venerdì 14 luglio 2017

LA SINISTRA E L'IMMIGRAZIONE: TESI di Riccardo Achilli

[ 14 luglio 2017 ]













“Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, NELLA MISURA DEL POSSIBILE, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessarie alla vita, che non gli è possibile trovare nel proprio paese di origine. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, possono subordinare l'esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuridiche, in particolare AL RISPETTO DEI DOVERI DEI MIGRANTI NEI CONFRONTI DEL PAESE che li accoglie. L'immigrato E' TENUTO A RISPETTARE con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a contribuire ai suoi oneri". Catechismo della Chiesa Cattolica, passo 2.241.


Premessa: l’insufficiente stato dell’arte della riflessione a sinistra

Il tema dell’immigrazione è di grande criticità nel pensiero della sinistra. Di fronte alla crescita di ciò che, con una certa superbia intellettuale, si etichetta come “populismo di destra” o xenofobo, che in tutta Europa (e non solo, basti pensare a determinati temi posti da Trump nella campagna elettorale degli USA) si è radicato in una quota non indifferente delle classi popolari che dovrebbero essere la base di rappresentanza stessa della sinistra, essa balbetta. Balbetta per motivi comprensibili, per certi versi “nobili”. La sinistra socialdemocratica post bellica è cresciuta dentro un quadro di riferimento che affermava i valori della pace, della solidarietà e dell’internazionalismo popolare, avendo come principali avversari, da un lato, i fantasmi del nazifascismo e delle sue teorie fondate sul razzismo ed il nazionalismo corporativo, autoritario ed aggressivo. Sono state dimenticate le pagine di Marx in cui si ammonisce che l’immigrazione di massa non fa altro che far aumentare l’esercito industriale di riserva, impedendo agli immigrati un duraturo e continuo processo di miglioramento delle proprie condizioni sociali dopo l’arrivo nei nostri Paesi, ed al contempo contribuendo a ridurre i diritti dei lavoratori autoctoni, per l’ovvio gioco dell’aumento dell’offerta di lavoro.
Il neoimperialismo aggressivo, condotto spesso (vedi la Francia, ad esempio) dalle stesse sinistre socialdemocratiche postbelliche, e per certi versi indurito dalla condizione di multipolarismo che è seguita alla caduta del muro di Berlino, ha generato differenziali di ricchezza e di prospettive di crescita, fra Nord e Sud del mondo, che hanno superato la soglia della tollerabilità. Anche perché la predazione crescente di risorse naturali, sia dal punto di vista della catena del valore che da quello del dissesto ambientale, ha sprofondato ulteriormente nel baratro economie non industrializzate, che delle risorse naturali stesse vivono. Peraltro, tale processo, non di rado, ha distrutto in quei Paesi modelli socio-etnici, tribali e familiari tradizionali, malamente, e dannosamente, sostituiti da posticci modelli europeizzanti o nordamericani calati dall’alto, generando conflitti sanguinosi e crescente miseria. In questo quadro, però, una sinistra che aspiri a rappresentare le classi popolari non può semplicemente scaricare l’analisi sugli effetti del neoimperialismo e dei suoi devastanti effetti sulla divisione internazionale del lavoro. Tali analisi globali e caratterizzate da un certo grado di astrattezza, peraltro, solo in parte sono corrette, nella misura in cui tale nuova divisione internazionale del lavoro non ha soltanto generato miseria e sfruttamento nel Terzo Mondo, ma anche l’aggressiva ascesa di Paesi di nuova industrializzazione, che usano come leva competitiva l’ipersfruttamento del loro lavoro e delle loro risorse ambientali, in un paradossale eccesso di capitalismo predatorio tipico delle prime fasi di rivoluzione industriale, rispetto al quale clausole, da parte dei Paesi europei, che pongano pesanti limiti all’importazione di beni industriali prodotti con tale ipersfruttamento, sarebbero giustificabili proprio in una ottica socialista.

