mercoledì 30 settembre 2015

VORREI, MA NON POSSO... (Ritratto di riformista per bene) di Marco Zerbino

[ 30 ottobre ]

«La sinistra italiana (quel che ne rimane) piange in queste ore Pietro Ingrao, storico dirigente “eretico” del Partito Comunista Italiano deceduto nella sua abitazione romana domenica 27 settembre, all’età di cento anni. Per lui si sprecano non solo i necrologi e le inflazionate etichette giornalistiche di “grande vecchio”, “guru”, “padre nobile”, “papa laico della sinistra italiana” e simili, ma anche le menzioni e i ricordi ufficiali da parte delle più alte cariche dello Stato, dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ha affermato di considerare la figura di Ingrao un “patrimonio del paese”, al presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi, che ha pagato pegno alla cospicua componente ex-comunista del partito di cui è leader definendolo “uno dei testimoni più scomodi e lucidi del Novecento e della sinistra”. Perfino Giuliano Ferrara, un tempo comunista e poi passato armi e bagagli prima al Psi di Bettino Craxi e in seguito direttamente alla corte di Silvio Berlusconi, lo ha ricordato con affetto in un’intervista concessa al quotidiano Il Messaggero: “è venuto a mancare un pezzo della mia vita”.

Un simile unanimismo, se è almeno in parte comprensibile data l’elevata statura morale e culturale di un uomo che ha realmente fatto la storia dell’Italia repubblicana e del comunismo italiano, prima come giovane membro della Resistenza, poi come dirigente e intellettuale del Pci, parlamentare di lungo corso, presidente della Camera dei Deputati e infine come punto di riferimento per molti versi indiscusso di un “popolo di sinistra” ormai orfano di grandi organizzazioni politiche, di certo non aiuta a capire la specificità e il significato del personaggio. Se è vero infatti che Ingrao è, come in tanti ripetono, il “simbolo della sinistra italiana”, va detto che probabilmente lo è in tutti i suoi aspetti, incarnandone risorse e vitalità ma anche i tanti limiti storici.

La storia di Pietro Ingrao non può essere separata da quella di un’opzione e di una cultura politiche precise, quelle del “togliattismo di sinistra”, ovvero del tentativo di individuare una “terza via” (nessuna connessione con Lord Giddens) fra lo stalinismo e la completa e definitiva torsione in senso socialdemocratico e “parlamentare” del Pci (caldeggiata all’interno di quest’ultimo dalla destra di Giorgio Amendola). Fu questo, grosso modo, l’orizzonte non solo di Ingrao e della sinistra comunista che a lui faceva riferimento, ma anche del gruppo politico-intellettuale a lui più strettamente legato, quello creatosi attorno alla rivista il manifesto e poi espulso dal Pci (col voto favorevole dello stesso Ingrao) nel 1969.



Perché “togliattismo”, e perché “di sinistra”? La strada da percorrere, secondo Ingrao, è nella sostanza la stessa indicata da Togliatti: quella “via italiana al socialismo” consistente nell’ampliamento progressivo della basi “sociali” e degli spazi di democrazia della Repubblica italiana nata dalla Resistenza antifascista, una via, a ben guardare, non solo italiana, ma internazionalmente riformista. La sensibilità più “libertaria” di Ingrao e del gruppo del manifesto, tuttavia, conduce entrambi a un’accentuata presa di distanza polemica dallo stalinismo (sicuramente più marcata rispetto ai tardivi “ripensamenti” del Migliore) e, a partire dalla metà degli anni Sessanta, ad una connotazione “movimentista” che fa di Ingrao l’interlocutore privilegiato, all’interno del Pci, delle lotte operaie e sociali che si svilupperanno impetuose in Italia nel decennio successivo.

L’ingraismo come fenomeno politico nasce infatti veramente solo nel 1966, in quell’undicesimo congresso nel quale il dirigente comunista rivendica apertamente il proprio diritto al dissenso (“non posso dire che mi avete persuaso”, disse rivolto alla presidenza dell’assise) diventando esplicito punto di riferimento per coloro che dentro il partito reclamano tanto un allontanamento dallo stalinismo quanto una presa di distanza dalla deriva parlamentare e istituzionale verso cui spinge la destra amendoliana. Con il 1968 e poi con l’Autunno Caldo del 1969, segnato da imponenti scioperi e lotte operaie, si apre il “lungo Sessantotto” italiano, che durerà una decina d’anni e vedrà, oltre a un impetuoso sviluppo della lotta di classe in tutto il paese, anche la nascita dal basso del “sindacato dei consigli”, del movimento studentesco e delle organizzazioni della “nuova sinistra” (manifesto in primis). Sarà con questo clima sociale di effervescenza operaia e giovanile che Ingrao cercherà di dialogare dall’interno di un partito sempre più ossificato e burocratizzato, tanto sul piano dell’azione pratica quanto su quello della riflessione teorica. Quest’ultima culminerà, verso la fine di quello straordinario decennio, nella summa dell’ingraismo, quel Masse e Potere (1977) in cui riproporrà in sostanza il leitmotiv togliattiano della “democrazia progressiva” ancorché rideclinato in versione movimentista come “un intreccio organizzato tra democrazia rappresentativa e democrazia di base, che favorisca la proiezione permanente del movimento popolare nello Stato, trasformandolo”.

