[ 12 luglio ]
“Che roba, contessa!” Un tempo qualcuno cantava, e con accenti vibranti, questa vecchia canzone di Paolo Pietrangeli in faccia al clericofascismo nostrano spaventato e disgustato dalla riscossa degli operai italiani. Oggi, molti di quei “qualcuno” cantano ancora la stessa canzone, ma sono loro, questa volta, ad essere spaventati e disgustati: dal “no” degli operai inglesi all’Europa. E con l’immaginaria contessa condividono il rimpianto per i bei tempi in cui l’intelligenza (la loro) contava ancora qualcosa, lo stupore per quei molti che si considerano vessati da quel gioiellino che è l’Unione europea, il fastidio per il fatto che ormai anche l’operaio vuol decidere di testa sua : “non c’è più morale, contessa!”.
Oggi, dopo la Brexit, è tutto un “sì, ma…”: la democrazia è bella, ma…, i referendum saranno pure importanti, ma…, il suffragio universale non si tocca, ma… siamo sicuri che il voto di un qualunque tizio privo di cultura debba valere quanto il nostro? E su questioni così complesse, poi! E via sproloquiando. Dopo aver distrutto la scuola pubblica se la prendono con l’ignoranza del popolo. Dopo aver smantellato le concentrazioni operaie, dopo aver annichilito i partiti, dopo aver dichiarato che ogni ideale di eguaglianza (anzi, ogni e qualsiasi ideale) è pericoloso, hanno il coraggio di lamentarsi del populismo. I rappresentanti delle classi che si sono arbitrariamente autodefinite colte, non volendo capire la cosa più semplice (e cioè che dopo vent’anni e più di impoverimento chiunque voterebbe controqualunque ordine stabilito) devono inventarsi un capro espiatorio per l’orrido misfatto che ha distrutto i loro tranquillizzanti exit poll. Cosa c’è di meglio, allora, che prendersela col bersaglio preferito del classismo liberista, ossia coi lavoratori anziani? Quei vecchi egoisti rimbecilliti e rancorosi dovrebbero tacere, e lasciar parlare quelli che ne sanno più di loro, quelli che hanno pensieri e comportamenti razionali: i giovani, i mercati, le grandi imprese, gli esperti! Questo è il commento corrente sulla Brexit.
Ma ditemi voi perché mai un neolaureato che per sua disgrazia vivacchia in famiglia, smanettando sulla tastiera, saltando da un semilavoro pseudocreativo all’altro e chiamando tutto questo “libertà”, dovrebbe saper giudicare il mondo meglio di un vecchio operaio gallese che ha sperimentato tutte le delizie del capitalismo e che, soprattutto, ha memoria di un’epoca passata e diversa, e proprio per questo può addirittura immaginare un futuro diverso. Ditemi perché mai gli operatori finanziari possono fare incetta di un titolo non per il suo valore intrinseco ma solo per la speranza che qualcuno li imiti e ne faccia salire il prezzo (gonfiando così bolle su bolle), e un povero cristo non dovrebbe votare un progetto che magari è gestito da gente che non gli piace, ma può raggiungere la massa critica necessaria a dare quantomeno uno scossone a tutta la baracca. Ditemi perché una megaimpresa può fregarsene della programmazione a lungo termine e basarsi solamente sulla trimestrale di cassa, mentre un pensionato, nelle sue scelte politiche, dovrebbe basarsi sugli ideali europeisti e non sul saldo del suo conto corrente. Ma soprattutto ditemi perché mai si dovrebbero delegare le decisioni politiche agli esperti ed agli informati, quando questi sono sempre in forte dissenso tra loro e si schierano (anche sull’Europa, ovviamente) su fronti opposti. Su che base si può mai decidere dopo avere ascoltato gli opposti pareri di esperti aventi gli stessi titoli scientifici?