Ma soprattutto, a prescindere dalla loro correttezza, tali analisi appaiono, agli occhi dei ceti sociali di riferimento della sinistra, incomprensibili, o quantomeno astratte ed autogiustificative. Non credo che il proletario che si vede negare un lavoro in cantiere edile perché hanno già assunto (più o meno in nero) operai indiani che si accontentano di un terzo del suo salario, possa essere interessato a tali ragionamenti. O che possa esserne interessato chi si vede preceduto, nella graduatoria comunale di assegnazione di una casa popolare, dalla famiglia del Bangladesh. Ora, se è vero, e lo abbiamo appreso da un certo Lenin, che la sinistra non può inseguire passivamente ed acriticamente gli umori del popolo, ma esserne guida ed educatrice politica, è anche vero che difficilmente un insegnante incapace di mettersi dalla parte dei suoi allievi riesce ad essere efficace.

Allora la sinistra dovrebbe quantomeno interrogarsi sul perché crescano, fra i ceti sociali di potenziale riferimento, l’avversione ad una immigrazione indiscriminata e ritorni di nazionalismo. E non parlo solo di Paesi, come l’Ungheria, governati da movimenti nazionalisti e sfavorevoli all’immigrazione, a forte base elettorale popolare. Ma anche di Paesi come la Francia e l’Italia in cui la Lega Nord, sarebbe bene ricordarlo, ha un consenso elettorale a due cifre, basato anche sui ceti popolari più colpiti dalla crisi.

Alcuni miti da sfatare e soluzioni non praticabili: immigrati, mercato del lavoro e welfare

L’occupazione straniera è sostitutiva o complementare a quella degli italiani?

Per anni la sinistra ha cercato di difendere un approccio multiculturalista sulla base di un assioma: negli anni buoni, quelli pre-crisi, gli immigrati non erano un problema perché facevano “lavori che i nostri concittadini non vogliono più fare”, quindi erano una integrazione verso il basso del mercato del lavoro, un gioco win-win. Negli anni di crisi, ci siamo accorti che, nelle campagne del nostro Sud, gli italiani facevano quegli stessi lavori umili da caporalato agricolo degli immigrati, ed allora tale teoria, semplicemente, non regge più. Lo mostrano i dati dell’Istat: l’indagine sulle forze di lavoro al 2016 rivela che il 6,7% dei lavoratori stranieri opera in mansioni qualificate e tecniche, il 28,3% come impiegati e addetti al commercio, il 29,3% come operai qualificati o artigiani. Tutte occupazioni sicuramente sostitutive, e non complementari, rispetto ai lavoratori italiani. Solo il 35,7% dei lavoratori stranieri è occupato in mansioni dequalificate, che per certi versi (ma non sempre, come dimostra, per l’appunto, la scoperta di italiani che lavorano nella raccolta degli agrumi nel Mezzogiorno) possono essere considerate “mestieri che gli italiani non vogliono fare”.

Immigrati, questione demografica e previdenza

Il discorso giustificazionista rispetto agli immigrati, allora, è cambiato: adesso gli immigrati servono perché ringiovaniscono la struttura demografica di società invecchiate, le restituiscono linfa vitale, e del resto si moltiplicano gli studi che mostrano la vitalità dell’imprenditorialità immigrata in contesti fiaccati dalla stagnazione economica[1].

Non voglio dire che queste considerazioni siano sbagliate o meramente strumentali. Tutt’altro. Il problema di fondo è che esse non colgono la radice profonda dei mali demografici dei nostri Paesi. Le nostre società invecchiano non per un destino cinico e baro, ma perché la precarizzazione dell’esistenza di milioni di giovani, la disoccupazione giovanile, livelli medi di reddito per coloro che lavorano del tutto inadeguati a sostenere una vita familiare, deprimono la fertilità. A ciò si associano stili di vita, veicolati dalla propaganda neoliberista che pervade le nostre società, che esaltano l’individualismo, a discapito della vecchia, ed oramai consunta, etica del sacrificio familiare in nome dei figli. A tal proposito, il Rapporto Istat 2017 evidenzia come almeno un terzo del declino della natalità in Italia sia legato ad una minore propensione a fare figli, a sua volta basata su fattori reddituali e socio-culturali. Anche l’aumento dell’età media al primo parto, arrivata per le donne italiane fino a 32 anni, è un effetto della debolezza economica e reddituale: sempre l’Istat, infatti, ci avverte che una donna con figli ha il 30% di probabilità in meno di trovare un lavoro rispetto ad una donna di pari età senza figli. Evidentemente, se i lavoratori italiani si impoveriscono, anche per la crescente pressione dal lato dell’offerta di lavoro degli immigrati, la tendenza a ridurre la natalità proseguirà, anziché invertirsi. E se si volesse contrastare tale declino, occorrerebbe focalizzarsi sulle condizioni reddituali e lavorative delle famiglie e delle donne italiane, prima di pensare ad importare stranieri.