C’è un elemento che accomuna l’ingraismo, il gruppo del manifesto e altre esperienze simili emerse all’insegna dell’“innovazione” e della polemica antiburocratica in seno alla sinistra comunista occidentale negli anni Sessanta e Settanta (si pensi ad esempio alla britannica New Left Review): l’incapacità di sviluppare la critica dello stalinismo e della burocrazia su basi marxiste e dunque in direzione rivoluzionaria, riannodando i fili di una storia interrottasi già sul finire degli anni Venti con la sconfitta politica (e la persecuzione poliziesca) dell’Opposizione di Sinistra in Unione Sovietica. Della difficoltà di tematizzare la rottura rivoluzionaria in un contesto di crescita economica, di espansione del ceto medio e di oggettivo ampliamento dei diritti sociali (ovvero in un contesto di riforme in atto) si può certo discutere, ma è importante evidenziare la natura reale e profonda, al di là degli infiorettamenti teorici e dei posizionamenti tattici contingenti, di un’opzione politico-strategica che era e rimane interna ad un orizzonte riformista e socialdemocratico. Un riformismo anch’esso “di sinistra”, lo stesso che, negli anni Novanta e Duemila, consentirà alla Rifondazione Comunista di Fausto Bertinotti di smarcarsi dal “social liberismo” di marca blairiana. Bertinotti, non a caso, non cesserà in quegli anni di richiamarsi all’eredità politica ed intellettuale di Pietro Ingrao, il quale aderirà però formalmente al Prc solo nel 2005 e fino al 2008.

Nel mezzo si colloca l’evento cruciale dello scioglimento del Partito Comunista Italiano, avvenuto nel febbraio del 1991 come culmine di un processo apertosi verso la fine del 1989 con la cosiddetta “svolta della Bolognina”. Ingrao non era favorevole a liquidare con un tratto di penna l’intera storia comunista: puntò i piedi, criticò, polemizzò, si oppose alla svolta ma, come in molte altre occasioni nel corso della sua storia politica, non arrivò allo strappo. Nacquero il Partito Democratico della Sinistra, con Occhetto segretario, e, di lì a qualche mese, il Partito della Rifondazione Comunista di Armando Cossutta e Sergio Garavini (e più tardi di Bertinotti). Ingrao non aderì al Prc e rimase invece nel Pds (“nel gorgo”, come ebbe a dire) per coordinarvi l’area interna dei Comunisti Democratici fino al maggio del 1993. Seguirà un lento avvicinamento a Rifondazione che, come già ricordato, lo porterà a prendere la tessera del partito più di dieci anni dopo. Dopo la disfatta elettorale della Sinistra Arcobaleno nel 2008 non si riscriverà più al Prc e dichiarerà in più occasioni di votare per la sua costola destra ormai costituitasi in partito autonomo, Sinistra Ecologia e Libertà.

Riferendosi al momento decisivo del congresso di scioglimento del Pci, Rossana Rossanda ha nei giorni scorsi dichiarato: “Per proteggere il partito Ingrao rinunciò a cambiare la storia”. “Davvero tutta la storia di Rifondazione Comunista sarebbe stata diversa”, ha poi proseguito la giornalista, “e forse a sinistra dell’allora Pci ci sarebbe stata un voce più forte di quella di Garavini e di Bertinotti. Ma Pietro non lo volle fare”. Del resto, la prima grande delusione a Rossanda e ai suoi Ingrao l’aveva regalata decenni prima quando, come già ricordato, dopo aver appoggiato il gruppo del manifesto in seno al Pci aveva alla fine votato, in qualità di membro del Comitato Centrale del partito, a favore della sua epurazione.

Ma la vita di Ingrao è costellata di episodi simili, di strappi minacciati e poi mai effettuati, di rotture paventate e poi prontamente rientrate, di dubbi amletici inibenti l’azione e di pentimenti postumi. Pur incarnando una voce critica e “di sinistra” all’interno del Pci egli non seppe mai, nei momenti cruciali, esprimere una reale alternativa e coagulare attorno a sé le forze sociali e politiche che avrebbero potuto farla vivere. Non seppe farlo in relazione allo stalinismo quando nel 1956, da direttore de l’Unità, scrisse un editoriale non firmato contro gli insorti ungheresi e a favore della repressione sovietica dal titolo più che eloquente: “Da una parte della barricata”. Anni dopo se ne sarebbe pubblicamente pentito, ma nell’immediato entrò invece nella segreteria del Pci, dove sarebbe rimasto per un decennio. Non lo fece neanche, come è stato già ricordato, nei due fondamentali momenti della radiazione del manifesto e della liquidazione del Pci. Non lo fece come critico “da sinistra” del “compromesso storico”, ovvero della strategia di avvicinamento alla Democrazia Cristiana in vista di un futuro patto di governo fra questa e il Pci caldeggiata dall’allora segretario comunista Enrico Berlinguer nella seconda metà degli anni Settanta, quando Ingrao era oltretutto un personaggio tutt’altro che marginale nella vita politica nazionale, essendo presidente della Camera dei Deputati. Non lo fece, infine, neanche negli anni Ottanta, quelli che precedettero la svolta del cambio di nome, durante i quali avallò de facto, anche col suo lavoro teorico successivo a Masse e Potere, la mutazione di pelle sempre più socialdemocratica e “post-marxista” del Pci.