E’ semplice: sulla base di ciò che da sempre determina le decisioni di tutti, popolo e sapienti, ossia sulla base dei propri interessi di classe e della propria (mutevole) percezione di tali interessi. La scelta democratica può dar luogo a molti errori ed a volte ad errori gravissimi, perché vi può essere un’erronea percezione dei propri interessi o perché tali interessi sono troppo ristretti ed egoistici: ed è proprio per questo che bisogna restare saldamente abbarbicati a quelle Costituzioni, che non a caso i mercati e l’Unione europea tentano di dissolvere, e che sono l’unica barriera possibile contro gli errori del sovrano, chiunque esso sia. Ma è chiaro come il sole che gli errori vengono commessi da tutti, popolo e sapienti, mani callose e cantori dell’immateriale, perché per tutti è difficile percepire in maniera adeguata i propri interessi e mediarli, per quanto è possibile, con quelli altrui.
Sono state anche o soprattutto le scelte elettorali tenacemente liberiste delle classi presunte colte, è stata soprattutto la loro incapacità di mediare i propri interessi di classe con quelli dei presunti incolti, a creare la benvenuta crisi di egemonia della vasta élite europeista. In questo caso i sapienti hanno sbagliato, e di grosso. E’ stata la capacità popolare di percepire i propri interessi di classe e di comprendere la necessità di una rottura quale la Brexit a produrre una fase politica nuova, rischiosa ma dinamica. In questo caso gli incolti l’hanno azzeccata. Che poi questa rottura venga gestita, oggi, dagli eredi di Farage e di Cameron (ma non esclusivamente da loro: si veda la Left Leave Campaign…) non deve né essere nascosto né essere usato come la croce contro il vampiro: l’egemonia della destra su questo processo è ovvia ed al momento inevitabile, così come è inevitabile il carattere interclassista ed a volte ambiguo di formazioni che, come Podemos e il M5S, in altro modo incrinano gli equilibri attuali. Ma l’antieuropeismo (meglio, l’antiunionismo) ed il nazionalismo (meglio, il discorso nazionale) non sono necessariamente di destra: lo diventano se e quando la sinistra passa integralmente o quasi dalla parte del grande capitale, e finché non si crea un’alternativa socialista che contrasti sia l’attuale destra che l’attuale sinistra.
Per creare una simile alternativa è essenziale comprendere bene la congiuntura attuale, e quindi saper leggere le cause e gli effetti della Brexit uscendo dal chiacchiericcio antipopulista (ed in realtà antipopolare) e dalla illusoria attesa di un “colpo di reni” delle élite unioniste. Su questo punto è assai utile seguire il consiglio di Emiliano Brancaccio ed analizzare i processi profondi che hanno condotto agli eventi più recenti. E questi processi ci parlano chiaramente dicrisi della globalizzazione, di aumento della competizione intercapitalistica, di lotta acuta non solo del capitale contro il lavoro, ma anche del grande capitale contro il piccolo, una lotta nella quale bisognerebbe incunearsi (come suggerisce ancora Brancaccio), mentre invece la sinistra la osserva con supponenza e senza comprenderla, oppure si schiera apertamente col capitale globalista e con la sua strategia di centralizzazione (ancora una volta confusa con la modernizzazione tout court: quando mai finirà l’influenza di quella che il maoismo chiamava la “nefasta teoria” della neutralità delle forze produttive?).
