sabato 29 ottobre 2016

LA SINISTRA SDENTATA di Sergio Cesaratto

[ 29 ottobre ]

Micromega ha pubblicato con bella evidenza (non era ovvio nei giorni del referendum) la nostra recensione al libro di Barba e Pivetti. Libro e recensione sono molto duri. Ma la sinistra deve fare i conti duramente con se stessa. Ha fatto bene D'Attorre a cominciare con l'euro qualche giorno fa. Massimo sforzo di condivisione per dare risonanza al libro di Barba e Pivetti. (Sergio Cesaratto)






Il tradimento della sinistra


Il volume di Aldo Barba e Massimo Pivetti [La scomparsa della sinistra in Europa] è di gran lunga la più importante provocazione intellettuale alla sinistra degli ultimi anni. 

Pivetti, il più senior della coppia e ben noto economista eterodosso (con fondamentali contributi di analisi economica), non è certo nuovo a queste provocazioni, tanto da meritarsi nel lontano 1976 l’appellativo di “simbionese” (più o meno sinonimo di “terrorista”) da parte di Giancarlo Pajetta. La sinistra avrà tre possibilità di fronte a questo libro: ignorarlo del tutto; criticarlo sulla base degli aspetti più “coloriti” del volume - quelli in cui gli autori s’indignano per certe posizioni della sinistra antagonista; discuterlo a fondo. E’ facile pronosticare che gran parte della sinistra italiana, troppo intellettualmente pigra o troppo radical-chic per entrare seriamente nel merito, sceglierà le prime due strade (ah, sono solo aridi economisti se non peggio). Ma il volume è ora lì come un macigno a pesare su una sinistra che ha perso, in Italia ma non solo, ogni reale contatto con le classi che rappresentavano un tempo la propria ragione sociale. Una sinistra che non solo ha perduto questo contatto, ma che è ormai da tempo considerata dai ceti popolari come propria nemica. Raccontano gli autori che pare che François Hollande in privato si riferisca ai ceti popolari come agli “sdentati”. Siamo anche convinti che, tuttavia, il volume rappresenterà occasione di dibattito e un randello da usare in ogni occorrenza per quel che resta di una sinistra intellettualmente solida e che delle ragioni di ampi strati della popolazione fa la propria ragion d’essere.

La tesi

La tesi centrale del libro è così riassumibile: gli anni gloriosi del capitalismo (1949-1978) videro la centralità degli Stati nazionali nel perseguire politiche di pieno impiego e di sostegno della domanda aggregata attraverso elevati salari reali diretti e indiretti (stato sociale), godendo di significativi margini di autonomia nella conduzione delle proprie politiche economiche (nei soli Stati Uniti la spesa militare sostituì in parte il sostegno al welfare state). Questi margini si esplicavano nel controllo dei movimenti di capitale e di merci, ma anche dei flussi migratori. La sinistra non ebbe una parte preminente nel disegno di questo modello, anche se talvolta lo gestì. Ruolo centrale ebbe piuttosto la risposta che il capitalismo fu costretto ad avanzare alla sfida del socialismo reale. Col successivo indebolimento di questa sfida, il capitalismo liberista riprese vigore. La sinistra, a quel punto, non solo si mostrò nel complesso incapace di rispondere, ma si incaricò di gestire il progressivo smantellamento delle istituzioni e degli avanzamenti conseguiti negli anni gloriosi. 

L’ala più anarcoide e anti-statuale della sinistra, frutto dell’anti-autoritarismo studentesco del 1968, prevalse su un’ispirazione più statalista —operazione facilitata dal fatto che in fondo le istituzioni degli anni gloriosi non furono un frutto di un’elaborazione della sinistra, lo statalismo di sinistra essendo più collegato all’esperienza sovietica in discredito presso la sinistra anti-autoritaria. 