La realtà, al di là delle etichette, è quella già ricordata: Ingrao era socialdemocratico al pari della stragrande maggioranza dei dirigenti del suo partito. Anche al momento della battaglia contro Occhetto il suo orizzonte rimaneva, come ha lui stesso dichiarato in un’intervista del 2009, quello della “socialdemocrazia tedesca”, una socialdemocrazia magari più “pura” e “autorevole”, con un maggiore insediamento nella classe lavoratrice e un legame più stretto col mondo sindacale di quanto non avrebbe avuto in seguito la triade Pds-Ds-Pd, caduta preda delle sirene del blairismo e della Terza via (stavolta sì, quella di Anthony Giddens) sin dalla seconda metà degli anni Novanta.

Un riformista, dunque, anche se “di sinistra”. E del riformismo di sinistra, dei suoi “vorrei ma non posso”, della sua incapacità di aprire reali strade alternative a quelle dettate del capitale, come testimonia da ultimo la vicenda greca, egli condivide le principali responsabilità, anche quelle che hanno a che fare con la scomparsa del “più grande partito comunista dell’Occidente” e con lo stato vegetativo in cui versa ormai da anni la sinistra italiana».

* Fonte: Popoff

SOROS: "APRIAMO LE PORTE AGLI IMMIGRATI"

[ 30 ottobre ]

Non c'è bisogno di spendere molte parole per spiegare chi sia George Soros (nella foto)  —uno dei più grandi e spiatati pescecani della finanza globale. Niente di sorprendente che egli, finanziato il golpe in Ucraina, sostenga non solo la Merkel (e la guida tedesca della Ue) ma pure il governo Renzi, e che abbia confermato questo appoggio incontrandolo a New York il 27 settembre scorso.

Consigliamo la lettura di questa intervista che ha rilasciato a Federico Fubini e pubblicata dal Corriere della Sera del 26 settembre. Tra le altre cose espone che meglio non si potrebbe le opinioni dell'aristocrazia finanziaria globalista sulla vicenda dell'immigrazione.

Domanda: Vede una concorrenza fra Paesi europei, quali riescono ad attrarre gli stranieri più qualificati?
«Certamente sì. I siriani che arrivano in Europa tendono a essere istruiti e rappresentano una fonte molto qualificata di lavoro per il futuro. Il perché è ovvio, se ci si riflette: per affrontare il viaggio fino alla Germania questi rifugiati hanno bisogno di un bel po’ di denaro. Ciò significa che è la crema della società siriana che attualmente sta affluendo in Germania. E la Germania è interessatissima ad accoglierli».

* * *

George Soros:  «Il futuro dell’Ue si decide sui migranti: investire nell’accoglienza può dare grandi frutti»

Dopo gli choc di questi anni, lei crede davvero che l’area euro stia tornando a una crescita solida?
«L’economia europea in effetti sta migliorando, se la ripresa non verrà danneggiata da nuovi episodi di instabilità finanziaria come quelli delle ultime settimane. La mia impressione - dice Soros - è che alla politica monetaria delle banche centrali venga chiesto troppo, più di quanto possa dare. Ci sarebbe bisogno di una politica di bilancio che incoraggi la crescita, eppure questo è esattamente quello che manca». 
Vuole dire che i governi dell’area euro dovrebbero gestire i conti con un approccio più espansivo? 
«Sì, serve una politica di bilancio espansiva, che sostenga la ripresa. Del resto la soluzione alla crisi migratoria, e persino la soluzione alla crisi ucraina e alla minaccia rappresentata dalla Russia, richiedono che l’Europa faccia degli investimenti seri. Darebbero grandi frutti: accogliere i migranti e i rifugiati e impegnarsi nel garantire loro una sistemazione produrrebbe un effetto molto positivo per l’economia europea. Ma tutto questo implica uno stimolo di bilancio». 
Crede che anche l’Italia questa volta riuscirà a partecipare alla ripresa dell’area euro? 
«Sinceramente, per le prospettive dell’Italia ho buone speranze. Matteo Renzi è riuscito a introdurre dei cambiamenti importanti nel mercato del lavoro. Adesso sta affrontando il problema dei crediti incagliati e delle sofferenze nei bilanci delle banche, e dopo questo passaggio l’economia italiana potrebbe in realtà crescere più in fretta del resto d’Europa». 
Perché dà tanta importanza alla crisi migratoria per la crescita economica? 
«In negativo, perché la crisi migratoria minaccia di distruggere l’Unione Europea. Non dimentichiamo che la Ue sta vivendo varie crisi allo stesso tempo e questa è solo una di esse. La Grecia, la guerra in Ucraina, il rischio di uscita della Gran Bretagna dall’Unione e la stessa crisi dell’area euro sono le altre. Angela Merkel ha dimostrato di essere una vera statista, perché ha capito quanto sia critica la questione migratoria. Senza una politica realmente europea su questo fronte, il fatto che ogni Paese si muove per proprio conto potrebbe distruggere l’Unione. Di certo ha già distrutto Schengen, l’accordo sulla libertà di movimento delle persone. E il mercato unico sulla libertà delle merci attraverso le frontiere europee può essere la prossima vittima». 
Crede che la soluzione sia un sistema vincolante di quote che distribuisca migranti e rifugiati nei vari Paesi? 
«Dobbiamo arrivare a creare una organizzazione europea che cooperi con i vari Stati disposti ad accettare i rifugiati. I dettagli dipenderanno dalla volontà e dalla capacità dei singoli Paesi di assorbire nuovi arrivi. È evidente che quella della Germania è superiore a quelle di Grecia o Ungheria. Ma questa capacità di assorbimento bisogna anche svilupparla. Oggi l’agitarsi più vuoto e inutile mi pare sia in Francia e in Gran Bretagna: per entrambe la capacità di accogliere risulta molto sotto a quanto dovrebbe essere. Anche solo per ragioni demografiche, l’Europa ha bisogno di un milione di nuovi arrivi ogni anno. E i Paesi che ne accoglieranno di più, sono quelli che cresceranno di più in futuro». 
Vede una concorrenza fra Paesi europei, quali riescono ad attrarre gli stranieri più qualificati? 
«Certamente sì. I siriani che arrivano in Europa tendono a essere istruiti e rappresentano una fonte molto qualificata di lavoro per il futuro. Il perché è ovvio, se ci si riflette: per affrontare il viaggio fino alla Germania questi rifugiati hanno bisogno di un bel po’ di denaro. Ciò significa che è la crema della società siriana che attualmente sta affluendo in Germania. E la Germania è interessatissima ad accoglierli». 
Intanto la Grecia è travolta dagli sbarchi. Ritiene almeno che il suo futuro nell’euro sia assicurato? 
«Purtroppo il problema greco non è risolto, perché quel Paese ha dovuto accettare condizioni che gli sono state imposte. Non le ha scelte. C’è un atteggiamento ostile in Grecia di fronte all’idea di realizzare davvero quei piani, dunque questa è una ferita che continuerà a infettarsi e a assorbire un sacco di risorse. Molte più di quanto sarebbe giusto». 
Cosa intende dire, che la Grecia non va più finanziata? 
«Dico solo che l’ammontare speso per la Grecia è almeno dieci volte più vasto di quello speso per l’Ucraina, un Paese che non chiede altro che di avanzare nelle riforme. È un paradosso. C’è un Paese che vuole essere un alleato dell’Europa, ma viene trascurato. E c’è un altro Paese che è un suddito riluttante dell’Europa e riceve francamente, decisamente, troppo». 
Suggerisce di spostare risorse e attenzione all’Ucraina? 
«Purtroppo gli europei sono stati molto miopi. La nuova Ucraina nata con la rivoluzione di piazza Maidan sarebbe una grande risorsa per l’Europa, investirvi varrebbe veramente la pena. Ma ciò non viene capito e questa totale incomprensione sta mettendo a rischio la sopravvivenza stessa dell’Ucraina, il migliore alleato dell’Europa di fronte alla pressione della Russia putiniana». 

