martedì 28 novembre 2017

"ELEZIONI: NON FACCIAMO PAZZIE" di Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta

[ 29 novembre 2017 ]

Volentieri pubblichiamo questo contributo di Porcaro e Boghetta. Essi svolgono dei ragionamenti pienamente condivisibili, sia riguardo al pantano strategico in cui si dimena la "sinistra radicale", sia riguardo ai profondi limiti politici dell'iniziativa di Je so' Pazz' di mettere su una lista elettorale di sinistra-sinistra —che sostituisce il vecchio simbolismo identitario con una sindacalismo sociale movimentista privo di strategia politica.  
Porcaro e Boghetta, escludono quindi che ci sia la possibilità di costruire una lista elettorale del sovranismo  costituzionale. 
Qui non siamo d'accordo. Una finestra invece è ancora aperta. Ne parleremo nei prossimi giorni...



La sinistra Subbuteo e la vera partita del paese 
di Mimmo Porcaro e Ugo Boghetta

Il Brancaccio è fallito. Meno male. Forse qualcuno la smetterà di tentare di aggregare gli sconfitti usando le stesse parole d’ordine che hanno causato la sconfitta stessa. Forse qualcuno la smetterà di credere che la proposta dell’unità della sinistra sia il sostituto efficace di una vera strategia politica, quando per la maggior parte del popolo italiano “sinistra” significa per lo più delusione e liberismo. Il Brancaccio è fallito e questo, nel piccolo mondo della sinistra radicale, può essere un piccolo evento salutare perché impedisce che tutta quella sinistra si attacchi da subito al carro dei D’Alema e dei Bersani, e si presti perciò a fare la forza di complemento per i vari governi d’emergenza che dovranno garantire l’ “europeismo” del paese, e quindi la sua subordinazione al liberismo. E perché dopo il fallimento qualcuno ha pensato di reagire. 
Roma 18 novembre: l'assemblea promossa da Je s' pazz'
Cosicché, dall’assemblea romana di Je so’pazz’, da Rifondazione, dal Partito Comunista, da diverse realtà di base e singoli militanti è emersa l’esigenza di formare una lista popolare per le prossime elezioni. La reazione è comprensibile e positiva, e addirittura, in qualcuno degli interventi in cui si è espressa, è accompagnata da qualche sortita dal linguaggio abituale e da qualche significativo  spostamento in direzione anti Ue. Tanto che Eurostop, l’organizzazione di sinistra che con maggior impegno ed efficacia lavora per una rottura dei vincoli europei, ha accettato l’invito a discutere della fattibilità politica e tecnica della lista elettorale.

Ora, noi siamo da sempre sostenitori della necessità di presentare una lista (ed ancor prima un progetto) di lealtà costituzionale e recupero della sovranità in funzione e condizione di una rottura con le politiche neoliberiste, e crediamo che se qualcuno oggi volesse eludere il problema delle elezioni invocando la necessità di partire dal basso, dal “sociale”, indicherebbe una strada sbagliata, perché l’assenza di mobilitazione sociale è oggi in buona misura spiegabile proprio con l’assenza di prospettiva politica. E perché lo stesso lavoro di radicamento di massa richiede un impegno talmente grande (dovendo essere fatto nelle forme del mutualismo, del “partito sociale” e così via) da poter essere gestito soltanto da gruppi politici di una certa forza e di una certa dimensione: forza e dimensione che potrebbero aumentare a seguito di una prima vittoria politica dopo decenni di sconfitte.

