne al Pd (e perfino in Forza Italia) sono al limite dell'esplosione. Ognuno di questi partiti ha ormai al suo interno (andiamo all'ingrosso) una corrente "nordista" ed una "sudista". Benissimo, che si scontrino apertamente, che in tal caso il "regionalismo differenziato" avrà molte difficoltà a passare.

In terzo luogo, se è vero che ognuno nel suo piccolo può far qualcosa per favorire la mobilitazione, o quantomeno l'estensione del dibattito sul tema in modo da favorire la formazione di un'opinione pubblica informata e motivata, chi ha davvero in mano l'arma atomica per far saltare tutto è il Movimento Cinque Stelle. I pentastellati hanno l'atomica non solo perché, visti gli attuali rapporti di forza in parlamento e nel governo, sono gli unici che possono bloccare il "regionalismo differenziato", ma anche perché qualora impugnassero con decisione il tema della difesa dell'unità nazionale, del principio solidaristico che deve legare i vari territori, si aprirebbero la strada ad una forte risalita nei consensi.

Che lo facciano o meno, questo ce lo dirà solo il tempo.


Nota: tutte le sottolineature in grassetto nel testo delle citazioni sono nostre.

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