Tale crisi della globalizzazione, resa sempre più evidente dall’indebolimento degli istituti sovra o internazionali, dalle svalutazioni competitive, dagli accordi di libero scambio fatti ormai non per aprire a tutti, ma per “chiudere” a qualcuno, comporta a mio parere un processo di rinazionalizzazione della politica che può piacere o non piacere, ma costituisce di fatto il campo attuale, e ineludibile, della lotta di classe. Una rinazionalizzazione (successiva ad un periodo in cui le nazioni non erano certo scomparse, ma delegavano molte funzioni ad organismi extranazionali…gestiti dalle nazioni più forti) che si realizza non perché la nazione sia un residuo della storia che nei momenti di crisi viene riattivato in mancanza di meglio (ed anche se così fosse, ciò non ne sminuirebbe l’importanza politica), ma perché le differenze nazionali sono la veste più adeguata per una integrazione delle economie mondiali che avviene in forma capitalistica, ossia attraverso una centralizzazione gerarchica che assorbe i capitali deboli mente incrementa la subordinazione del lavoro. Questa lotta costante contro i capitali deboli e contro i lavoratori trova nelle differenze fra nazioni un’arma formidabile, perché esse permettono di costruire “aree speciali” in cui il credito è più oneroso ed il salario più compresso, ed altre aree in cui il capitale si centralizza e trova poli di direzione strategica e di supporto militare (Europa docet). La subordinazione delle nazioni più deboli ed il rafforzamento ulteriore di quelle già forti è uno dei mezzi più importanti della centralizzazione del capitale oggi. La riconquista della sovranità nazionale e la creazione – su questa base – di nuove relazioni internazionali cooperative sono oggi l’oggetto decisivo della lotta di classe in Europa, la condizione di ogni avanzamento del movimento dei lavoratori. Lo spazio nazionale e il nuovo spazio internazionale cooperativo tra nazioni sovrane, disegnano il campo in cui sia i lavoratori che il piccolo capitale possono organizzare la resistenza contro il loro nemico principale e contendersi l’egemonia sul processo di liberazione dal dominio del capitale finanziario globalista. Fuggire da questo campo significa consegnare senza combattere la direzione del processo al piccolo capitale, alle sue inconseguenze, alle sue tendenze razziste e autoritarie, al suo protezionismo privo di sguardo strategico.
La Brexit, per tornare a noi, è proprio effetto della crisi della globalizzazione, è effetto dell’incontro tra il processo di rinazionalizzazione (come aspetto del conflitto intercapitalistico) ed il crescente malcontento popolare contro l’Unione. In particolare è l’effetto del crescente squilibrio intraeuropeo, che consiste nell’indebitamento di molte economie nazionali del continente nei confronti di altre nazioni dell’Unione, uno squilibrio che non viene sanato, ma riprodotto dall’Unione stessa, e che la liberalizzazione spinta dei mercati ha accentuato anche nei paesi che non si sono autoimposti il giogo dell’euro. Contro questo squilibrio, che l’economia inglese patisce in modo significativo, e contro i regolamenti europei ritenuti responsabili principali della situazione si è creata una coalizione tra una parte degli esportatori inglesi, la gran massa dei piccoli produttori declassati ed una notevole parte dei lavoratori maggiormente colpiti dalla crisi. E questa coalizione al momento ha vinto.
Difficile dire quali potranno essere le conseguenze della Brexit sull’economia inglese e soprattutto sui lavoratori di quel paese: da sola, senza un chiaro programma di critica al neoliberismo, essa (che pure era un passaggio necessario) non può portare molto lontano. Più facile immaginare quali saranno le conseguenze sul futuro dell’Unione. Data la tendenza generale alla rinazionalizzazione e data la crescente disaffezione, come la chiamerebbe timidamente un europeista, dei cittadini europei nei confronti dell’Unione, non potranno che essere negative. Qualche anima bella sogna una reazione unitaria, un passo verso la messa in comune dei debiti, un’attenuazione, se non un’inversione, delle politiche antipopolari: il tutto condito dall’immancabile illusione sull’aumento del peso politico della Francia “socialista” e, perché no, della stessa Italia. Ma il tanto atteso scatto in avanti non ci sarà: nessuno vorrà rifondare l’Unione nell’unico modo che le garantirebbe un futuro, ossia come patto politico tra nazioni sovrane, finalizzato a tutelare la tradizione europea di economia mista e welfare state in un contesto di autonomia dai blocchi geopolitici attuali. Nessuno lo farà perché, salvo minacce immediate alla sopravvivenza delle nazioni (e la Brexit non lo è, o non è percepito come tale) queste ultime tendono a seguire le loro abituali strategie di lungo periodo: e le strategie francesi e soprattutto tedesche, ad oggi, non intendono aumentare l’integrazione fiscale o diminuire la pressione sul salario. Nessuno lo farà perché l’uscita dell’Inghilterra non rafforzerà, ma indebolirà la prospettiva di una maggiore integrazione economica e politica.
