[ 5 gennaio]
DA UN PERIODO STORICO AD UN ALTRO
Veniamo da un periodo di colossali trasformazioni economiche, sociali, politiche e strategiche che va sotto il nome di globalizzazione neoliberista. Esso iniziò a prendere forma sul finire degli anni ’70 del secolo scorso quando il grande capitalismo occidentale, dopo una fase in cui venne costretto ad arretrare a causa dell’avanzata combinata delle lotte operaie e antimperialiste, scatenò una controffensiva a tutto campo. Accuratamente preparata, questa controffensiva, fu vincente sui diversi piani: economico, politico, militare e ideologico.
La guerra fredda si concluse col crollo dell’Urss e del patto di Varsavia e la contestuale restaurazione del capitalismo nei paesi “socialisti”. Sul piano economico il capitalismo occidentale posto fine al ciclo riformista-keynesiano, avviò un processo di finanziarizzazione profonda, senza precedenti. Su quello sociale esso riuscì, con ritmi diversi a seconda delle resistenze che incontrò, non solo a strappare alle classi lavoratrici ciò che era stato costretto a concedere per non soccombere, ma a privatizzare e saccheggiare le sfere pubbliche dell’economia, imponendo una generale deregulation, abbattendo quindi ogni ostacolo al libero movimento dei capitali. Sul piano istituzionale la conseguenza è stata la sostituzione delle democrazie parlamentari con regimi oligarchici ad alto grado di verticalizzazione delle decisioni (governance).
Questa controffensiva non avrebbe avuto successo se non fosse stata preceduta da un lungo e immane sforzo egemonico sul piano ideologico. Proprio mentre il riformismo keynesiano andava per la maggiore i think-tank neoliberisti attuavano un’attività incessante e capillare di conquista dei luoghi di formazione delle classi dirigenti. Un’attività che risultò vincente oltre ogni aspettativa, dal momento che le dottrine neoliberiste conquisteranno la gran parte delle sinistre, storiche e post-‘68, ciò che contribuirà a far diventare senso comune, ampiamente egemonica, la visione del mondo neoliberista.
Se l’indomita resistenza di larga parte dei popoli afgano e iracheno fece barcollare il “Washington Consensus” punendo severamente la pretesa di “esportare la democrazia” (leggi: occidentalizzare l’intero mondo) a suon di bombe, il devastante collasso finanziario del 2007-08 pose fine al periodo della cosiddetta “euforia imperialistica”. Come alcuni di noi compresero subito questo collasso fece da spartiacque, indicò che era giunto al capolinea il lungo ciclo segnato dalla globalizzazione dispiegata dei mercati, dalla finanziarizzazione estrema dell’economia, dall’egemonia pervasiva dell’ideologia neoliberista. Si entrava allora in un nuovo periodo storico.
Il nostro Paese, non ha solo partecipato a questo processo involutivo, è stato un laboratorio in cui le classi dominanti si sono dimostrate le più zelanti. Smantellata l’economia pubblica più potente del mondo occidentale, privatizzato il suo sistema bancario, umiliato il movimento operaio, distrutto il tessuto democratico che sorreggeva le istituzioni Repubblicane sorte sulle ceneri del fascismo, svolto un ruolo di punta nelle politiche imperialistiche, prima partecipando allo squartamento della Iugoslavia e poi all’occupazione dell’Iraq. Il tutto con il grosso delle sinistre vecchie e nuove che non si sono limitate a svolgere un ruolo ausiliario ma addirittura di comando.
L’UMANITÀ ALLA SVOLTA
La forza motrice che muove lo sviluppo capitalistico non è il bene comune ma il profitto privato. Quando non può accrescere il profitto il capitale arresta la sua corsa, gli investimenti crollano, forze produttive vengono distrutte o immobilizzate su larga scala. La conseguenza è che chi non ha altre risorse se non quella di vendere al miglior offerente la propria capacità lavorativa, a meno che non sia tutelato dalle reti di sicurezza sociale, viene gettato sul lastrico.
Queste recessioni cicliche, connaturate al capitalismo, vengono chiamate “crisi”. Ogni fase di espansione è seguita da un’inevitabile contrazione. Alcune di queste crisi sono più profonde, sono sistemiche, investono la gran parte dei settori economici e possono sfociare in depressioni di lungo periodo —depressioni che sono destinate a lasciare un segno e cicatrici profonde e durature sui corpi sociali e sugli assetti geopolitici. E’ il caso di quella attuale, che le stesse teste d’uovo al servizio dei dominanti definiscono “stagnazione secolare”. Le conseguenze sociali e strategiche saranno vieppiù devastanti: disoccupazione e pauperismo di massa, inasprimento dei conflitti sociali e polarizzazione politica, caduta di governi e regimi, corsa al riarmo con, contesa tra grandi potenze con annesso rischio di guerra aperta.
Priva di ogni fondamento scientifico è l’idea di chi sostiene che siccome i ricchi sono diventati sempre più ricchi, ed il sistema di dominio sempre più oligarchico, la crisi sarebbe solo una bubbola dei dominanti per abbindolare e soggiogare le masse.
Con simili sconquassi vanno al tappeto i principali dogmi che hanno reso egemone l’ideologia neoliberista. Quali sono? (1) quello per cui il capitale, facendo i propri interessi di parte, realizzerebbe quelli di tutti; (2) che il “libero” mercato sarebbe il luogo che meglio allocherebbe risorse scarse; (3) che la globalizzazione e la finanziarizzazione sregolata avrebbero assicurato uno sviluppo senza precedenti e ininterrotto; (4) che l’espulsione dello Stato dalla sfera economica e relative privatizzazioni, avrebbero garantito sia una maggiora efficienza che una più equa distribuzione della ricchezza; (5) che le information technology avrebbero ampiamente rimpiazzato i posti di lavoro distrutti; (6) l’ultimo dogma, infine, che ci riguarda più da vicino, è quello che per cui l’Unione europea sarebbe diventata un faro di progresso e civiltà, mentre è l’epicentro stesso della crisi sistemica globale ed il bastione delle politiche austeritarie.
