lunedì 5 agosto 2019

PER UNA CRITICA DEL POPULISMO (5) di Mauro Pasquinelli

[ lunedì 5 agosto 2019 ]


Pubblichiamo la quarta parte del contributo di Mauro Pasquinelli. QUI la prima, QUIla seconda , QUI la terza e QUI la quarta.

Inutile ricordare che pubblicare un contributo non significa che la redazione lo condivida, nel caso di specie dissentiamo da quanto scrive l'autore.






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GRAMSCI, IL POPULISMO E IL GOVERNO GIALLO-VERDEdi Mauro Pasquinelli



Il tentativo di Laclau di stabilire un ponte ed una correlazione tra la sua teoria del populismo e le categorie Gramsciane di forza egemonica, blocco storico e sociale, carattere nazionalpopolare, è destituito, a mio avviso, di ogni ragione. Gramsci non era un populista ma un comunista, realista e pragmatico, per molti aspetti elitista, [1] e proprio a partire dalle categorie del politico, argutamente sviluppate nei Quaderni dal Carcere, oggi avrebbe derubricato il populismo come una variante morbida di cesarismo o di “sovversivismo delle classi dirigenti”, laddove quella fascista è la variante più irriducibile e pericolosa.  [2]
Gramsci di certo non avrebbe chiuso le porte in faccia ex abrupto alla forma populista, come tutta la sinistra liberal.  Avrebbe cercato di indagare ed accogliere gli elementi di novità, relativamente progressivi del fenomeno populista, come fattori che annunciano la disgregazione del vecchio e l’insorgere del nuovo, l’emergente configurazione di nuovi rapporti politico-sociali. Ciò è ben evidente nel giudizio che lui offre sull’affare Dreyfus, che sembra una descrizione del governo giallo-verde, almeno nella prima fase:
«Del tipo Dreyfus (che ha impedito l’instaurazione di un cesarismo completamente reazionario) troviamo altri movimenti storico-politici moderni, che non sono certo rivoluzioni, ma non sono completamente reazioni, nel senso almeno che anche nel campo dominante spezzano cristallizzazioni statali soffocanti, e immettono nella vita dello Stato e nelle attività sociali, un personale diverso e più numeroso di quello precedente: anche questi movimenti possono avere un contenuto relativamente “progressivo” in quanto indicano che nella vecchia società erano latenti forze operose non sapute sfruttare dai vecchi dirigenti, sia pure forze marginali, ma non assolutamente progressive. In quanto non possono “fare epoca”. Sono rese storicamente efficienti dalla debolezza costruttiva dell’antagonista, non da una intima forza propria, e quindi sono legate a una situazione determinata di equilibrio delle forze in lotta, ambedue incapaci nel proprio campo a esprimere una volontà ricostruttiva in proprio».  A. Gramsci, Quaderni dal Carcere, vol. 3, pag. 1681, Einaudi 1977
In questa proposizione è evidente il richiamo alla teoria marxista del bonapartismo come forza politica del campo dominante che si impone in determinate fasi di radicalizzazione del conflitto, per calmierare le divisioni sociali, riportare ordine ed equilibrio, non solo tra le classi antagoniste, ma tra le stesse frazioni concorrenti della classe dominante. Un ordine incarnato in un capo carismatico che vorrebbe mettere tutti d’accordo, è tuttavia esso stesso instabile, perché espressione di forze che non hanno capacità e volontà ricostruttive in proprio.
«Quando la crisi non trova una soluzione organica, ma quella del capo carismatico, significa che esiste un equilibrio statico (i cui fattori possono essere disparati, ma in cui prevale l’immaturità delle forze progressive) che, nessun gruppo, ne’ quello conservativo ne’ quello progressivo, ha la forza necessaria alla vittoria e che anche il gruppo conservativo ha bisogno di un padrone». A. Gramsci ibidem pag. 1604
Il governo giallo-verde è la classica espressione di una gramsciana crisi di egemonia o crisi di autorità dello Stato, che si instaura quando la classe dirigente ha fallito in qualche sua grande impresa politica (neoliberalismo) e non ha più il consenso passivo delle masse, che di colpo passano a rivendicare un cambiamento, anche se in modo disorganico (elezioni del marzo 2018).
Anche qui la la traiettoria di sviluppo di governi che non siano espressione autonoma delle classi subalterne, ma tentativi disorganici e interclassisti di recuperare consenso da parte dei dominanti, e di riportare la collera popolare nel perimetro delle compatibilità sistemiche, è ampiamente prevista nei Quaderni dal Carcere:
«La crisi crea situazioni immediate pericolose, perché i diversi strati della popolazione non possiedono la stessa capacità di orientarsi rapidamente e di riorganizzarsi con lo stesso ritmo. La classe tradizionale dirigente, che ha un numeroso personale addestrato, muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo, con una celerità maggiore di quanto avvenga nelle classi subalterne; fa magari dei sacrifizi, si espone ad un avvenire oscuro con promesse demagogiche, ma mantiene il potere, lo rafforza per il momento e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione, che non può essere molto numeroso e molto addestrato». Ibidem pag. 1603
Un quadro perfetto della natura e dei limiti del populismo! Non sfugga il riferimento alle proposte demagogiche che spesso sono la vera carta di identità del politico populista.
«Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore significa servirsi delle masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini, particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi particolari)». A. Gramsci ibidem pag. 772
Nella stessa pagina Gramsci, come volesse stupire il suo lettore, opera una fondamentale distinzione tra “demagogia deteriore” e “demagogia superiore”. Alla prima possiamo associare la demagogia del politico populista, alla seconda quella del politico rivoluzionario.
«Se il capo rivoluzionario non considera le masse umane come uno strumento servile per raggiungere i propri scopi, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera costituente costruttiva, allora si ha una demagogia superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui, e di interi strati culturali. Il demagogo deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a se, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, grande oratoria, colpi di scena apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato capo carismatico). Il capo politico dalla grande ambizione invece, tende a suscitare uno strato intermedio tra se’ e la massa, a suscitare possibili concorrenti ed eguali, ad elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa e questi vogliono che un apparecchio di conquista o di dominio non si sfasci per la morte o il venir meno di un singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza primitiva. Se è vero che ogni partito è partito di una classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborare uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine carismatica deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e della continuità».  A. Gramsci. Ibidem pag. 772
Il peggior dirigente è quello che si rende insostituibile e in questa categoria rientrano i dirigenti populisti che generalmente si servono del popolo per promuovere le proprie ambizioni personali, la propria sete di potere e di notorietà. Non è un caso che quasi tutte le esperienze populiste siano finite con la morte o la defenestrazione del Leader Maximo. Un caso da manuale è proprio il peronismo, movimento politico argentino che ha vissuto per intero le peripezie esistenziali, l’ascesa, il trionfo e la caduta del suo leader. I 5s, a loro volta, non pagano pegno per la diserzione e l’auto-eclissi del suo leader carismatico?
Ma non è il caso di Cuba, della Cina, dell’Urss pre-staliniana, del Vietnam. In questi paesi, seppur lontani dal socialismo, i capi carismatici hanno contribuito a creare gruppi dirigenti solidi, con i caratteri della permanenza e della continuità. Alla loro dipartita il paese non è precipitato nel caos perché non si sono resi insostituibili, anzi hanno operato per un ricambio di forze ed energie ai vertici dello Stato.