martedì 29 settembre 2015

CATALOGNA: I GIOCHI (NON) SONO FATTI (mentre Podemos prende una batosta) di Emmezeta

[ 29 settembre ]
La partita della secessione è tutta da giocare

Barcellona, il giorno dopo. Contati i voti è ora il momento di misurare le volontà politiche. E le cose si complicano. Come prevedibile, visto il risultato delle urne. Il fronte indipendentista ha la maggioranza dei seggi (72 contro 63), ma non quella dei voti, essendosi fermato al 47,8%. Da qui le diverse interpretazioni sulle elezioni-plebiscito di domenica tra Artur Mas, (convinto che i risultati legittimino la secessione dalla Spagna) e la sinistra indipendentista della CUP (Candidatura d'Unitat Popular) (che ritiene che per secedere ci sia invece bisogno del 50% più uno dei voti dei catalani).
Che si sia trattato di un plebiscito non c'è dubbio. Mai si era vista, dalla fine del franchismo, una simile partecipazione alle urne (77%), con un aumento dei votanti del 10% rispetto al 2012. Ben poco valore hanno dunque i ragionamenti di certi commentatori che vorrebbero conteggiare tra gli anti-indipendentisti anche chi ha scelto di non esprimere alcun voto. Il problema è un altro: può una maggioranza di seggi del parlamento catalano avviare un processo secessionista?

E' ben noto che dal punto di vista della costituzione spagnola nessun tipo di secessione è possibile, neanche se venisse richiesta dal 100% dei cittadini di una Comunità autonoma, come quella catalana. Dunque, giuridicamente, il problema del 50%+1 dei voti è del tutto ininfluente. Non così dal punto di vista politico. E qui nascono i primi problemi all'interno del fronte indipendentista.

Problemi che hanno, evidentemente, anche una natura politica che va ben oltre l'interpretazione del dato elettorale. Se da una parte è naturale che uno schieramento indipendentista abbia al suo interno forze anche diversissime, il problema sorge quando si passa a discutere su chi può rappresentare quel fronte garantendone gli equilibri e l'unità. E' questo il primo nodo che dovrà essere sciolto.

Fino a domenica Artur Mas era il campione dell'indipendentismo catalano. La CUP ne criticava le politiche liberiste, lo rifiutava come governatore, ma la sua leadership non sembrava in discussione. Ora le cose sono cambiate. La vecchia coalizione di Mas contava su 71 seggi. Oggi, quella nuova (la scelta indipendentista ha portato alla fuoriuscita dell'UDC), "solo" 62. Può la CUP garantirgli i voti che gli mancano per arrivare alla maggioranza parlamentare dei 68 seggi?

Forse sì, un appoggio esterno è possibile, ma solo a condizione di un cambiamento delle politiche sociali di questi anni. La CUP si è decisamente rafforzata nel voto di domenica, passando dal 3,5 all'8,2%, da 3 a 10 seggi. Forte di questo dato, e della posizione decisiva per la formazione del governo regionale in cui è venuta a trovarsi, la CUP ha posto la questione Mas. Ieri Antonio Banos, leader di questa formazione, ha detto che «solo il processo verso l'indipendenza è imprescindibile, mentre le persone e anche il signor Mas sono prescindibili».