Ciononostante crediamo che la proposta di costruire oggi, in funzione delle elezioni di domani, una simile lista, arrivi davvero troppo tardi perché c’è pochissimo tempo e bisogna superare moltissimi ostacoli, che si riassumono semplicemente nella presenza diffusa di un sinistrismo che condannerebbe la lista al famoso Zero Virgola rendendo molto più difficile ogni mossa successiva. Un sinistrismo che consiste nel parlare di democrazia partecipata a chi non ha tempo e risorse per partecipare, di parlare di
conflitto a chi non si trova nella posizione per farlo, nel parlare solo di accoglienza e di apertura a chi ha legittimamente paura che il mondo gli sia completamente ostile, nel parlare di classe quando la gran parte dei lavoratori occupati ed organizzati è al momento conservatrice, e la gran parte delle masse del quasi-lavoro si percepisce, se va bene, soltanto come popolo. Un sinistrismo che finirebbe in realtà solo per parlare a se stesso: come sempre. Un sinistrismo che riesce anche ad annacquare il riferimento alla Costituzione insistendo sull’aspetto della sovranità popolare per nascondere quello della sovranità nazionale, che è invece condizione di possibilità del primo. Un sinistrismo, infine che inchioda numerosi e validi militanti all’impotenza perché li costringe a ristagnare in un linguaggio che è una variante estremista del discorso delle élite globaliste: meno stato, niente nazione, poca politica e tanto progresso; nessuna rottura puntuale e localizzata del potere, nessuna riconquista della possibilità della politica nell’unico spazio possibile, quello nazionale. Con questo linguaggio una lista di presunta “vera sinistra” si condannerebbe a dire cose che agli elettori parrebbero uguali a quelle dei D’Alema e dei Fratoianni, solo dette in maniera più incazzosa. Un misto di estremismo verbale e moderatismo nei contenuti che spiega gran parte della triste irrilevanza politica di quest’area.

Ora questo sinistrismo comincia a scricchiolare, qualcuno comincia a parlare a ragion veduta di popolo, qualcuno si decide a fare il passo anti Ue, e tutto ciò, in un’ottica di medio periodo, è da considerarsi assolutamente positivo. Ma la partita oggi si gioca nel breve periodo, che diventa brevissimo se si considera che il lavoro da farsi è soprattutto di carattere culturale, e si riassume nella necessità di accettare pienamente la dimensione nazionale dell’azione (se Mélenchon e Corbyn hanno avuto qualche successo è anche grazie a questa scelta) vedendola non soltanto come una dura necessità ma come un’opportunità. Non è certo con artificiosi e verbosi compromessi sulla questione dell' ”Unione dei Trattati” che si risolve il problema di cambiare l'impostazione rispetto alle  esperienze precedenti: ultima la lista Tsipras. In questo cono d'ombra il programma diventa inevitabilmente la solita lista della spesa a cui manca proprio la condizione sine qua non per attuarla. E non serve a molto risolvere il problema con frasi scarlatte inneggianti ad un vago potere al popolo. Nel mondo degli imperialismi nazionali novecenteschi era giusto essere antinazionali –anche in quell’epoca, però, il discorso mutava quando si trattava di nazioni oppresse. Ma quando, come oggi, l’imperialismo della “triade” occidentale agisce attraverso la distruzione delle nazioni (delle nazioni subalterne, ovviamente); quando il sud d’Europa è posto in una condizione – inedita in Occidente – di dipendenza strutturale e permanente nei confronti del Nord; quando tale dipendenza rende inevitabile la compressione dei salari e del welfare;  quando tutto questo accade l’autonomia di classe si lega strettamente all’autonomia nazionale. E la rivendicazione della sovranità nazionale diviene condizione necessaria, pur se insufficiente, sia della ripresa di un efficace conflitto di classe, sia del progresso civile del paese. Ma anche di contrasto al crescere della destre ed alle giravolte del M5S.