Centrale nella capitolazione della sinistra al neo-liberismo fu l’episodio della Presidenza Mitterrand. Eletto nel 1981, e dotato di una grande maggioranza parlamentare, Mitterrand cominciò a eseguire il programma delle sinistre che comunisti e socialisti avevano elaborato sin dal 1972. Questo era un programma molto avanzato di nazionalizzazioni e misure redistributive, oltre che di riduzione dell’orario di lavoro. Le nazionalizzazioni di banche e imprese dovevano essere funzionali a una politica industriale volta a rafforzare l’apparato produttivo allo scopo di ridurre la dipendenza del paese dalle importazioni dall’estero, e rendere perciò possibili politiche espansive interne senza incorrere nel vincolo della bilancia dei pagamenti. 

Barba e Pivetti ritengono che già nella preparazione del programma la sinistra compì l’errore esiziale di trascurare l’impellenza del vincolo estero alla crescita tenuto conto sia di lentezza degli effetti della politica industriale, che del mutato clima internazionale segnato dall’avvento delle politiche deflazionistiche di Reagan e Thatcher. Né la sinistra francese fece tesoro del dibattito nel Labour inglese su come affrontare il vincolo esterno e di come l’accettazione supina di quest’ultimo avesse portato il governo laburista a misure deflazionistiche impopolari e alla successiva storica sconfitta del 1979. Invece, dal 1983 prevalsero nel Partito Socialista francese gli esponenti più neoliberisti alla Rocard e soprattutto alla Delors che si incaricarono di disegnare la nuova Europa cosmopolita e anti-statalista come nuovo spazio entro cui la “sinistra” si doveva muovere. 

L’intellighenzia francese più à la page assecondò l’operazione, sin dalla riscoperta da parte di Michel Foucault delle virtù dell’ordoliberismo.
Questo complesso ragionamento si dipana su sette capitoli, gli ultimi due dei quali dedicati rispettivamente ai comunisti italiani e alla cosiddetta sinistra radicale o antagonista, come la chiamano gli autori.