Banos ha poi affrontato la questione dell'interpretazione del voto, dichiarando l'indisponibilità a sostenere oggi una dichiarazione d'indipendenza, perché «non abbiamo raggiunto il 50% dei voti». Resta che: «l'indipendentismo in Catalogna è l'opzione maggioritaria con una maggioranza consistente di voti a favore del processo costituente».

A cosa si riferisca Banos è chiaro. Abbiamo già scritto dell'esistenza di un terzo schieramento tra il fronte indipendentista e quello spagnolista. Quello che è stato definito come lo schieramento del «diritto a decidere», rappresentato in particolare da Si que es Pot, una coalizione comprendente Podemos.

Questa coalizione ha ottenuto l'8,9% ed 11 seggi. Un risultato magrissimo, che se da un lato evidenzia come abbia prevalso la polarizzazione tra secessionisti ed anti-secessionisti, dall'altro mette in luce l'attuale crisi di Podemos. Una crisi non solo catalana, ma evidentemente legata a certe scelte di Pablo Iglesias, prima tra tutte l'appiattimento sulla figura di Tsipras. Scelte che evidenziano la manifesta incapacità di rispondere alla logica della "sindrome TINA", ben rafforzata dal Terzo Memorandum greco, e che gli verrà scagliata contro dal blocco sistemico madrileno ed eurista alle prossime elezioni politiche.

L'obiettivo della CUP di arrivare ad un referendum è del tutto condivisibile, ma la speranza di poter giocare in questo senso la carta Podemos al governo a Madrid è obiettivamente poco realistica. E' vero, il Partido Popular è uscito dalle elezioni di domenica con le ossa rotte, ma il fatto di potersi accreditare come il campione del nazionalismo spagnolo può dargli un vantaggio in vista delle politiche del 20 dicembre. Non solo, mentre il Partito socialista (Psoe) manifesta comunque dei segni di tenuta, bisogna considerare soprattutto l'ascesa del "Renzi spagnolo", l'ultra-liberista e "rottamatore" Albert Rivera, la cui creatura Ciudadanos (in CatalognaCiutadans) ha ottenuto domenica il 18% e ben 25 seggi.

Se volessimo proiettare il voto catalano sulle elezioni di dicembre avremmo dunque in campo ben 4 forze in grado di proporsi per la vittoria. Tra queste quelle assolutamente contrarie ad ogni ipotesi secessionista prevalgono in maniera nettissima.

Tornando alla Catalogna, la situazione appare dunque davvero ingarbugliata. Si aprirà una trattativa con Madrid? Forse, ma certo non prima della formazione del nuovo governo spagnolo. Con quali prospettive poi, è difficile da dirsi.

Il processo secessionista appare assai più difficile di quel che Mas lascia intendere. Su un punto però gli indipendentisti hanno probabilmente ragione a cantare vittoria. Il punto è che sarà ben difficile che le spinte separatiste possano rifluire. Giunti a questo livello di consenso, e ad una spaccatura così radicale, è irrealistico immaginare la composizione del conflitto con qualche concessione da parte di Madrid.

Lo abbiamo già scritto, e ne siamo convinti: la crisi sistemica e quella dell'Unione Europea stanno producendo spinte centrifughe di vario tipo. Quella catalana ne è un esempio, così come quella scozzese, che tornerà probabilmente a riproporsi assai presto. Spinte magari contraddittorie - Mas è per mantenere la Catalogna indipendente nell'UE e nell'euro, mentre la CUP è per l'uscita - ma segnali inequivocabili della profonda crisi della società e della politica europea.

SHAKIRA DACCE LA LINEA!

[ 29 settembre ]

Oggi tutti i media mondiali hanno in prima pagina quanto avvenuto ieri a New York, durante ed a margine dell'assemblea delle Nazioni unite. In particolare tutta l'attenzione è rivolta al vertice tra Obama e Putin.
Un vertice, quello tra Obama e Putin, nel quale si è non solo "discusso" della guerra civile che insanguina oramai quattro anni la Siria, ma si è "convenuto" di unire le forze contro il nemico pubblico numero uno, i guerriglieri islamisti che sono all'offensiva in Iraq e Siria. La divergenza, non di poco conto, è sul ruolo futuro di Assad. Obama ha ribadito che per la Casa Bianca il Presidente deve uscire di scena, così potrà nascere la Santa alleanza (Putin ha detto che occorre unirsi cono gli islamisti come ci si unì al tempo contro il nazismo), anche con Russia e Iran per una crociata mondiale che schiacci l'insurrezione islamista.

In questo contesto della presenza di Renzi, com'è ovvio, è stata del tutto oscurata. Malgrado gli sforzi da lui compiuti per farsi largo, a nessuno glien'è fregato niente.

Tutto il contrario di quanto accaduto alla cantante colombiana Shakira, che proprio davanti alla 70 assemblea dell'Onu si è esibita cantando Imagine di Lennon, introducendola con un discorsetto retorico e peloso su quanto sono brutte le piaghe del mondo, tra cui la povertà, le diseguaglianze e l'emigrazione e le guerre.

Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. In un consesso dove sono rappresentati i governi del mondo, ovvero i responsabili di quelle stesse piaghe che martoriano i popoli, mentre le grandi potenze fanno le prove generali per scatenare un'altra guerra nel già insanguinato vicino oriente, tutti questi criminali si fanno scudo di una cantante di successo (anzitutto tra i giovanissimi) per far vedere quanto essi sono invece buoni e animati dalla più pie intenzioni. Sono furbi questi globalisti...

