[ 27 ottobre ]
«Ma così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale».
Il compagno Alfredo D'Attorre scrive che la sinistra deve "chiedere scusa per aver voluto l'euro". Vale la massima: non è mai troppo tardi.
Tuttavia non la dice tutta, e ciò è sintomatico. La sua è una critica zoppa, che pecca di economicismo, che non vuole riconoscere l'enorme dimensione politica del problema. Non dice infatti che la sinistra dovrebbe fare mea culpa anzitutto per aver sostenuto L'Unione europea, di cui l'euro è solo una protesi.
Perché non lo fa? Perché è ancora prigioniero della narrazione europeista, a sua volta precipitato storico-ideologico del cosmopolitismo —abbracciato dalle classi dominanti europee, sotto la spinta di quella americana, dopo la fase dei nazionalismi fascisti e imperialisti.
Le sinistre, questo è quello che D'Attorre si ostina a non vedere, accettarono l'euro in quanto già prima avevano introiettato il discorso ideologico cosmopolitico —non solo spinelliano, ma su questo, sul peso ben più determinante di certi cenacoli imperialisti come quello di Kalergi, ci torneremo su), ritenendo che il cosmopolitismo imperialista fosse compatibile con la tradizione dell'internazionalismo di matrice marxista.
Il mostro bastardo che ne è venuto fuori l'ho chiamato cosmo-internazionalismo.
D'Attorre ci dice poi che l'avallo all'euro ha riguardato tutta la la sinistra, tranne "isolate eccezioni" (tra cui noi, voglio supporre).
La questione che va posta è allora la seguente: mancava a queste sinistre un retroterra teorico e programmatico per poter evitare l'abbraccio mortale del cosmopolitismo in salsa europeista?
No! Non mancava affatto.
L'adesione al disegno cosmo-europeista è stato piuttosto uno scandaloso tradimento delle proprie basi programmatiche e strategiche. Del proprio stesso Dna.
Qui ve ne vogliamo portare la prova, anzi mostrarvi la "pistola fumante".
Il discorso che Lelio Basso, uno dei padri costituenti, antifascista e dirigente socialista (manco comunista, socialista!) svolse in Parlamento il 13 luglio del 1949, in merito al primo atto di nascita di quella che poi sarà l'Unione europea — l'Accordo per la costituzione del Consiglio d'Europa, firmato a Londra il 5 maggio del 1949.
Ne riportiamo alcuni stralci dove Basso critica come strumentale e antipopolare la conversione cosmopolitica delle classi dominanti, denuncia la natura imperialistica del nascente europeismo e rivendica invece il patriottismo democratico, la difesa della sovranità nazionale e la missione nazionale della classe proletaria.
Consigliamo caldamente di leggere TUTTO IL DISCORSO di Lelio Basso
«Ma così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale».
Lelio Basso
Il compagno Alfredo D'Attorre scrive che la sinistra deve "chiedere scusa per aver voluto l'euro". Vale la massima: non è mai troppo tardi.
Tuttavia non la dice tutta, e ciò è sintomatico. La sua è una critica zoppa, che pecca di economicismo, che non vuole riconoscere l'enorme dimensione politica del problema. Non dice infatti che la sinistra dovrebbe fare mea culpa anzitutto per aver sostenuto L'Unione europea, di cui l'euro è solo una protesi.
Perché non lo fa? Perché è ancora prigioniero della narrazione europeista, a sua volta precipitato storico-ideologico del cosmopolitismo —abbracciato dalle classi dominanti europee, sotto la spinta di quella americana, dopo la fase dei nazionalismi fascisti e imperialisti.
Le sinistre, questo è quello che D'Attorre si ostina a non vedere, accettarono l'euro in quanto già prima avevano introiettato il discorso ideologico cosmopolitico —non solo spinelliano, ma su questo, sul peso ben più determinante di certi cenacoli imperialisti come quello di Kalergi, ci torneremo su), ritenendo che il cosmopolitismo imperialista fosse compatibile con la tradizione dell'internazionalismo di matrice marxista.
Il mostro bastardo che ne è venuto fuori l'ho chiamato cosmo-internazionalismo.
D'Attorre ci dice poi che l'avallo all'euro ha riguardato tutta la la sinistra, tranne "isolate eccezioni" (tra cui noi, voglio supporre).
La questione che va posta è allora la seguente: mancava a queste sinistre un retroterra teorico e programmatico per poter evitare l'abbraccio mortale del cosmopolitismo in salsa europeista?