Il ragionamento

I primi due capitoli del v
olume sono dedicati al progressivo smantellamento delle istituzioni statuali che avevano assicurato margini di indipendenza delle politiche economiche nazionali, in particolare il controllo dei movimenti di capitale, segnando così il passaggio dagli “anni gloriosi” a quelli “pietosi”: 
«La liberalizzazione valutaria fu dunque in Europa la madre di tutte le riforme liberiste, in quanto minò alla base la capacità dello Stato di esprimere un indirizzo di politica economica autonomo, sia al suo esterno (ossia nei confronti degli altri Stati), che al suo interno (ossia nei confronti degli interessi dominanti)». (p. 33; se non altrimenti specificato, i riferimenti di pagina sono al volume qui recensito). La verve polemica del lavoro entra nel vivo nel capitolo 3 in cui viene illustrata l’esperienza del governo Mitterrand. Le realizzazioni sociali e le nazionalizzazioni attuate nel 1981-82 furono invero significative, ma l’esperienza incontrò presto il vincolo dei conti con l’estero, portati in rosso dalle politiche di sostegno della domanda interna conseguenti all’aumento dei salari e della spesa sociale. A quel punto, sostengono gli autori, si sarebbe dovuto mostrare adeguato coraggio politico:
«Nel breve-medio periodo … l’allentamento dei vincoli di bilancia dei pagamenti alla realizzazione del programma della sinistra avrebbe richiesto il ricorso a restrizioni quantitative delle importazioni e restrizioni delle esportazioni di capitali, le une e le altre tanto più estese e severe quanto maggiormente deflazionistico-recessivo si fosse rivelato l’orientamento della politica economica perseguita dai principali partner della Francia. Il fatto è, però, che la coalizione di sinistra era ben lungi dall’essere unanime al suo interno circa il ruolo delle nazionalizzazioni, e, più in generale, circa la gestione del vincolo esterno». (p. 97)
Gli autori non discutono della possibilità di svalutare il tasso di cambio a cui il governo francese apparentemente rinunciò. Il mancato approfondimento delle ragioni di questa scelta fa trasparire lo scetticismo degli autori verso questo strumento, convinti dell’importanza di riuscire a preservare il valore esterno della moneta nell’ambito del perseguimento di politiche di pieno impiego. E’ quella del sostegno di cambi fissi una posizione tradizionalmente condivisa a sinistra, sia per gli effetti negativi delle
svalutazioni sui salari reali, che per la connessa possibilità di effetti recessivi, laddove la caduta del potere d’acquisto dei lavoratori abbia effetti negativi sulla domanda interna. Affidare tuttavia alla fissità del tasso di cambio un primario ruolo nello stabilizzare la distribuzione del reddito può avere controindicazioni, se la perdita di competitività dovuta a un tasso di cambio reale forte incide sulla bilancia commerciale e da ultimo, attraverso la necessità di contenere la domanda interna, su occupazione e salari reali diretti e indiretti. Inoltre, l’esperienza storica suggerisce che sistemi di cambio fissi sono volti a contenere il conflitto distributivo – è l’esperienza italiana con lo SME e con l’euro, mentre negli anni settanta la politica del cambio accomodava il conflitto. Ciò detto, le forme di protezionismo proposte dagli autori fanno parte del bagaglio di strumenti noto agli economisti e sono solo superficialmente avverse al commercio internazionale. Anzi, combattendo la deflazione come modalità di aggiustamento dei conti nei paesi deficitari, o come strumento del mercantilismo economico per i paesi in avanzo, il protezionismo favorisce il mantenimento del commercio internazionale almeno sui livelli raggiunti. Gli eredi del perbenismo economico del PCI (che certamente ancora allignano nella sinistra PD) non mancheranno di attaccare il volume su questo. Ma basti qui ricordare che a dar man forte agli autori vi sono le esplicite prese di posizione di Federico Caffè che introducendo un famoso studio sulle politiche di pieno impiego steso ad Oxford nel 1944 con al centro la figura di Michael Kalecki, scriveva:
«Non può escludersi che, tra le concause della diffusione dell’odio che rattrista i tempi in cui viviamo, non rientri l’aver, con ingiustificato ottimismo alimentato anche illusorie forme di collaborazione internazionale, trascurato a lungo il messaggio essenziale di questa raccolta di saggi: "l’alternativa ai controlli resi necessari dal pieno impiego non è qualche situazione ideale di pieno impiego senza controlli, ma la disoccupazione e il succedersi di fluttuazioni economiche”» (Caffè 1979).
Comunque sia, nel 1982-83 il governo francese operò una svolta rigorista senza apparenti opposizioni, neppure dal Pcf, e nel 1986 la destra tornò al potere. Il j’accuse degli autori è netto:
«Si può in definitiva affermare che la svolta rigorista del 1982-1983 non fu imposta a Mitterrand e al governo Mauroy né dall’esterno della coalizione di sinistra né dall’esterno della Francia. Si trattò di una scelta in senso liberista e filo-capitalista autonomamente compiuta in piena coscienza dalla maggioranza della sinistra francese —una scelta gradualmente maturata nel corso del precedente quindicennio, lasciata a covare sotto la cenere in vista delle contese elettorali del 1981 e che a partire dal 1983 non fu mai più abbandonata». (p. 102)
La cenere che covava era, secondo gli autori, principalmente rappresentata da Jacques Delors, ispiratore e artefice della svolta “liberista e filo-capitalista” (ma altro eroe della sinistra che lo ritiene keynesiano). Il disegno di Delors era che:
«La libertà di circolazione dei capitali in Europa sarebbe stata il primo indispensabile passo di un percorso che avrebbe portato all’unione monetaria; più in generale, la libera circolazione internazionale dei capitali, proprio perché perseguita con determinazione da un Paese ad essa tradizionalmente ostile come la Francia, avrebbe contribuito a diffondere dappertutto la convinzione che il contesto nazionale non era più quello rilevante per la politica economica, che il tempo delle soluzioni nazionali ai problemi economici era ormai tramontato». (p. 104).
Insomma:
«L’unificazione politica del continente … avrebbe alla fine compensato le singole nazioni della perdita della loro sovranità monetaria, fiscale, eccetera». (pp. 105-6)
Le due sinistre

In verità, sostengono gli autori, a cavallo fra gli anni sessanta e settanta si delineano in Francia due sinistre: quella operaia, “statalista e sovranista” (Pcf e la sinistra Ps rappresentata dal Ceres di Chevènenment) e quella studentesca “dell’insofferenza verso ogni forma di autorità e di potere, dell’individualismo anarcoide, dell’autogestionismo antistatalista” (e dell’anti-sovietismo) (pp. 110-11). La prima sinistra riuscì effettivamente a influenzare la stesura del programma comune mentre la seconda si tenne “in disparte, coltivando però con cura i suoi rapporti con l’intellighenzia del Paese” (p. 111).