L’umanità si trova così intrappolata dentro una grande e pericolosa contraddizione: mentre tocca con mano che il capitalismo non funziona, che i costi per assicurare la sopravvivenza del sistema sono enormemente superiori ai benefici, che bisogna ripensare gli stessi concetti di “crescita”, “sviluppo” e “progresso”; mentre insomma ha bisogno vitale di una via d’uscita al marasma e di sperimentare nuovi modelli sociali e di vita, mai come ora la prospettiva del socialismo è parsa tanto lontana dal novero delle possibilità. La crisi, senza una fuoriuscita dal capitalismo, da sistemica, può così diventare una crisi di civiltà.
I POPULISMI
L’indegna capitolazione delle sinistre ai poteri oligarchici (ultimo caso quello di SYRIZA in Grecia), la debolezza senza precedenti dei movimenti socialisti, non significa affatto che non crescano tra le larghe masse il disprezzo per le élite dominanti e l’opposizione ai regimi oligarchici. Entrambi vanno anzi crescendo in maniera esponenziale in numerosi paesi, tra cui il nostro. Un’opposizione che assume tuttavia forme minimaliste inadeguate, insipienti, spesso inquietanti. Poteva essere diverso dopo che quasi due generazioni sono state cresciute a pane, valori neoliberisti, edonismo consumistico, allucinazioni mediatiche e incantesimi tecno-scientifici? No che non poteva essere diverso.
Le élite intellettuali al servizio dei regimi oligarchici, nel tentativo di azzoppare questa nuove opposizioni, hanno lanciato contro l’anatema, le hanno bollate con quello che per Lorisgnori è un marchio d’infamia: “populismo”, “antipolitica”. Non ci facciamo intruppare nella compagnia del “politicamente corretto”, non commetteremo l’errore in cui ci vuole spingere l’élite dominante, di fare di tutt’erba un fascio. Dovremo anzi ben distinguere il grano dal loglio. Questi populismi hanno infatti forme e nature le più diverse. Alcuni di essi, i neofascisti camuffati, i partiti che mescolano xenofobia e neoliberismo, sono nostri nemici. Altri hanno un segno democratico, raccolgono, seppure in modo distorto e incompiuto, l’eredità anticapitalista e libertaria della sinistra che fu. Per loro natura instabili essi non solo sono destinati a crescere, fino a salire al potere in diversi paesi, attivano forze e soggetti sociali dalla cui fermentazione e maturazione potrebbero venire le energie necessarie per realizzare i cambiamenti che ci auspichiamo.
Occorre fare i conti coi populismi, imparare la lezione che da essi ci viene. Il loro dilagare è la conseguenza della crisi sistemica, della pauperizzazione generale, della compiuta degenerazione oligarchica del sistema, della disperazione che viene dalla sensazione che andrà peggio. I populismi sono la manifestazione del divorzio oramai consumato tra la maggioranza dei cittadini e le élite politiche neoliberiste nelle due varianti conservatrice e progressista —di qui il tramonto dei sistemi politici bipolari. Ciò che spiega il tratto caratteristico di tutti i populismi: il considerarsi oltre la dicotomia destra-sinistra. Un paradigma politico che oltre ad essere il risultato di un intero periodo di peana post-ideologici è anche, ove non sia un’abile stratagemma demagogico, segno inconfondibile della base sociale interclassista di suddetti populismi. Sarebbe vano fare gli esorcismi a questo interclassismo, prodotto delle profonde trasformazioni sociale causate dal lungo ciclo neoliberista (la metafora della “società liquida” post-fordista), esso è il precipitato dell’implosione del movimento operaio, la classe operaia essendo anzi diventata simbolo di un mondo morente. In questo interclassismo populista, connesso com’è al richiamo alle identità nazionali e comunitarie, alla richiesta di Stato come tutore e garante di diritti e sicurezza sociale, v’è un lato che dobbiamo saper apprezzare: esso è fattore di resistenza alla globalizzazione, una reazione ai suoi effetti paralizzanti di spaesamento, di rigetto, per quanto imperfetto della narrazione neoliberista.
Defunto il dogma della missione salvifica e teleologica della classe operaia, richiamandoci alle riflessioni gramsciane sulla egemonia e cultura nazionale popolare, noi vogliamo riappropriarci del concetto di popolo per risignificarlo non solo in quanto oggetto della nostra azione ma come soggetto delle grandi trasformazioni sociali di cui la società abbisogna e di cui è gravida. Essendo la via d’accesso a queste trasformazioni sbarrata dai poteri oligarchici, che infatti procedono rafforzando la spessa corazza difensiva che li protegge, i popoli si vedranno obbligati ad aprire una breccia, a sfondare le linee nemiche. La collisione tra chi sta sotto e chi sta sopra è inevitabile. Nei prossimi anni si decide chi, nel campo di chi sta sotto, sarà alla testa della riscossa sociale, se quindi lo sbocco sarà una rivoluzione democratica o, all’opposto, reazionario.
LA STRATEGIA, LA TATTICA, L’ORGANIZZAZIONE
Noi che vogliamo tenere alta la fiaccola del socialismo, di un sistema che funzioni non nell’interesse di pochi ma per il bene comune e assicuri l’eguaglianza sociale nello stato di diritto, abbiamo responsabilità storiche. Non lasceremo cadere questa bandiera a causa degli enormi ostacoli sulla nostra strada. Non c’è altra possibilità che la lotta, che per produrre effetti deve essere fondata su una strategia adeguata che punti all’egemonia, alla conquista della maggioranza. Per questo, a maggior ragione perché questa battaglia è impari, dobbiamo organizzarci, dotarci degli strumenti adeguato per convincere i cittadini, la gioventù anzitutto, ad attivarsi, a venire dalla nostra parte.
Possiamo oramai prendere atto, di contro alle illusioni movimentiste e operaiste, che la crisi sistemica ha agito come una forbice: più venivano alla luce le crepe ed i limiti congeniti del capitalismo, più erano potenti i fattori che inibivano i conflitti sociali. Davanti ad una crisi sistemica grandi masse non si gettano nella mischia se non vedono un’alternativa (la sindrome di T.I.N.A.), tantomeno i lavoratori possono credere, con ai cancelli milioni di disoccupati che premono, nell’efficacia dei tradizionali metodi di lotta sindacali.