La stessa retorica, poco fondata dal punto di vista analitico, degli immigrati che sosterrebbero il sistema previdenziale italiano, soltanto a patto di un continuo flusso di ingressi, non tiene conto della necessità di un sistema previdenziale di tipo contributivo di mantenere un punto di equilibrio intertemporale fra entrate ed uscite. Ciò che nel breve periodo è un vantaggio (ovvero l’incremento di lavoratori giovani che contribuiscono a mantenere in equilibrio il sistema pensionistico) nel medio lungo periodo si ribalta inevitabilmente, quando quegli stessi giovani immigrati invecchiano ed iniziano a bussare alle porte del sistema pensionistico. Se al tempo “t” gli immigrati giovani contribuiscono positivamente ai conti previdenziali, al tempo “t+n” essi stessi matureranno i requisiti per la pensione. A quel punto, l’effetto congiunto di una popolazione autoctona sempre più invecchiata e di nuovi coorti di immigrati di prima generazione che premono per ricevere la pensione richiederà, per compensare i conti del sistema previdenziale, un nuovo afflusso di immigrati giovani di dimensioni maggiori rispetto a quello verificatosi al tempo “t”. E così via, in una spirale di fabbisogno crescente di nuove forze di lavoro provenienti da oltremare[2].
Il problema, però, è che il mercato del lavoro non ha una capacità di assorbimento infinita, per cui pressioni crescenti di offerta di lavoro finiscono per tradursi in disoccupazione e/o lavoro nero, entrambe modalità, evidentemente, del tutto inefficaci nel finanziamento del sistema previdenziale. Alla fine di questa spirale di aumento sempre più rapido della forza-lavoro, il mercato del lavoro salta in aria, insieme ai conti previdenziali. Il ragionamento sul contributo degli immigrati al sistema pensionistico è quindi affetto da un problema di carenza di analisi dinamica. E’ un ragionamento che si basa su un modello statico.

Tra l’altro, il ragionamento sul contributo previdenziale degli immigrati è parziale, perché la previdenza è soltanto uno dei tanti capitoli della spesa pubblica. Ci sono molti altri servizi pubblici, finanziati dalla fiscalità generale, che hanno un costo unitario tendenzialmente fisso. Ad esempio, la giustizia ha gli stessi costi per un italiano che per un immigrato. Lo stesso vale, ad esempio, per i trasporti pubblici, la sanità, la scuola, ecc. Se il costo di tali servizi per utente è tendenzialmente fisso (o comunque indipendente dalla nazionalità dell’utente) esso cresce con legge aritmetica all’aumentare della domanda (perché, ovviamente, e legittimamente, l’immigrato chiederà di fruire dei servizi sanitari, scolastici, di trasporto, ecc. del Paese di accoglienza). Tuttavia, la massa di risorse necessarie per il finanziamento di tale spesa crescente non aumenterà nella medesima proporzione, poiché essa è alimentata dalla fiscalità generale, che è progressiva. Ora, al netto dell’incidenza particolarmente alta del lavoro nero fra gli immigrati (una stima della Fondazione Moressa parla di un tasso di irregolarità, fra gli occupati stranieri in Italia, del 20%, ben più alto di quello dei lavoratori italiani, che oscilla fra il 15 ed il 16%)[3]. E’ chiaro che coloro che lavorano regolarmente hanno livelli reddituali (e quindi capacità fiscale) molto bassi. In altri termini, rispetto ai servizi pubblici finanziati da fiscalità generale, gli immigrati costano quanto gli italiani ma finanziano tali servizi in una proporzione inferiore rispetto agli italiani, perché si concentrano nelle fasce reddituali inferiori rispetto a quella mediana. Evidentemente, nel lungo periodo tale assetto rischia di far saltare ogni sostenibilità finanziaria dei servizi pubblici a finanziamento fiscale. A meno che l’obiettivo non sia proprio quello di farli saltare, per poi privatizzarli, a danno, oltre che degli italiani, anche degli stessi immigrati.