La seconda sinistra fu così pronta a balzar fuori alle prime difficoltà economiche del programma comune, proponendo un progetto opposto basato sullo svuotamento dello Stato-nazionale sostituito col progetto europeo, un esito “sostanzialmente autoritario” (p. 108). Del resto, sferzano gli autori citando un famoso passaggio di Gramsci, i figli della borghesia si fanno talvolta capi delle classi lavoratrici, pronti però a tornare all’ovile alle prime difficoltà —ma non senza aver lasciato macerie intellettuali nel movimento operaio sembrano far capire gli autori. L’abbandono della tradizione interventista francese e la riscoperta del mercato diventa caratteristica dell’intellighenzia di sinistra francese, da Claude Lévi-Strauss, a Foucault, Deridda e Lacan. Foucault il più influente, il quale conosce poco Marx e certamente ignora Keynes o Sraffa, viene però affascinato dall’ordo-liberismo.
Derrida, Foucault e Lacan

L’accusa che gli autori muovono alla sinistra, con cui si apre il capitolo 4 è di non aver subito il cambiamento politico, ma di averlo “deciso e gestito” (p. 125). Sul punto più dolente, quello dell’immigrazione, essi sono molto espliciti: “l’ostilità del lavoro dipendente indigeno all’immigrazione, la dimensione più immediatamente e “fisicamente” percepita della mondializzazione, ha di fatto determinato il suo distacco definitivo dalla cosiddetta sinistra del continente.” (p. 137). 

Barba e Pivetti ricordano l’attacco mediatico mosso al Pcf nel 1981, quando quel partito cercò di evitare questo distacco —col risultato che la classe operaia francese fece poi armi e bagagli spostandosi stabilmente nel Front National. Naturalmente gli autori non mancano di denunciare le devastazioni del Washington Consensus come una delle cause dell’esplosione dei flussi migratori —a cui si sono aggiunte le aggressioni militari ai regimi medio-orientali. E al fondo, chiosiamo, v’è sempre l’intento di distruggere gli Stati nazionali e la possibilità di vie nazionali allo sviluppo, cosa che può richiedere nei contesti di società instabili e culturalmente disomogenee la presenza di regimi autoritari. Con lucidità gli autori riassumono quello che finì per unire, nelle sue diverse sfaccettature, la gauche plurielle, come si pavoneggiava a definirla da noi il leader frivolo:
«Nel corso dell’ultimo trentennio, non solo per la sinistra modernista ma anche per la sinistra cosiddetta antagonista la difesa della sovranità nazionale in campo economico, più in generale della sovranità popolare, ha cessato di essere bussola di azione politica. Essa rigetta con orgoglio ogni forma di nazionalismo. La sua ideologia è ormai essenzialmente costituita da una miscela di antirazzismo e multiculturalismo, una sorta di cosmopolitismo intriso di marxismo volgare, visto cioè come un aspetto ineluttabile di quella forza continuamente sovvertitrice del capitalismo che sarebbe reazionario oltre che insensato cercare di contrastare ed alla quale conviene invece adattarsi come ad una "opportunità”». (p. 142).
Il pericolo che gli autori paventano è che la sostanziale paralisi della sinistra di fronte alla questione immigrazione, questione drammatica e lacerante —lasci il campo aperto a soluzioni di stampo fascista, che molti ritengono inevitabili (tralasciando gli antagonisti che ritengono di poter cavalcare la tigre, l’”opportunità” di cui parla il volume). In ogni caso, il mio invito al lettore è di dare il giusto peso al tema dell’immigrazione, per non farlo diventare un ulteriore elemento di lacerazione e impotenza a sinistra. Il tema chiave è lo Stato, la riappropriazione della libertà economica dei popoli. Con politiche nazionali diverse anche il problema dell’immigrazione potrebbe essere affrontato con maggiori strumenti e risorse, da noi e nei paesi di provenienza.

