[ 16 luglio ]
Sottovalutare le masse, il ruolo che esse possono svolgere nei momenti cruciali della storia di un paese, è l’errore più frequente delle élite abituate ad occupare alte posizioni di potere.
Sottovalutare le masse, il ruolo che esse possono svolgere nei momenti cruciali della storia di un paese, è l’errore più frequente delle élite abituate ad occupare alte posizioni di potere.
Non fosse stato per la grande sollevazione popolare in difesa di Erdogan, i golpisti turchi avrebbero avuto la meglio, come la ebbe al-Sisi in Egitto nel luglio 2013.
Ed è stato certamente quello di al-Sisi l’esempio che i golpisti turchi hanno voluto imitare. Essi avevano messo nel conto l’opposizione degli apparati di sicurezza dello Stato fedeli al partito ed al regime di Erdogan e, per averla vinta, è sulla mobilitazione popolare pro-colpo di stato, in nome della “democrazia” e della fine dell’egemonia islamista che facevano affidamento. Hanno invece suscitato una reazione contraria.
E se il tentato golpe non ha scatenato la guerra civile tra opposti schieramenti ciò è la prova dell’ampio consenso di cui Erdogan gode, malgrado tutte le sue malefatte ed i pesanti rovesci in politica estera — il totale fallimento del suo espansionismo neo-ottomano in Medio oriente.
Non sappiamo, e forse non sapremo mai, se i golpisti avessero avuto sottobanco il lasciapassare della Casa Bianca, certamente infastidita dal protagonismo regionale di Erdogan. Che Washinton abbia condannato il fallito golpe è infatti un atto dovuto e non dissipa i dubbi.
Tra i fattori che hanno spinto pezzi da novanta della casta militare a tentare il tutto per tutto quello geopolitico appare tuttavia secondario. Più importante ci sembra il fattore interno.
Sin dal giugno 1996, quando salì al potere il partito islamista conservatore di Necmettin Erbakan — padre politico di Erdogan — in Turchia c’è una specie di instabile dualismo di poteri: il governo islamista eletto da una parte ed il potente esercito dall’altra. Ed infatti nel febbraio del 1997 proprio i militari costrinsero alle dimissioni Erbakan sciogliendo con atto d’imperio il suo partito.
Chi pensava che l’avanzata islamica fosse stata neutralizzata si sbagliava. Fu proprio Erdogan, col suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) a riprendere il cammino di Erbakan, vincendo a man bassa tutte le tornate elettorali dal 2002 in poi.
Grazie al sistema fortemente presidenzialista instaurato proprio dai militari col loro sanguinoso golpe del 1980, Erdogan governa con pugno di ferro ed ha perseguito una implacabile politica di epurazione dei vertici militari, mandando in prigione generali e colonnelli di fede kemalista e atlantista e sostituendoli con gerarchi di sua fiducia.
La ragione per cui i golpisti che hanno tentato di rovesciare Erdogan non hanno suscitato l’appoggio delle masse è evidente: in pochi hanno, giustamente, creduto che i generali kemalisti siano scesi in campo per “ripristinare la democrazia”. Il ricordo dei loro crimini è ancora fresco tra i turchi. Essi hanno tentato il colpo di forza per tutelare gli interessi della loro casta e per riconsegnare all’Esercito il suo ruolo dominante.
Nella lotta tra bande all’interno del regime, quella di Erdogan ha avuto di nuovo la meglio. Non c’è né da esecrare né da esultare.
Un fatto è certo: la vittoria del blocco guidato da Erdogan, per quanto eclatante, non fa della Turchia un paese stabile. Resta una polveriera profondamente divisa da fattori nazionali, sociali e religiosi, la cui esplosività è stata accentuata proprio dalle smanie di egemonismo regionale di Erdogan, in particolare dal suo ruolo attivo nel fomentare la guerra civile in Siria.
Il tentato golpe è la spia che in Turchia v’è una situazione di guerra civile latente che, prima o poi, diverrà conclamata, con ripercussioni enormi non solo in Medio oriente, ma anche in Caucaso e forse oltre.