Immediatamente infatti la Brexit accentua gli elementi di disgregazione. Non concedere nulla di sostanziale sulla questione delle banche italiane, indebolire la Commissione europea, privilegiare ancor più di prima le decisioni intergovernative, investire tutti i parlamenti nazionali della discussione sui trattati commerciali dell’Unione, questa è la reazione pavloviana del dominus dell’Unione, ossia il governo di Berlino, nonostante le (deboli) proteste italiane. Esattamente il contrario dello scatto unionista che qualcuno si attende. Qualcuno potrebbe consolarsi aspettando che la pur non immediata uscita di scena della potenza nazionale meno propensa all’integrazione (anche perché più atlantista) giochi alla fin fine a favore dell’integrazione stessa. Ma in realtà, come osservano equilibrati studiosi della politica estera di Berlino, il liberismo inglese era un ottimo alleato dell’ordoliberismo tedesco nelle trattative con Francia “statalista”. Fuori il primo, il secondo sarà ancor meno propenso a fare concessioni, per paura di essere fagocitato. Né si può sperare (e sarebbe comunque un tragica speranza) nell’attuale riproposizione, da parte del “ministero degli esteri” europeo, di una politica militare unitaria. La Brexit potrebbe certamente accelerare il processoformale di integrazione della politica militare dell’Unione, anche perché l’industria bellica del continente può finalmente spingere come non mai per un aumento degli investimenti comunitari in questo campo. Ma d’altro canto, dal punto di vista sostanziale, un’Europa che perde pezzi è assai meno credibile di prima come soggetto di una politica estera unitaria, mentre l’uscita della Gran Bretagna priva l’Europa stessa di una piattaforma tecnologico-informativa decisiva per ogni seria operazione militare. E a tutto ciò si deve aggiungere il fatto che, venendo loro a mancare la possibilità di influenzare l’Unione attraverso l’Inghilterra, gli Usa tenteranno di aumentare la presa, oltre che sull’Italia, sulla Germania o sulla Francia, appesantendo così la loro ipoteca sull’autonomia geopolitica del vecchio continente. Al di fuori di una vera integrazione economico-politica e di una vera autonomia geopolitica (oggi impossibili), un’eventuale accelerazione dell’ unificazione militare si risolverà quasi certamente in una operazione di mera polizia interna (contro l’immigrazione ma anche contro le possibili rivolte popolari) oppure si tradurrà in qualche intervento avventurista, precario sostituto di un vero ruolo mondiale dell’Unione. E questo mentre si fa più chiara la tendenza degli Usa a muovere guerra alla Russia sul terreno europeo, e quindi a muovere guerra ad ogni residua velleità unitaria dell’Europa stessa.
Insomma, la Brexit sembra preparare un futuro in cui la politica dell’Unione proseguirà ipocritamente as usual, ma in un contesto di tensioni decisamente crescenti. Non si possono escludere piccole svolte tattiche, apparenti concessioni “antipopuliste”, belle parole sulla solidarietà e sulla crescita: ma la direzione fondamentale è quella dell’aumento degli squilibri, anche perché ormai gli effetti di ogni consultazione elettorale che in qualche modo punisca le forze europeiste sono moltiplicati ed amplificati dalle dinamiche centrifughe nazionali, e queste ultime si alimentano dei risultati elettorali stessi, riproducendo così le condizioni della crisi.
Se tutto questo è vero, si prepari a ballare, contessa!