I sinistrati

Mentre il capito 5 descrive i mutamenti (peggiorativi) occorsi nel mercato del lavoro e nello stato sociale e i processi di privatizzazione dell’industria pubblica, la verve polemica del volume si riaccende negli ultimi due capitoli dedicati, rispettivamente al PCI e alla sinistra radicale. Quello che ne esce è il tremendo vuoto culturale della sinistra italiana accompagnato dalla condivisione da parte del Pci delle scelte liberiste. A rileggere i passi degli esponenti comunisti nel corso degli anni settanta, pur concedendo loro l’attenuante di circostanze come la strategia della tensione e il golpe cileno, o lo shock petrolifero, si è colti da un fremito di indignazione. 

Il leitmotive dei vari Peggio, Lama, Napolitano, Berlinguer, Trentin e compagnia cantando è uno e uno solo: il riequilibrio dei conti con l’estero deve ricadere sulle spalle dei lavoratori: “Ora bisogna battersi per i sacrifici!” dichiara nel 1976 un presunto eroe della sinistra, Bruno Trentin, che a un famoso convegno del Cespe (una sorta di ufficio studi economico del Pci), in maniera “surreale” chiosano gli autori, precisa che la contropartita consisterà “nella possibilità offerta alla classe operaia di partecipare alla gestione dei suoi sacrifici”. Cornuti e mazziati, insomma. Il sentimento che suscitano quei passi è che costoro fossero oggettivi avversari del popolo, altro che loro rappresentanti. Da notare come a quel convegno Lama attaccò per nome Massimo Pivetti, reo di aver proposto la strada alternativa dei controlli —strada difesa invece, l’anno successivo, da Federico Caffè (1977). La Troika era peraltro rappresentata in quegli anni dall’economista, naturalizzato americano, Franco Modigliani che nella sua visita annuale in Italia non mancava di impartire lezioni di liberismo a destra e a manca, presenziando come star al convegno del Cespe. Gli altri due dissenzienti a quel convegno, accanto a Pivetti, furono Domenico Mario Nuti e Bob Rowthorn. Nuti ha da poco firmato con noi più “giovani” la risposta a Lunghini su il manifesto.

Il Pci e i sindacati mai più si ripresero da tale distacco dalle masse popolari, concludono gli autori, e il Pci era già finito ben dieci anni prima della Bolognina. (Forse uno scatto di reni si ebbe sull’adesione allo SME nel 1979, ma si trattò di un gesto presto dimenticato).

Ma cosa ci fu dietro tanta pochezza del Pci? L’unico punto di riferimento solido del togliattismo, sostengono gli autori, era l’esperienza sovietica che aveva assicurato in un paese retrogrado, insieme alla piena occupazione, “un alloggio caldo … una buona istruzione… una distribuzione molto ugualitaria …una marcata parità effettiva tra uomini e donne” (p. 201). Il riferimento al socialismo reale fu frettolosamente cancellato da Berlinguer, il quale fu invece in continuità con il secondo aspetto del togliattismo, la subalternità alla cultura economica laico-liberale. L’intellighenzia organica del Pci brillò, infatti, per l’assenza della principale scienza sociale, rispetto a discipline più umanistiche, un partito crociano verrebbe da dire. L’unica eccezione fu il Piano del lavoro presentato dalla CGIL nel 1951, di chiara impronta keynesiana. Le sole parole di apprezzamento nel libro per un esponente comunista sono infatti per Di Vittorio. Fu quella una proposta riformista in linea con quanto accadeva al di sopra delle Alpi, che rimase però isolata, mentre la cultura del Pci restò profondamente succube di idee mutuate da Einaudi o dalla borghesia laico-liberale, come l’ossessione della lotta ai monopoli (un mantra simile a quello odierno della lotta alla corruzione). Del resto Togliatti si disinteressava di economia e già nell’elaborazione gramsciana la cultura economica appare come un dente dolente dei comunisti italiani – nonostante qualche sforzo di Sraffa di indirizzare Gramsci su sentieri più solidi. Croce ed Einaudi (o Ernesto Rossi e più tardi Spinelli) furono le stelle polari del Pci, più che Marx o Keynes o Sraffa. Al riguardo mi sembra doveroso notare come il volume è forse ingiusto nei confronti delle socialdemocrazie nordiche che non subirono passivamente l’esperienza degli anni gloriosi in quanto risposta capitalistica alla sfida sovietica, ma la disegnarono anche sulla base di una propria elaborazione teorica. Con Myrdal, questa muoveva dalla negazione di una distribuzione “di equilibrio” (o naturale) del reddito e dunque di “interessi nazionali” che sovrastassero quelli di classe – “interessi” che il Pci considerava invece sovversivo toccare - promuovendo il controllo dello Stato nazionale da parte dei partiti operai, con uno spostamento stabile delle quote distributive e la creazione di uno spazio “demercificato” coincidente con lo stato sociale. (Fu proprio Myrdal a proporre la medaglia speciale della Corte di Svezia per l’economia a Sraffa, onore che questi condivide con Keynes e assimilabile a un genuino premio Nobel).