Il capo populista ricorre all’arma della deteriore demagogia, fa appello plebiscitariamente alla massa per imporsi su di essa, anche al costo di blandirla, di lusingarla con proclami giustizialisti, di corromperla con prebende e offerte assistenziali.  Il suo motto è la triade: piazza, popolo e balcone (oggi sostituito dalla tv e dalla società dello spettacolo).
Il capo rivoluzionario, viceversa, si adopera’ affinché rinneghi la sua origine carismatica, elevi la massa a classe dirigente, a protagonista diretta del suo destino storico di liberazione. Si abbassa per elevare gli ultimi e non si eleva per riprodurli come tali. Favorisce il ricambio organico della direzione, l’afflusso di energie dal basso verso l’alto, la democrazia diretta, la candidabilità degli ultimi ai vertici di responsabilità direttive, la sostituibilità di ogni dirigente ad ogni livello di direzione. Solo attraverso questo flusso ascendente e discendente di forze ed energie sociali   si può tentare l’assalto al cielo, l’instaurazione della democrazia socialista e il superamento del dominio di classe.
«La soluzione del problema può trovarsi nella formazione tra i capi e le masse di uno strato medio quanto più numeroso è possibile che serva di equilibrio per impedire ai capi di deviare nei momenti di crisi radicale e per elevare sempre più la massa». A. Gramsci ibidem vol. 1 pag. 232-237
Rifletta chi si illudeva che un cambio di governo così disorganico, come quello gialloverde, potesse significare un cambio di potere. Il potere in Italia, dal marzo 2018, è rimasto saldamente nelle mani del grande capitale che lo ha utilizzato per abbassare sempre di più le pretese che salivano dalle classi più povere, per deviare il corso di politiche irricevibili dal sistema, e last but not least per far applicare politiche antipopolari dallo stesso governo del “popolo”, così delegittimando e screditando i suoi rappresentanti. Chi meglio dei 5s avrebbe potuto far passare la Tav, la Tap, il Muos, il decreto sicurezza etc. senza rivolte di piazza, come accaduto in Francia? Quale regalo migliore per il grande capitale e la tenuta del suo sistema, che ad applicare le sue politiche siano i rappresentanti del “popolo”, i cosiddetti populisti e non oligarchi indigeribili alla Monti o Draghi?