“Che roba, contessa!” Un tempo qualcuno cantava, e con accenti vibranti, questa vecchia canzone di Paolo Pietrangeli in faccia al clericofascismo nostrano spaventato e disgustato dalla riscossa degli operai italiani. Oggi, molti di quei “qualcuno” cantano ancora la stessa canzone, ma sono loro, questa volta, ad essere spaventati e disgustati: dal “no” degli operai inglesi all’Europa. E con l’immaginaria contessa condividono il rimpianto per i bei tempi in cui l’intelligenza (la loro) contava ancora qualcosa, lo stupore per quei molti che si considerano vessati da quel gioiellino che è l’Unione europea, il fastidio per il fatto che ormai anche l’operaio vuol decidere di testa sua : “non c’è più morale, contessa!”.
Oggi, dopo la Brexit, è tutto un “sì, ma…”: la democrazia è bella, ma…, i referendum saranno pure importanti, ma…, il suffragio universale non si tocca, ma… siamo sicuri che il voto di un qualunque tizio privo di cultura debba valere quanto il nostro? E su questioni così complesse, poi! E via sproloquiando. Dopo aver distrutto la scuola pubblica se la prendono con l’ignoranza del popolo. Dopo aver smantellato le concentrazioni operaie, dopo aver annichilito i partiti, dopo aver dichiarato che ogni ideale di eguaglianza (anzi, ogni e qualsiasi ideale) è pericoloso, hanno il coraggio di lamentarsi del populismo. I rappresentanti delle classi che si sono arbitrariamente autodefinite colte, non volendo capire la cosa più semplice (e cioè che dopo vent’anni e più di impoverimento chiunque voterebbe controqualunque ordine stabilito) devono inventarsi un capro espiatorio per l’orrido misfatto che ha distrutto i loro tranquillizzanti exit poll. Cosa c’è di meglio, allora, che prendersela col bersaglio preferito del classismo liberista, ossia coi lavoratori anziani? Quei vecchi egoisti rimbecilliti e rancorosi dovrebbero tacere, e lasciar parlare quelli che ne sanno più di loro, quelli che hanno pensieri e comportamenti razionali: i giovani, i mercati, le grandi imprese, gli esperti! Questo è il commento corrente sulla Brexit.
Ma ditemi voi perché mai un neolaureato che per sua disgrazia vivacchia in famiglia, smanettando sulla tastiera, saltando da un semilavoro pseudocreativo all’altro e chiamando tutto questo “libertà”, dovrebbe saper giudicare il mondo meglio di un vecchio operaio gallese che ha sperimentato tutte le delizie del capitalismo e che, soprattutto, ha memoria di un’epoca passata e diversa, e proprio per questo può addirittura immaginare un futuro diverso. Ditemi perché mai gli operatori finanziari possono fare incetta di un titolo non per il suo valore intrinseco ma solo per la speranza che qualcuno li imiti e ne faccia salire il prezzo (gonfiando così bolle su bolle), e un povero cristo non dovrebbe votare un progetto che magari è gestito da gente che non gli piace, ma può raggiungere la massa critica necessaria a dare quantomeno uno scossone a tutta la baracca. Ditemi perché una megaimpresa può fregarsene della programmazione a lungo termine e basarsi solamente sulla trimestrale di cassa, mentre un pensionato, nelle sue scelte politiche, dovrebbe basarsi sugli ideali europeisti e non sul saldo del suo conto corrente. Ma soprattutto ditemi perché mai si dovrebbero delegare le decisioni politiche agli esperti ed agli informati, quando questi sono sempre in forte dissenso tra loro e si schierano (anche sull’Europa, ovviamente) su fronti opposti. Su che base si può mai decidere dopo avere ascoltato gli opposti pareri di esperti aventi gli stessi titoli scientifici?
E’ semplice: sulla base di ciò che da sempre determina le decisioni di tutti, popolo e sapienti, ossia sulla base dei propri interessi di classe e della propria (mutevole) percezione di tali interessi. La scelta democratica può dar luogo a molti errori ed a volte ad errori gravissimi, perché vi può essere un’erronea percezione dei propri interessi o perché tali interessi sono troppo ristretti ed egoistici: ed è proprio per questo che bisogna restare saldamente abbarbicati a quelle Costituzioni, che non a caso i mercati e l’Unione europea tentano di dissolvere, e che sono l’unica barriera possibile contro gli errori del sovrano, chiunque esso sia. Ma è chiaro come il sole che gli errori vengono commessi da tutti, popolo e sapienti, mani callose e cantori dell’immateriale, perché per tutti è difficile percepire in maniera adeguata i propri interessi e mediarli, per quanto è possibile, con quelli altrui.