Ed è stato certamente quello di al-Sisi l’esempio che i golpisti turchi hanno voluto imitare. Essi avevano messo nel conto l’opposizione degli apparati di sicurezza dello Stato fedeli al partito ed al regime di Erdogan e, per averla vinta, è sulla mobilitazione popolare pro-colpo di stato, in nome della “democrazia” e della fine dell’egemonia islamista che facevano affidamento. Hanno invece suscitato una reazione contraria.
E se il tentato golpe non ha scatenato la guerra civile tra opposti schieramenti ciò è la prova dell’ampio consenso di cui Erdogan gode, malgrado tutte le sue malefatte ed i pesanti rovesci in politica estera — il totale fallimento del suo espansionismo neo-ottomano in Medio oriente.
Non sappiamo, e forse non sapremo mai, se i golpisti avessero avuto sottobanco il lasciapassare della Casa Bianca, certamente infastidita dal protagonismo regionale di Erdogan. Che Washinton abbia condannato il fallito golpe è infatti un atto dovuto e non dissipa i dubbi.
Tra i fattori che hanno spinto pezzi da novanta della casta militare a tentare il tutto per tutto quello geopolitico appare tuttavia secondario. Più importante ci sembra il fattore interno.
Sin dal giugno 1996, quando salì al potere il partito islamista conservatore di Necmettin Erbakan — padre politico di Erdogan — in Turchia c’è una specie di instabile dualismo di poteri: il governo islamista eletto da una parte ed il potente esercito dall’altra. Ed infatti nel febbraio del 1997 proprio i militari costrinsero alle dimissioni Erbakan sciogliendo con atto d’imperio il suo partito.
Chi pensava che l’avanzata islamica fosse stata neutralizzata si sbagliava. Fu proprio Erdogan, col suo Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) a riprendere il cammino di Erbakan, vincendo a man bassa tutte le tornate elettorali dal 2002 in poi.
Grazie al sistema fortemente presidenzialista instaurato proprio dai militari col loro sanguinoso golpe del 1980, Erdogan governa con pugno di ferro ed ha perseguito una implacabile politica di epurazione dei vertici militari, mandando in prigione generali e colonnelli di fede kemalista e atlantista e sostituendoli con gerarchi di sua fiducia.
La ragione per cui i golpisti che hanno tentato di rovesciare Erdogan non hanno suscitato l’appoggio delle masse è evidente: in pochi hanno, giustamente, creduto che i generali kemalisti siano scesi in campo per “ripristinare la democrazia”. Il ricordo dei loro crimini è ancora fresco tra i turchi. Essi hanno tentato il colpo di forza per tutelare gli interessi della loro casta e per riconsegnare all’Esercito il suo ruolo dominante.
Nella lotta tra bande all’interno del regime, quella di Erdogan ha avuto di nuovo la meglio. Non c’è né da esecrare né da esultare.
Un fatto è certo: la vittoria del blocco guidato da Erdogan, per quanto eclatante, non fa della Turchia un paese stabile. Resta una polveriera profondamente divisa da fattori nazionali, sociali e religiosi, la cui esplosività è stata accentuata proprio dalle smanie di egemonismo regionale di Erdogan, in particolare dal suo ruolo attivo nel fomentare la guerra civile in Siria.
Il tentato golpe è la spia che in Turchia v’è una situazione di guerra civile latente che, prima o poi, diverrà conclamata, con ripercussioni enormi non solo in Medio oriente, ma anche in Caucaso e forse oltre.
* Fonte: Campo Antimperialista
1 commento:
Non tutto ciò che è gradito alle oligarchie atlantiste passa automaticamente(preciso che la mia non è una visione complottista ma.lo spazio mi impedisce di chiarire in maniera approfondita)
Certo è che,per colpa di entrambe le parti in gioco ieri sera,la Turchia si trova seriamente sull orlo del baratro interno,considerando poi che erdogan prenderà la palla.al balzo per nuove epurazioni su tutti i fronti radicalizzando una situazione già tesa.
Vedremo
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