Amiamo la ribellione sociale ma non siamo ribellisti. Accendere scintille è legittimo, ma l’incendio della prateria dipende dal venire a maturazione di condizioni oggettive. Proprio ora questa condizioni vanno maturando: chi sta sopra non più a governare come prima, mentre la moltitudine che sta sotto non vuole più vivere come prima. In quanto minoranza creativa è nostro compito ridare lustro e credibilità alla visione socialista del mondo, ma esso può essere perseguito solo se, stando coi piedi ben piantati nel campo popolare, sapremo diventare il lievito di un’opposizione sociale più matura e avanzata. Bisogna tenere assieme ed in maniere innovative teoria e prassi, con i gesti e l’esempio dimostrare che abbiamo grandi ideali ma non siamo utopisti. Entriamo in tempi duri che premieranno la coerenza morale e la saldezza di principi, che daranno forza a chi saprà scovare l’ordine nel disordine, che chiederanno coraggio e disciplina nell’azione. Tempi che chiedono già oggi flessibilità tattica e fermezza strategica. La consapevolezza che occorre aggiornare metodi, linguaggi e lessico della battaglia politica non fa venir meno che la funzione peculiare di un movimento politico resta quella di dare forma compiuta ad un blocco sociale, ad un fronte popolare in grado di vincere e prendere in mano le redini del Paese.
Per quanto numerose siano le condizioni per conformare un blocco sociale antioligarchico egemonico, quattro sono e restano quelle assolutamente necessarie: (1) che esista nella società una maggioranza disposta al cambiamento nella giustizia sociale; (2) che questa maggioranza sociale, per quanto in forma incompiuta, sia rappresentata politicamente in movimenti antioligarchici; (3) che i movimenti politici che rappresentano questa maggioranza siano disposti a fare blocco per salire al governo per portare fuori il Paese dal marasma; (4) che essi, o anche solo quello dominante, abbiano una visione chiara dei compiti, ovvero un programma di governo che indichi le misure principali per guidare il Paese nel difficile passaggio, in quello che sarà a tutti gli effetti uno “Stato d’eccezione”.
Di queste tre condizioni la prima è presente, la seconda avanzante, la terza latente, la quarta assente.
Se uniamo le nostre forze è per costruire un soggetto politico che acceleri la formazione di questo blocco sociale embrionale e ne diventi il lievito, affinché possa avere la potenza necessaria è la forma adeguata. Se uniamo le nostre forze è infine perché noi sentiamo di poter svolgere una funzione importante affinché questo blocco prenda possesso della condizione oggi mancante, quella programmatica.
Portiamo in dote e mettiamo a disposizione del blocco popolare, la nostra esperienza, i nostri saperi, le nostre idee, le nostre proposte. Abbiamo l’ambizione, unendoci, di allestire un luogo che riesca ad indirizzare centinaia e migliaia di attivisti, che possa fungere da officina ove educarli e se necessario rialfabetizzarli.
VERSO UN GOVERNO POPOLARE D’EMERGENZA PER SALVARE IL PAESE
Che non si esce dal marasma senza una svolta radicale e profonda inizia a diventare senso comune. Cresce la consapevolezza che occorre andare alla radice della crisi del sistema, attuando nel nostro paese grandi trasformazioni economiche, sociali, politiche e istituzionali. Si diffonde la coscienza che queste trasformazioni saranno possibili solo con una svolta radicale, che la sovranità nazionale è il primo dei beni comuni, uscendo dalla gabbia dall’Unione europea. Vi è ancora chi considera l’uscita dall’Unione europea e l’abbandono dell’euro come idee velleitarie ed estremistiche. E’ vero esattamente il contrario. Il disfacimento dell’Unione europea e la fine dell’euro sono processi oggettivi, oramai irreversibili. Velleitari sono coloro che s’illudono di fermare queste tendenze facendo gli esorcismi, mettendo toppe che sono peggiori del buco. Estremisti sono gli oligarchi di Francoforte e Bruxelles ed i loro sodali nostrali, disposti a dissanguare i popoli pur di tenere in vita una moneta moribonda e ingrassare la nuova aristocrazia finanziaria. Il problema non è se abbandonare l’euro o meno, il problema è quando e chi guiderà questo ritorno alle sovranità nazionali. Se al potere resteranno i servi politici del capitalismo finanziario, o se ci saliranno movimenti reazionari, ne faranno pagare le salate conseguenze al popolo lavoratore. Se sarà un governo popolare a pilotare l’uscita, i sacrifici, certo inevitabili, saranno anzitutto in carico ai dominanti, e i frutti di questi sacrifici saranno utilizzati per il bene comune e la rinascita del paese. Come si riconosce un governo popolare? Se i provvedimenti che attua vanno a vantaggio del popolo lavoratore, e non dei dominanti, di qualche corporazione o della casta.
Abbiamo detto che nella società italiana esiste già una maggioranza disposta al cambiamento, ma questa maggioranza, o non si esprime politicamente, o si riconosce in movimenti populisti. Questi movimenti sono, rebus sic stantibus, la sola possibilità di formare un governo antioligarchico, per aprire una fase nuova per il nostro Paese. Il fatto che come ogni strada nuova porti con sé dei rischi non può giustificare, ai nostri occhi, alcun indifferentismo, che si risolverebbe in un aiuto alle classi dominanti.
La crisi combinata, dell’area euro, del traballante sistema finanziario-bancario e del regime politico italiano, potrebbe precipitare, determinando le condizioni per estromettere i partiti dell’oligarchia dal governo, ciò che sarebbe per loro una sconfitta bruciante che darebbe, di converso, forza ai movimenti popolari. Un governo antioligarchico che non abbia idee chiare, che non applichi e in modo deciso provvedimenti d’urgenza, che non sia in grado di vincere le resistenze dei dominanti, getterebbe il Paese in un caos gravido di conseguenze disastrose. Sarebbe fatale da parte nostra una posizione attendista o, peggio, d’indifferenza davanti a questo scontro. Saremo invece a fianco del popolo che vuole giustizia sociale e certezze sul futuro, incalzando il governo che esso ha fatto salire al potere, agendo affinché non indietreggi e colpisca gli interessi e i fortilizi dell’oligarchia, contribuendo a suscitare la più ampia mobilitazione dal basso senza la quale non si neutralizzerà il sabotaggio dei potenti. In una situazione di estrema polarizzazione sociale e politica, in cui si giocano le sorti dell’Italia, noi dovremo farci largo, con l’obbiettivo di dare una testa, se necessario nuova, al blocco popolare, indicando un progetto strategico che mentre in sicurezza il Paese, faccia perno sulla difesa ed il miglioramento delle condizioni materiali e spirituali delle classi popolari, ovvero della grande maggioranza dei cittadini.