Tali considerazioni non sono nemmeno particolarmente originali, e sono state già autorevolmente avanzate, solo che ci si volesse aggiornare. L'ultimo rapporto della Fondazione Leone Moressa, con il contributo della Cgia di Mestre, prende in considerazione gli oltre 5 milioni di immigrati regolari presenti nel nostro Paese all'inizio del 2016. Questa popolazione ha versato imposte per 6 miliardi e 10,9 miliardi di contributi per un totale incassato dal fisco che sfiora i 17 miliardi.
Tuttavia, la somma di spesa aggiuntiva per i servizi pubblici erogati agli immigrati, inclusiva della spesa per l’accoglienza dei migranti, è stimata attorno ai 16 miliardi circa. Praticamente la stessa cifra incassata a titolo di contributi e imposte. Quindi nell’immediato il saldo fra entrate e spese legato alle migrazioni appare in equilibrio.
I guai, però, subentrano non appena si considerano gli scenari prospettici, quindi si passa da un approccio statico ad uno dinamico. Tra il 2040 e il 2050, quando molti immigrati accederanno ai requisiti pensionistici, emergeranno tensioni nel sistema previdenziale. Attualmente più del 70% della popolazione di origina straniera residente in Italia si situa nella fascia di reddito inferiore ai 25mila euro lordi annui. Questo lascia presagire che, una volta pensionati l'assegno sarà del tutto insufficiente a garantire loro un'esistenza dignitosa se resteranno in Italia. Essi diventeranno, pertanto, un problema in più a carico delle generazioni future, perché quei contributi che versano oggi dovranno essere restituiti sotto forma di pensione ed integrati con altre forme di sostegno al reddito[4].
Il professor Gian Carlo Blangiardo dell'Università di Milano Bicocca ha calcolato che sarebbe necessario un flusso aggiuntivo di 400-500 mila nuovi immigrati «giovani» all'anno per rendere il sistema sostenibile. Questo, però, significherebbe far saltare gli equilibri del mercato del lavoro e far esplodere una questione sociale senza precedenti.

Immigrati e mercato del lavoro

Il mercato del lavoro italiano, per le sue caratteristiche di acuto dualismo, ma anche per la debolezza intrinseca dei suoi sistemi di formazione tecnico-professionale e di orientamento ed integrazione nel mondo del lavoro, è del tutto inadeguato a sostenere ingenti flussi di nuove forze di lavoro. Non a caso, come sottolinea nuovamente l’Ocse (2014) queste caratteristiche sono particolarmente nocive per gli stessi immigrati, particolarmente esposti al ciclo economico. L’Ocse rileva infatti che “con la recente crisi economica, i risultati sul mercato del lavoro degli immigrati hanno subito un calo ancora più drastico di quelli dei nativi (…) i lavoratori immigrati sono generalmente più vulnerabili perché concentrati soprattutto in settori duramente colpiti dalla crisi, come l’edilizia (che è tipicamente un settore prociclico, nda) e hanno situazioni contrattuali più precarie”. Il che pone seri interrogativi circa “la loro occupazione a lungo termine”.

