sabato 31 dicembre 2016

DI QUALE PATRIA PARLA MATTARELLA?

[ 31 dicembre ]

Il Presidente della Repubblica ha svolto il discorso di rito.
Ha recitato, da navigato politicante, due parti in commedia.

Mentre è stato obbligato a segnalare, non senza precisione, i mali che affliggono il nostro Paese, la sofferenza senza precedenti di chi sta in basso, ha svolto una difesa d'ufficio del regime economico e politico vigente, tessendo lodi della globalizzazione neoliberista e dell'Unione europea. Come se la catastrofe sociale che subisce il popolo lavoratore fosse frutto del destino, un evento naturale, e non invece proprio il risultato di meccanismi sistemici, di decisioni politiche prese da chi comanda, ovvero di chi ha deciso di affidargli la carica che occupa.
Abusivamente, possiamo dirlo? Il 4 dicembre ha infatti delegittimato non solo la conventicola piddina, è stato un NO contro tutto il regime, di cui Mattarellla è l'emblema, un vero e proprio simulacro.
E' dunque da respingere al mittente il suo appello contro l'odio, un appello il cui vero bersaglio non è tanto questo o quel leader politico, ma il popolo stesso, la sua indignazione,  destinata a dilagare, fino a diventare sollevazione.
Mattarella Lei ha esordito parlando di Patria, definendola "comunità di vita".
Non le è consentito! 
Lei è stato uno dei demiurghi che nei decenni si è adoperato per scardinare la sovranità popolare e nazionale, consegnandola, in nome della globalizzazione e dell'Europa, a quei poteri oligarchici che del marasma sono i primi responsabili. 
Lei ha infine controfirmato e avallato tutte le porcherie antipopolari volute dal governo Renzi.
Per i suoi atti Lei è responsabile di aver trasfigurato il Paese in un luogo privo di luce e di speranza, in una "comunità di morte".
L'augurio è che Lei possa vivere abbastanza a lungo per assistere alla sollevazione che s'avanza.
Sarà un'odio che vi seppellirà. Tutti, nessuno escluso.





2017: CHE SIA UN ANNO MEMORABILE di Mimmo Porcaro

[ 31 dicembre ]
Il 6 ottobre dell'anno scorso scrivevamo:
 «Non resta che voltare le spalle a quelli che si sono arresi ed hanno gettato la spugna. Non serve perdere tempo nel resuscitare i morti o a consolare gli sconfortati. Le ultime due generazioni sono andate in malora. Pensiamo piuttosto a quella che comincia solo adesso ad affacciarsi sulla scena. Pensiamo a raccogliere i superstiti, i pochi sopravvissuti al genocidio delle menti. Essi saranno il lievito del futuro prossimo. Diamo loro e subito una casa e un'organizzazione. Non saranno i nostri predicozzi a disperdere l'esercito di locuste dei pessimisti. Saranno i fatti, che hanno la testa più dura della loro». «L'ESERCITO DI LOCUSTE DEI PESSIMISTI]
E' un fatto la schiacciante vittoria del NO il 4 dicembre. Chi comanda davvero è sempre al suo posto, ma una breccia si è aperta in quella che pareva una muraglia impenetrabile. Spira un vento nuovo. Ci congediamo dal 2016 consegnando ai lettori le riflessioni di Mimmo Porcaro sulla nuova fase, che pienamente condividiamo. 
E' vero, non c'è un attimo da perdere.

Il 2016 si chiude ponendoci un compito urgentissimo per il 2017.
La sonante vittoria dei No al referendum di dicembre ha finalmente trasformato la palude della politica italiana (che stava ristagnando grazie alla droga della Bce e agli artifici verbali dell’ex premier) in un rapido fiume che corre veloce verso una cascata: le prossime, inevitabili elezioni. E più tardi queste avverranno, più alto sarà il balzo della cascata, più rovinoso l’effetto sul sistema politico italiano.
Faranno certamente di tutto per evitare il patatrac: trucchi elettorali, corruzione di gruppi dirigenti, forse altro ancora. Ma ben difficilmente potranno scongiurare l’affermazione dell’unico attuale antagonista degli equilibri di potere: il M5S. E qui sorge il problema. Perché una vittoria del M5S dovrebbe essere senz’altro essere salutata, allo stato attuale, come un’affermazione ulteriore del fronte del No al PD ed al neoliberismo. Ma significherebbe anche, allo stato attuale, l’apertura di una obiettiva e salutare crisi con l’Unione europea senza che però vi siano le idee sufficientemente chiare, le alleanze sociali sufficientemente salde, le convinzioni politiche sufficientemente forti per gestirne positivamente le conseguenze.
Intendiamoci: tutto è meglio dell’Unione europea, perché l’Unione è una macchina micidiale che ha come scopo principale la sottomissione dei lavoratori ed il passaggio di proprietà delle migliori imprese e del risparmio dei paesi deboli nelle mani dei capitalisti dei paesi forti. La situazione di incertezza derivante da una rottura non sarebbe negativa quanto la certezza di essere condannati a morte dall’Unione, e molti sono ormai gli studi che smontano l’equazione exit=catastrofe. Però, dato l’attuale progetto politico del M5S (e del suo non improbabile alleato, la Lega) l’uscita ci darebbe soltanto un po’ di esportazioni ed un po’ di inflazione in più, con un modesto rilancio dell’occupazione bilanciato da una relativa perdita del potere d’acquisto dei salari, e con la persistenza della dinamica di accentuazione degli squilibri sociali e territoriali del paese. Una dinamica che sarebbe forse rallentata, ma non certo invertita. Il tutto nel contesto di un probabile aumento della dipendenza dell’Italia dagli Usa: dalla padella di Bruxelles alla brace di Washington.

Perché l’uscita dall’euro e dall’Unione (conditio sine qua non di ogni e qualsivoglia politica) sia positiva per i lavoratori e per il paese, essa deve essere accompagnata: a) dal mutamento di ruolo della banca centrale e dalla ripresa della monetizzazione del debito pubblico; b) dalla parziale nazionalizzazione del settore del credito; c) da una forte impresa pubblica capace di rilanciare investimenti e innovazione e di essere background per lo sviluppo della PMI; d) da un piano industriale che affronti i problemi idrogeologici ed energetici del paese e riduca la nostra dipendenza dalle importazioni; e) da politiche di piena occupazione attuate anche attraverso il rilancio del settore pubblico; f) da una riforma del mercato del lavoro che elimini la precarietà, offra sbocchi alle eccellenti risorse intellettuali prodotte dal sistema scolastico italiano e trasformi realmente l’immigrazione in una risorsa, inibendone l’effetto negativo sui salari; g) da un mutamento della posizione geopolitica del paese in direzione di più stretti rapporti coi Brics, di una cooperazione mediterranea, e comunque di politiche tese a creare aree internazionali capaci di esercitare un controllo sul movimento dei capitali.
“Niente di meno!”, si dirà. Sì, non è poco (e figuratevi che c’è anche dell’altro!), ma è ciò che è richiesto dalla fase storica attuale. E’ ciò che è necessario. E’ ciò che è possibile, perché in Italia ci sono le idee e le forze per elaborare e realizzare un programma del genere.
Le idee ci sono da tempo: da tempo piccoli gruppi lavorano a grandi prospettive, ed è inoltre inutile fare il nome dei numerosi intellettuali, di diversa provenienza, che negli ultimi anni hanno elaborato riflessioni convergenti che ormai potrebbero quasi definire una vera e propria scuola di pensiero. Le forze erano latenti, ma sono venute alla luce grazie agli ultimi fatti, in particolare nei comitati per il No. Forze soprattutto di sinistra, ma non solo: forze che in qualche maniera si riconoscono tutte nella Costituzione del ’48 e nel suo impianto lavorista. Queste idee e queste forze possono e devono dar vita ad un soggetto politico che sulla Costituzione si basi e che quindi non faccia appello né alla sinistra né alla destra ma alla cittadinanza democratica(Podemos, almeno su questo, docet). Un soggetto che siaapertamente nazionale, e ciò in due sensi.
Prima di tutto perché vuole costruire l’unità della maggior parte dei ceti popolari (al momento divisi spesso artificiosamente fra destra e sinistra), dando vita ad un’alleanza tra lavoratori dipendenti (oggi divisi tra pubblici e privati, precari e garantiti, migranti e nativi), partite Iva (che spesso nascondono lavoratori formalmente autonomi ma realmente dipendenti), piccole imprese (che oggi sono vessate non solo dallo stato, ma dalle grandi imprese private e dalle banche, e che in uno stato rinnovato potrebbero trovare un alleato); e poi offrendo alle stesse medie imprese più dinamiche un contesto di relazioni geopolitiche che consenta loro un maggiore sviluppo.
In secondo luogo perché rivendica apertamente la sovranità politica e monetaria come precondizione di ogni politica (ed in particolare di ogni politica che voglia essere favorevole ai lavoratori) e come base per la costruzione di nuove e paritarie relazioni e tra nazioni. Una forza nazionale che già solo per la valenza simbolica di questo suo attributo (l’orgogliosa difesa non già di un’etnia, di una lingua, di un insieme di tradizioni, ma di unaciviltà politica che ha saputo in alcuni momenti coniugare libertà ed eguaglianza) potrebbe conquistare successi inaspettati.
Ci sono le forze, ci sono le idee, c’è l’occasione. C’è l’urgenza politica ed etica. Gli ostacoli inutili vanno rimossi alla svelta. Le riflessioni e le operazioni che richiedono più tempo vanno iniziate subito. Dobbiamo essere consapevoli che saremo giudicati (quantomeno dalla nostra coscienza) per quello che faremo l’anno prossimo. Nel 1917 è successo quel che è successo, e la Costituzione del ’48 (come ci ricorda Luciano Canfora, uno che sa come si snodano le dinamiche storiche più profonde) è anche effetto della lunga durata di quell’evento. Che il 2017 sia, a suo modo, un anno memorabile per le classi subalterne italiane. 