Della sinistra antagonista Barba e Pivetti denunciano “lo spostamento della sua attenzione dalla sfera dei diritti sociali a quella dei diritti civili” (p. 225). Temi come la decrescita, il femminismo della differenza biologica, il multiculturalismo, i beni comuni (visti in funzione anti-statalista), l’altra economia e altre amenità (fino alla difesa fascista dell’utero in affitto da parte di una macchietta, ex leader di una formazione di sinistra —gli aggettivi sono miei) diventano i temi centrali di questa “sinistra”, a cui nulla perdonano gli autori. In particolare non le perdonano l’istigazione “all’odio verso se stessi”, inteso come odio per la cultura occidentale e il benessere conseguito da milioni di lavoratori. Al fondo v’è l’idea che questi avanzamenti culturali e materiali siano il frutto di uno sfruttamento verso il terzo mondo di cui si deve ora pagare pegno. E’ quest’ultima una tesi molto diffusa “a sinistra” sui cui gli autori avrebbero potuto spendere qualche parola di più, ci auguriamo lo facciano in successivi interventi. Personalmente credo che non ci si possa colpevolizzare per processi storici di sfruttamento, accaduti nel nord come nel sud del mondo, lasciando demolire ciò che può essere di guida per i mezzogiorno del mondo, ovvero la difesa di politiche pubbliche progressiste e i valori di tolleranza democratica - come è stato almeno in certa misura negli anni cinquanta e sessanta sino a che la furia economica e militare liberista (con al seguito il flagello connivente delle ONG) non si abbattesse su quei paesi distruggendo le vie nazionali e socialiste allo sviluppo.

Il futuro

In questo quadro sconfortante gli autori chiudono con una nota di ottimismo, indicando l’occasione storica offerta alla sinistra dalla diffusa protesta popolare contro banche e finanza, per la difesa del lavoro e dello stato sociale, contro una classe politica asservita agli interessi dei pochi, della riconquista degli spazi nazionali di democrazia e di intervento pubblico, quello che noi abbiamo altrove definito “Polany moment”, mentre solo la parte “più disorientata della gioventù” difende i temi del cosmopolitismo (p. 246). Un Polany moment può avere, com’è noto, anche un connotato di destra, come le vicende della Brexit per esempio suggeriscono.

Come abbiamo detto all’inizio, la sinistra potrà ignorare questo volume, o potrà entrare in polemica solo sui temi più caldi dell’immigrazione o del multiculturalismo, dimostrando in questo precisamente i limiti culturali denunciati nel libro. Potrà invece discutere la tesi centrale del volume: il necessario recupero delle politiche nazionali d’intervento pubblico come asse della sinistra. Ci aspettiamo che qualche grillo saccente contrapponga questa prospettiva alla presunta tradizione internazionalista della sinistra. Non avrebbe capito nulla, naturalmente. Lo spazio delle politiche di sinistra è, nelle circostanze storiche date, lo Stato nazionale, e solo una sinistra che operi in questa direzione potrà essere stimolo per l’emulazione a livello internazionale sì da costruire un 
internazionalismo dei fatti e non delle parole. Chi ha letto il mio libro (numerosi a quanto pare!) riconoscerà l’influenza che l’insegnamento teorico e politico di Pivetti, accanto a quello di Sraffa e Garegnani, ha avuto sulla mia formazione. Mi piace pensare che i due volumi giochino di squadra nel contribuire a una seria rifondazione della sinistra.