La domanda inquietante che la sinistra dovrebbe porsi, a questo punto, oltre il buonismo di facciata, è la seguente: come garantire una armoniosa e pacifica integrazione socio-lavorativa di gente che, pur di venire da noi, è stata disposta a investire tutti i suoi magri risparmi ed affrontare un viaggio pericolosissimo, nel momento in cui non si riesce a garantire loro prospettive occupazionali di lungo termine perlomeno uguali a quelle, peraltro magrissime, dei lavoratori italiani? Non c’è il rischio concreto che il sogno infranto si traduca in rabbia e rancore verso il Paese di accoglienza? Come abbiamo purtroppo sperimentato con tanti cittadini “francesi”, “belgi” o “inglesi” di origini maghrebine attivi nel terrorismo dell’Isis, non c’è il rischio che la mancata integrazione di lungo periodo ricacci i giovani immigrati di seconda generazione in una terra di mezzo fra la cultura di origine e quella del Paese di accoglienza, trasformandoli in sradicati ed emarginati perenni, disponibili per qualsiasi avventura criminale o terroristica?
Il tutto viene ulteriormente peggiorato, in prospettiva, dal fatto che siamo alla vigilia di una enorme rivoluzione tecnologica che, perlomeno nel medio periodo, tramite l’estensione dell’informatizzazione, dell’automazione e dell’intelligenza artificiale, sopprimerà milioni di posti di lavoro e creerà un assetto sociale neo feudale, con milioni di esclusi, dal lavoro e quindi dall'identità sociale (perché l'identità sociale, sotto specie capitalistica, dipende dal lavoro). In queste condizioni, non cercare di fermare l'immigrazione, ma anzi, addirittura facilitarla, è un suicidio, perché moltiplica il numero potenziale di esclusi.

Purtroppo non ci sono ricette facili, non è un gioco win-win. Anche l’ultima frontiera delle soluzioni “facili” proposte dalla sinistra, ovvero l’integrazione dei lavoratori immigrati dentro il mercato del lavoro regolare, tramite l’estensione delle tutele dei contratti collettivi di categoria (“aumentiamo il numero di ispettori del lavoro nei cantieri e i lavoratori immigrati inseriti nei CCNL, al pari dei loro colleghi italiani, non eserciteranno più una concorrenza sleale”) è, a medio termine, inefficace. Infatti, la crescente contrattualizzazione di lavoratori immigrati nella forma attualmente più “protetta” (ovvero tramite i CCNL) finirà per far lievitare il costo del lavoro di quelle imprese che li utilizzano diffusamente con modalità informali o con contratti precari e sottopagati. Per un modello di specializzazione produttiva come quello italiano, spostato sui settori a più basso valore aggiunto e su una forte propensione all’esportazione, la perdita di competitività dal lato dei costi di produzione finirà presto per indurire le rivendicazioni della parte datoriale in sede di negoziazioni sul rinnovo dei contratti collettivi. Ben presto, per conservare i livelli occupazionali più tutelati (gonfiati dall’immigrazione di nuova forza lavoro inclusa nei CCNL) i sindacati saranno costretti ad accettare rinnovi contrattuali al ribasso, peggiorando così le condizioni e le tutele di tutti i lavoratori delle categorie interessate, siano essi italiani o stranieri. Le leggi dell’offerta e della domanda, sia pur in un mercato parzialmente intermediato come quello del lavoro, non possono essere eluse per troppo tempo, a maggior ragione in un contesto macroeconomico di elevata e crescente apertura dei mercati interni e di concorrenza globalizzata. Alla fine, è inevitabile che si avveri la previsione marxiana, contenuta nel Capitale, secondo la quale “l'eccesso di lavoro imposto alla frazione della classe salariata che si trova in servizio attivo ingrossa i ranghi della riserva aumentandone la pressione che quest'ultima esercita sulla prima, forzandola a subire più docilmente il comando del capitale”.