No! Non mancava affatto.
L'adesione al disegno cosmo-europeista è stato piuttosto uno scandaloso tradimento delle proprie basi programmatiche e strategiche. Del proprio stesso Dna.
Qui ve ne vogliamo portare la prova, anzi mostrarvi la "pistola fumante".
Il discorso che Lelio Basso, uno dei padri costituenti, antifascista e dirigente socialista (manco comunista, socialista!) svolse in Parlamento il 13 luglio del 1949, in merito al primo atto di nascita di quella che poi sarà l'Unione europea — l'Accordo per la costituzione del Consiglio d'Europa, firmato a Londra il 5 maggio del 1949.
Ne riportiamo alcuni stralci dove Basso critica come strumentale e antipopolare la conversione cosmopolitica delle classi dominanti, denuncia la natura imperialistica del nascente europeismo e rivendica invece il patriottismo democratico, la difesa della sovranità nazionale e la missione nazionale della classe proletaria.
Consigliamo caldamente di leggere TUTTO IL DISCORSO di Lelio Basso
Moreno Pasquinelli
Lelio Basso |
«E’ in
questa fase e come strumento di dominazione americana, che nasce e si concreta
il progetto francese di Unione Europea, nasce cioè la proposta di una vera
Unione Europea con parziali rinunce alle sovranità particolari, e con un
proprio parlamento eletto.
(…)
il
Consiglio europeo [di cui discutiamo] è uno strumento della politica atlantica,
e quindi dobbiamo considerare l’accordo oggi sottoposto alla nostra ratifica
come manifestazione di politica atlantica.
(…)
Il Consiglio europeo, cioè, è la maschera progressista,
idealista che deve coprire due realtà brutali: la manomissione economica che l’imperialismo,
il grande ca- pitale americano
esercita sull’Europa e la politica
del blocco occidentale in funzione antisovietica.
Tradurre
questa politica nel
linguaggio del federalismo, esprimere cioè
questa realtà di
sopraffazione e
di soperchieria
in termini ideali, è un mezzo che serve a fare accettare
questa politica a molta gente in buona fede per poi servirsi di tutta questa gente in buona fede come specchio per le allodole onde trascinare certi strati della popolazione dalla
stessa parte.
(…)
Naturalmente,
perché gli investimenti siano più allettanti,
l’America
ha bisogno di grandi mercati e l’interesse
che l’America dimostra per le unioni doganali, la pressione che l’America
esercita per ottenere un’ Europa unita in questo modo, l’interesse ad annullare
le frontiere,
non hanno per scopo di creare una terza forza, tra USA e URSS, ma semplicemente
attestano il suo bisogno di dominare i mercati dell’Europa, di avere un grande
spazio a sua disposizione, per poter governare meglio
e più economicamente il dominion europeo. Hitler faceva la stessa politica e
la chiamava Gleichschaltung.
Di tutto
ciò noi troviamo anche un’eco nei congressi dei federalisti, dove tanta brava
gente applaude a mozioni in cui si parla
indifferentemente dei diritti della personalità umana e della libera
circolazione delle merci, e si vuole
intendere naturalmente la libera circolazione delle merci americane o fabbricate da industrie che
siano sotto il controllo del capitale americano.
(…)
I due termini, Unione europea e
dominio del capitale americano, coincidono.
(…)
Un’Europa
che cammina su questa strada, un’Europa che tende ad unificarsi in funzione del
capitale americano, è un’Europa che tende a far sparire, che tende a distruggere le piccole e medie
industrie; che tende a portare all’esasperazione i
contrasti di classe, e a far sentire sempre più la pressione brutale del
capitale finanziario monopolistico. La lotta di classe non può che venirne
accresciuta, e non può che accrescersi la disoccupazione, che accompagna sempre
i fenomeni di concentrazione e
di cosiddetta razionalizzazione dell’industria. Ma la piccola e la media borghesia ne sarebbero anch’esse
inesorabilmente schiacciate.
(…)
Ed
anche quella decadenza del Parlamento, di cui si è parlato molto in questi ultimi tempi qui da noi, è in funzione di questi
fenomeni. I grandi trusts e i grandi monopoli preferiscono risolvere i
grossi problemi dell’economia, della finanza e della politica nel chiuso dei
consigli d’amministrazione e dei gabinetti dei ministri. Che cosa sanno, per esempio,
oggi, il proletariato inglese e americano, che cosa sa lo stesso parlamento inglese
della reale portata degli enormi conflitti di interessi che si nascondono
dietro la lotta fra sterlina e dollaro?