Auguri a tutti.
Post scriptum (che sarà un po’ lungo)
So che uno dei maggiori ostacoli da rimuovere è la diffidenza verso la “nazione”. 
Diffidenza che ha radici profonde, ma che è anche il sintomo della vocazione servile di gran parte del ceto politico-intellettuale di oggi. Una vocazione ad obbedire a potenze esterne facendo finta di non vedere ciò che ormai è chiaro a tutti: la crisi della globalizzazione e il riemergere della questione nazionale non sono un opinione, ma un fatto. “Imprese” militari decise da singoli stati, guerre valutarie, trattati commerciali fatti più per escludere qualcuno che per includere altri, decine, centinaia di provvedimenti a protezione del proprio tessuto produttivo e dei capitali che, ovunque siano nati, fanno riferimento comunque alproprio stato. Questo fanno quasi tutte le nazioni, tranne l’Italia. E perché l’Italia no? Per internazionalismo? Tutt’altro: per servilismo, appunto, verso i capitali (e le capitali) più forti. Vedasi il caso MPS.
La nazione è quindi un campo di battaglia, è il terreno attuale dello scontro politico, è l’oggetto nuovo della politica (nuovo perché si muove in un contesto assai diverso da quello che vide il nascere delle nazioni e da quello che vide il loro scontro imperialista), la cui forma dipenderà dagli esiti degli scontri politici interni d internazionali. Fuggire da questo campo è fuggire dalla politica. Ed è una scelta che possono fare solo le frazioni medio-alte del lavoro, solo quelli che credono di poter vivacchiare anche senza alternativa politica e senza stato: la maggior parte dei lavoratori non lo può fare.
E perché dovrebbe poi? La sovranità nazionale a cui dobbiamo ispirarci non è sinonimo di potere assoluto: essa è piuttosto il presupposto della nostra Costituzione (senza sovranità la Costituzione non sarebbe efficace), che a sua volta dà forma alla sovranità stessa e la limita. La sovranità nazionale a cui pensiamo è condizione della democrazia: è ciò che fa sì che le decisioni vengano prese senza dover preventivamente sottostare al placetdelle potenze esterne o interne al paese. Né sta scritto da nessuna parte che la sovranità implichi necessariamente lo scontro militare con gli altri paesi: dopo il ‘45, le guerre in Europa e in Medio Oriente sono anzi contemporanee al declino della sovranità nazionale ed hanno quasi sempre come scopo proprio quello di distruggere l’idea stessa di sovranità – tranne che per l’unico stato veramente garante dell’ordine internazionale – a vantaggio del libero flusso dei capitali e delle merci. Il “sovrano” può decidere la guerra, ma anche la pace. Un’Italia sovrana è la precondizione di una politica di pace nel mediterraneo ed in Medio oriente.
Perché temere la nazione, dunque? Perché si teme che facendo appello alla nazione si faccia appello all’interclassismo genericocontro la classe dei lavoratori, si resusciti una qualche comunità immaginaria per nascondere le divergenze di classe? Ma questo era il discorso dell’imperialismo nazionalistico del passato. Oggi l’imperialismo si realizza proprio attraverso la distruzione delle nazioni, intese come spazi di definizione e tutela di diritti civili e soprattutto sociali. Oggi quindi l’indipendenza di classe dei lavoratori, ossia la capacità di porre in essere una politica autonoma, è tutt’uno con la conquista dell’indipendenza della nazione come complesso di istituzioni che rendono possibili l’esistenza stessa della politica come attività non meramente servente le esigenze del capitale. Certo, il discorso nazionale può, se egemonizzato dalla frazione protezionista del capitalismo, divenire nazionalistico e aggressivo. Ma la lotta di classe dei lavoratori contro il capitalismo liberista (che è oggi di gran lunga il nemico principale) deve organizzarsi in forma nazionale.
Resta la solita obiezione: cosa potrà mai fare l’Italia da sola? Ma nessuno di noi vuole che l’Italia sia sola. Non si tratta di proclamare autarchicamente l’indipendenza dai vincoli, ma di scegliere liberamente i vincoli a cui vogliamo assoggettarci e di dar loro una forma paritaria e cooperativa. Nessuna politica che voglia contrastare la libera circolazione dei capitali (e quindi nessuna politica che voglia anche solo somigliare al socialismo) è possibile senza la costruzione di un’area economica relativamente “chiusa”, ossia relativamente indipendente dagli scambi con l’esterno. Tale area deve essere necessariamente ampia, e quindi coinvolgere più nazioni. Da un punto di vista analitico sarebbe dunque più corretto dire che lo spazio attuale della politica non è né quello globale (che non è più tale) né quello nazionale (che è insufficiente), ma quello internazionale. Ma ciò metterebbe in ombra il fatto che lo spazio internazionale è appunto luogo delle relazioni tra nazioni sovrane. E soprattutto metterebbe in ombra il “punto politico” di oggi: la politica ricomincia dalla nazione. E’ la definizione di un interesse nazionale (che le nostre classi dominanti non a caso non sanno definire, e che per noi coincide con l’interesse delle classi subalterne) a imporci di rompere con l’Unione e a guidarci nella costruzione di nuove relazioni internazionali.
Che il 2017 ci dia il coraggio di cominciare ad essere nazione.

* Fonte: Socialismo 2017

CHI SONO DAVVERO QUELLI CHE HANNO VOTATO TRUMP? di Carlo Formenti

[ 31 dicembre ]

Formenti risponde a chi gli ha rivolto dure critiche per avere sostenuto che la vittoria di Trump è un "male minore" rispetto alla Clinton. A questi critici vorremmo segnalare la profezia di Michael Moore.


Sugli elettori di Trump si è detto tutto e il contrario di tutto: la tesi iniziale (sono stati gli operai bianchi incazzati per gli effetti della globalizzazione sulle loro condizioni di vita) è stata contestata da chi sosteneva che buona parte di quelli che lo hanno votato appartenevano a fasce di reddito medio alte. 

Poi la tesi iniziale è stata riformulata: non è tanto che gli operai bianchi hanno votato Trump, ma piuttosto che non hanno votato la Clinton, preferendo astenersi piuttosto che scegliere fra il minore di due mali (tesi che a me parrebbe più attendibile ove riferita ai giovani —operai e non— sostenitori di Sanders). Ma su una cosa tutti —soprattutto i media che avevano sostenuto a spada tratta la Clinton— sembrano essere d’accordo: quegli elettori sono sporchi, brutti e cattivi, gente che ha scelto Trump perché ne condivide l’ideologia razzista, sessista e ultraconservatrice.

Ma anche questa convinzione inizia a vacillare a mano a mano che divengono disponibili ricerche più approfondite. A metterla in discussione, in un interessante articolo sul New York Times, è l’analista politico David Paul Kuhn il quale rovescia il punto di vista: Trump non è stato eletto perché ha condotto una campagna sessista, razzista e ultraconservatrice, ma malgrado abbia seguito tale linea politica. 
La verità è, scrive Kuhn, che se tutti quelli che consideravano Trump un personaggio indecente avessero votato per lei, la Clinton avrebbe vinto a mani basse. L’autore dell’articolo cita, in proposito, una ricerca secondo cui il 51% degli elettori bianchi appartenenti alla classe lavoratrice pensavano che Trump fosse indecente e, almeno su questo piano, ritenevano la Clinton migliore. Ma non l’hanno votata! Non basta: un quinto degli elettori (più di 25 milioni di americani) hanno dichiarato di disapprovare l’atteggiamento di Trump nei confronti delle donne, ma tre quarti di queste persone hanno votato ugualmente per lui. Ancora: quasi la metà di coloro che hanno votato per Trump non condivideva le sue idee in materia di trattamento degli immigrati clandestini.

Naturalmente è vero che fra i suoi elettori la percentuale di razzisti è più elevata di quella presente nell’elettorato rimasto fedele al Partito Democratico, ma non è questo che ha determinato il risultato. Allo stesso modo in cui Bill Clinton aveva vinto le elezioni del 1996 malgrado un terzo dei suoi elettori lo considerasse bugiardo e disonesto, argomenta Kuhn, Trump ha vinto in barba alla pessima opinione che di lui avevano buona parte delle persone che lo hanno votato. Nell’uno e nell’altro caso, a determinare la scelta degli elettori —soprattutto di quelli più esposti alle incertezze dell’economia— è stata la speranza di far vincere qualcuno che avrebbe fatto i loro interessi (o almeno di far perdere qualcuno che sicuramente non li avrebbe fatti). Non a caso, Trump ha sfondato laddove Bush aveva invece raccolto poco o niente, vale a dire nelle aree del Paese più duramente colpite dalla liberalizzazione dei commerci e dalla concorrenza dei prodotti cinesi e di altri Paesi in via di sviluppo.

A quanto pare, Obama —un presidente che ha suscitato grandi speranze e delusioni ancora più grandi— non ha capito la lezione, almeno a giudicare da alcune sue dichiarazioni riportate in un articolo di Massimo Gaggi sul Corriere della Sera del 28 dicembre scorso: «Mi fossi presentato io per la terza volta, sarei stato rieletto», sembra abbia dichiarato. 

Ma è così? È vero che nel 2008 Obama aveva ottenuto un ottimo risultato anche fra quei lavoratori bianchi che ora hanno appoggiato Trump. Peccato che, nel frattempo, il suo gradimento sia crollato a causa delle sue scelte pro-globalizzazione, che hanno provocato la perdita di molti posti di lavoro, l’aumento della disuguaglianza e un drastico peggioramento delle condizioni di vita delle classi subordinate. 

Ma lui non cambia idea: continua a essere un fan della “terza via” blairiana e accusa il laburista Jeremy Corbyn di avere “perso i contatti con i fatti e con la realtà”. Invece è lui ad averli persi, avendo rimosso che le classi sociali continuano ad esistere anche se i politici pensano di poterle manipolare con abili strategie comunicative e che, quando le élite tirano troppo la corda, le masse prima o poi si vendicano. 

Certo Trump non è un’arma ideale per compiere la vendetta, ma visto che Obama, Clinton e i Democratici avevano fatto carte false per sabotare la candidatura di Sanders, non c’era alternativa.

venerdì 30 dicembre 2016

L'ITALIA NON ESISTE...

[ 30 dicembre ]

L'ITALIA NON ESISTE (PER NON PARLARE DEGLI ITALIANI), è un pamphlet del 2011. L'anno in cui l'Unione europea subì il suo primo, grande collasso, l'anno horribilis in cui, imposto dalle oligarchie europee, arrivò Mario Monti a palazzo Chigi. L'autore, Fabrizio Rondolino, famigerato giornalista dell'Unità, uno dei più aggressivi sciacalli piddini.
Ci pare utile segnalare ai lettori alcuni brani di questo pamphlet: un concentrato esplosivo di disprezzo del concetto di nazione, di vero e proprio odio auto-razzista dell'Italia e del popolo italiano. Un inno sperticato del "vincolo esterno" euro-tedesco, sotto le mentite spoglie di quel cosmpolitismo "progressista" di cui si ammanta la globalizzazione capitalistica.
Leggere attentamente per capire cosa hanno in testa e dove vogliono portarci le élite dominanti.