Che fare? Una proposta, fra maggiore controllo e nuovo modello di integrazione
Nel lungo periodo: riequilibrare la catena del valore globale

Rimane allora il problema del “che fare”. Certo non è pensabile, per la stessa esistenza etica e valoriale della sinistra, indulgere verso approcci xenofobi o di chiusura, scimmiottando la destra. Però non è parimenti possibile ignorare sostanzialmente il problema, rinviandolo all’Iper-Uranio di una politica di cambiamento radicale del paradigma di sistema orientata verso lontane, nebbiose ed utopistiche mete di ristrutturazione a livello globale dei rapporti sociali di produzione. Non voglio generare un equivoco: ritengo ovviamente necessario, anzi indispensabile, impostare detto lavoro di lunga lena mirato a ridurre il condizionamento neo imperialistico sui Paesi di origine dei flussi migratori, sostanzialmente al fine di riequilibrare parzialmente i dualismi di sviluppo globale (e sottolineo il “parzialmente”, dobbiamo essere consapevoli che in un modello capitalistico, che certo non possiamo cambiare, lo sviluppo economico e sociale del Terzo Mondo corrisponde a frenare, ed oltre certi livelli ad invertire, quello dei Paesi più ricchi). Occorre lavorare, in termini di politica estera e di cooperazione reale allo sviluppo (che non si fa con i doni, ma con il trasferimento di capacità tecniche e di ristrutturazione della catena del valore a favore dei produttori primari) per creare condizioni minime di stabilità politica, etnico-religiosa e sociale, e di eliminazione delle forme più estreme di miseria e deprivazione economico-ambientale, nei Paesi africani e medio-orientali di origine dei flussi che interessano il nostro Paese.

Nell’immediato: maggiore selettività

Ma tale lavoro è di lunghissimo periodo, e non si può ignorare che esista, nell’hic et nunc, una emergenza migratoria, nei termini di devastazione dei nostri sistemi lavorativi e sociali, e della nostra stessa identità culturale, tratteggiato in precedenza. Non possiamo aspettare che si compiano i lustri, o i decenni, necessari per ottenere i frutti di una politica di riequilibrio delle contraddizioni più acute del modello socio-economico globale e della divisione internazionale del lavoro. Tale attesa produrrebbe una devastazione nei nostri mercati del lavoro e nel nostro welfare non più sanabile. Chiunque spacci come facile e generatrice di effetti immediati tale strada di modifica del modello produttivo e sociale globale, così lunga e difficile, è un idiota, oppure un truffatore.

L’emergenza va affrontata con gli strumenti dell’emergenza, e con le armi della politica, che non è pietismo (per il pietismo ci sono i preti ed i benefattori) ma concretezza e durezza, se necessario. L’accoglienza, come ben sottolinea il passaggio del Catechismo che ho inserito in premessa, va modulata “nella misura del possibile”. Ed è anche inutile aspettarsi una solidarietà europea sul tema, che non ci sarà mai, come dimostra chiaramente la sequela di riunioni infruttuose sulla questione delle quote[5].

L’ingresso di nuovi migranti deve essere selettivo e filtrato. Devono poter entrare soltanto coloro che hanno ricevuto il riconoscimento di rifugiati ed una piccola quota di immigrati economici che, mediante un sistema a punti analogo a quello usato da Paesi come l’Australia, basato su dati quali il livello di istruzione, le competenze lavorative, la buona condotta, lo stato di salute, ecc. risultino effettivamente utili a coprire shortages effettivi di specifiche figure professionali. Una istituzione come l’Ocse, che è uno dei templi della globalizzazione, arriva a suggerire di “subordinare l’ammissione di nuovi lavoratori alle esigenze del mercato del lavoro italiano”. La Marina Militare, sostanzialmente disimpegnata da compiti difensivi tradizionali, va utilizzata, con il supporto degli strumenti tecnologici moderni di identificazione e controllo (ad iniziare dai satelliti, dalla copertura radar aero-navale e dalle capacità AWACS dell’Aeronautica) per intercettare i barconi in mare e, dopo aver prestato il necessario soccorso alimentare e sanitario agli occupanti, agganciarli e riportarli in acque territoriali libiche. Un dispositivo eccezionale di truppe di terra va schierato lungo i litorali siciliani e appulo-calabresi interessati dagli sbarchi, con regole di ingaggio precise e adeguate. Deve essere applicata una politica di tolleranza zero verso i clandestini, ovunque scoperti nel territorio nazionale, o verso gli immigrati che dovessero rendersi responsabili di reati, anche di tipo contravvenzionale, o che fossero sorpresi a lavorare in nero. In questo senso, le procedure di espulsione vanno velocizzate al massimo, e devono scattare in forma automatica al verificarsi di eventi predeterminati (assenza di permesso di soggiorno, flagranza di reato, manifesta assenza dello status di rifugiato, come nel caso dell’immigrazione che proviene da Paesi che non hanno particolari problemi tali da giustificare tale status). Le operazioni delle navi di Ong private vanno messe fuori legge, affermando il monopolio dello Stato su tale settore, ed affrontate, se del caso, anche con la forza. Il personale diplomatico italiano nei Paesi di partenza deve essere formato a usare i media locali per fare operazioni di scoraggiamento nei confronti di potenziali migranti. Deve essere garantita per legge l’extraterritorialità dei centri in cui sistemare i migranti, in attesa della loro accoglienza o dell’espulsione. Tali centri devono essere gestiti dall’Esercito e non da cooperative private.