Abbandoniamo
quindi questa illusione di una Unione europea in funzione di terza forza! Noi
sappiamo che ogni passo avanti che si fa verso questa cosiddetta unione è un passo avanti sulla via
dell’assoggettamento dell’Europa al dominio del capitale finanziario americano
ed è altresì un passo avanti verso la formazione di una piattaforma
europea in funzione antisovietica. Ridotta a
questa
espressione, l’Unione europea somiglia profondamente all’Europa di Hitler: anche allora «Europa in marcia», era una delle espressioni
care alla dominazione nazista, così come oggi «Europa in marcia» è espressione cara alla
dominazione americana.
So
che a questa nostra impostazione si è fatta e si fa questa obiezione: ma
allora, voi socialisti avete abbandonato 1’internazionalismo, siete diventati i
difensori e custodi gelosi della sovranità dello Stato, che è una concezione
ormai superata? Ebbene, no: noi
siamo fermi più che mai nella nostra posizione internazionalistica: noi siamo
sempre perfettamente coerenti con la nostra concezione. Noi sappiamo che Marx
scrisse: «gli operai non hanno patria», ma Marx ci insegnò altresì
che il proletariato deve acquistare la sua coscienza nazionale e che esso
l’acquista a misura che esso si emancipa, a
misura che esso
strappa dalle mani della borghesia l’esercizio esclusivo del potere politico e
si presenta sulla scena della storia come classe che esercita la pienezza dei suoi diritti. Perciò
l’internazionalismo del proletariato si fonda sull’unità e sulla solidarietà di popoli in cui
tutti i cittadini, attraverso
l’abolizione dello sfruttamento di una società classista, conquistano la
propria coscienza nazionale.
In
questo senso, oggi, la lotta che combattiamo
sul terreno della lotta di classe,
la lotta per l’emancipazione del proletariato è un tutt’uno con la lotta per
difendere il nostro paese dalla invadenza del capitalismo americano.
I lavoratori che lottano,
lottano congiuntamente contro lo sfruttamento di classe e contro lo sfruttamento che di essi
pretende fare il capitalismo americano, il quale vuole essere associato al
capitalismo nostrano nella spartizione dei profitti ottenuti attraverso lo sfruttamento delle classi
lavoratrici.
Noi
sappiamo che in questa lotta il proletariato combatte
insieme per due finalità e che in questa lotta esso acquista contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale ponendo le basi per un vero internazionalismo, per
una federazione di popoli liberi che non potrà essere che socialista! In altre parole, il movimento operaio si inizia in un’epoca in cui l’operaio è quasi
posto al bando della società, in cui l’operaio è sfruttato fino al punto di essere praticamente escluso da ogni diritto da una classe
che in questo modo gli nega veramente
l’appartenenza alla patria, in quanto fa dello Stato e della nazione uno strumento della sua politica e uno strumento del
suo dominio e
del suo sfruttamento, ma l’evoluzione del movimento operaio porta il proletariato ad inserirsi sempre
più vivamente nel tessuto della vita nazionale per strapparne il monopolio alla borghesia, e fa coincidere sempre più la lotta per
l’emancipazione, la lotta di classe con l’acquisto della coscienza nazionale,
nel senso che toglie alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominante.
(…)
Ed
ecco che noi assistiamo a questo punto al passaggio improvviso di quelle
borghesie occidentali dal vecchio esasperato nazionalismo, ad un’ondata di cosmopolitismo.
Ma così come il sentimento nazionale del proletariato non ha nulla di comune
con il nazionalismo della borghesia, così il nostro internazionalismo non ha nulla di comune con questo
cosmopolitismo di cui si sente tanto parlare e con il quale si giustificano e si invocano queste unioni
europee e queste continue rinunzie alla sovranità nazionale.
L’internazionalismo
proletario non rinnega il sentimento nazionale, non rinnega la storia, ma vuol creare le condizioni che permettano
alle nazioni di vivere pacificamente insieme. Il cosmopolitismo di oggi che le borghesie, nostrana e dell’Europa, affettano
è tutt’altra
cosa: è
rinnegamento dei valori nazionali per fare meglio accettare la dominazione straniera.