La dimensione nazionale della nostra iniziativa deve quindi divenire un nostro tratto distintivo, deve essere valorizzata nella battaglia culturale e nello scontro elettorale. E non soltanto perché questo ci consente di costruire più facilmente una vasta rete di alleanze sociali col pulviscolo delle partite Iva, coi piccoli e medi imprenditori, ecc.. Prima ancora, e soprattutto, c’è il fatto che la stessa unificazione dei lavoratori, data la dispersione sociale e culturale della classe, non può avvenire che attraverso il richiamo all’appartenenza comune ad un paese che è retto da una Costituzione lavorista e tendenzialmente socialista, possibile argine contro il liberismo dell’Unione. Insomma: nei nostri comizi dovremmo mescolare bandiere rosse e bandiere tricolori (e questa è ancora una proposta moderata: guardate i video dei comizi di Mélenchon…). Siamo capaci di farlo, oggi? A nostro parere no. Anzi, il trasformismo di alcuni propone di nascondersi dietro la foglia di fico di Mélenchon e Podemos fingendo di non capire, o non capendo davvero, che la cifra del loro successo è proprio la dimensione nazionale, il patriottismo democratico!
Allora, se non siamo ancora in grado di raggiungere queste consapevolezze, diamo tempo al tempo. Iniziamo già da oggi il lavoro, ma avendo in mente soprattutto la scadenza delle elezioni europee (2019) e considerando che dopo le esose richieste che la Commissione europea ci presenterà a primavera, sarà più facile stracciare gli ultimi residui di europeismo e lavorare per convergenze unitarie. Dunque, si apra subito il confronto, valorizzando al massimo le novità del momento. Ma lo si finalizzi alle elezione europee e, soprattutto, lo si basi su precise direttrici di metodo e di contenuto.


Quanto al metodo deve trattarsi di un confronto a tutto campo e coinvolgere, oltre ai già noti,  i compagni della Confederazione diLiberazione Nazionale e l’area nella quale agiscono, la Lista di Popolo di Chiesa ed Ingroia, l’interessante esperienza di Senso Comune, le variegate componenti del sovranismo costituzionale, lo stesso composito movimento di De Magistris. La gran parte di queste forze può e deve convergere in una prospettiva nazional-democratica, e soltanto da questa convergenza può nascere una proposta politico-elettorale credibile: ma è chiaro che più largo è lo spettro delle forze interessate, più lungo è il processo di mediazione.

Quanto ai contenuti, per avere una minima possibilità di successo e per costituire il punto di partenza di una più ampia aggregazione una lista dovrebbe darsi  almeno i seguenti punti programmatici:

1)    Dignità del lavoro/ dignità del paese. Il problema del lavoro si risolve soltanto con un programma di piena occupazione sostenuto da un intervento pubblico e da imprese e banche pubbliche (con la retorica dei beni comuni non si crea piena occupazione). Ma un tale programma è incompatibile con la sottomissione del paese ai vincoli dell’Unione europea e nell’Unione monetaria.
2)    Sovranità popolare/sovranità nazionale. Il rafforzamento del settore pubblico rappresenta un importante momento di attuazione della sovranità popolare perché funge da contrappeso al  potere dei mercati. Una tale sovranità deve attuarsi anche nei confronti dello stesso settore pubblico, prevedendo forme di intervento diretto delle associazioni popolari nella definizione dei suoi indirizzi e nel controllo del suo funzionamento.  Ma la riaffermazione della sovranità popolare è frase vuota se non si coniuga con la riaffermazione della sovranità nazionale, che è il presupposto dell’efficacia delle decisioni popolari, e quindi con la rottura dell’Unione europea.
3)    Rifinanziamento e ripubblicizzazione del welfare. Non è sufficiente superare la scarsità di mezzi a cui il liberismo condanna il welfare pubblico, bisogna anche ridurre tutte le forme di erogazione privata dei servizi sociali e tutte le forme di precarizzazione del lavoro che esse comportano. Anche se tutto ciò urta contro gli interessi materiali di una parte non piccola della sinistra che ha cogestito la privatizzazione scambiandola per socializzazione della sfera pubblica.
4)    Sicurezza. Ebbene sì: sicurezza per tutte e tutti, per bianchi e per neri. E’ un tema vissuto come decisivo dai ceti popolari e dunque deve essere decisivo anche per noi. Non si tratta di “inseguire la destra sul suo terreno”, ma di riprenderci un terreno che deve essere nostro. Sicurezza contro le turbolenze guerreggiate mondiali, sviluppando una politica internazionale di pace. Sicurezza contro la miseria, puntando su lavoro e welfare. Sicurezza contro la criminalità ed il degrado, sia facendola gestire direttamente dagli abitanti dei quartieri attraverso la riconquista e la cura degli spazi pubblici, sia ampliando e riqualificando gli organici delle forze di polizia, utilizzandoli con funzione di mediazione sociale invece che di ordine pubblico.
5)    Regolarizzazione e regolazione dell’immigrazione. Dobbiamo renderci conto che la giusta e necessaria regolarizzazione degli immigrati (fondamentale anche per una positiva gestione del mercato del lavoro) implica una regolazione del flusso dell’immigrazione senza la quale (se, come tutti prevediamo, questo flusso assumerà necessariamente dimensioni sempre crescenti) verranno a mancare le risorse economiche, sociali e politiche per la regolarizzazione stessa. Anche in questo caso non si tratta di inseguire la destra sul suo terreno. Si tratta di dire la verità: nessun paese, tantomeno un paese come il nostro, può pensare di non regolare in alcun modo i flussi. Nessun governo, nemmeno un nostro governo, potrebbe evitare di farlo. Non si tratta di imitare Minniti, si tratta quanto meno di porsi il problema. Parlando solamente di accoglienza perderemmo il contatto con la gran parte della nostra gente, e lo perderemmo per non aver detto cose… che saremmo poi costretti a fare se fossimo al governo. Un vero paradosso che può essere superato con la proposta convinta della coppia regolarizzazione/regolazione.
6)    Nuova collocazione internazionale dell’Italia. Tutto quanto sopra ha un senso ed è possibile soltanto se l’Italia esce dalla propria collocazione euroatlantista e partecipa alla costruzione di un’area di cooperazione economica e di pace (iniziando ad eliminare le atomiche dal proprio territorio) che possa costituire una terza forza nello scontro tra Occidente e Oriente. La rottura con l’Ue deve essere accompagnata da subito con una proposta di nuova alleanza fra gli stati del continente fondata questa volta su un patto politico che espressamente rifiuti una soluzione bellicista e la prosecuzione del mercantilismo che ha accresciuto le diseguaglianze, gli squilibri e la tendenza alla guerra. Rapporti con la Russia, la Cina e col complesso dei Brics devono divenire asse normale dello sviluppo del paese. Così è, ovviamente, per il ruolo nel Mediterraneo. L’obiettivo non può essere tanto, o immediatamente, quello della collaborazione con stati orientati al socialismo, quanto quello della collaborazione con stati che intendano sottoporre a controllo politico i movimenti del capitale e intendano accettare una regolazione degli scambi che non si traduca nella deflazione competitiva a danno dell’occupazione e dei salari.
Siamo sicuri che intorno a questo asse si possa costruire non soltanto una lista, ma, progressivamente, quella vera e propria coalizione costituzionale di cui questo paese ha bisogno (e che potrebbe anche essere lo spazio migliore per far crescere una autonoma presenza comunista). Siamo sicuri che dicendo queste verità si possa ottenere un buon consenso, quantomeno il consenso necessario a porsi ulteriori obiettivi di crescita politica. Così come siamo sicuri che la ripetizione del nostro solito frasario umilierebbe le nostre migliori idee e ci condannerebbe ad arrestare sul nascere un cammino che potrebbe invece portarci molto lontano. Servirebbe solo a regolare i conti nel nostro piccolo cortile, quando il campo della nostra azione potrebbe e dovrebbe essere molto più vasto. Sarebbe come restare a casa a giocare a Subbuteo fra amici quando si potrebbe giocare una partita vera.



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