In estrema sintesi questo Progetto significa:
a) Debellare la disoccupazione attraverso un Piano nazionale per il lavoro, mettendo al centro la tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio culturale e artistico, della salute e della scuola. B) Assicurare un reddito sociale degno per chi si trovi momentaneamente senza lavoro. c) Difesa del valore dei salari e delle pensioni attraverso l'applicazione universale dei contratti collettivi di lavoro, il ripristino della scala mobile, l'introduzione di un salario minimo garantito universale, l'abolizione della legge Fornero, l'innalzamento della no tax area a 15mila euro. b) Affermazione dei diritti sociali: la sanità, l'istruzione e la previdenza devono essere pubbliche e garantite a tutti i cittadini. c) Difesa della democrazia applicando effettivamente i principi sanciti nella Costituzione repubblicana, quindi eleggendo un Parlamento basato sul principio della rappresentanza, composto di eletti e non di nominati, di delegati del popolo e non di meri esecutori dei programmi dei centri del potere finanziario.
Ma queste misure non saranno applicabili se un Governo ed un Parlamento sovrani non adotteranno quei provvedimenti d’urgenza che solo le renderanno possibili.
Quali?
(1) Avviare l’uscita dell’Italia dall’euro e dall’Unione europea, riconquistando la sovranità politica e monetaria, attraverso la reintroduzione della lira —ci sono idee precise riguardo agli aspetti tecnici. La moneta è una leva senza il cui controllo un paese non può decidere autonomamente né politica economica, né quella fiscale, né quella sociale, né quella valutaria. L’eventuale svalutazione, ferma restando una difesa del potere d’acquisto dei salari, mentre diminuirà il peso del debito pubblico, mentre sosterrà il mercato interno, aumenterà la competitività delle aziende rispetto a quelle straniere, e non determinerà l’inflazione catastrofica i liberisti paventano seminando il terrore.
(2) Moratoria sul debito pubblico, cancellando subito quello più odioso. E' inammissibile che l’economia del paese sia soffocata per decenni a favore degli squali della finanza globale. Solo per gli interessi sul debito lo Stato corrisponde di media, annualmente, il 4,5% del Pil (circa 75 miliardi).
Risparmiando l’equivalente di questa cifra (recuperabile anche con la ridenominazione dei Btp nella nuova valuta nazionale) lo stato potrà diminuire le tasse ed aumentare la spesa pubblica primaria (che oggi è tra le più basse d’Europa) attivando immediatamente un piano strategico di opere pubbliche. Ove lo Stato, per finanziarsi, oltre all’emissione monetaria, dovesse ricorrere a quella di titoli di debito, essi saranno offerti solo al mercato interno, onde evitare l’esodo della ricchezza nazionale.
(3) Introdurre limiti stringenti alla libera circolazione dei capitali e ove serva, delle merci, con dazi per proteggere i settori produttivi italiani. Lo stato, riprese le sue prerogative, dovrà esercitare un ruolo indispensabile di regolamentazione dei mercati e di programmazione dei principali fattori economici e sociali, flussi migratori compresi dato il loro impatto sui corpi sociali.
(4) Trasformare e nazionalizzare il sistema bancario e assicurativo in modo da abolire le banche d’affari che utilizzano i depositi e i risparmi dei cittadini per il gioco d’azzardo dei mercati finanziari internazionali. Tutte le banche hanno una funzione economica e sociale di primaria importanza e devono essere messe sotto stretto controllo pubblico.
(5) Adottare un piano di nazionalizzazione degli enti che operano nei settori strategici di interesse nazionale: energia, acqua, trasporti, telecomunicazioni.
Il Consiglio nazionale di Programma 101 - Movimento di Liberazione Popolare
Già prima del referendum alcuni gruppi e movimenti della sinistra popolare e patriottica hanno avviato un processo confederativo per dare vita ad un soggetto politico unitario.
Presentiamo ai lettori il documento proposto da Programma 101. Si tratta di una proposta di massima, che ci auguriamo verrà arricchita nel confronto tra i diversi gruppi.
DA UN PERIODO STORICO AD UN ALTRO
Veniamo da un periodo di colossali trasformazioni economiche, sociali, politiche e strategiche che va sotto il nome di globalizzazione neoliberista. Esso iniziò a prendere forma sul finire degli anni ’70 del secolo scorso quando il grande capitalismo occidentale, dopo una fase in cui venne costretto ad arretrare a causa dell’avanzata combinata delle lotte operaie e antimperialiste, scatenò una controffensiva a tutto campo. Accuratamente preparata, questa controffensiva, fu vincente sui diversi piani: economico, politico, militare e ideologico.
La guerra fredda si concluse col crollo dell’Urss e del patto di Varsavia e la contestuale restaurazione del capitalismo nei paesi “socialisti”. Sul piano economico il capitalismo occidentale posto fine al ciclo riformista-keynesiano, avviò un processo di finanziarizzazione profonda, senza precedenti. Su quello sociale esso riuscì, con ritmi diversi a seconda delle resistenze che incontrò, non solo a strappare alle classi lavoratrici ciò che era stato costretto a concedere per non soccombere, ma a privatizzare e saccheggiare le sfere pubbliche dell’economia, imponendo una generale deregulation, abbattendo quindi ogni ostacolo al libero movimento dei capitali. Sul piano istituzionale la conseguenza è stata la sostituzione delle democrazie parlamentari con regimi oligarchici ad alto grado di verticalizzazione delle decisioni (governance).
