[ 14 febbraio ]
«Ho letto la lettera di Michele, suicidatosi a trent'anni. Un fatto enorme, che non può non provocare la nostra empatia più profonda. Michele è una vittima. E il suo gesto merita tutto il rispetto che ogni gesto che ha a che fare con l'intimità delle vite individuali merita. Quella lettera l'ho vista ripresa più volte, riprodotta quasi fosse un manifesto rivendicativo generazionale. Ma quella lettera non è un manifesto: e non solo perché una dichiarazione di resa —che è diritto assoluto di ogni individuo, e non c'è alcuna colpa in questo— non può divenire un fatto collettivo, un legame sociale. Il fatto è che quella lettera è un sintomo. E un sintomo sta per qualcosa di cui è un'emergenza, e si manifesta nell'inconsapevolezza di ciò che lo determina.
Il senso di una sconfitta non può essere un manifesto generazionale. La generazione dei precari non è questo. Ciò che compare nelle parole di Michele —nel suo dolore che le ha forgiate— è l'introiezione passiva (inconsapevole) di un modello vincente. Non c'è resistenza; ma se non c'è resistenza (il potere produce attrito) la storia è finita. Ed è questa non-immaginazione che il potere presente vuole: vuole convincere tutti della mancanza di prospettive. Produce mancanza di immaginazione.
Qui, in questa lettera, non c'è solo una stanchezza metafisica (questa iterazione: “sono stufo...”), un'esaustione che polverizza la stessa capacità di fare domande, ovvero la natura più propria dell'animale umano. Qui, soprattutto, c'è la rivendicazione di una serie di pretese non soddisfatte. Si pretende “il massimo”. E siccome non l'ho avuto, la faccio finita, mi consegno al minimo. Una volta si gridava “vogliamo tutto”: ma quel “vogliamo tutto” nasceva da una pratica: vogliamo-dunque-celoprendiamo. E il massimo è diverso dal tutto: il tutto è una circonferenza in cui c'è posto per tutti; il massimo sta in un immaginario che vede una scala sociale naturale, e se c'è un massimo c'è anche un minimo, c'è qualcuno che vince e qualcuno che perde, e se nonostante tutti gli sforzi siamo tra i perdenti non lo accettiamo. E tanto meno riusciamo ad accettarlo nella misura in cui i nostri legami sociali sono tenui, nella misura in cui siamo stati costretti nell'individualismo regressivo, nell'isolamento che è la forma di vita a cui il tempo presente ci vorrebbe costringere.
Michele pretendeva (come potrebbe essere considerato tipico di una generazione in cui il Narciso ha sostituito l'Edipo, così ci dicono). Pretendeva che il mondo lo accogliesse (l'epoca “si permette” di accantonarmi: come può permettersi di ignorarmi? Perciò “imporrò la mia assenza”). Pretendeva che “l'altro genere” lo accogliesse: come fosse un suo dovere, per “l'altro genere” accogliere “il maschio”, e poiché non lo accoglie i sentimenti sono “sprecati”: dove sono sprecati solo sulla base di una concezione dei rapporti sociali come un dare-avere, come uno scambio, invece che una che legge i sentimenti come una donazione che non ha misura possibile. Questa pretesa può essere compresa solo sullo sfondo di quei sogni che questo tempo fa balenare, salvo poi sottrarsi e lasciare chi non coglie le promesse di felicità come un naufrago, fino a soccombere.
Michele è una vittima di questo tempo. E una vittima deve essere ascoltata fino in fondo, per quello che dice e per quello che non dice. Perché quello che non dice, e non lo dice perché lui stesso non lo sa, ci indica una via d'uscita. Quella che, ahimé, Michele non ha avuto la forza di cogliere».
* Fonte: Micromega
«Ho letto la lettera di Michele, suicidatosi a trent'anni. Un fatto enorme, che non può non provocare la nostra empatia più profonda. Michele è una vittima. E il suo gesto merita tutto il rispetto che ogni gesto che ha a che fare con l'intimità delle vite individuali merita. Quella lettera l'ho vista ripresa più volte, riprodotta quasi fosse un manifesto rivendicativo generazionale. Ma quella lettera non è un manifesto: e non solo perché una dichiarazione di resa —che è diritto assoluto di ogni individuo, e non c'è alcuna colpa in questo— non può divenire un fatto collettivo, un legame sociale. Il fatto è che quella lettera è un sintomo. E un sintomo sta per qualcosa di cui è un'emergenza, e si manifesta nell'inconsapevolezza di ciò che lo determina.
Il senso di una sconfitta non può essere un manifesto generazionale. La generazione dei precari non è questo. Ciò che compare nelle parole di Michele —nel suo dolore che le ha forgiate— è l'introiezione passiva (inconsapevole) di un modello vincente. Non c'è resistenza; ma se non c'è resistenza (il potere produce attrito) la storia è finita. Ed è questa non-immaginazione che il potere presente vuole: vuole convincere tutti della mancanza di prospettive. Produce mancanza di immaginazione.
Qui, in questa lettera, non c'è solo una stanchezza metafisica (questa iterazione: “sono stufo...”), un'esaustione che polverizza la stessa capacità di fare domande, ovvero la natura più propria dell'animale umano. Qui, soprattutto, c'è la rivendicazione di una serie di pretese non soddisfatte. Si pretende “il massimo”. E siccome non l'ho avuto, la faccio finita, mi consegno al minimo. Una volta si gridava “vogliamo tutto”: ma quel “vogliamo tutto” nasceva da una pratica: vogliamo-dunque-celoprendiamo. E il massimo è diverso dal tutto: il tutto è una circonferenza in cui c'è posto per tutti; il massimo sta in un immaginario che vede una scala sociale naturale, e se c'è un massimo c'è anche un minimo, c'è qualcuno che vince e qualcuno che perde, e se nonostante tutti gli sforzi siamo tra i perdenti non lo accettiamo. E tanto meno riusciamo ad accettarlo nella misura in cui i nostri legami sociali sono tenui, nella misura in cui siamo stati costretti nell'individualismo regressivo, nell'isolamento che è la forma di vita a cui il tempo presente ci vorrebbe costringere.