«Tanto per cominciare, l’Italia non esiste. È un’espressione geografica, uno stivale che s’allunga pigro nel Mediterraneo, una graziosa penisola purtroppo in gran parte rovinata dagli italiani. L’idea di farne uno Stato, una Na­zione con la maiuscola, come se fossimo la Spagna o l’Inghilterra, è una sciocchezza sesquipedale, che perdoniamo al conte di Ca­vour soltanto perché, maturato nella lingua e nella cultura d’Oltralpe, pensava in buona fede di vivere in Francia.

L’Italia non è mai stata una nazione, e non lo sarà mai. Mi piace pensare che se Cavour avesse vissuto qualche anno in più – abbastanza per conoscere l’Italia – si sarebbe senz’altro dato da fare, con l’arguzia solerte che gli era propria, per smantellare un tale improbabile accrocchio.

Chiunque sia stato una volta nella vita a Cosenza e a Varese – o in qualsiasi altra coppia di città distanti almeno trecento chilometri tra loro – sa benissimo che l’Italia non esiste. Pretendere di esistere è il peccato originale delle nostre classi dirigenti, e la radice primaria di tutti i mali del nostro Paese.

L’unità d’Italia che pomposamente si festeggia o si dileggia, a seconda delle opportunità politiche, è la più grande catastrofe abbattutasi sulla nostra penisola. Meglio dieci Pom­pei, meglio cento calate degli Unni che l’unità d’Italia. I soli ad avvantaggiarsene vera­mente sono stati i preti, che hanno esteso i confini dello Stato della Chiesa fino a farli coincidere con quelli della penisola. L’Italia unita è un ipertrofico Stato pontificio, dal quale ha ere­ditato le sue due caratteristiche principali: la corruzione e l’ipocrisia.
(...) Storicamente, l’idea dello Stato-nazione nasce nell’Ottocento, come lo spiritismo, le fiabe dei fratelli Grimm, il dagherrotipo e l’idealismo tedesco: ha un suo fondamento e, forse, una sua necessità, ma non è un’idea valida per sempre. Nel caso dell’Italia, poi, l’idea di cui parliamo è completamente estranea non soltanto alla sua storia, ma alla sua cultura e alla sua tradizione. Direi persino alla sua civiltà. Nel grande equivoco risorgimentale, al netto delle mire espansionistiche dei Savoia, si legge in nuce una caratteristica fondamentale e duratura dell’italiano medio: co­piare quello che gli altri hanno fatto all’estero, nella convinzione o nella speranza, s’immagina, di dissimulare una natura di cui evidentemente ci si vergogna.


Siccome in Europa la presa dell’impero absburgico andava allentandosi, e si andava dif­fondendo la moda degli Stati nazionali, ad un certo numero di intellettuali nostrani è ve­nuto in mente di salire sull’onda e di inventarsi uno Stato italiano. L’aspetto forse più paradossale della vicenda sta nel fatto che costoro pretendevano di rappresentare la borghesia, motore e soggetto dell’annunciata rivoluzione risorgimentale, mentre è precisamente la borghesia che è sempre clamorosamente mancata nel nostro paese, dove l’unica struttura sociale riconosciuta e funzionante è la famiglia. Non è vero, come a volte si sostiene, che abbiamo inventato il fascismo: lo Stato totalitario di massa arriva a Mussolini (e a Hitler dopo di lui) dall’Unione sovietica; il nostro contributo alla storia dei sistemi politici e delle organizzazioni sociali è la mafia.
Impancandosi a portavoce di una classe che non è mai esistita, la borghesia, gli intellettuali ottocenteschi per il successo dell’impresa decisero persino di inventare una nuova lingua, l’italiano appunto, sciacquando in Arno una koinè immaginaria, e tutta letteraria, e spudoratamente artificiosa, che doveva certo soddisfare qualche accademico e qualche lacché, ma che nessuno, mai, avrebbe parlato.

Secondo le stime di Tullio De Mauro, nel 1860 gli italofoni della penisola erano 600.000, due terzi dei quali concentrati in Toscana, pari al 2,5% della popolazione totale; secondo un altro studioso, Arrigo Castellani, la percentuale complessiva doveva essere un po’ più alta, intorno al 9-10%.

Il risultato centocinquant’anni dopo è miserando: straparliamo come bestie una lingua di cui evidentemente ignoriamo anche gli aspetti più elementari. Importiamo massicciamente parole straniere di cui ignoriamo, oltre alla pronuncia, il significato (su un campione di 158 anglicismi recenti, lo Zingarelli ne registra 121, contro i 42 dello spagnolo Clave e i 34 del francese Petit Robert). In compenso abbiamo smarrito completamente il dialetto, con il quale i nostri nonni contadini riuscivano ad esprimersi perfettamente, e senza fare strafalcioni. L’italiano è sempre stato una lingua letteraria, da Cavalcanti a Calvino, e mai una lingua nazionale. Ora che non esistono più gli scrittori, è una lingua morta.

Questi intellettualini risorgimentali, va sottolineato, importando la moda dello Stato unitario inventarono senza neppure accorgersene la qualità essenziale dell’intellettuale nostrano: il provincialismo. L’erbaccia del vicino, per i nostri intellettuali, è sempre più verde. Si tratta, con ogni evidenza, di un vistoso complesso di inferiorità. Da allora, dalla grande truffa risorgimentale, è stato tutto un rincorrersi di esterofilia militante, e ancor oggi discutiamo accanitamente di modello tedesco e modello francese e cultura anglosassone e spirito americano, e il più brillante è sempre quello che guarda più lontano da casa e la spara più grossa, ci­tando a casaccio studiosi sconosciuti e località ignote, perché così vorrebbe dimostrare, da vero provinciale, di conoscere il mondo.

Fortunatamente, siamo gli unici sul pianeta ad imitare forsennatamente gli altri: a nes­suno, grazie al cielo, è mai venuto in mente di imitare noi.

Del resto, i primi a disprezzare gli italiani furono proprio gli intellettuali risorgimentali, che qualche idea del loro paese se l’erano pur dovuta fare. ”Gl’Italiani – scriveva Massimo d’Azeglio nei Miei ricordi, la cui stesura cominciò nel 1863 – hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico la loro rovina; [...] pensano a riformare l’Italia, e nessuno s’accorge che per riuscirci bi­sogna, prima, che si riformino loro”.
(...)
L’unità d’Europa cui stanno lavorando alacremente frotte di burocrati nazionalisti ha di buono che, recuperando l’idea sovranazionale, finisce giocoforza col mettere in crisi l’idea di na­zione, svelandone l’intima inconsistenza. Quest’idea appartiene a tutti gli effetti alle brutture del Novecento, il quale a sua volta è la sanguinosa messa in pratica delle bizzarre idee del secolo precedente.

La sciocca pa­rentesi unitaria che ancora ci affligge, e che come abbiamo visto non ha alcun fonda­mento storico o culturale, è dunque destinata a concludersi in ogni caso, vuoi per l’eva­porazione della sovranità nazionale verso l’alto delle istituzioni europee o del mercato globale o dell’impero americano, vuoi per l’implosione silenziosa e inarrestabile nelle comunità, nelle culture e nelle civiltà preesistenti.

(...)
L’Italia, per fortuna, è spacciata. Nell’ultimo secolo l’hanno tenuta insieme a forza prima Mussolini, poi i grandi partiti di massa, e infine Berlusconi. Tolto Silvio Berlusconi, che certo non per caso viene dalla televisione commerciale generalista, e dunque si occupa per mestiere di fasce di pubblico e di picchi di audience, di target pubblicitari e di spot aspirazionali, e molto meno di politica o di virtù civili, oggi non c’è rimasto nessuno – neppure la Nazionale di cal­cio – in grado di rendere credibile la favola dell’Italia unita.

Del resto si tratta di una favola cui nessuno, qui in Italia, ha mai creduto davvero. Così come l’idea stessa dell’unità nazionale è stata il frutto di una moda straniera, similmente gli unici ad averla interpretata con una certa fermezza, e ad aver dunque governato la penisola come se effettivamente si trattasse di uno Stato nazionale, sono stati, a tutti gli effetti, dei non-italiani. L’Italia dei primi anni del Dopoguerra, forse la sola decente dopo il 1870, era retta da stranieri: De Gasperi era stato deputato al Parlamento di Vienna e aveva tra­scorso gli anni migliori della sua vita nelle biblioteche del Vaticano; Togliatti veniva da Mosca e, pur con tutta la geniale flessibilità del personaggio, non se ne era mai veramente allontanato.

Il Partito comunista e la Democrazia cristiana, le due architravi della Prima repubblica, erano in realtà due potenze straniere, come gli Absburgo o i Borbone, e i loro leader sono stati a tutti gli effetti i vicerè peninsulari dell’Unione sovietica e dello Stato pontificio. Quando hanno cominciato ad italianizzarsi, anche il Pci e la Dc sono rapida­mente diventati inservibili e inguardabili, l’uno sprofondando nell’estremismo parolaio antitaliano, l’altra inabissandosi nella corruzione straitaliana: negli anni Ottanta anche i comunisti e i democristiani erano finalmente diventati ita­liani.

Anche Mussolini, che un giorno ebbe a dire con estrema saggezza che governare gli italiani non era difficile, ma inutile, utilizza l’idea di nazione, portandola alle sue più estreme, tragiche, ma non meno coerenti conseguenze, soltanto per scopi essenzialmente politici e di potere. È evidente il suo disprezzo inconsolabile per l’Italia, gli italiani, i preti e il Re (nessuno che prenda sul serio i suoi interlocutori o che li consideri qualcosa di più di scimmie da ammaestrare parlerebbe come parlava il Duce in pubblico). Tutto l’apparato propagandistico-culturale del regime, tuttavia, è subito all’opera per diffondere e promuovere l’italianità in ogni suo aspetto, dalle arti alla toponomastica, dalla Fiat Balilla alla batta­glia del grano. Ma nessuno ci crede davvero, e anche la dittatura finisce rapidamente in burletta (prima che in tragedia).

In generale, nessun modello sociale o statuale immaginato da qualche solerte apostolo dell’umanità e sommariamente assemblato in laboratorio ha alcuna possibilità di funzionare. Normalmente produce infelicità, distruzione e morte; ma fortunatamente non riesce mai a durare a lungo. Gli esempi più vistosi ci vengono dalle società perfette del Novecento: il comunismo eurasiatico e la sua variante mitteleuropea, il nazionalsocialismo, hanno prodotto più morti di tutto il resto della storia dell’umanità messa assieme, ma dopo settant’anni si sono infine schiantati.