Non sappiamo a voi, ma a noi è venuto il vomito. Che questa bimbetta milionaria, come altri cialtroni dell'industria americana dello spettacolo, vedi Bono Vox, si prestino a fare i pagliacci di corte, non stupisce più. Ma l'uso che ne viene fatto è micidiale. Sono vere e proprie armi di distruzione di massa, strumenti micidiali per rimbambire le giovani generazioni, imbottendo le loro teste di cazzate ideologiche edoniste, buoniste, progressiste e falsamente umanitarie, tutte tese a fare entrare nella testa dei giovani che la globalizzazione è cosa buona e giusta, che indietro non si può tornare, e che se proprio quest'andazzo non ti piace, se proprio di senti una pecora nera in mezzo a queste masse salmodianti e decerebrate, sei tu che non sei normale, è in te che c'è qualcosa che non va.

Che questo sterminio di coscienze venga fatto usando Lennon, questo rende la cosa ancor più insopportabile.

lunedì 28 settembre 2015

IMMIGRAZIONE ANTICRITICA (in risposta a Giuseppe Pelazza) di Moreno Pasquinelli

 [ 28 settembre ]

Pubblichiamo la replica di Pasquinelli alla recente critica di Giuseppe Pelazza. Il tema è quello, complesso e dirimente al contempo, dell'immigrazione. La risposta di Pasquinelli è molto densa e potrebbe risultare di faticosa lettura. Chi davvero vuole andare alla radice dei problemi e trovare adeguate risposta ci si metta di buzzo buono.

I TRE PIANI DEL DISCORSO

L’amico e compagno di tante battaglie Giuseppe Pelazza ha svolto una dura critica a quanto da me scritto sull’immigrazione (QUI e QUI). Probabilmente gli sfuggi quanto scrissi nell’ottobre 2009, altrimenti mi avrebbe già allora tirato le orecchie. Il suo attacco mi obbliga a precisare, spero meglio di quanto non abbiamo già fatto, il mio pensiero.

Provando a dare un’ordine formale e sostanziale, abbiamo che tre sono i piani del discorso di Giuseppe. Il primo è squisitamente POLITICO, il secondo concerne il  DIRITTO, ed il terzo è di natura FILOSOFICA.

Giuseppe avanza (seguo la linea ascendente dal semplice al complesso) tre proposizioni:
(1) l’immigrazione di massa sarebbe funzionale alla lotta sociale di classe per emanciparci dal capitalismo e dall’imperialismo;
(2) l’accoglienza universale dei migranti —ovvero la consegna erga omnes non solo di regolari permessi di soggiorno bensì della stessa cittadinanza; ciò che implica il rifiuto di ogni possibile limite, come dell’ipotesi che sia necessaria una ragionevole regolamentazione—, sia un atto dovuto se si tiene fede allo Stato di diritto ed ai principi democratici;
(3) che questa accoglienza universale sia un obbligo morale, per essere più precisi un imperativo categorico, per tutti coloro che sulla scala diversi valori etici mettono in cima a tutti quelli della giustizia sociale e della solidarietà umana —che per essere vera deve indirizzarsi anzitutto verso i più deboli e gli oppressi.
Dico subito che ognuno di questi assiomi è sbagliato e non regge ad un’indagine critica, sia d’ordine teorico che fattuale.

ERRATO PARADIGMA

C’è un luogo nel quale è depositato il baricentro politico del ragionamento di Giuseppe, eccolo al punto 4):
«Ritornando, per finire, all’inizio, forse il nodo della questione è proprio lì: se l’immigrazione non è arrestabile se non con una rivoluzione globale, non bisognerebbe, allora, lavorare per inserire l’attuale deportazione nello scavare della vecchia talpa?». [1]
Il ragionamento di Giuseppe è con ogni evidenza insufflato dal paradigma di certa sinistra radicale post-operaista, quello che nessuno meglio di Toni Negri ha saputo esprimere. Lo schema di Negri è semplice: nei luoghi e nei punti dove il capitalismo, nel suo sviluppo, tocca il suo apice, lì si forma necessariamente il soggetto rivoluzionario, lì si danno le forme più avanzate di scontro, a quell’altezza e solo a quella si deve condurre la lotta.  Nella fase fordista il soggetto rivoluzionario era il mitico “operaio-massa”, oggi, dentro la globalizzazione, sono le fantomatiche “moltitudini”. Per cui non lotta contro la globalizzazione ma piuttosto aiutarla a dispiegare tutte le sue potenzialità; non contrasto alla costituzione dell’Impero ma agevolarla, non lotta contro l’Unione europea ma adoprarsi per accelerare la nascita agli Stati Uniti d’Europa. E sull’immigrazione di massa la si deve addirittura invocare, in nome del meticciato e di una società del melting pot.

Se c’è un pizzico di marxismo in questo ragionamento, è quello biasimevole dell’economicismo e del determinismo, per cui i luoghi dove la rivoluzione socialista è più vicina sarebbero quelli in cui più alto è lo sviluppo delle forze produttive del capitale.