Questa controffensiva non avrebbe avuto successo se non fosse stata preceduta da un lungo e immane sforzo egemonico sul piano ideologico. Proprio mentre il riformismo keynesiano andava per la maggiore i think-tank neoliberisti attuavano un’attività incessante e capillare di conquista dei luoghi di formazione delle classi dirigenti. Un’attività che risultò vincente oltre ogni aspettativa, dal momento che le dottrine neoliberiste conquisteranno la gran parte delle sinistre, storiche e post-‘68, ciò che contribuirà a far diventare senso comune, ampiamente egemonica, la visione del mondo neoliberista.
Se l’indomita resistenza di larga parte dei popoli afgano e iracheno fece barcollare il “Washington Consensus” punendo severamente la pretesa di “esportare la democrazia” (leggi: occidentalizzare l’intero mondo) a suon di bombe, il devastante collasso finanziario del 2007-08 pose fine al periodo della cosiddetta “euforia imperialistica”. Come alcuni di noi compresero subito questo collasso fece da spartiacque, indicò che era giunto al capolinea il lungo ciclo segnato dalla globalizzazione dispiegata dei mercati, dalla finanziarizzazione estrema dell’economia, dall’egemonia pervasiva dell’ideologia neoliberista. Si entrava allora in un nuovo periodo storico.
Il nostro Paese, non ha solo partecipato a questo processo involutivo, è stato un laboratorio in cui le classi dominanti si sono dimostrate le più zelanti. Smantellata l’economia pubblica più potente del mondo occidentale, privatizzato il suo sistema bancario, umiliato il movimento operaio, distrutto il tessuto democratico che sorreggeva le istituzioni Repubblicane sorte sulle ceneri del fascismo, svolto un ruolo di punta nelle politiche imperialistiche, prima partecipando allo squartamento della Iugoslavia e poi all’occupazione dell’Iraq. Il tutto con il grosso delle sinistre vecchie e nuove che non si sono limitate a svolgere un ruolo ausiliario ma addirittura di comando.
L’UMANITÀ ALLA SVOLTA
La forza motrice che muove lo sviluppo capitalistico non è il bene comune ma il profitto privato. Quando non può accrescere il profitto il capitale arresta la sua corsa, gli investimenti crollano, forze produttive vengono distrutte o immobilizzate su larga scala. La conseguenza è che chi non ha altre risorse se non quella di vendere al miglior offerente la propria capacità lavorativa, a meno che non sia tutelato dalle reti di sicurezza sociale, viene gettato sul lastrico.
Queste recessioni cicliche, connaturate al capitalismo, vengono chiamate “crisi”. Ogni fase di espansione è seguita da un’inevitabile contrazione. Alcune di queste crisi sono più profonde, sono sistemiche, investono la gran parte dei settori economici e possono sfociare in depressioni di lungo periodo —depressioni che sono destinate a lasciare un segno e cicatrici profonde e durature sui corpi sociali e sugli assetti geopolitici. E’ il caso di quella attuale, che le stesse teste d’uovo al servizio dei dominanti definiscono “stagnazione secolare”. Le conseguenze sociali e strategiche saranno vieppiù devastanti: disoccupazione e pauperismo di massa, inasprimento dei conflitti sociali e polarizzazione politica, caduta di governi e regimi, corsa al riarmo con, contesa tra grandi potenze con annesso rischio di guerra aperta.
Priva di ogni fondamento scientifico è l’idea di chi sostiene che siccome i ricchi sono diventati sempre più ricchi, ed il sistema di dominio sempre più oligarchico, la crisi sarebbe solo una bubbola dei dominanti per abbindolare e soggiogare le masse.
Con simili sconquassi vanno al tappeto i principali dogmi che hanno reso egemone l’ideologia neoliberista. Quali sono? (1) quello per cui il capitale, facendo i propri interessi di parte, realizzerebbe quelli di tutti; (2) che il “libero” mercato sarebbe il luogo che meglio allocherebbe risorse scarse; (3) che la globalizzazione e la finanziarizzazione sregolata avrebbero assicurato uno sviluppo senza precedenti e ininterrotto; (4) che l’espulsione dello Stato dalla sfera economica e relative privatizzazioni, avrebbero garantito sia una maggiora efficienza che una più equa distribuzione della ricchezza; (5) che le information technology avrebbero ampiamente rimpiazzato i posti di lavoro distrutti; (6) l’ultimo dogma, infine, che ci riguarda più da vicino, è quello che per cui l’Unione europea sarebbe diventata un faro di progresso e civiltà, mentre è l’epicentro stesso della crisi sistemica globale ed il bastione delle politiche austeritarie.
L’umanità si trova così intrappolata dentro una grande e pericolosa contraddizione: mentre tocca con mano che il capitalismo non funziona, che i costi per assicurare la sopravvivenza del sistema sono enormemente superiori ai benefici, che bisogna ripensare gli stessi concetti di “crescita”, “sviluppo” e “progresso”; mentre insomma ha bisogno vitale di una via d’uscita al marasma e di sperimentare nuovi modelli sociali e di vita, mai come ora la prospettiva del socialismo è parsa tanto lontana dal novero delle possibilità. La crisi, senza una fuoriuscita dal capitalismo, da sistemica, può così diventare una crisi di civiltà.
I POPULISMI
L’indegna capitolazione delle sinistre ai poteri oligarchici (ultimo caso quello di SYRIZA in Grecia), la debolezza senza precedenti dei movimenti socialisti, non significa affatto che non crescano tra le larghe masse il disprezzo per le élite dominanti e l’opposizione ai regimi oligarchici. Entrambi vanno anzi crescendo in maniera esponenziale in numerosi paesi, tra cui il nostro. Un’opposizione che assume tuttavia forme minimaliste inadeguate, insipienti, spesso inquietanti. Poteva essere diverso dopo che quasi due generazioni sono state cresciute a pane, valori neoliberisti, edonismo consumistico, allucinazioni mediatiche e incantesimi tecno-scientifici? No che non poteva essere diverso.