La dicotomia massa-leader, tipica di ogni esperienza populista, non ha mai spinto Gramsci a negare il ruolo del capo, della personificazione fisica della funzione di comando. Tutt’altro. Il comunista sardo era ben cosciente della necessità di capi con forti ambizioni (“un capo non ambizioso non è un capo scrive Gramsci, ed è un elemento pericoloso per i suoi seguaci: egli è un inetto o un vigliacco”) ma
«Il problema essenziale consiste nella natura dei rapporti che i capi o il capo hanno col partito della classe operaia, dei rapporti che esistono tra questo partito e la classe operaia: sono essi puramente gerarchici, di tipo militare, o sono di carattere storico e organico? Il capo, il partito sono elementi della classe operaia, sono una parte della classe operaia, ne rappresentano gli interessi e le aspirazioni più profonde e vitali, o ne sono una escrescenza, o sono una semplice sovrapposizione violenta?»  A. Gramsci, Ordine Nuovo, 1 marzo 1924. [3]
Chiaro qui l’intento di Gramsci di differenziare la funzione di un capo rivoluzionario come Lenin, che esprime l’autonomia e la missione storica delle classi oppresse, e di un capo popolo come Mussolini, che all’inizio, tra il 1919 e il 1924, prima che il fascismo diventasse regime, possedeva tutte le credenziali di “capo populista”, anche se nella forma inedita di un sovversivismo violento delle classi dirigenti.

Nella complessa, a volte imperscrutabile e aporetica architettura dei Quaderni, Gramsci ritrae la storia politica italiana, dal Risorgimento in poi, con le due note categorie di trasformismo e rivoluzione passiva. Quest’ultima e’ un processo riformistico di cambiamento che agisce dall’alto sotto forma di concessioni alle richieste popolari, senza cambiare le strutture sociali esistenti, senza terrore giacobino e “senza cataclismi radicali e distruttivi in forma sterminatrice”. La forma-capitale raggiunge la sua espressione storica adeguata senza guerra di movimento, senza rivoluzione giacobina, ma con una lunga guerra di posizione. [4]
«Non sarebbe il fascismo precisamente la forma di rivoluzione passiva propria del secolo XX come il liberalismo (leggasi Risorgimento. Nda) lo è stato del secolo XIX? ", si chiede Gramsci. La risposta per Gramsci è sicuramente affermativa e si precisa ancor più ove afferma, in polemica con Croce, che “il trasformismo si presenta come forma della rivoluzione passiva dal 1870 in poi”. Ibidem pag. 1238 “si può anzi dire che tutta la vita statale italiana dal 1848 in poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’assorbimento graduale ma continuo degli elementi attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano irreconciliabilmente nemici». Ibidem pag. 2011
La cooptazione in corso dei 5 stelle e di parte della Lega nella nomenclatura europeista non è anche essa un episodio di trasformismo all’italiana? Come lo fu, dopo l’89, il passaggio di tutto il gruppo dirigente del PCI nel campo del neo-liberalismo?