L’unità d’Italia ha avuto conseguenze meno drammatiche, e anzi tendenzialmente ridicole: ma sul piano teorico condivide con ogni altro modello artificiale di Stato la medesima arroganza intellettuale, la medesima violenza ideologica, e le medesima vocazione al fallimento. Il motivo fondamentale per cui l’Italia non funziona, dunque, è perché esiste».

giovedì 29 dicembre 2016

MPS/BCE: LA VERA POSTA IN PALIO È LA SOVRANITÀ NAZIONALE di Piemme

[ 29 dicembre ]

Mazzei ha detto l'essenziale sulla vicenda Monte Paschi e l'intervento a gamba tesa della Bce, per la precisione del Supervisory board. Lo hanno detto anche Luciano Barra Caracciolo e Alberto Bagnai. 
Federico Fubini, che non è certo sospettabile per essere un nazionalista no-euro, ci ricorda come dietro alla mossa della Bce ci sia la Germania, e rinfresca la memoria su come Berlino, abbia erogato, tra il 2008 e il 2014 la cifra di 238,9 miliardi —altro che quanto servirebbe per mettere in salvo MPS!

Che la Germania sia il vero dominus entro la Ue, è evidente. Sulla vicenda del "salvataggio" MPS si assiste ad un salto di qualità. L'ingerenza tedesca è plateale. Berlino non solo usa come sue protesi gli organismi tecnocratici della Ue, non esita a qualificarsi come gendarme di prima istanza del comando ordoliberista. Prova ne siano le dichiarazioni sfrontate di Jens Weidmann, numero uno della Bundesbank, quindi quelle di Schäuble e della grande stampa teutonica.

[Per comprendere di cosa si stia parlando sarebbe bene comprendere come funzioni una banca oggigiorno, in cosa consistano "attivo", "patrimonio", quindi la sua capitalizzazione in borsa. QUI una scheda quanto mai utile. Non secondario, infine, per dimensionare la vicenda MPS/crisi bancaria italiana guardare alla impressionante classifica delle principali banche mondiali, QUI e QUI due schede, dalle quali emerge come le banche italiane, su scala globale, siano dei nani. QUI  la classifica europea. QUI infine la classifica delle banche italiane in borsa].

E' tuttavia dell'aspetto politico della vicenda MPS che vorrei parlare
Il diktat venuto da Francoforte è un gesto squisitamente politico, che ha lo stesso minaccioso segno di quello dell'agosto 2011, ovvero la famigerata "Lettera della Bce al governo italiano" con la quale si indicavano le "riforme" inderogabili che l'Italia avrebbe dovuto adottare, pena... la catastrofe. Lettera che precedette, nel novembre successivo, la defenestrazione di Berlusconi, quindi l'arrivo di Mario Monti —che supinamente prese misure antipopolari brutali. Sarà tuttavia il governo Renzi quello che realizzerà alla lettera ciò che la Bce chiedeva: Jobs Act, "buona scuola", ecc., fino al tentativo (fallito) di scassare la Costituzione.

Ecco, qui sta il punto!

L'intervento della Bce, apparentemente tecnico, è invece sommamente politico. Ovvero consiste: 
(1) in un atto di brutale ritorsione contro il popolo italiano per avere votato NO al referendum del 4 dicembre; (2) in vista di elezioni politiche imminenti, in una minaccia ai cittadini italiani affinché non si permettano di votare partiti ostili all'oligarchia eurista; (3)  in un avviso che vale anzitutto per l'Italia il "pilota automatico", ovvero che quale che sia la compagine governativa che salirà a Palazzo Chigi, essa dovrà ubbidire ai poteri oligarchici euristi esterni, che nessuna disobbedienza sarà tollerata; (4) che questo "pilota automatico" potrebbe significare l'arrivo della troika, quindi il commissariamento del Paese, il suo formale divenire un protettorato dell'euro-germania, terreno di caccia della finanza predatoria.
La vicenda MPS assume quindi uno squisito valore simbolico: il governo italiano, ove accettasse il diktat della Bce consegnerebbe un altro brandello di sovranità nazionale. Gentiloni e Padoan lo accetteranno? Certo che sì.

Essi ubbidiscono a quelle frazioni alte delle classi dominanti che sono per loro vocazione globaliste, cosmopolite, euriste e, al di là dei miti ideologici, filo-tedesche. Quelle che contro il proprio popolo invocano il "vincolo esterno", che si augurano (tanto più vista la minaccia che perdano il potere) il commissariamento dell'Italia.

Che questo sia il rischio lo si vede da come la grande stampa "liberale", i media di regime, trattano la questione MPS. Se la banca più antica del mondo sta fallendo non dipenderebbe dalla crisi sistemica, dalle draconiane politiche austeritarie, dalle stesse insensate regole ordo e neo-liberiste (a cominciare dalla scellerata trasformazione affaristica del sistema bancario italiano negli anni '90). No, dipenderebbe dalla "cattiva gestione", dalla corruzione, dal nepotismo, dal clientelismo. E' una narrazione non solo sbagliata, è falsa. 

Questa narrazione tossica è funzionale al disegno di chi invoca il "vincolo esterno", delle élite che considerano l'Italia un "legno storto" che può essere raddrizzato alla tedesca, se serve anche violentemente. Élite dominanti che agiscono e sono elementi dissolutori della nazione, agenti quindi di forze potenti che considerano lo Stato un ostacolo per le loro scorribande, che considerano il Paese come territorio da depredare.

E' inquietante che le forze che a parole si collocano all'opposizione si gingillino in vacue schermaglie parlamentari su questioni irrilevanti, mentre dovrebbero lanciare l'allarme e, a partire dalla vicenda MPS-banche, davanti alla minaccia della troika, chiamando alla più ampia mobilitazione popolare.



SOVRANITÀ O UNIONE EUROPEA? RIVOLGO UN APPELLO AL CdC di Mario Giambelli Gallotti

[ 29 dicembre ]

Volentieri pubblichiamo questo appello in vista della assemblea nazionale dei Comitati per il NO, facenti parte del Coordinamento per la Democrazia Costituzionale che si svolgerà a Roma prossimo 21 gennaio.


«Carissime amiche e colleghe, carissimi amici e colleghi del Comitato direttivo nazionale del Coordinamento Democrazia Costituzionale;

accolgo con grande piacere e faccio mio - anche a nome di molti colleghi avvocati pavesi, nonché di amiche, amici e conoscenti pavesi e milanesi che hanno attivamente militato per l’affermazione del NO al referendum costituzionale del 4 dicembre scorso – l’appello di Lidia Menapace e dei Comitati trentini che ci invita a far tesoro della straordinaria esperienza della campagna referendaria per dare vita ad un nuovo fronte politico con il compito di ricollocare l’attuazione dei principi fondamentali della Costituzione al centro degli obiettivi politici del Paese. 

Attuare i principi fondamentali della Carta costituzionale significa, come sappiamo, eliminare le diseguaglianze sociali di partenza e le situazioni di privilegio (art. 3, comma 2°, Cost.), elevare la condizione delle categorie sotto protette, creando le condizioni che rendano effettivo il diritto al lavoro. Significa individuare nella piena occupazione e negli interventi di natura pubblicistica ad essa finalizzati il mezzo per liberare le persone dal bisogno, consentendo ad esse di partecipare effettivamente all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, cioè il mezzo per rendere effettiva l’uguaglianza e, con essa, la democrazia. 

Significa programmazione economica ed intervento dello Stato nell’economia, per assicurare la funzione sociale dell’impresa. Significa adempiere ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale, assicurare i diritti e le tutele sociali previsti dalla c.d. “Costituzione economica” (art.li 35-47 Cost.). Per realizzare questo progetto occorre tuttavia sciogliere il nodo del “vincolo esterno”, sul quale si è preferito glissare durante la campagna referendaria, nonostante la principale ragione della “d€forma” costituzionale, esplicitata dallo stesso Renzi, nero su bianco, nel testo della relazione accompagnatoria alla Legge di revisione costituzionale pronunciata in Senato l’8 aprile 2014, fosse proprio “l’esigenza di adeguare l’ordinamento dello Stato alle necessità della governance economica dell’Unione europea […] ed alle relative stringenti regole di bilancio quali le nuove regole del debito e della spesa” (leggasi Fiscal Compact). Una ragione, dunque, di puro servilismo ad un sistema di potere notoriamente non democratico (ed, anzi, antidemocratico) che impone le sue regole, minacciando gli Stati che non le dovessero eseguire, che risponde agli interessi di quello che Beniamino Andreatta, in un’intervista pubblicata nel 1991 sulle colonne del Sole24ore e riguardante il c.d. “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, definì il “quarto potere”, cioè il “potere monetario” (la grande finanza speculativa e le multinazionali economiche) e che opera senza alcuna legittimazione democratica, senza alcuna responsabilità politica, “bypassando le democrazie nazionali” (come afferma, senza mezzi termini, l’attuale Ministro della Giustizia Andrea Orlando): e “tenendosi al riparo dal processo elettorale” (M. Monti, Intervista sull’Italia in Europa, di F. Rampini, p. 40 e 50-51). 
Per dare vita ad un nuovo fronte politico che reclami l’attuazione dei principi fondamentali della Costituzione, occorre cioè prendere coscienza del fatto che, con la ratifica dei Trattati UE, lo Stato italiano ha trasferito e ceduto agli organi di comando dell’Unione (Commissione Europea, Consiglio e BCE) parti essenziali della sua sovranità: il potere di assumere tutte le decisioni che riguardano la politica monetaria e fiscale (art. 127 TFUE), gli indirizzi di politica economica (art. 121 TFUE) e la politica di bilancio (art. 126 TFUE e Fiscal Compact). Occorre comprendere che le più importanti funzioni sovrane sono state trasferite, in palese violazione del principio democratico sancito dall’art. 1 Cost. (in quanto la dichiarazione di appartenenza della sovranità al popolo implica la permanenza dell’esercizio di questa nel popolo, come contrassegno essenziale ed ineliminabile del regime democratico), ad apparati di comando sovranazionali che, essendo composti da nominati e non da eletti, sono privi di legittimazione democratica ed irresponsabili di fronte al popolo, ma estremamente sensibili agli interessi della grande finanza speculativa e delle multinazionali economiche. 