Noi veniamo da un’altra scuola, quella che sostiene che NON il massimo sviluppo delle forze produttive del capitale ci avvicina al socialismo, bensì la  crisi del capitale, l’inceppamento del suo meccanismo di sviluppo. Ci emanciperemo dal capitalismo NON grazie al pieno dispiegarsi della globalizzazione ma solo al suo fallimento, e se sapremo approfittare delle sue congenite contraddizioni per arrestare il suo corso.
Sì, noi veniamo da un’altra scuola, quella che afferma che occorre combattere la tendenza, ancor oggi dominante, quella della globalizzazione imperialistica, una cui forma, grazie al piede di porco dell’euro, è quella alla nuova germanizzazione dell’Europa —tendenza che conduce al declino del nostro Paese come provincia e protettorato americano-tedesco, quindi ad uno Stato minimo, uno Stato ridotto ad un simulacro, ad un mero esattore di tasse per rimborsare gli squali della finanza globale, ad un guardiano notturno neoliberista a difesa di un regime politico censuale contraddistinto dall’esclusione delle grandi masse dal gioco politico.

PRIMUM: DE-GLOBALIZZARE

Quando noi parliamo di “rivoluzione globale” non stiamo alludendo ad una miracolosa palingenesi dell’umanità, ad una rivoluzione che magicamente veda sollevarsi tutti i popoli in un colpo solo.
L’avanzata della globalizzazione non è ancora riuscita ad uniformare il mondo, ad omogeneizzarlo facendone un’indistinta paccottiglia inanimata. Esistono diverse civiltà, differenti popoli e nazioni con strutture sociali e culture specifici. Il mondo, per fortuna, è ancora un poliverso, e ciò significa che ogni popolo, ogni nazione, avendo un diverso rango e ruolo nella divisione mondiale del lavoro, nonché storia, tessuti sociali e radici loro propri, procedono in maniera diseguale e spesso asimmetrica. La globalizzazione imperialistica è alle corde, ma lo “sganciamento” dei diversi paesi proseguirà ad un ritmo diseguale. Che un giorno questo processo di sganciamento necessariamente diseguale possa combinarsi, confluendo verso la medesima direzione, questo è il nostro auspicio ed il compito dei rivoluzionari di ogni Paese.

C’è dunque una tendenza oggettiva e operante alla “de-globalizzazione”. Essa non seguirà però una direzione predeterminata, non obbedisce ad alcuna legge di natura. L’esito è dunque incerto, ciò che sicuro è che le forze rivoluzionarie debbono combattere e vincere ognuna in casa propria. Noi viviamo qui in Italia, ed è qui che ci giochiamo la partita della trasformazione sociale, il cui primo stadio è, appunto, permettere al nostro Paese di spezzare le catene della globalizzazione imperialistica (di cui l’Unione europea è baluardo), poiché nessuna profonda trasformazione sociale è possibile altrimenti.

La globalizzazione imperialistica sarà ricordata un giorno come una parentesi, una fase storica. Come l’alta marea essa è destinata a rifluire e con ciò ritornerà alla luce il paesaggio che temporaneamente aveva ricoperto col suo flusso, dai flutti riemergendo i corpi solidi e ancora vivi delle civiltà, delle nazioni, dei popoli con le loro radici antiche.
Per chi voglia davvero cambiare il mondo questo sarà il terreno in cui dovrà misurarsi. Saranno della partita solo quelle forze che, messesi in sintonia con il flusso della storia, senza affatto seguirlo in maniera codista, sapranno indirizzarlo e, per indirizzarlo avranno avuto la capacità di metter visi alla testa.

QUALE TALPA STA SCAVANDO?

Perché mai l’immigrazione di massa aiuterebbe la “vecchia talpa! [la rivoluzione, Ndr] a scavare la fossa al capitalismo globale? Giuseppe non lo spiega, finisce anzi lì la sua critica, dove invece dovrebbe cominciarla.
Noi abbiamo la certezza contraria, che l’immigrazione di massa, lungi dall’aiutare la “vecchia talpa” nel suo scavare, gli complichi, ed in modo letale, il suo già difficile lavoro.

Se si afferma una tesi occorre, con tutto il rispetto per il finalismo della  speranza ed i condivisibili sentimenti di solidarietà, che porti fatti ed evidenze empiriche in suo soccorso. Anche solo prendendo in considerazione i paesi Occidentali col più alto numero di immigrati ed il loro tasso sulla popolazione complessiva [2] è difficile trovare traccia che la “vecchia talpa” in quei luoghi abbia scavato meglio e più che altrove. L’evidenza empirica mostra anzi il contrario, che se c’è una talpa che anche grazie all’immigrazione di massa scava alacremente ed ha già aperto delle vere e proprie voragini, questa è quella dei movimenti di massa xenofobi, islamofobi, se non apertamente neo-fascisti.

Occorre combattere e stroncare questi movimenti? Certo che sì! Ma un modo già collaudato per aiutarli a crescere è la posizione autolesionistica dell’ “accogliamoli tutti”. E poi, un conto è contrastare i sentimenti xenofobi che si annidano tra la nostra gente, un altro è combattere le formazioni politiche neofasciste. Fare confusione tra questi due livelli della battaglia è un errore con conseguenze tremende.

Invece di lanciare anatemi certi compagni dovrebbero chiedersi, e dunque darsi una risposta: c’è o no una correlazione tra l’attuale immigrazione di massa e la crescita della reazione xenofoba? Se sì da cosa questa dipende? Dipende secondo noi dal fatto che è diventato senso comune che questa immigrazione non è sostenibile, e non a caso questa consapevolezza si è fatta strada anzitutto tra la nostra gente, tra gli strati sociali massacrati dalla crisi e che toccano con mano questa insostenbilità

E’ un dato solo italiano? No, la crescita della xenofobia tra i proletari e la piccola borghesia falcidiata dalla crisi economica e pauperizzata, è un dato omogeneo, una costante nei diversi paesi, ciò che esprime una tendenza, cupa e minacciosa, ma una tendenza oggettiva. Per contrastarla occorre compiere secondo noi una mossa iniziale: separarsi dall’élite globalista dominante, dai suoi pennivendoli, dai suoi intellettuali, smascherando come demagogica e retorica la loro narrazione sulla bontà dell’accoglienza universale, sui diritti umani, la solidarietà, ecc.