La lontananza di Gramsci dallo schematismo populista è ben evidente non solo nello stile ma nella proposta politica che teorizza esplicitamente uno “spirito di scissione” del servo dal padrone, della classe lavoratrice dal capitale, preliminare alla costituzione di un blocco storico di alleanze con tutti i settori popolari penalizzati dalla forma-capitale. Quindi non scissione come separazione e isolamento, come autocompiacimento operaistico, ma come atto preliminare per costituire un ampio fronte popolare di lotta, con una testa e un cuore forniti dalla classe lavoratrice e dalle sue organizzazioni di avanguardia.
Trasceso il conflitto di classe, la radicalità è ricercata dai populisti nella coppia indeterminata e astratta popolo-élite, che tuttavia dovrebbe innalzare al comando non il popolo ma una nuova élite, che risponde unicamente al suo leader. Se il socialista preconizza l’autogoverno dei produttori, (la cuoca che amministra lo Stato), il populista al massimo può solo giungere a sostituire un élite con un’altra, lasciando il popolo nella sua condizione di sudditanza, senza mai giungere al superamento della coppia dicotomica servo padrone.
Quindi se è vero che nel populismo si esprime una spinta popolare primitiva al cambiamento che occorre raccogliere e fare nostra, è altrettanto doveroso, gramscianamente distillare una critica dura allo schematismo e al primitivismo del politico populista, al “plebeismo privo di coscienza”, al “senso comune” di cui si fa portavoce.  Per Gramsci riferirsi al “senso comune” come riprova di verità è un non senso, è un concetto equivoco e contraddittorio da sostituire con il rigore analitico e la capacità di afferrare la complessità dei processi, senza mai cedere a caricature semplicistiche del reale.
Il “nazional popolare” in Gramsci non rinvia alla cultura folkloristica e agli “stregoni della scienza popolare”, alla “letteratura popolare” più deteriore e commerciale, ma alla più elevata cultura delle nazioni (dalla tragedia greca a Shakespeare fino al romanzo realista francese).
Il populismo, semplificando al massimo grado il reale, opera come ideologia e falsa coscienza, come degradazione del pensiero dialettico, come ospite ubriaco nel teatro del conflitto sociale, come maschera che nasconde il nesso e la natura delle relazioni sociali. Quando una comunità non prende coscienza della vera natura dei rapporti e si ferma alle apparenze del basso e dell’alto (popolo buono-élite corrotta), del noi e del fuori di noi (autoctoni ed immigrati), non può mai elevarsi all’altezza dei suoi compiti storici. Rimanendo sempre comunità in potenza, comunità in se’ (e non per se’), quindi semplice parte variabile del capitale, o suo esercito di riserva.

Ciò era chiaro già a Machiavelli che distingueva sagacemente tra plebe come entità sociologica e popolo come ricomposizione politica.