Le élite intellettuali al servizio dei regimi oligarchici, nel tentativo di azzoppare questa nuove opposizioni, hanno lanciato contro l’anatema, le hanno bollate con quello che per Lorisgnori è un marchio d’infamia: “populismo”, “antipolitica”. Non ci facciamo intruppare nella compagnia del “politicamente corretto”, non commetteremo l’errore in cui ci vuole spingere l’élite dominante, di fare di tutt’erba un fascio. Dovremo anzi ben distinguere il grano dal loglio. Questi populismi hanno infatti forme e nature le più diverse. Alcuni di essi, i neofascisti camuffati, i partiti che mescolano xenofobia e neoliberismo, sono nostri nemici. Altri hanno un segno democratico, raccolgono, seppure in modo distorto e incompiuto, l’eredità anticapitalista e libertaria della sinistra che fu. Per loro natura instabili essi non solo sono destinati a crescere, fino a salire al potere in diversi paesi, attivano forze e soggetti sociali dalla cui fermentazione e maturazione potrebbero venire le energie necessarie per realizzare i cambiamenti che ci auspichiamo.
Occorre fare i conti coi populismi, imparare la lezione che da essi ci viene. Il loro dilagare è la conseguenza della crisi sistemica, della pauperizzazione generale, della compiuta degenerazione oligarchica del sistema, della disperazione che viene dalla sensazione che andrà peggio. I populismi sono la manifestazione del divorzio oramai consumato tra la maggioranza dei cittadini e le élite politiche neoliberiste nelle due varianti conservatrice e progressista —di qui il tramonto dei sistemi politici bipolari. Ciò che spiega il tratto caratteristico di tutti i populismi: il considerarsi oltre la dicotomia destra-sinistra. Un paradigma politico che oltre ad essere il risultato di un intero periodo di peana post-ideologici è anche, ove non sia un’abile stratagemma demagogico, segno inconfondibile della base sociale interclassista di suddetti populismi. Sarebbe vano fare gli esorcismi a questo interclassismo, prodotto delle profonde trasformazioni sociale causate dal lungo ciclo neoliberista (la metafora della “società liquida” post-fordista), esso è il precipitato dell’implosione del movimento operaio, la classe operaia essendo anzi diventata simbolo di un mondo morente. In questo interclassismo populista, connesso com’è al richiamo alle identità nazionali e comunitarie, alla richiesta di Stato come tutore e garante di diritti e sicurezza sociale, v’è un lato che dobbiamo saper apprezzare: esso è fattore di resistenza alla globalizzazione, una reazione ai suoi effetti paralizzanti di spaesamento, di rigetto, per quanto imperfetto della narrazione neoliberista.
Defunto il dogma della missione salvifica e teleologica della classe operaia, richiamandoci alle riflessioni gramsciane sulla egemonia e cultura nazionale popolare, noi vogliamo riappropriarci del concetto di popolo per risignificarlo non solo in quanto oggetto della nostra azione ma come soggetto delle grandi trasformazioni sociali di cui la società abbisogna e di cui è gravida. Essendo la via d’accesso a queste trasformazioni sbarrata dai poteri oligarchici, che infatti procedono rafforzando la spessa corazza difensiva che li protegge, i popoli si vedranno obbligati ad aprire una breccia, a sfondare le linee nemiche. La collisione tra chi sta sotto e chi sta sopra è inevitabile. Nei prossimi anni si decide chi, nel campo di chi sta sotto, sarà alla testa della riscossa sociale, se quindi lo sbocco sarà una rivoluzione democratica o, all’opposto, reazionario.
LA STRATEGIA, LA TATTICA, L’ORGANIZZAZIONE
Noi che vogliamo tenere alta la fiaccola del socialismo, di un sistema che funzioni non nell’interesse di pochi ma per il bene comune e assicuri l’eguaglianza sociale nello stato di diritto, abbiamo responsabilità storiche. Non lasceremo cadere questa bandiera a causa degli enormi ostacoli sulla nostra strada. Non c’è altra possibilità che la lotta, che per produrre effetti deve essere fondata su una strategia adeguata che punti all’egemonia, alla conquista della maggioranza. Per questo, a maggior ragione perché questa battaglia è impari, dobbiamo organizzarci, dotarci degli strumenti adeguato per convincere i cittadini, la gioventù anzitutto, ad attivarsi, a venire dalla nostra parte.
Possiamo oramai prendere atto, di contro alle illusioni movimentiste e operaiste, che la crisi sistemica ha agito come una forbice: più venivano alla luce le crepe ed i limiti congeniti del capitalismo, più erano potenti i fattori che inibivano i conflitti sociali. Davanti ad una crisi sistemica grandi masse non si gettano nella mischia se non vedono un’alternativa (la sindrome di T.I.N.A.), tantomeno i lavoratori possono credere, con ai cancelli milioni di disoccupati che premono, nell’efficacia dei tradizionali metodi di lotta sindacali.
Amiamo la ribellione sociale ma non siamo ribellisti. Accendere scintille è legittimo, ma l’incendio della prateria dipende dal venire a maturazione di condizioni oggettive. Proprio ora questa condizioni vanno maturando: chi sta sopra non più a governare come prima, mentre la moltitudine che sta sotto non vuole più vivere come prima. In quanto minoranza creativa è nostro compito ridare lustro e credibilità alla visione socialista del mondo, ma esso può essere perseguito solo se, stando coi piedi ben piantati nel campo popolare, sapremo diventare il lievito di un’opposizione sociale più matura e avanzata. Bisogna tenere assieme ed in maniere innovative teoria e prassi, con i gesti e l’esempio dimostrare che abbiamo grandi ideali ma non siamo utopisti. Entriamo in tempi duri che premieranno la coerenza morale e la saldezza di principi, che daranno forza a chi saprà scovare l’ordine nel disordine, che chiederanno coraggio e disciplina nell’azione. Tempi che chiedono già oggi flessibilità tattica e fermezza strategica. La consapevolezza che occorre aggiornare metodi, linguaggi e lessico della battaglia politica non fa venir meno che la funzione peculiare di un movimento politico resta quella di dare forma compiuta ad un blocco sociale, ad un fronte popolare in grado di vincere e prendere in mano le redini del Paese.