Ma anche un nuovo modello di accoglienza

Accanto a tale politica di duro contrasto ai nuovi ingressi, occorre però affiancare una nuova e più efficace politica di accoglienza per coloro che già risiedono nel nostro Paese o che verranno accolti a titolo di rifugiati o di piccola quota ammessa di immigrati economici. Modelli di integrazione che superino quello della ghettizzazione urbana, tipico della banlieue, così come quello dell’ingenua integrazione multiculturale “patchwork”, in cui ciascuno fa un po’ come gli pare perché è la “sua cultura”. Un modello che dovrà essere costruito, volta per volta, tramite il dialogo con le comunità, per trovare compromessi onorevoli per tutti.
Lo Ius Soli va concesso quindi ai figli di chi già risiede e di chi sarà accolto legalmente, ed occorre sveltire e facilitare i ricongiungimenti familiari. Occorre aumentare il grado di partecipazione dei migranti sia ai programmi di apprendimento della lingua italiana, che a quelli di formazione professionale e tecnica. Occorre garantire il rispetto assoluto, anche a scuola, delle diversità religiose e culturali, garantendo spazi di libera pratica della propria religione e dei propri costumi socio-culturali. Gli immigrati di prima generazione, nati all’estero ma residenti nel nostro Paese da un determinato numero di anni e che risultino, dopo accertamenti dei servizi sociali, positivamente integrati, vanno accompagnati verso l’acquisizione della cittadinanza, su base volontaria e semplificata. La politica nei confronti dei nomadi va ripensata in un modo che non oscilli fra gli estremi, entrambi insostenibili, dei campi e della sedentarizzazione forzata. Accanto alla sedentarizzazione assistita e volontaria, occorre garantire uno spazio di libertà e di decenza igienico-sanitaria, anche in siti posti fuori dalle aree urbane, a chi sceglierà di proseguire la vita nomadica.