Bisogna cioè convincersi che tali apparati (al cui vertice siedono sempre personaggi legati a doppio filo alle grandi banche d’affari), perseguendo in modo ossessivo il prioritario obbiettivo (per l’UE) della cd. “stabilità monetaria e dei prezzi” (art.li 3 TUE, 119, 120, 127 TFUE), ci impongono le politiche economiche neoliberiste (nella loro peggiore versione, quella “ordoliberista”) codificate nei trattati UE, assolutamente inconciliabili ed anzi contrapposte agli obiettivi costituzionali della piena occupazione e dell’eguaglianza sostanziale.  Occorre, in definitiva, avere ben chiaro che la permanenza dell’Italia nella UE-UEM comporta la disattivazione di quei principi fondamentali della Carta costituzionale che, giustamente, vorremmo ricollocare al centro degli obiettivi politici del nostro Paese. Il rilancio del modello di democrazia sociale della nostra Costituzione passa necessariamente dall’abbandono di un modello sociale ad esso antitetico: quello codificato nei Trattati Ue. Passa dalla presa d’atto che l’Unione europea, al di là della sua maschera idealista-propagandistica (l’ideologia dell’integrazione europea, foriera di pace e benessere), è in realtà la restaurazione del sistema di potere capitalista, oligarchico-plutocratico, ultraliberista dell’Italia prefascista. E passa dalla constatazione: - che non ha senso parlare di eguaglianza sostanziale in un sistema liberista, che amplifica le differenze sociali; - che è tempo perso ragionare di diritto al lavoro, di piena occupazione, in un ordinamento che considera il lavoro come merce (art. 151 TFUE), che non lo concepisce come un diritto, ma come una libertà (il “diritto di lavorare”, collocato, nella Carta dei diritti fondamentali della UE, tra le libertà: cfr. art. 15 della stessa Carta) e che stabilisce, anno per anno e per ogni Stato, un “tasso di disoccupazione non inflazionistico”, ovvero un (elevato) livello di disoccupazione funzionale all’obiettivo della stabilità dei prezzi; - che non è nemmeno dato parlare di programmazione economica, di intervento dello Stato nell’economia, di funzione sociale dell’impresa, in un ordinamento che vieta gli aiuti di Stato (art. 107 TFUE) alle imprese ritenute strategiche, che vieta il finanziamento monetario degli Stati e degli Enti pubblici (art.li 123 e 124 TFUE), che non si fa carico degli impegni assunti dalle amministrazioni statali, locali e pubbliche degli Stati membri (art. 125 TFUE), che impone vincoli insensati e deleteri di bilancio pubblico (art. 126 TFUE e relativo protocollo; Fiscal Compact), che considera l’indipendenza della Banca centrale dal potere politico uno dei suoi principi cardine (art. 130 TFUE), che sottrae agli Stati la sovranità monetaria (art. 127 TFUE); - che di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale non v’è traccia alcuna nei Trattati, che sono invece il regno della concorrenza (valore supremo dell’Unione: art.li da 101 a 118 TFUE), cioè del tutti contro tutti, della legge del più forte, delle privatizzazioni e delle liberalizzazioni. Il rilancio che tutti auspichiamo passa, in altre parole, dalla consapevolezza che, all’interno dell’Unione europea, di Stato sociale, di democrazia costituzionale non è nemmeno consentito parlare; passa dalla consapevolezza che questa UE non è riformabile in senso democratico e sociale, perché una democrazia costituzionale a livello sovranazionale non esiste, non è mai esistita e mai esisterà sinché esisterà questa UE, concepita proprio allo scopo di disattivare e poi cancellare, a colpi di violente crisi economiche, le democrazie costituzionali del secondo dopoguerra e restaurare il regime oligarchico-liberista ante crisi del 1929. 

La richiesta di aiuto di quell’81% di NO giovanili necessita, giustamente, di una pronta risposta da parte di un nuovo fronte politico che sappia coinvolgere giovani e meno giovani, esponenti del M5S con i quali abbiamo condiviso la campagna referendaria ed ogni persona competente, onesta, responsabile. L’efficacia della risposta dipenderà tuttavia dalla capacità e dalla decisione con le quali riusciremo ad affrontare e risolvere la questione del “vincolo esterno”. Per riprendere il percorso tracciato dalla nostra Costituzione, ovvero il percorso del progresso sociale e democratico sciaguratamente interrotto per “entrare in Europa”, è necessario ed urgente recedere dai Trattati UE. E’ il compito a cui siamo stati chiamati, anche dal risultato referendario. Ce lo impone la stessa Costituzione, per il rispetto e la riaffermazione dei suoi principi fondamentali. Non sprechiamo questa grande ed irripetibile occasione storica per riscrivere il futuro del nostro Paese. 

Mario Giambelli Gallotti (avvocato – Pavia) 

Altri firmatari: 
Giuseppe Amini; Massimo Bernuzzi; Roberto Bertelè; Anna Biancalani; Marco Bonin; Enea Boria; Marina Calafiore; Federica Caracciolo; Marco D’Urso; Fiorenzo Fraioli; Gianluigi Leone; Massimiliano Masperi; Roberto Mora; Marcello Ravetta; Alessandro Roccia; Matteo Rovati; Mauro Scardovelli; Luca Toneatto. Riscriviamo assieme il futuro del nostro Paese, il nostro futuro. 

Sottoscrivete questo appello:
https://docs.google.com/forms/d/e/1FAIpQLSfaYe- 6Bq3dqBXC0ZMk6rcxMjSJtJCvxlvgJ3AGdRs_1nhelQ/viewform?c=0&w=1

mercoledì 28 dicembre 2016

LA RUSSIA IN LUTTO di Nello De Bellis

[ 28 dicembre ]

"Luminosa Memoria", così la TV russa sta commemorando tra la commozione ed il cordoglio generali del Paese la tragica fine del complesso storico e artistico del coro dell'Armata Rossa, il complesso canoro di cantanti, musicisti e ballerini di 92 persone perito nelle acque del Mar Nero nei pressi della città di Soci il 25 Dicembre.
Avrebbero dovuto tenere un concerto celebrativo in Siria, in coincidenza della sconfitta sulle forze islamiste che occupavano Aleppo Est.

Al di là dei risultati dell'inchiesta appena avviata insieme al recupero dei corpi e del relitto dell'aereo, un Tupolev 154, data l'esperienza dei piloti e l'affidabilità del velivolo, ogni pista d'indagine rimane aperta, secondo le Autorità russe, ma è obiettivamente difficile escludere del tutto la pista dell'attentato terroristico. 

Pochi mesi fa, in coincidenza dello scadere del suo mandato, il Presidente USA Obama, premio Nobel per la pace e idolo della Sinistra "politicamente corretta", rilasciò una dichiarazione degna di Goebbels, e cioè "che al mondo vi sono tre minacce globali: il terrorismo internazionale, il virus Ebola e la Russia". Parole che ieri risultavano grottesche ed oggi appaiano agghiaccianti, tanto più che vi aggiunse la non tanto velata minaccia di attacchi terroristici, a causa dell'intervento russo in Siria. 

Quella che si coglie con immediatezza, al di là dei dati che le indagini potranno appurare, è l'enorme portata simbolica dell'avvenimento. 

E' un dato di fatto che la Russia attuale si sta muovendo sullo scacchiere internazionale con agilità e spregiudicatezza sotto la leadership di Putin, intollerabile per l'establishment occidentale, ancora abituato all'accondiscendente torpore etilico di El'cin. Una Russia che rivendica e impone il suo ruolo storico di grande potenza euro-asiatica, dopo la più grande catastrofe geo-politica del XX secolo, cioè la dissoluzione dell'URSS (a detta dello stesso Putin) è uno scandalo inaudito per le élites globaliste incardinate in varie realtà ed entità geopolitiche, dagli USA di Obama all'UE, passando per le petromonarchie arabe del Golfo capeggiate dall'Arabia saudita.

Al di là del giudizio di merito sull'attuale politica russa, il dato di fondo è che il ricostituirsi della potenza russa nello scenario della rimondializzazione capitalistica a guida statunitense, costituisce un argine obiettivo al dispiegarsi di un capitalismo assoluto che negli ultimi 20 anni ha destabilizzato e distrutto intere aree del mondo (Balcani, Medio Oriente, Libia e da ultimo Siria) e imposto altrove il pensiero unico delle oligarchie finanziarie sovranazianali, come in Europa mediante l'euro e i relativi trattati anticostituzionali ed antidemoratici di Maastricht, Schengen e Velsen. 

Gli artisti del coro dell'Armata Rossa costituivano il simbolo vivente della continuità storica voluta saggiamente da Putin (piaccia o non piaccia) tra l'URSS e la Russia di oggi. Lungi dall'essere una mera appendice dell'apparato propagandistico del governo attuale, il coro era l'espressione più genuina e profonda dei valori della Rivoluzione d'Ottobre e del patrimonio storico, musicale e folclorico della cultura russa. 

La perdita dal punto di vista simbolico e artistico è incalcolabile. 
In noi, e per chiunque nel centenario della Rivoluzione di Ottobre e della vittoria sul Nazismo, vi sia la consapevolezza che questi sono stati gli eventi di fondo del XX secolo, alla vigilia di una nuova era, resta nelle memoria e nel cuore l'epica solennità del canto che sembra ancora innalzarsi dalla vasta profondità del mare, divenuto la loro tomba.

MPS: ACHTUNG! LA TROIKA IN AGGUATO di Leonardo Mazzei

[ 28 dicembre ]
La «cura tedesca» per le banche italiane. Col pretesto della crisi di Monte dei Paschi si va materializzando l'arrivo della Troika ed il commissariamento dell'Italia. 
 Su questo blog avevamo segnalato, già il 6 marzo 2014, che Renzi sarebbe durato poco e che dopo il "bomba", chi comanda davvero, avrebbe  optatao per la soluzione troika.

Non andrà a finire a tarallucci e vino. Subito dopo il varo del decreto governativo mettevamo in guardia sulla veridicità del quadretto quasi idilliaco mostrato dal duo Gentiloni-Padoan. Troppe cose in effetti non tornavano. Una in particolare: che UE e Bce avessero avallato in toto il piano di Palazzo Chigi.

Avevamo anche detto altre due cose: che il quadro si sarebbe chiarito a breve, che dentro l'UE si stavano confrontando due linee diverse.

Le due lettere della Bce, recapitate a Mps ed al Ministero dell'Economia, di certo aiutano a far chiarezza. Gli eurocrati non intendono stare con le mani in mano. Dettano non solo le modalità, ma anche (rideterminandola) l'entità della ricapitalizzazione della banca senese. E' evidente come, in seno alle istituzioni europee, il partito tedesco abbia ormai in mano il dossier scottante delle banche italiane. Ed è altrettanto chiaro l'obiettivo: costringere Roma a capitolare definitivamente, chiedendo aiuto all'Esm (European stability mechanism) ed accettando di conseguenza l'arrivo e le "condizionalità" della Troika. Per dirla in altri termini, siamo ad un passo dal commissariamento del Paese.