Sono state anche o soprattutto le scelte elettorali tenacemente liberiste delle classi presunte colte, è stata soprattutto la loro incapacità di mediare i propri interessi di classe con quelli dei presunti incolti, a creare la benvenuta crisi di egemonia della vasta élite europeista. In questo caso i sapienti hanno sbagliato, e di grosso. E’ stata la capacità popolare di percepire i propri interessi di classe e di comprendere la necessità di una rottura quale la Brexit a produrre una fase politica nuova, rischiosa ma dinamica. In questo caso gli incolti l’hanno azzeccata. Che poi questa rottura venga gestita, oggi, dagli eredi di Farage e di Cameron (ma non esclusivamente da loro: si veda la Left Leave Campaign…) non deve né essere nascosto né essere usato come la croce contro il vampiro: l’egemonia della destra su questo processo è ovvia ed al momento inevitabile, così come è inevitabile il carattere interclassista ed a volte ambiguo di formazioni che, come Podemos e il M5S, in altro modo incrinano gli equilibri attuali. Ma l’antieuropeismo (meglio, l’antiunionismo) ed il nazionalismo (meglio, il discorso nazionale) non sono necessariamente di destra: lo diventano se e quando la sinistra passa integralmente o quasi dalla parte del grande capitale, e finché non si crea un’alternativa socialista che contrasti sia l’attuale destra che l’attuale sinistra.
Per creare una simile alternativa è essenziale comprendere bene la congiuntura attuale, e quindi saper leggere le cause e gli effetti della Brexit uscendo dal chiacchiericcio antipopulista (ed in realtà antipopolare) e dalla illusoria attesa di un “colpo di reni” delle élite unioniste. Su questo punto è assai utile seguire il consiglio di Emiliano Brancaccio ed analizzare i processi profondi che hanno condotto agli eventi più recenti. E questi processi ci parlano chiaramente dicrisi della globalizzazione, di aumento della competizione intercapitalistica, di lotta acuta non solo del capitale contro il lavoro, ma anche del grande capitale contro il piccolo, una lotta nella quale bisognerebbe incunearsi (come suggerisce ancora Brancaccio), mentre invece la sinistra la osserva con supponenza e senza comprenderla, oppure si schiera apertamente col capitale globalista e con la sua strategia di centralizzazione (ancora una volta confusa con la modernizzazione tout court: quando mai finirà l’influenza di quella che il maoismo chiamava la “nefasta teoria” della neutralità delle forze produttive?).