Non
v’è oggi popolo al mondo che sia più
nazionalista del
popolo americano. Oggi negli Stati
Uniti chi non crede che questo sia il secolo americano, chi non crede che il popolo americano
sia il popolo destinato a dominare il mondo, è considerato un non
americano ed è messo al
bando della vita civile. Eppure questo
popolo degli Stati Uniti, questo popolo che in
casa sua è il più nazionalista dei
popoli della terra, oggi, quando si rivolge ai popoli dell’Europa parlas con
affettato dispregio dei pregiudizi nazionali, come di un elemento di arretratezza, e trova subito nei capitalisti europei dei
loro servi che sono pronti ad applaudire al cosmopolitismo.
Le
stesse borghesie italiane e francesi, che furono per molti anni accese scioviniste, e si trovarono poi con la massima
indifferenza pronte a subire la dominazione hitleriana per difendere i propri
interessi e privilegi, oggi con la stessa indifferenza e sfacciataggine
proclamano il verbo del cosmopolitismo e dell’europeismo per servire gli
interessi del capitalismo americano.
Esse
cercano di pervertire con questo veleno
il vero sentimento nazionale. Noi possiamo leggere, per
esempio, sotto la penna di uno dei più smaccati servitori della borghesia francese di oggi, il Malraux, frasi di questo genere: «L’uomo diventa tanto più uomo quanto meno è unito al suo paese».
Anche
la propaganda
hitleriana era basata come quella
americana di oggi, su questo stesso dualismo.
Il popolo tedesco parlava di sè come di un popolo eletto,
popolo destinato a dominare il mondo; quando
si rivolgeva agli altri popoli, parlava viceversa di europeismo».
11 commenti:
La questione è mal posta. L'internazionalizzazione del mercato è un fatto storico. Non userò l'espressione inarrestabile, se no mi date del determinista. Ma è certo che dagli Ittiti alla scoperta dell'America, c'è una tendenza "velocissima", all'internazionalizzazione. Tendenza imposta dal mercato. La questione è quindi: i proletari devono difendere le condizioni particolari o devono anche loro internazionalizzarsi?
Non è una questione etica, come talvolta questo blog la imposta. In altre parole: la "resistenza" dei pellerossa avrebbe mai potuto vincere? Temo di no.
Che fare allora?
Costruire l'internazionale. Altro che sovranità nazionale.
Internazionalista secondo me sei proprio fuori dal mondo.
«L'internazionalizzazione del mercato è un fatto storico» scrivi.
«La resistenza dei pellerossa non avrebbe mai potuto vincere» dici.
Quindi?
Costruire l'internazionale? Così sconfitto in partenza.
Semmai organizzare la RESISTENZA NAZIONALE contro questo internazionalismo del mercato.
Distruggerlo con tutto il capitale.
Dopo e solo dopo costruisci l'internazionalismo socialista.
In questo periodo storico l' internazionalizzazione è vincente solo per il capitale e gli stati sovrani sono l' unico argine ad esso.
Ottimo articolo. Specialmente quando parla dell'America.
Quale simbolo usano proprio loro nella democraticissima hall of congress in Capitol Hill? Il fascio littorio (che presumibilmente sta li da prima che il fascismo italiano nascesse). Il simbolo della romanità e della volontà di dominare il mondo.
Ma loro non discendono dai barbari del nord? Che c'azzeccano con la romanità?
Scusa, fai mica Ferrero di cognome?
Grazie.
Forse per costruire l'internazionale occorre acquisire la sovranita' nationale.
Rinnovo l'invito a tutti i blog so ranisti e antieuro di mettere una bandiera italiana in home page accanto al nome.
È molto importante che lo si faccia tutti insieme , possibilmente con la stessa grafica per la bandiera.
Tenete presente che si perde molto di credibilità a parlare di sovranità nazionale senza mettere il tricolore.
L sovranità nazionale appartiene ai miti storici. Nella storia la trovi sempre influenzata e spesso sottomessa a qualche potenza egemone. Se non c'è la sottomissione scoppia qualche guerra. E' la solita questione dei due galli in un pollaio.
"L sovranità nazionale appartiene ai miti storici. Nella storia la trovi sempre influenzata e spesso sottomessa a qualche potenza egemone"
Questo però implica che anche l'internazionalismo appartiene ai miti storici con buona pace dei cosmopolitici. Argomentate sempre a senso unico.
Dunque che si fa? Accettiamo lo status quo? Ci iscriviamo tutti alla corrente dentifricia?
Credo che internazionalista dicesse di costruire l'internazionale come organizzazione delle classi sfruttate. ....Non vedo cosa c'è di fuori dal mondo. Carlo
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