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NOTE

Nota 1  
Non c’è dubbio che il pensiero politico di Gramsci, nonostante le critiche al Michels, vada annoverato nella categoria di elitismo rivoluzionario, che si distingue per una torsione soggettivistica, idealistica e volontaristica, del pensiero di Marx.  Ciò è evidente fin dal testo scritto nel 1917 “la rivoluzione contro il capitale” ove per capitale si intende l’opera di Marx.   Gramsci fa proprio il pensiero di Machiavelli con l’unica differenza che il moderno principe non è più il condottiero carismatico ma il partito politico. Elogia il trattato del fiorentino in quanto è appunto una trattazione non sistematica ma un libro vivente in cui l’ideologia diventa mito che si impersona in un condottiero, il quale diventa il simbolo e il creatore di una volontà collettiva nazionale e popolare. L’iniziale anti-giacobinismo di gioventù, che nel solco della tradizione teorica marxista si sposava con il suo consigliarismo, si rovescia nei “quaderni dal carcere” in apologia del giacobinismo, il quale viene interpretato senza mezzi termini come l’incarnazione storica del principe di Macchiavelli e quest’ultimo come un giacobino ante-litteram.   I limiti storici e l’inadeguatezza della borghesia italiana, come classe dirigente nazionale, vanno attribuiti, per Gramsci, all’assenza di giacobinismo nella tradizione culturale e politica nazionale. Nella querelle infinita tra statalismo ed antistatalismo nella transizione al socialismo, Gramsci si colloca tra i pensatori che caldeggiano il riassorbimento della società civile nello stato piuttosto che l’estinzione dello Stato nella società civile, come pensava il Marx della critica alla filosofia del diritto di Hegel. Tale riassorbimento si doveva concretizzare nel coinvolgimento e nella partecipazione attiva delle masse alla vita dello Stato, di cui il moderno principe era l’effettivo propulsore. A mio avviso è questo un altro aspetto essenziale che distingue politicamente il gramscismo dal populismo, e che colloca il Sardo tra le eretici più influenti dell’ortodossia marxista nel 900.

Nota 2

Attenzione:  per completezza di analisi occorre rammentare che Gramsci faceva distinzione tra cesarismo progressivo (Napoleone I e Cromwell) e cesarismo reazionario  (Napoleone III, Bismarck, Mussolini) e che non identificava il cesarismo con il fascismo tout court, se è vero che caratterizzava come  forma di cesarismo persino il Governo di coalizione del laburista inglese Mac Donald (1932-35) con la destra conservatrice, famoso per l’attuazione di misure protezionistiche e anti-liberali (un Trump ante-litteram).

Nota 3

Occorre aprire qui una parentesi politico-filosofica. Oggi è difficile riproporre il mito della classe operaia, così come essa si era strutturata in epoca fordista e pre-fordista! L’operaio a cui si riferiva Gramsci non esiste più.  Sostituito dal precario flessibile, atomizzato, spesso con partita iva. Ma resta il fatto che a questi nuovi soggetti produttivi occorre riferirsi per ricreare lo spirito Gramsciano di scissione e ricostruire un blocco storico popolare e una alternativa di sistema.  Non è allargando la base del mito dalla classe lavoratrice al popolo in senso astratto e indifferenziato che potremo uscire dalla crisi di egemonia. Il socialismo o sarà l’autogoverno dei produttori o si ripresenterà nella forma della sua antitesi classista, cioè di un sistema elitistico e tecnocratico, di una paretiana ed eterna circolazione (o dominio) delle élite!

Nota 4

Il pensiero di Gramsci non è sistematico, proprio come il principe del Macchiavelli. A volte presenta forti aporie che lasciano il lettore macerarsi nel dubbio analitico. Per esempio come conciliare l’estatica esaltazione del principe machiavelliano, del popolo che si fa stato, con il marxismo che professa il socialismo come estinzione dello Stato? Come conciliare il giacobinismo di Gramsci con l’annuncio della fine della guerra di movimento (assalto bolscevico al Palazzo di Inverno) e la teoria della guerra di posizione, che apre all’ipotesi della transizione come una lunga e graduale rivoluzione passiva? Su queste aporie il Togliattismo ha puntato per spostare l’asse politico del PCI dal leninismo al riformismo (svolta di Salerno e democrazia progressiva). Su altre aporie, come la teoria del moderno principe, suscitatore di una volontà nazionale e popolare, Laclau ha tessuto la trama del suo libro “la ragione populista”.



1 commento:

Anonimo ha detto...

L’ultimo articolo di Moreno Pasquinelli ha fatto assai chiarezza sul tema qui confuso e bislacco

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