A questo ci ha portato la linea irresponsabile del governo Renzi, ma più in generale la scelta di non voler rompere la gabbia della moneta unica.
Il diktat del Supervisory board della Bce è folgorante: per la ricapitalizzazione di Mps non bastano più i 5 miliardi che lo stesso organismo aveva certificato il 23 novembre scorso, adesso - ad un solo mese di distanza - ne servono 8,8 (+76%)! 
Le motivazioni "tecniche" di questo aumento non mancano, come vedremo fra breve. Ma ancora più importante è capire la natura essenzialmente politica della posizione assunta da Francoforte. Le due letterine natalizie esprimono la tradizionale linea tedesca: all'Italia non devono essere concesse troppe deroghe, né sulle banche né sul debito, ed il modo di risolvere la questione si chiama Troika.

E' evidente come una simile posizione d'attacco miri non a ridurre, bensì ad aumentare ancor di più le difficoltà delle banche italiane. Infatti, più il sistema bancario nazionale andrà in crisi, più forte sarà la spinta a consegnarsi armi e bagagli ai padroni tedeschi. Naturalmente, un'alternativa ci sarebbe: uscire dall'euro e dall'UE e risolvere la crisi bancaria con la nuova valuta nazionale. Ma questa è una strada che, almeno fino ad oggi, il blocco dominante continua a rifiutare.

Dicevamo delle motivazioni tecniche addotte dalla Bce. Una riguarda l'eterna partita delle "sofferenze", che adesso non si sa più come verrà gestita. Ma ancor più significativo è un altro elemento. Leggiamo dalla letterina di Natale: 
«La posizione di liquidità della Banca ha subito un rapido deterioramento tra il 30 novembre ed il 21 dicembre 2016, come evidenziato dal calo significativo della counterbalancing capacity (da 14,6 a 8,1miliardi di euro) e della liquidità netta a un mese (da 12,1 miliardi, pari al 7,6% del totale delle attività, a 7,7 miliardi, pari al 4,78% del totale delle attività)».
In altre parole, l'improvvida gestione del governo Renzi (mercato! mercato! mercato!) ha provocato una gigantesca fuga della clientela che ora rende più pesante il salvataggio pubblico. Di questo brillante risultato abbiamo già parlato nell'articolo citato sopra. Ma quale sarà invece l'effetto della dirompente iniziativa della Bce, se non quello di indebolire ancor di più la banca nel momento della sua nazionalizzazione?

La gravità della situazione viene ovviamente nascosta dal grosso dei mezzi di informazione. Vale però la pena di segnalare un paio di eccezioni. 

«Bce, trattamento alla greca per il salvataggio Monte Paschi» è il titolo scelto dal Sole 24 Ore per un articolo sul tema. Alla «greca», diciamo noi, non solo per l'applicazione ad Mps degli stessi parametri imposti alle banche di quel Paese, ma soprattutto per il medesimo obiettivo politico che l'Europa ha perseguito ad Atene: il commissariamento, appunto.

Giovanni Pons, su Business Insider, sceglie la linea dell'attacco frontale al ministro dell'Economia. Titolo non equivocabile dell'articolo: «Padoan sulle banche non ne imbrocca una e così i tedeschi ci mandano la Troika». Netta la conclusione di questo pezzo: 
«E se la liquidità del Montepaschi si andasse deteriorando ulteriormente come ha già messo in evidenza la Bce? A quel punto sarà inevitabile ricorrere ai soldi europei (fondo Esm), come hanno già fatto Spagna, Irlanda, Portogallo, Grecia e Cipro, ma questo tipo di intervento richiede la messa a punto di un piano di rientro con la Troika che ne sorveglia l’applicazione. In pratica l’Italia verrebbe commissariata dalla Germania, qualsiasi governo si alterni dopo le elezioni, per la felicità dei tedeschi. Il ministro Padoan ha sempre smentito contatti con l’Esm ma la sua credibilità è ai minimi visto che per sei mesi è andato avanti a smentire l’esistenza di un piano B per Mps che invece ha visto la luce la notte del 23 dicembre in una congiuntura astrale assai avversa. Ma fino a quando Padoan potrà resistere al pressing germanico?».
Ovviamente, né Pons, né il quotidiano di Confindustria, chiamano in causa l'euro e le sue regole. Ma che questa sia la cornice che rende possibile il furibondo attacco tedesco dovrebbe esser chiaro anche a i bambini.

Vedremo, se alla luce di questi ultimi eventi, il dibattito sulla moneta unica (più precisamente: sulla sua insostenibilità) riprenderà vigore. Di certo il tempo stringe. Lo andiamo ripetendo in un modo che a molti sembrerà forse ossessivo. Il fatto è che ogni altro approccio sarebbe semplicemente irresponsabile.

Proviamo ad immaginarci gli sviluppi del piano di Berlino. Se la Troika arriverà a Roma non sarà solo per vedere il Colosseo. Una nuova stagione di austerità piomberà sul Paese, portando nuovi sacrifici ed una nuova recessione. Non solo peggioreranno le condizioni di vita di milioni di persone, ma la crisi (compresa quella bancaria) si avviterà su se stessa, mentre si tenteranno tutte le forzature antidemocratiche per impedire un qualsivoglia cambio politico. 

Uno scenario da incubo, contro il quale occorrerebbe agire da subito. Affinché questo avvenga è necessaria la piena consapevolezza della posta in gioco. Le mosse della Bce hanno almeno il pregio di portare allo scoperto lo sporco gioco delle oligarchie euriste. Di cos'altro c'è bisogno per prendere atto che questo è il momento di reagire? Oltretutto, i venti milioni di NO a Renzi ed alla sua campagna del terrore sono un'ottima base di partenza. 
Che tutti si diano una mossa!

martedì 27 dicembre 2016

DI CUBA QUESTO HO CAPITO... di Lia De Feo

[ 27 dicembre ]

Un mese fa moriva Fidel Castro. Pubblichiamo, prendendola da Militant  una riflessione profonda, coinvolgente, non retorica su Cuba, i cubani e la straordinaria figura di Fidel Castro.

Io non ho amato Cuba, nei tre anni trascorsi a studiare lì. Tanto è vero che mi spostavo in Messico ogni volta che potevo, e alla fine a Cuba ci avrò trascorso un anno e mezzo in totale. Non l’ho amata perché amo poco le isole, in generale, e perché i cubani mi davano sui nervi, parecchio. E la pativo: l’embargo è uno stillicidio di cose che non funzionano, che non si trovano, che sono difficilissime da fare. L’embargo crea paesi logoranti dove la sopravvivenza è legata all’organizzazione che ti dai, e dove tu, straniero, sei sempre in torto: perché hai più soldi – credono loro – e vieni dalla parte di mondo che la vorrebbe vedere cadere, Cuba, e l’isola risponde togliendoti ogni tratto umano e trasformandoti in un portafogli che cammina, caricaturizzandoti nel cliché dello straniero a Cuba che, nove volte su dieci, non è una bella persona. Io, quindi, ogni volta che potevo prendevo il mio Cubana de Aviación e in 50 minuti ero in Messico, dove la gente era normale e non si aspettava di essere pagata anche solo per rispondere a un “buongiorno”. E dove, perdonatemi, mangiavo: un’insalata che non fosse di cavolo, una minestra che non fosse sempre e solo di riso con fagioli, un frutto che non fosse l’unico che si trova a Cuba di trimestre in trimestre. Un’introvabile patata. Un gelato che non fosse stato scongelato e ricongelato quaranta volte. A Cuba, a meno che tu non voglia spendere molti soldi – e anche lì, uhm – apprendi cos’è la deprivazione sensoriale, dopo mesi passati a provare un sapore solo. Io a Cuba una volta sono quasi svenuta in un supermercato, dopo due giorni trascorsi all’infruttuosa ricerca di un pomodoro. Il corpo ti chiede certe vitamine, certi sali minerali, e tu non riesci a darglieli. Atterravo in Messico e, i primi due giorni, mi strafogavo.

Eppure, Cuba funzionava. A modo suo. Davanti a ogni facoltà, all’università, c’era una targa che ringraziava la tale Comunità Autonoma spagnola che aveva finanziato il sistema elettrico. All’interno della facoltà sembrava di essere negli anni 50 dopo un bombardamento: banchi, cattedre, lavagne, tavoli sbilenchi, lampadine a intermittenza, computer e telefoni arcaici, sedie metalliche incongruenti, tutto in rovina, tutto cadente, e in mezzo a tutto questo professori trasandati, sciupati, malvestiti, che però ti facevano lezioni durante cui il tempo volava, che sapevano quello che facevano, che erano bravi. A volte proprio bravi. L’assoluta incongruenza tra lo squallore del luogo e la qualità delle parole. E la serietà, la severità, l’inflessibilità dietro la trasandatezza. La gente che ho visto bocciare all’esame di dottorato. L’incongruenza che tu, straniera, avvertivi tra come si presentava il tutto e la loro altissima considerazione di sé. Perché i cubani hanno un’immensa stima di sé. I cubani si sentono speciali, bravissimi, una specie di razza eletta. E questo non te lo aspetti, da un paese che cade a pezzi. E siccome te la fanno pesare, la loro presunzione, la loro certezza di essere degli immensi fighi, un po’ li strozzeresti e un po’ ti ritrovi ad ammettere che tutti i torti non ce li hanno. Li strozzeresti per i modi, ma poi devi ammettere che la loro forza è tutta lì. Nel sentirsi i migliori di tutti e quelli che non hanno paura di nessuno.

E’ difficile, per una come me, arrivere all’aeroporto praticamente in fuga, pregustando il mondo normale che riabbraccerai entro un’ora, sopportare con odio le ultime angherie cubane prima di entrare nell’aereo (un assorbente dieci dollari di cui otto te li metti in tasca tu, negoziante cubana che abusa del mio stato di straniera in difficoltà?) e poi, nel momento esatto in cui l’odio ti trabocca da dentro, vedere gli sportelloni di un aereo angolano che si aprono e i passeggeri che cominciano a scendere: in sedia a rotelle, in barella, uno più sciancato dell’altro. Africani che vanno a curarsi a Cuba. Gente che noi, in Europa, lasciamo morire con indifferenza se non soddisfazione, e che la poverissima Cuba invece accoglie e cura. E tu che fai? Guardi, ti rendi conto, e che te ne fai più del tuo odio? Ti accorgi che sei una straniera viziata o, peggio, che non sei proprio nessuno. Che la Storia, da quelle parti, non sei tu, non passa per l’Europa. Tu sei lo spettatore pagante, se ti va bene, oppure aria, vattene. Cuba mette a fuoco altro da te.