Tale crisi della globalizzazione, resa sempre più evidente dall’indebolimento degli istituti sovra o internazionali, dalle svalutazioni competitive, dagli accordi di libero scambio fatti ormai non per aprire a tutti, ma per “chiudere” a qualcuno, comporta a mio parere un processo di rinazionalizzazione della politica che può piacere o non piacere, ma costituisce di fatto il campo attuale, e ineludibile, della lotta di classe. Una rinazionalizzazione (successiva ad un periodo in cui le nazioni non erano certo scomparse, ma delegavano molte funzioni ad organismi extranazionali…gestiti dalle nazioni più forti) che si realizza non perché la nazione sia un residuo della storia che nei momenti di crisi viene riattivato in mancanza di meglio (ed anche se così fosse, ciò non ne sminuirebbe l’importanza politica), ma perché le differenze nazionali sono la veste più adeguata per una integrazione delle economie mondiali che avviene in forma capitalistica, ossia attraverso una centralizzazione gerarchica che assorbe i capitali deboli mente incrementa la subordinazione del lavoro. Questa lotta costante contro i capitali deboli e contro i lavoratori trova nelle differenze fra nazioni un’arma formidabile, perché esse permettono di costruire “aree speciali” in cui il credito è più oneroso ed il salario più compresso, ed altre aree in cui il capitale si centralizza e trova poli di direzione strategica e di supporto militare (Europa docet). La subordinazione delle nazioni più deboli ed il rafforzamento ulteriore di quelle già forti è uno dei mezzi più importanti della centralizzazione del capitale oggi. La riconquista della sovranità nazionale e la creazione – su questa base – di nuove relazioni internazionali cooperative sono oggi l’oggetto decisivo della lotta di classe in Europa, la condizione di ogni avanzamento del movimento dei lavoratori. Lo spazio nazionale e il nuovo spazio internazionale cooperativo tra nazioni sovrane, disegnano il campo in cui sia i lavoratori che il piccolo capitale possono organizzare la resistenza contro il loro nemico principale e contendersi l’egemonia sul processo di liberazione dal dominio del capitale finanziario globalista. Fuggire da questo campo significa consegnare senza combattere la direzione del processo al piccolo capitale, alle sue inconseguenze, alle sue tendenze razziste e autoritarie, al suo protezionismo privo di sguardo strategico.
La Brexit, per tornare a noi, è proprio effetto della crisi della globalizzazione, è effetto dell’incontro tra il processo di rinazionalizzazione (come aspetto del conflitto intercapitalistico) ed il crescente malcontento popolare contro l’Unione. In particolare è l’effetto del crescente squilibrio intraeuropeo, che consiste nell’indebitamento di molte economie nazionali del continente nei confronti di altre nazioni dell’Unione, uno squilibrio che non viene sanato, ma riprodotto dall’Unione stessa, e che la liberalizzazione spinta dei mercati ha accentuato anche nei paesi che non si sono autoimposti il giogo dell’euro. Contro questo squilibrio, che l’economia inglese patisce in modo significativo, e contro i regolamenti europei ritenuti responsabili principali della situazione si è creata una coalizione tra una parte degli esportatori inglesi, la gran massa dei piccoli produttori declassati ed una notevole parte dei lavoratori maggiormente colpiti dalla crisi. E questa coalizione al momento ha vinto.
Difficile dire quali potranno essere le conseguenze della Brexit sull’economia inglese e soprattutto sui lavoratori di quel paese: da sola, senza un chiaro programma di critica al neoliberismo, essa (che pure era un passaggio necessario) non può portare molto lontano. Più facile immaginare quali saranno le conseguenze sul futuro dell’Unione. Data la tendenza generale alla rinazionalizzazione e data la crescente disaffezione, come la chiamerebbe timidamente un europeista, dei cittadini europei nei confronti dell’Unione, non potranno che essere negative. Qualche anima bella sogna una reazione unitaria, un passo verso la messa in comune dei debiti, un’attenuazione, se non un’inversione, delle politiche antipopolari: il tutto condito dall’immancabile illusione sull’aumento del peso politico della Francia “socialista” e, perché no, della stessa Italia. Ma il tanto atteso scatto in avanti non ci sarà: nessuno vorrà rifondare l’Unione nell’unico modo che le garantirebbe un futuro, ossia come patto politico tra nazioni sovrane, finalizzato a tutelare la tradizione europea di economia mista e welfare state in un contesto di autonomia dai blocchi geopolitici attuali. Nessuno lo farà perché, salvo minacce immediate alla sopravvivenza delle nazioni (e la Brexit non lo è, o non è percepito come tale) queste ultime tendono a seguire le loro abituali strategie di lungo periodo: e le strategie francesi e soprattutto tedesche, ad oggi, non intendono aumentare l’integrazione fiscale o diminuire la pressione sul salario. Nessuno lo farà perché l’uscita dell’Inghilterra non rafforzerà, ma indebolirà la prospettiva di una maggiore integrazione economica e politica.