Per quanto numerose siano le condizioni per conformare un blocco sociale antioligarchico egemonico, quattro sono e restano quelle assolutamente necessarie: (1) che esista nella società una maggioranza disposta al cambiamento nella giustizia sociale; (2) che questa maggioranza sociale, per quanto in forma incompiuta, sia rappresentata politicamente in movimenti antioligarchici; (3) che i movimenti politici che rappresentano questa maggioranza siano disposti a fare blocco per salire al governo per portare fuori il Paese dal marasma; (4) che essi, o anche solo quello dominante, abbiano una visione chiara dei compiti, ovvero un programma di governo che indichi le misure principali per guidare il Paese nel difficile passaggio, in quello che sarà a tutti gli effetti uno “Stato d’eccezione”.
Di queste tre condizioni la prima è presente, la seconda avanzante, la terza latente, la quarta assente.
Se uniamo le nostre forze è per costruire un soggetto politico che acceleri la formazione di questo blocco sociale embrionale e ne diventi il lievito, affinché possa avere la potenza necessaria è la forma adeguata. Se uniamo le nostre forze è infine perché noi sentiamo di poter svolgere una funzione importante affinché questo blocco prenda possesso della condizione oggi mancante, quella programmatica.
Portiamo in dote e mettiamo a disposizione del blocco popolare, la nostra esperienza, i nostri saperi, le nostre idee, le nostre proposte. Abbiamo l’ambizione, unendoci, di allestire un luogo che riesca ad indirizzare centinaia e migliaia di attivisti, che possa fungere da officina ove educarli e se necessario rialfabetizzarli.
VERSO UN GOVERNO POPOLARE D’EMERGENZA PER SALVARE IL PAESE
Che non si esce dal marasma senza una svolta radicale e profonda inizia a diventare senso comune. Cresce la consapevolezza che occorre andare alla radice della crisi del sistema, attuando nel nostro paese grandi trasformazioni economiche, sociali, politiche e istituzionali. Si diffonde la coscienza che queste trasformazioni saranno possibili solo con una svolta radicale, che la sovranità nazionale è il primo dei beni comuni, uscendo dalla gabbia dall’Unione europea. Vi è ancora chi considera l’uscita dall’Unione europea e l’abbandono dell’euro come idee velleitarie ed estremistiche. E’ vero esattamente il contrario. Il disfacimento dell’Unione europea e la fine dell’euro sono processi oggettivi, oramai irreversibili. Velleitari sono coloro che s’illudono di fermare queste tendenze facendo gli esorcismi, mettendo toppe che sono peggiori del buco. Estremisti sono gli oligarchi di Francoforte e Bruxelles ed i loro sodali nostrali, disposti a dissanguare i popoli pur di tenere in vita una moneta moribonda e ingrassare la nuova aristocrazia finanziaria. Il problema non è se abbandonare l’euro o meno, il problema è quando e chi guiderà questo ritorno alle sovranità nazionali. Se al potere resteranno i servi politici del capitalismo finanziario, o se ci saliranno movimenti reazionari, ne faranno pagare le salate conseguenze al popolo lavoratore. Se sarà un governo popolare a pilotare l’uscita, i sacrifici, certo inevitabili, saranno anzitutto in carico ai dominanti, e i frutti di questi sacrifici saranno utilizzati per il bene comune e la rinascita del paese. Come si riconosce un governo popolare? Se i provvedimenti che attua vanno a vantaggio del popolo lavoratore, e non dei dominanti, di qualche corporazione o della casta.
Abbiamo detto che nella società italiana esiste già una maggioranza disposta al cambiamento, ma questa maggioranza, o non si esprime politicamente, o si riconosce in movimenti populisti. Questi movimenti sono, rebus sic stantibus, la sola possibilità di formare un governo antioligarchico, per aprire una fase nuova per il nostro Paese. Il fatto che come ogni strada nuova porti con sé dei rischi non può giustificare, ai nostri occhi, alcun indifferentismo, che si risolverebbe in un aiuto alle classi dominanti.
La crisi combinata, dell’area euro, del traballante sistema finanziario-bancario e del regime politico italiano, potrebbe precipitare, determinando le condizioni per estromettere i partiti dell’oligarchia dal governo, ciò che sarebbe per loro una sconfitta bruciante che darebbe, di converso, forza ai movimenti popolari. Un governo antioligarchico che non abbia idee chiare, che non applichi e in modo deciso provvedimenti d’urgenza, che non sia in grado di vincere le resistenze dei dominanti, getterebbe il Paese in un caos gravido di conseguenze disastrose. Sarebbe fatale da parte nostra una posizione attendista o, peggio, d’indifferenza davanti a questo scontro. Saremo invece a fianco del popolo che vuole giustizia sociale e certezze sul futuro, incalzando il governo che esso ha fatto salire al potere, agendo affinché non indietreggi e colpisca gli interessi e i fortilizi dell’oligarchia, contribuendo a suscitare la più ampia mobilitazione dal basso senza la quale non si neutralizzerà il sabotaggio dei potenti. In una situazione di estrema polarizzazione sociale e politica, in cui si giocano le sorti dell’Italia, noi dovremo farci largo, con l’obbiettivo di dare una testa, se necessario nuova, al blocco popolare, indicando un progetto strategico che mentre in sicurezza il Paese, faccia perno sulla difesa ed il miglioramento delle condizioni materiali e spirituali delle classi popolari, ovvero della grande maggioranza dei cittadini.
In estrema sintesi questo Progetto significa:
a) Debellare la disoccupazione attraverso un Piano nazionale per il lavoro, mettendo al centro la tutela dell’ambiente, del paesaggio, del patrimonio culturale e artistico, della salute e della scuola. B) Assicurare un reddito sociale degno per chi si trovi momentaneamente senza lavoro. c) Difesa del valore dei salari e delle pensioni attraverso l'applicazione universale dei contratti collettivi di lavoro, il ripristino della scala mobile, l'introduzione di un salario minimo garantito universale, l'abolizione della legge Fornero, l'innalzamento della no tax area a 15mila euro. b) Affermazione dei diritti sociali: la sanità, l'istruzione e la previdenza devono essere pubbliche e garantite a tutti i cittadini. c) Difesa della democrazia applicando effettivamente i principi sanciti nella Costituzione repubblicana, quindi eleggendo un Parlamento basato sul principio della rappresentanza, composto di eletti e non di nominati, di delegati del popolo e non di meri esecutori dei programmi dei centri del potere finanziario.
Ma queste misure non saranno applicabili se un Governo ed un Parlamento sovrani non adotteranno quei provvedimenti d’urgenza che solo le renderanno possibili.