L’Europa, in effetti, è lontanissima. Ed è straniante sentire gli europei che parlano di Cuba e dicono sempre, puntualmente, tutto il contrario di quello che vedi tu. Dai massimi sistemi a quelli minimi. Cominciamo dai primi: “E’ una dittatura, la gente vuole fuggire, gli omosessuali perseguitati, i dissidenti“. In realtà, l’immagine di dittatura cubana che si ha all’estero è quella dei primi anni 70, del cosiddetto “quinquenio gris” che la stessa ortodossia politica della Cuba di oggi definisce come “intento de implantar como doctrina oficial el Realismo socialista en su versión más hostil.” La definizione è diEcuRed (la Wikipedia cubana, per intenderci) ma io stessa ho sentito criticare, addirittura ridicolizzare quell’epoca nelle aule universitarie dell’Università dell’Avana. Sono passati 35 anni da allora, gente. Cuba non è quella cosa lì. I cubani fanno il diavolo che gli pare. E pure gli stranieri.

Diceva la mia padrona di casa: “Tre cose non si possona fare, a Cuba: le droghe, lo sfruttamento dei bambini e, se sei straniero, una smaccata propaganda antistatale. Per il resto, se vuoi camminare per strada nudo e a testa in giù nessuno ti dice niente.” 
I dissidenti? Avranno una dignità quelli legati alla Chiesa, suppongo, ma credo che tutti sappiano che le varie Damas en Blanco, per non parlare poi della Sanchez, prendono soldi per ogni manifestazione che fanno (famoso un loro sciopero perché non erano pagate abbastanza). Io non ho conosciuto nessuno, letteralmente nessuno, che ne parlasse con un minimo di rispetto. E’ gente pagata, punto, chiusa la questione. Poi, certo, la gente parla di poltica, immagina il futuro, esprime idee. C’è chi ama (amava, gessù…) Fidel e chi lo detesta/detestava. E chi, la maggior parte, ha sentimenti ambigui, tra l’ammirazione e il rancore. Chi cambia idea ogni secondo. Perché, di fondo, i cubani sono orgogliosi delle loro conquiste. Sono orgogliosi di quello che hanno combinato. E fanno catenaccio, sono uniti, sono isolani. Ecco, sono isolani. Non capisci Cuba se non ti metti in testa questo: che sono isolani, e per loro il mondo è Cuba e tutto il resto c’è se serve, sennò può pure affondare. Vogliono scappare? In realtà vogliono viaggiare. Perché sono isolani, appunto. C’è tanto mondo che non hanno mai visto. E poi, certo, vogliono soldi. Vogliono comprare cose. Vogliono guadagnare, come è umano che sia. Ma poi vogliono tornare. I cubani muoiono di nostalgia, lontano da casa, dalla famiglia, dalla loro gente, dal loro riso e fagioli. Sono uniti da fare schifo, i cubani. E se si sentono minacciati, di più. Ne sanno qualcosa gli USA, che inasprirono l’embargo nel momento esatto in cui cessarono gli aiuti dall’URSS e a Cuba fecero, letteralmente, la fame. Speravano in una rivolta, gli USA. Si ritrovarono con un popolo che si rimboccò le maniche per l’ennesima volta e ne uscì in piedi, come sempre. Inventandosi cose come il pastrocchio di soia, ripugnante intruglio distribuito alla popolazione come “proteinas para el pueblo“. Perché poi sono pratici: il corpo ha bisogno di proteine, vitamine, carboidrati? In qualche modo li ingurgitavano. E nei parchi ci sono gli attrezzi per fare ginnastica, tipo palestra. E se non ci sono medicine, ricorrono alle piante, alla medicina naturale. Ne escono sempre. E si concedono pure il lusso di esportare i loro medici in Venezuela, come altri esporterebbero, chessò, rame, in cambio di petrolio venezuelano. Questo, hanno fatto i cubani: hanno esportato medici in cambio di petrolio. Perché questo è quello che hanno: la loro formidabile, benché odiosissima, gente. Suona retorico, lo so. Odio scriverlo, odio dirlo. Però è vero. Incredibilmente, è vero. Come, poi, questi medici, questi professionisti cubani riescano ad essere bravi nonostante ristrettezze di ogni genere (falla tu, ricerca, in un paese con internet a pedali) io non lo so e non l’ho capito. Ma ce la fanno.

Gli omosessuali, poi: a Cuba si celebra il Pride, per dire. Sono finiti gli anni 70, “Fresa y chocolate” fu girato con sovvenzioni statali, non scherziamo. Ma, soprattutto, ricordo una pubblicità progresso dello Stato, dei cartelloni esposti nelle farmacie che mi colpirono molto. Era una cosa sulla prevenzione dell’AIDS e c’era la foto di due gay che si baciavano. Ma a differenza dell’Europa, dove i due gay sarebbero stati giovani e bellissimi, nella foto cubana c’erano due signori di mezz’età, bruttini, normali. Due comuni cittadini, come li avresti potuti incontrare sul pianerottolo. Né giovani, né belli, né magri, niente. Due signori che si baciavano e un pacato invito all’amore che non escludeva la prevenzione. Sobrio. Rispettoso. Bello. Mi sembrò un esempio da seguire. Del resto, Cuba è molto poco patinata. Non ha neanche la pubblicità, se è per questo. Solo pubblicità progresso e grosse scritte motivazionali un po’ ovunque. E’ il buono dell’avere molto poco da comprare, nessuno cerca di convincerti a farlo.

Altrettanto stranianti mi paiono poi i discorsi degli stranieri che celebrano i cubani come un popolo di felici danzerini sempre di buon umore e simpatici, uh, che simpatici. Di buon umore? Io, gente stronza come all’Avana ne ho vista poca, in vita mia. Quando diventa chiaro che non li vuoi scopare, che non gli vuoi offrire da bere, che non ti caveranno una lira, tu diventi trasparente ma attorno a te si dispiega la realtà: gente affaticata, incazzosissima, arrogante o, semplicemente, con i cazzi suoi a cui pensare, come è giusto e normale che sia. No, non sono ciarlieri: puoi farti un’ora su un taxi collettivo strapieno senza che nessuno parli con nessuno. Puoi andare mille volte allo stesso bar senza scambiare una parola col barista. Ricevere una gentilezza gratis è rarissimo, ricevere un sorriso non interessato di più. Se sei in difficoltà attiri gli squali. E più è giovane, la gente, e più è stronza. Ecco, questa è una cosa importante: il divario tra i vecchi e i giovani, a Cuba. Con la crisi degli anni Novanta, il sistema scolastico cubano si ritrovò a piedi, come molte altre cose. Con il grosso dei maestri esportati in giro, ci si ritrovò con i ragazzi più grandi a fare lezione ai più piccoli, per dire, e a un generale decadimento dell’istituzione. Per questo e altri motivi, si percepisce uno stacco culturale importante tra i cubani da una certa generazione in giù. I giovani non valgono quanto i loro padri. E questo sarà un problema, in prospettiva. Poi, è vero, la gente fuori dall’Avana (o da Varadero, gessù) è meglio. Molto meglio. Ma i cubani sono, dicevo, isolani. Cocciuti, orgogliosi, quello che vuoi tu, ma non amichevoli. Ma manco per il cazzo, proprio. Se sono amichevoli, anzi, è meglio che ti preoccupi. Avranno i loro motivi, e sono motivi che non ti convengono. Esagero? Sì, un po’. Sintetizzare crea stereotipi, è ovvio. Però, ecco, stereotipo per stereotipo, quello dello stronzo mi pare più azzeccato di quello del felice danzerino. Fermo restando che ballano benissimo, è ovvio.

Ma siamo sempre lì: se da una parte io li detestavo – a un certo punto li detestavo proprio tutti, senza eccezioni – dall’altra, poi, mi accorsi in fretta che, nel resto dell’America Latina, potevo usare il mio status di residente a Cuba come un’onoreficenza, una cosa che mi distingueva in positivo dalla massa europea. Soprattutto in Nicaragua. In Nicaragua, quando la gente scopre che vivi a Cuba si emoziona. Manca solo che ti abbracci. Perché, in un modo o nell’altro, tutti debbono qualcosa ai cubani. “Io mi sono laureato a Cuba, gratis!” “Mio padre è stato salvato da un medico cubano!” Una folla. Il Nicaragua trabocca di gente che in gioventù è stata presa e spesata da Cuba per studiare, che ha avuto vitto e alloggio gratis per anni, che ha con l’isola un debito a vita. E se tu vivi a Cuba, pare che ce l’abbiano anche con te, il debito. Ti trattano bene. Ti rispettano. I cubani sono rispettati, in America Latina. Se lo sono guadagnato. E alla fine, è questo: li rispetti. Io li rispetto. Non li amo, ma li rispetto. E quando hai girato per tutto il Centro America, e non ne puoi più di vedere bambini coperti di stracci, bambini che in Chiapas vanno a lavorare trascinandosi zappe più grandi di loro, bambini che circondano il Ticabus a ogni sosta della Panamericana armati di stracci e si mettono a lavarlo in cambio di un’elemosina, finisce che non vedi l’ora di tornarci, a Cuba, e di vedere finalmente bambini normali (la normalità è un concetto molto mobile), con l’uniforme lavata e stirata, belli pettinati con la riga a lato o le treccine e che vanno, tutti, A SCUOLA. Oppure a giocare. E che non lavorano. Mai. Riatterri a Cuba che trabocchi di rispetto. Lo dici al taxista che ti riporta all’Avana e lui è contento, rincara la dose: “E’ vero, noi ci lamentiamo e ci dimentichiamo del buono, ma è proprio vero. Anche i nostri portatori di handicap, non c’è confronto. E che dire della delinquenza, del narcotraffico? Siamo fortunati, noi.” Sì, sono fortunati, loro. Perché è una questione di prospettiva: se nasci povero, malato, sfortunato, è meglio se nasci a Cuba. Molto meglio, proprio. Fuori da lì, muori e muori male. Un povero non vuole essere guatemalteco, haitiano, dominicano. Vuole essere cubano, credimi.