NOTE


[1] Cfr. ad es. Unioncamere, indagine sulle imprese straniere, I trimestre 2017, suhttp://www.unioncamere.gov.it/P42A3436C160S123/imprese--una-su-10-e-guidata-da-stranieri.htm
[2] Peraltro, come dimostrano alcuni studi empirici (cfr. ad es. Andersson, 2004, Child bearing after migration: fertility patterns of foreign born women in Sweden, in International Migration Review, vol. 38, n.3) gli immigrati integrati dentro il sistema sociale del Paese europeo di accoglienza tendono ad adottarne, nel tempo, anche gli schemi riproduttivi, portando il tasso di fertilità specifico, inizialmente più alto, a scendere verso la media della popolazione autoctona. Quindi non c’è, nel medio e lungo periodo, un effetto strutturale di ringiovanimento della popolazione generale legato al tasso di fertilità specifico delle donne immigrate.
Tale fenomeno si registra anche in Italia: mentre il tasso di fecondità delle donne italiane resta stabile fra 2008 e 2015, esso crolla, nel medesimo periodo, dal 2,65 all’1,94 per le donne straniere residenti in Italia (fonte: Istat).
[3] Elemento sottolineato anche dall’Ocse che, in uno studio del 2014 sull’immigrazione nel mercato del lavoro italiano evidenzia come “gli immigrati tendono a lavorare in settori come l’edilizia o i servizi assistenziali, così come in piccole aziende a conduzione familiare, dove l’informalità del lavoro (leggi “irregolarità”, nda) è più difficile da contrastare”.
[4] In realtà, i primi sintomi di insostenibilità del sistema previdenziale si manifestano già oggi: Secondo i dati dell’Inps, nel 2015 gli stranieri che percepivano una pensione erano 81.619. Di questi, 49.852 (il 61%) incassano pensioni assistenziali che non prevedono il versamento di alcun contributo, quindi che creano squilibrio nei conti previdenziali. Altri 9.071 percepiscono assegni di indennità o civili (anche questi ottenibili senza contributi) e solo nei casi di incidenti sul lavoro il soggetto garantito ha l'obbligo di aver versato contributi all'Inps (fonte: Il Giornale).
[5] In questo senso, circolano anche idee che stanno fra il buffo ed il tragico, come quella di accogliere gli immigrati che esprimono il desiderio di andare in altri Paesi europei. Bastano quattro blindati austriaci sulle Alpi ed il blocco dei valichi di frontiera fra Ventimiglia e la Francia per rendere tale idea del tutto inutilizzabile

3 commenti:

Alberto ha detto...

Tutto l'insieme di queste tesi non fa altro che affastellare argomenti più che risaputi e dibattuti in un fienile senza capo né coda. Tanto che viene persino presa per buona la crisi del sistema pensionistico che al contrario sarebbe in attivo se non fosse gravato da uscite assistenziali improprie e la cui spesa globale è inferiore alla media europea. Questo modo di fare che procede dalle idee eall'uso dei dato pro domo dello scrivente, sta veramente stufando. Certo il buonismo pour soi meme non serve a nulla, certo la sinistra ammesso che ancora esista ha commeso un grave errore nel non considerare l'immigrazione anche dal punto di vista della pressione sui salari e sui diritti del lavoro. Ma il fatto è che tutto questo si è scatenato su un Paese completamente seduto, preda di una corruzione profonda e diffusa, incapace di uscire dai propri pregiudizi e dalla pigrizia di un benessere diffuso, ma di cui si sono persi gli stimoli: quando vengono citate le cifre Istat (sulle quali sarebbe bene chiedere chiarimenti piutttosto che accettarle così come sono) secondo cui "il 6,7% dei lavoratori stranieri opera in mansioni qualificate e tecniche, il 28,3% come impiegati e addetti al commercio, il 29,3% come operai qualificati o artigiani" ci dovremmo chiedere come mai troviamo tanta parte di lavoro sostitutivo e analizzare le ragioni di tutto questo che evidentemente non risiedono nell'immigrazione di per sè, ma nella risposta perdente del Paese alla questa sfida.

Anonimo ha detto...

L'estensore dell'articolo ha giustamente evidenziato che nel Catechismo della Chiesa cattolica l'accoglienza è subordinata alla clausola "nella misura del possibile". Faccio una osservazione: nei suoi interventi il papa gesuita non fa mai alcuna distinzione tra rifugiati politici e migranti economici e non richiama mai la questione dei 'limiti del possibile'. Il papa gesuita predica l'immigrazione incontrollata e si può ragionevolmente sospettare che non si preoccupi affatto se le nostre città si trasformano in slums del terzo mondo; anzi...! Non è forse chiaro a tutti che religione e miseria vanno a braccetto assai più che non religione e benessere?

Marco Zorzi ha detto...

Un'ottima analisi. Precisa e rigorosa. Sperando che i seguaci della ex sinistra, colpevolizzati, ipnotizzati e zombizzati dal potere, si sveglino e rinsaviscano dalla loro alienazione nevrotica. Grazie a Riccardo Achilli.

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