Immediatamente infatti la Brexit accentua gli elementi di disgregazione. Non concedere nulla di sostanziale sulla questione delle banche italiane, indebolire la Commissione europea, privilegiare ancor più di prima le decisioni intergovernative, investire tutti i parlamenti nazionali della discussione sui trattati commerciali dell’Unione, questa è la reazione pavloviana del dominus dell’Unione, ossia il governo di Berlino, nonostante le (deboli) proteste italiane. Esattamente il contrario dello scatto unionista che qualcuno si attende. Qualcuno potrebbe consolarsi aspettando che la pur non immediata uscita di scena della potenza nazionale meno propensa all’integrazione (anche perché più atlantista) giochi alla fin fine a favore dell’integrazione stessa. Ma in realtà, come osservano equilibrati studiosi della politica estera di Berlino, il liberismo inglese era un ottimo alleato dell’ordoliberismo tedesco nelle trattative con Francia “statalista”. Fuori il primo, il secondo sarà ancor meno propenso a fare concessioni, per paura di essere fagocitato. Né si può sperare (e sarebbe comunque un tragica speranza) nell’attuale riproposizione, da parte del “ministero degli esteri” europeo, di una politica militare unitaria. La Brexit potrebbe certamente accelerare il processoformale di integrazione della politica militare dell’Unione, anche perché l’industria bellica del continente può finalmente spingere come non mai per un aumento degli investimenti comunitari in questo campo. Ma d’altro canto, dal punto di vista sostanziale, un’Europa che perde pezzi è assai meno credibile di prima come soggetto di una politica estera unitaria, mentre l’uscita della Gran Bretagna priva l’Europa stessa di una piattaforma tecnologico-informativa decisiva per ogni seria operazione militare. E a tutto ciò si deve aggiungere il fatto che, venendo loro a mancare la possibilità di influenzare l’Unione attraverso l’Inghilterra, gli Usa tenteranno di aumentare la presa, oltre che sull’Italia, sulla Germania o sulla Francia, appesantendo così la loro ipoteca sull’autonomia geopolitica del vecchio continente. Al di fuori di una vera integrazione economico-politica e di una vera autonomia geopolitica (oggi impossibili), un’eventuale accelerazione dell’ unificazione militare si risolverà quasi certamente in una operazione di mera polizia interna (contro l’immigrazione ma anche contro le possibili rivolte popolari) oppure si tradurrà in qualche intervento avventurista, precario sostituto di un vero ruolo mondiale dell’Unione. E questo mentre si fa più chiara la tendenza degli Usa a muovere guerra alla Russia sul terreno europeo, e quindi a muovere guerra ad ogni residua velleità unitaria dell’Europa stessa.
Insomma, la Brexit sembra preparare un futuro in cui la politica dell’Unione proseguirà ipocritamente as usual, ma in un contesto di tensioni decisamente crescenti. Non si possono escludere piccole svolte tattiche, apparenti concessioni “antipopuliste”, belle parole sulla solidarietà e sulla crescita: ma la direzione fondamentale è quella dell’aumento degli squilibri, anche perché ormai gli effetti di ogni consultazione elettorale che in qualche modo punisca le forze europeiste sono moltiplicati ed amplificati dalle dinamiche centrifughe nazionali, e queste ultime si alimentano dei risultati elettorali stessi, riproducendo così le condizioni della crisi.
Se tutto questo è vero, si prepari a ballare, contessa!
* Fonte: socialismo 2017
1 commento:
Casualmente ho ascoltato questa canzone circa un mese fa cantata dai Modena City Ramblers, ad essere sinceri non la conoscevo.
Non sono molto bravo con le parole ma le posso confermare che tutto quello che lei ha detto io l'ho riscontrato di persona personalmente.
Che amarezza nel sentire quello che dicono adesso, persone che si vantano di avere un passato da comunista.
Sinceramente faccio anche fatica a capire, sembra che da quel periodo non abbiano capito nulla,che abbiano rimosso tutto se no non si capisce come non possano accorgersi di una realtà che è lì sotto i loro occhi basta solo "guardare".
Alberto
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