* Fonte: Politica economia

Riferimenti

Aldo Barba, Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra, Reggio Emilia, Imprimatur, 2016.
Federico Caffè, Introduzione a AAVV., L'economia della piena occupazione, a cura di F. Caffè, Torino, Rosenberg e Sellier, 1979
Federico Caffè, E’ consentito discutere di protezionismo economico?, in ID, La solitudine del riformista (a cura di N.Acocella e M.Franzini), Torino, Boringhieri, 1990 (originariamente pubblicato in: L’astrolabio, vol. 15 (12), 1977).
Sergio Cesaratto, Sei lezioni di economia - Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Reggio Emilia, Imprimatur, 2016.

6 commenti:

Anonimo ha detto...

"la scoperta di Mischel Foucault delle virtu' dell'ordoliberismo" ?!?!???!?

Ma come si fa a scrivere un corbellerie simile ? Foucault e' il primo a criticare ( e a spiegare a tutti cos'e') l'ordoliberismo ( oltre che il neoliberismo ) : siamo nel 1978 con il suo Nascita della Biopolitica !!!

Va bene avercela con la sinistra radicale , ma come si fa a scrivere delle assurdita' del genere !?! Cosi' si diventa ridicoli..

Anonimo ha detto...

Il Foucault e gli altri arruolati tra le file dell'ordoliberismo meriterebbero però una qualche citazione e disamina critica a sostegno di questa affermazione e un doveroso rimando alle fonti.

Condivido il senso generale del libro come della critica, ad esempio sui cambi fissi. In aggiunta a ciò, non si può però non cogliere una sorta di revanchismo nei confronti della sinistra non partitica del'68 che sembra sfogare vecchi rancori e vecchie ansie di rivincita nei confronti di chi aveva voluto sovvertire antiche reverenze, anche di classe. Non intendo le scelte liberiste del ceto politico, né i pittoreschi vicoli ciechi odierni dei diritti individuali o della carità verso gli immigrati, bensì l'idea di fondo che quel movimento fosse in partenza troppo scapigliato, quindi forzatamente portato a esiti fondamentalmente reazionari.
Ad esempio, se in Italia fu messo in crisi culturalmente quel provincialismo devoto a 'o senatore (recentemente rimesso e non a caso sugli allori e sugli altari dei riferimenti culturali e che peraltro piaceva tanto anche a un Pavese stanziato in Einaudi), fu grazie al '68, senza per forza gettarsi esclusivamente in braccio a Foucault.
Questa stizza vagamente elitaria si coniuga facilmente, oltre che con quella di destra più o meno felicemente travestita, con quella diciamo operaista-partitica nel denigrare quell'esperienza, peraltro estremamente variegata, cui per ragioni anagrafiche non ho partecipato, ma che irrita vedere caricata oggi tanto superficialmente della radice di ogni male.

Ci sarebbe da chiedersi piuttosto quanto il '68 distrutto da repressioni e bombe non fosse espressione proprio del successo di quelle politiche keynesiane, non fosse espressione cioè di un maggiore benessere e di una maggiore istruzione che permettevano di immaginare e rivendicare una vita che andasse oltre la mera sopravvivenza, vale a dire una mobilità sociale diversa e una diversa considerazione sociale e culturale.
Cosa inaccettabile per le élite, intellettuali, borghesi o partitiche che fossero, oltre che evidentemente a lungo andare anche per il grande capitale.
Per i poveri dev'esserci la vulgata e il rispetto, a dovuta distanza, con le indispensabili e insindacabili cooptazioni.
Per gli altri, l'ascensore deve rimanere inarrivabile. In Francia l'impressione è che malgrado tutto quell'ascensore abbia funzionato diversamente e più a lungo, specialmente nel settore della cultura e con ottimi e diffusi servizi pubblici.