Michele pretendeva (come potrebbe essere considerato tipico di una generazione in cui il Narciso ha sostituito l'Edipo, così ci dicono). Pretendeva che il mondo lo accogliesse (l'epoca “si permette” di accantonarmi: come può permettersi di ignorarmi? Perciò “imporrò la mia assenza”). Pretendeva che “l'altro genere” lo accogliesse: come fosse un suo dovere, per “l'altro genere” accogliere “il maschio”, e poiché non lo accoglie i sentimenti sono “sprecati”: dove sono sprecati solo sulla base di una concezione dei rapporti sociali come un dare-avere, come uno scambio, invece che una che legge i sentimenti come una donazione che non ha misura possibile. Questa pretesa può essere compresa solo sullo sfondo di quei sogni che questo tempo fa balenare, salvo poi sottrarsi e lasciare chi non coglie le promesse di felicità come un naufrago, fino a soccombere.
Michele è una vittima di questo tempo. E una vittima deve essere ascoltata fino in fondo, per quello che dice e per quello che non dice. Perché quello che non dice, e non lo dice perché lui stesso non lo sa, ci indica una via d'uscita. Quella che, ahimé, Michele non ha avuto la forza di cogliere».
* Fonte: Micromega
3 commenti:
Forse Michele non sapeva tante cose su come resistere da una carrozzella ma se stiamo qui a parlare di resistenza è anche grazie a lui.
Una cosa in proposito però la sapeva, e lo ha anche scritto: odiare o togliersi di torno (per non odiare).
Ci fosse stata una prospettiva politica appena percorribile (in un paese senza sovranità e in balia del mercato finanziario/bellico, gestito da politici/curatori fallimentari) allora forse l'odio sarebbe potuto diventare prassi, lotta comune, condivisione...ma possiamo rimproverargli che il mortorio sociale da cui è stato sopraffatto è l'unica cosa che ha saputo immaginare?
Se il deserto sociale/politico di Michele è quello che da almeno 15 anni cerco di attraversare anche io non ho idea se avrei resistito quanto lui, con quelle ruote affondate nella sabbia.
francesco
.I giovani, , stretti dalla morsa del caporalato da tabbaccheria; (nel call-center, nel ristorante, nella logistica...), e il mollare tutto: relazioni, affetti e intraprendere il viaggio della disperazione,
questa volta(referendum 4 dic.) non hanno ceduto alla rassegnazione dei padri e al mantra “ meglio piuttosto che niente” che li ha accompagnati in questi anni,consegnandogli una costituzione reale di 7 milioni di disoccupati 4,8 milioni in povertà assoluta, 115 milioni di vaucher; vera lotteria per i padroni e i loro caporali...
...Padri illusi, che le conquiste di ieri (sanità gratuita una scuola gratuita...i diritti dei lavoratori ) speranza di poter salire la scala sociale, fossero diritti aquisiti per sempre; non vedevano la voracità della globalizazione e del liberismo che, uno alla volta, inesorabilmente, se le riprendeva tutte.
Inconsapevoli che ogni diritto ceduto era un furto al patrimonio delle future generazioni.
Fu così che il sacrificio dell'oggi, chiamava un'altro e, ... un'altro ancora.
Ed è così che siamo arrivati al profondo degli abbissi, costituzione reale che nessun vuole vedere...
Uscire dalla prigione degli “arresti domiciliari” , di consumo passivo del tempo, nella coazione a ripetere tra ingordigia di immagine e ansia di protagonismo da social.
Aspettando poi di andare al saccheggio, dell' eredità sopravvisuta alla voracità del liberismo.
Il periodo dell' opinionismo e del protagonismo da apericena , a parlare “dell'isola che non c'è” a stupirsi dell'ottusità del potere, invocare un po' di buon senso, farsi consiglieri dell'efficienza e delle risorse umane, nel mentre il processo di spoliazione, inesorabile, spinge la condizione di lavoro sempre più simili a quella dei fratelli del terzo mondo
....Risaliamo dal buco nero, consapevoli che difesa e conquista di nuovi diritti, vogliono lotta, abnegazione , e soprattutto tanta organizzazione collettiva dove l'impotenza dell' IO, si trasforma in forza del NOI.
Dal post di Angela cherubin su facebook
E' crudele non voler “prendere la lettera di Michele come vera critica al sistema “ quando il “ suo disagio e disordine” è di milioni di giovani consegnati agli arresti domiciliari del family welfare.
….La cultura dell'individualismo edonistico felicità forse per alcuni ,una minoranza, , è depressione per i milioni di persone senza prospettiva, in una società, ove ancora il lavoro salariato è fonte di sopravvivenza e di dignità.
Rimuovere il problema sociale , soggettivizzare la realtà di milioni di “disturbati” è ripetere con la Thatcher che “La società non esiste, esistono solo gli individui.”
Lamentare l'assenza di carezzabilità sociale nel liberismo che aveva come finalità, la distruzione di identità culturali, affettive, sociali, per farne atomi edonistici riversibili in nichilismo, è avere la testa nel proprio studio
Soggettivizzare, ridurre all'uno, il problema di milioni di disoccupati è ripetere con la Thatcher che “La società non esiste, esistono solo gli individui.”
E' tempo di scendere negli abbissi vedere la miseria umana , le sue sofferenze .
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