Cosa si può dire di Fidel nel giorno della sua morte? Questo, probabilmente: che ha dato un senso allo sfuggente concetto di “cubanità”. Concetto che i cubani inseguivano da un secolo, prima che arrivasse lui. Che ha preso un popolo che lottava per la sua indipendenza da cent’anni – prima contro gli spagnoli e subito dopo, come una grottesca beffa, contro gli USA che ne presero il posto – e lo ha reso, per la prima volta nella sua storia, indipendente. Parliamo un po’ di questo, di cosa è la “cubanità”. I cubani sono figli di due popoli entrambi sradicati, spagnoli e africani, piombati su un’isola dove gli indigeni erano scomparsi praticamente subito e senza quasi lasciare traccia. Sono il risultato dell’incontro/scontro e poi mescolanza di europei venuti a fare soldi e di africani trascinati come schiavi. Sarebbero un’accozzaglia di storie e culture diverse, di radici sradicate, di bianchi e neri, schiavisti e schiavi, violentatori e violentati, se tutte queste storie e queste culture non si fossero mischiate, se tutti non fossero andati a letto con tutti, se l’immenso meticciato che ne è derivato non si fosse unito, a un certo punto, nel nome della lotta per l’indipendenza. Cuba è giovane. Diceva uno dei suoi grandi intellettuali, Fernando Ortiz: “Tutto quello che in Europa è successo nell’arco di millenni, a Cuba è successo in soli quattro secoli“. Cuba non ha storia che non sia di appena ieri, non ha spiritualità come la intendono i popoli antichi, non ha religione che non sia un minestrone di riti mischiati, non ha un colore, una faccia, un’identità che non sia quella dell’essere cubani, appunto. Qualsiasi cosa ciò voglia dire. E diceva sempre Ortiz: “La cubanità non la dà la nascita, in un paese come il nostro, né la residenza, il colore, non te la dà nessun dato oggettivo. La cubanità te la dà la volontà di essere cubano“. E’ cubano chi ha voluto costruire Cuba. E Cuba, quindi, ha cominciato a nascere nel 1860, quando bianchi e neri insieme hanno cominciato a lottare contro la Spagna. Insieme, questo è importante. Lì è stato lo spartiacque. E l’hanno combattuta per 30 anni, fino al 1898. Quando sono arrivati gli USA, che fino ad allora se ne erano rimasti a guardare tifando per lo più Spagna, e hanno sfilato la vittoria ai cubani. Hanno dichiarato guerra a una Spagna ormai sfiancata, l’hanno sconfitta e si sono presi Cuba. I cubani, quindi, invece di una vittoria si sono trovati davanti a un passaggio di consegne. Invece della loro costituzione si sono ritrovati l’Enmienda Platt, e un padrone nuovo a cui obbedire.

Però i cubani sono cocciuti, come dicevo. Per i cinquanta anni successivi si sono rotti la testa studiando, protestando, guerreggiando – la rivoluzione fallita del ’30 – e ancora e ancora, tra due dittature e mille governi-fantoccio, mentre la loro economia dipendeva dagli USA, mentre persino il razzismo si accodava a quello degli USA impiantando l’apartheid che gli spagnoli mai avevano conosciuto, mentre sull’isola dilagavano il gangsterismo e la corruzione e le carceri erano piene – allora, mica oggi! – di oppositori politici. E poi è arrivato Fidel, la cui storia è talmente folle che sembrerebbe finta, se non fosse invece reale e documentabile. Si cita spesso “La Storia mi assolverà”, credo il più delle volte senza averlo letto. E’ l’autoarringa con cui lui, ben prima della Rivoluzione, spiegò ai giudici che lo avrebbero condannato il perché dell’assalto alla caserma Moncada, fatto da lui, il fratello piccolo Raul e un manipolo di studenti, studentesse, ragazzi vari, e finito malissimo. E’ la fotografia della Cuba sotto Batista e gli USA. E’ una dichiarazione di intenti – o, all’epoca, di sogni – ed è, soprattutto, l’autoritratto di un gigante. E’ molto difficile leggerlo, sapere che quell’uomo stava entrando in carcere e non sentire un rispetto immenso. Poi vennero l’uscita dal carcere, l’esilio in Messico, l’acquisto di una barchetta (Il Granma) con cui partire, stipandola all’inverosimile, all’assalto di Cuba, lo sbarco (su cui il Che disse: “Fu più che altro un naufragio”), la polizia di Batista che stermina i naufraghi, Fidel che alla fine si ritrova con – boh, vado a memoria – meno di venti superstiti e dice: “Ce l’abbiamo fatta, vinciamo sicuro.” E vince. Sul serio. E, per la prima volta nella sua storia, Cuba diventa uno Stato sovrano. Questo, è stato il punto.

E poi vince ancora, e ancora, e ancora. Contro gli USA. Prendendoli sempre, incessantemente, per il culo. Gli USA proiettano propaganda anticastrista sul loro palazzone all’Avana? Castro fa circondare il palazzone da bandiere più alte, una per ogni stato che all’ONU si è dichiarato contrario all’embargo, e così lo impacchetta rendendolo praticamente invisibile. Gli USA mandano navi al largo di Mariel per prendere dissidenti in fuga e mostrarli al mondo? Fidel fa svuotare tutte le carceri e i manicomi di Cuba e ne spedisce gli ospiti tutti da loro, riempiendo gli USA di matti e delinquenti comuni cubani. La lista è infinita, la vicenda umana di Fidel anche. Il rapporto tra USA e Cuba, alla fine, è strano. Ma strano forte.

Gli USA e Cuba si amano e si odiano, sembrano parenti in lite. I primi hanno sempre voluto mettere le mani sui secondi, prima cercando di comprare Cuba alla Spagna, poi prendendosela con le cattive. I secondi hanno sempre sofferto l’ingombrante ombra e le mire squalesche dei vicini, e hanno fatto tutto quello che un popolo può umanamente fare per farsi trattare alla pari. Cuba non ha voluta fare la fine di Puerto Rico, tutto qui. Non ha voluto essere una colonia. Ma, alla fine, la sua storia recente è stata comunque pesantemente condizionata dagli USA. Avrebbero chiesto aiuto all’URSS, virando fortemente sulle posizioni sovietiche, se non avessero dovuto difendersi dagli USA? Avrebbero avuto bisogno di un partito unico per 50 anni se non avessero avuto bisogno di essere tanto compatti dinanzi a un nemico tanto potente? E come sarebbe, oggi, Cuba, se non uscisse da 60 anni di embargo? Se è riuscita a dare cibo, salute e istruzione a tutti i suoi cittadini NONOSTANTE l’embargo, cosa avrebbe fatto senza il limite, l’impoverimento a cui è stata condannata? Voi lo sapete? Io no, francamente. Quello che so, è che l’embargo li ha compattati ancora di più. E, conoscendoli, non era difficile da capire.

Però ho visto un sacco di cittadini USA, a Cuba, e ben prima che Obama aprisse il paese. Col cappello in mano e colmi di ammirazione, li ho visti. Che arrivano per dei corsi di studio all’università, o da soli, passando per il Messico per non farsi scoprire dalle proprie autorità. Perché gli statunitensi non potevano andare a Cuba per ordine degli USA stessi, ma lo Stato cubano li ha sempre fatti entrare, facendo col visto lo stesso giochino che Israele fa con chi non vuole il timbro d’entrata sul passaporto: te lo dà su un pezzo di carta. E ho visto un sacco di cubani che desideravano andarci, negli USA, e fare soldi, vedere l’abbondanza, visitare i parenti. Sono talmente vicini, in linea d’aria, che sembra incredibile.

Io, alla fine – e concludo questa lunga riflessione che oggi mi era proprio necessaria – di Cuba ho capito questo: che la devi rispettare, sennò prendi calci in culo. Tiri fuori il peggio dai cubani, se li prendi contropelo. E che questo orgoglio infinito, cocciuto, cazzuto, fa parte del sentire dell’isola ma Fidel lo ha saputo compattare, dargli sfogo e direzione. Lui ha preso un popolo costretto a passare da una bandiera all’altra e ne ha fatto una cosa diversa: il popolo che ha vinto, quello che si è guadagnato l’indipendenza e l’ha difesa, quello che ha ottenuto le uniche, grandi conquiste sociali dell’America Latina, quello che più si è schierato contro il razzismo, quello che ha fatto sognare mezzo pianeta, quello che non si capisce come abbia fatto ma, in qualche modo, ce l’ha fatta. Ha preso una colonia e ne ha fatto uno Stato. Molto, molto orgoglioso di sé. Ha commesso errori? Certo. Avrebbe potuto fare di meglio? Sì. I cubani hanno sofferto? Sì, ma l’alternativa era essere Puerto Rico o peggio. E avevano combattuto troppo, e troppo a lungo, per potere accettare di essere Puerto Rico. So’ gente orgogliosa, che gli vuoi dire.

Per quanto possa sembrare paradossale, io non pensavo che Fidel potesse morire. Pensavo che avrebbe seppellito pure me. Mi fa proprio uno strano effetto, questa morte, ed essendo io una donna del Novecento penso che, stavolta, di giganti non ne rimane proprio nessuno. Ora: i cubani di oggi, i giovani cubani di oggi, saranno all’altezza della storia incredibile che gli lascia Fidel? Io credo che lui abbia cercato anche, riuscendoci spesso, di tirare fuori il meglio dal proprio popolo. Di dargli disciplina, serietà, educazione, cultura. Di fare di un popolo caraibico il popolo serio per eccellenza di tutta l’area. Operazione non facilissima, va detto.

Lascia un popolo povero ma viziato, nonostante la cura da cavallo degli anni Novanta. Che non paga bollette, che ha la sopravvivenza assicurata, che si crede ‘sto cazzo. E che è umanamente e culturalmente in declino da un po’. Dove le differenze razziali, dagli anni novanta in poi, si sono accentuate. Da quando le rimesse dell’estero sono diventate vitali, e si dà il caso che il grosso dei cubani emigrati fosse bianco e abbia, quindi, mandato denaro alle famiglie bianche, mettendo loro e solo loro in condizione di partire con la piccola impresa. Un popolo che ha più aspettative che voglia di lavorare, e a cui il turismo – soprattutto quello italiano, e va detto a nostro disonore – ha fatto un gran male.

Non so cosa ne sarà di Cuba, se i suoi “difetti” la aiuteranno anche stavolta o se, senza il carisma del suo Padre della Patria, diventerà il paesello qualsiasi che tanti sperano che diventi. Temo la generazione cresciuta negli anni Novanta. Se Cuba va al macero, sarà per loro. Ma se questo dovesse accadere, sarebbe una gran perdita per il mondo intero. Sono degli stronzi, pensano solo agli affari loro, ti venderebbero al macello se solo potessero – e lo fanno appena possono – e tuttavia, pur di essere fighi, hanno dato tanto. Per un’italiana che non li regge ci sono cento cittadini del Terzo Mondo che devono loro qualcosa. Da sessanta anni, rendono il pianeta più vario e più vero.

Io credo che si sentano abbastanza male, oggi, i cubani. E che ne abbiano tutti i motivi.

Tocca invece invidiare un po’ il Padreterno, se c’è, ché finalmente se lo vede là, ‘sto famoso Fidel, e finalmente può farci due chiacchiere. Non ha aspettato poco, decisamente. E mi piace immaginare che, tra i due, il più curioso sia il Padreterno.

* Fonte: Militant Blog

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