Respinta, malmenata e criminalizzata l'onda del'68 forzatamente deve spiaggiare da qualche parte le sue residue energie. Dove farlo però se viene negato il riconoscimento persino dell'esistenza di un conflitto sociale in ogni spazio e discorso pubblico? Ecco, secondo me il successo delle tematiche sopra giustamente indicate come inconcludenti o peggio dannose per la sinistra nasce proprio da questo: qualcosa tra il baloccarsi con una bolla iridescente e la necessità impellente di sentirsi comunque utili e incisivi, fosse pure grazie a una versione politically correct delle dame di san Vincenzo. Un giocattolo consolatorio, dove peraltro non mancano momenti anche aspri di confronto con l'ordine costituito, ma che sostanzialmente permette di spostare altrove la pressione che i contestatori eserciterebbero sul problema redistributivo, come richiesto dall'ordine sociale. Ma che viene abbracciata a livello di base solo per sopravvivere almeno mentalmente in seguito a una pesantissima sconfitta, non per intrinseca incapacità di esprimere tale pressione.

Purtroppo la tendenza che vedo oggi nelle analisi sulla faccenda è ancora una volta quella borghesemente perbenista di fare la morale ai troppo fantasiosi, quindi pericolosi, sessantottini.

Camilla

Franco ha detto...

Gtazie !
Una pietra miliare ,
Spero nella massima diffusione .. Io Condivido .

Anonimo ha detto...

Vabbe', però così si perde di credibilità.
Foucault che diavolo c'entra con l'antiliberismo, abbiate pazienza...
Già Cesaratto e quall'altro signore sparano le scemenze più assurde su Von Hayek il cui liberismo era il contrario esatto della rtecnocrazia (mi riferisco a The Road to Serfdom); è evidente che chi si rifà alla Rule of Lawe - la quale protegge la Common Law - non può essere un tecnocratico. Per di più poneva come condizione essenziale che non ci fossero monopoli. E' una condizione realizzabile in concreto?
Forse no ma un liberismo senza monopoli ha senso eccome ed è tutt'altra cosa da questo ordoliberismo funzionale soalmente proprio ai monopoli. Von Hayek lo si può discutere ma certo stravolgerlo per costruire un capro espiatorio di comodo fa ridere.

Lo stesso con Foucault che con l'ordoliberismo non c'entra niente. L'interesse per il liberismo da parte di MF era esattamente per l'aspetto opposto che caratterizza quella dottrina economica e cioè la "libertà" e non la ferrea organizzazione dell'ordoliberismo tecnocratico èer cui un organismo centrale impone a tutti le regole sulla curvatura delle banane e sulle dimensioni delle lumachine di mare.

Uno può essere socialista, antiliberista o quello che gli pare a patto che sappia di cosa sta parlando.
Liberiasmo e socialismo hanno una cosa in comune e cioè non sono in alcun modo relaizzabili.
Il liberismo dà inevitabilmente luogo ai monopoli e quindi cessa di essere vero liberismo.
Il socialismo diventa capitalismo di stato e dominio assoluto della burocrazia non solo arrivando (per dirne una) a proibire gli scioperi ma finendo per rinnegare le istanze di libertà da cui era partito.

Siamo in un'epoca di passaggio verso qualcosa di nuovo e ci troviamo esattamente negli anni del cambiamento.
Vediamo di raffinare l'analisi adesso perché fra poco ci sarà altro da fare e se non si sarà preparati si verrà travolti dagli eventi.

Anonimo ha detto...

Correzione

era

Foucault non c'entra niente con l'ordoliberismo

Anonimo ha detto...

Se volete capire come la pensava Foucault guardate questo partedel filmato del famoso incontro con Noam Chomsky poi mi dite che c'entra l'ordoliberismo.

Dal link per due minuti e venti

https://youtu.be/tpgz2GpUgNU?t=3361

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