Quali?
(1) Avviare l’uscita dell’Italia dall’euro e dall’Unione europea, riconquistando la sovranità politica e monetaria, attraverso la reintroduzione della lira —ci sono idee precise riguardo agli aspetti tecnici. La moneta è una leva senza il cui controllo un paese non può decidere autonomamente né politica economica, né quella fiscale, né quella sociale, né quella valutaria. L’eventuale svalutazione, ferma restando una difesa del potere d’acquisto dei salari, mentre diminuirà il peso del debito pubblico, mentre sosterrà il mercato interno, aumenterà la competitività delle aziende rispetto a quelle straniere, e non determinerà l’inflazione catastrofica i liberisti paventano seminando il terrore.
(2) Moratoria sul debito pubblico, cancellando subito quello più odioso. E' inammissibile che l’economia del paese sia soffocata per decenni a favore degli squali della finanza globale. Solo per gli interessi sul debito lo Stato corrisponde di media, annualmente, il 4,5% del Pil (circa 75 miliardi).
Risparmiando l’equivalente di questa cifra (recuperabile anche con la ridenominazione dei Btp nella nuova valuta nazionale) lo stato potrà diminuire le tasse ed aumentare la spesa pubblica primaria (che oggi è tra le più basse d’Europa) attivando immediatamente un piano strategico di opere pubbliche. Ove lo Stato, per finanziarsi, oltre all’emissione monetaria, dovesse ricorrere a quella di titoli di debito, essi saranno offerti solo al mercato interno, onde evitare l’esodo della ricchezza nazionale.
(3) Introdurre limiti stringenti alla libera circolazione dei capitali e ove serva, delle merci, con dazi per proteggere i settori produttivi italiani. Lo stato, riprese le sue prerogative, dovrà esercitare un ruolo indispensabile di regolamentazione dei mercati e di programmazione dei principali fattori economici e sociali, flussi migratori compresi dato il loro impatto sui corpi sociali.
(4) Trasformare e nazionalizzare il sistema bancario e assicurativo in modo da abolire le banche d’affari che utilizzano i depositi e i risparmi dei cittadini per il gioco d’azzardo dei mercati finanziari internazionali. Tutte le banche hanno una funzione economica e sociale di primaria importanza e devono essere messe sotto stretto controllo pubblico.
(5) Adottare un piano di nazionalizzazione degli enti che operano nei settori strategici di interesse nazionale: energia, acqua, trasporti, telecomunicazioni.
Il Consiglio nazionale di Programma 101 - Movimento di Liberazione Popolare
Novembre 2016
4 commenti:
Bisogna affermare a chiare lettere che i flussi migratori islamici vanno sottoposti a rigide restrizioni. E' conforme alle idee storiche della sinistra marxista permettere ai militanti di una religione fanatica, oppressiva e antimoderna di stabilirsi in Europa per combattere la loro guerra santa? Non dovrebbe essere compito primario di una forza autenticamente di sinistra difendere i valori del laicismo e dell'illuminismo contro il terrorismo fanatico dei fondamentalisti?
Apprezzo, ma butto giù qualche considerazione.
Meglio che la parola "sinistra" o "socialismo" spariscano dal lessico. Tutte le rivoluzioni sono sempre corredate da parole nuove. Il rischio è rappresentato da significati, che mi sembra siano gli stessi, con una sfumatura di sovranismo.
Continuare con la distinzione destra/sinistra mi pare un suicidio.
C'è sempre il rischio che qualcun voglia fare la rivoluzione - non per un interesse collettivo - ma per dimostrare sperimentalmente che il Marxismo e la lotta di classe siano sempre veri, granitici ed efficaci.
Manca poi il contesto geopolitico: Mondo Arabo, Iran, Russia (terza Roma)Cina ed Egitto, vie della seta. Infine, la rettorica dei Padri della nazione Santi Eroi e Navigatori ed i destini futuri sul Bosforo e Suez?
Da mettere nel conto - se si fa sul serio - un congruo numero di attentati "jhadisti" con mandanti Nato/UE.
E la questione demografica? Con 4 gatti di giovani, non fai nessuno stato di eccezione.
I pensionati e tutti i dipendenti pubblici e privati a tempo indeterminato pretendono l'Euro. Per non parlare delle masse straniere supereuriste e filo UE: clandestine, con carta di soggiorno e naturalizzate.
L'articolo formula un'idea di rivoluzione progettata dagli "antenati di sinistra", che comunque piacerebbe a Fanfani e Mattei.
La questione è comunque lunga. Ti devi sganciare dall'Euro. Stabilizzare l'economia, ricreare la narrazione nazionale (quasi fascista), obbligare gli italiani a fare figli. Quando avrai un certo quantum di Marco Polo e di Enrico Mattei, allora è il momento di uscire da UE e Nato e tornare platealmente al Mediterraneo e all'Oriente, com'era prima del 1492.
Radek
Caro anonimo, dissentiamo da quanto proponi.
Data l'importanza della questione proveremo a rispondere ed a dire la nostra con un articolo dedicato.
Daccordissimo su tutte le vostre proposte ma come giustamente fa osservare anonimo manca il riferimento al ruolo della immigrazione come strumento del capitalismo internazionale finanziario per comprimere i diritti e i salari dei lavoratori e sulla funzione dell'islamizzazione per la repressione dei diritti delle donne e della libertà sessuale.
Inoltre vorrei far notare la scorrettezza di identificare come destra e perciò come assioma nemico, i movimente che uniscono xenofobia e neoliberismo.
A me pare che quelle che voi chiamate destre, Le pen o Lega suppongo per intenderci, non sono xenofobi nel senso che non odiano gli straniei ma mettono in luce la funzione della immigrazione al servizio del capitalismo, e non sono neoliberisti ma propongono sul piano economico esattamente le vostre ricette a favore del popolo e contro le oligarchie.
Allora se la vostra differnza tra essere di destra o di sinistra sta tutta nelle posizioni verso l'imigrazione, islamica o meno, vi invito a fare un po' di sana analisi della realtà.
le vostre proposte mancaano di questo se non spiegano il ruolo dei fenomeni migratori e come affrontarli
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