IL CONCETTO DI “SOSTENIBILITÀ”

Delle due l’una: o questo senso comune  (che l’accoglienza universale e generalizzata è frutto di una “percezione distorta” —come le élite sostengono ricorrendo a spiegazioni antropologiche che rasentano il razzismo sullo stato di minorità culturale di chi sta in basso) oppure questa “percezione” rispecchia il fatto reale dell’insostenibilità —ed allora non va combattuta, ma rappresentata in forme antifasciste e democratiche.

Il concetto di sostenibilità non è né innocente né neutrale. L’aristocrazia finanziaria dominante ha una sua idea di “sostenibilità”. Per essa (al netto di tutto il ciarpame moralista sparato a cannonate dagli intellettuali al suo servizio) l’immigrazione di massa è sostenibile, quindi auspicabile, se si risolve in un vantaggio per essa, se concorre a rafforzare il suo sistema.

Questo vantaggio consiste in cinque fattori principali:
(a) contribuisce a frantumare l’identità storica e spirituale dei popoli; (b) concorre alla dissoluzione degli stati-nazione —gli spazi giuridici del demos così come si è venuto storicamante costituendo nella soria moderna; (c) agevola gli assalti neoliberisti dell’aristocrazia finanziaria globale volti a demolire le conquiste salariali, sociali e civili delle classi subalterne; (d) approfondisce la consunzione di quanto resta in piedi del movimento operaio organizzato; (e) innesca e fomenta la cosiddetta “guerra tra poveri”, alimentando xenofobia, razzismo e sciovinismo.
A rovescio: ciò che è “sostenibile” e auspicabile per i dominanti, è quasi sempre non-sostenibile e deprecabile per le classi proletarie come per gli altri ceti subalterni.

“Sostenibile” dovremmo considerare un’immigrazione che:
(a) NON susciti il conflitto tra chi sta in basso; (b) NON aiuti il sistema a sfasciare ciò che resta del movimento operaio organizzato; (c) NON sia fattore di smantellamento delle conquiste sociali e democratiche; (d) NON contribuisca a demolire lo spazio giuridico dello stato-nazione; (e) NON produca lo sfaldamento dell’identità storica e spirituale del popolo.
Sostenibile implica dunque, come minimo, che un dato fenomeno sociale, invece di essere affidato al caso (il che vuol dire sottoposto alle esigenze del capitale globale) venga regolato, anzi pianificato.

I nostri critici a questo punto opporranno due domande.
- In base a quali criteri pianificare i flussi migratori?
- Diamo forse a questo Stato che consideriamo un nemico, il diritto di regolare i flussi migratori?

Risposta alla prima domanda: in base alle esigenze della comunità che questi migranti deve ospitare, alla capacità effettiva del sistema sociale ospitante di assorbirli quindi: (1) senza gettarli nell’esclusione come dei paria sociali e, (2) senza che ciò avvenga a spese dei proletari che già abitano entro i confini della nazione. Se proviamo a gettare lo sguardo oltre la cortina fumogena delle vicende presenti, sulla base delle proiezioni statistiche sugli ingenti flussi attesi, sappiamo che dato il contesto economico di una stagnazione di lungo periodo, ed anche date le crepe congenite al nostro sistema di welfare, il nostro Paese non è in grado di assorbire i flussi attesi.

AUCTORITAS ET LEX

Risposta alla seconda domanda: sì, è allo Stato che si deve affidare il diritto-dovere di regolare questi flussi.

Gli ultra-sinistri, più anarchici che marxisti, faranno un sobbalzo: “noi a questo Stato non riconosciamo alcuna legittimità, tantomeno gli chiediamo di decidere chi abbia diritto ad entrare e risiedere entro i suoi confini!”.
Ma scusate, nostri cari ultra-sinistri, non chiedete anche voi di erogare pensioni dignitose? Non gli chiedete forse di conservare la sanità gratuita e universale o d’investire per una migliore scuola pubblica? Non vi spingete ad esigere dallo Stato un reddito garantito per tutti? E di fornire un alloggio a chi non se lo può permettere? Non gli chiedete anche voi l’autorizzazione ad un corteo o il rispetto della Costituzione e dei diritti democratici da questa sanciti? Non vi battete anche voi, fuori e dentro le aule dei tribunali, affinché gli organi dello Stato applichino e rispettino le leggi (dello Stato non le vostre)? Non chiedete forse proprio a questo Stato, tanto per restare in tema, di concedere il diritto di asilo?
A chi altrimenti spetterebbe questo dovere? Alla troika? Alle Nazioni unite? Alla Merkel? Al Papa? All’Essere Supremo?

Forse che così facendo non riconoscete allo Stato la sua auctoritas? Certo che sì, certo che gliela riconoscete. La questione non è riconoscere  o, come è proprio di certi anarchici, non-riconoscere questa auctoritas, la questione è il cosa chiediamo che faccia o non faccia.
Non riconosciamo forse noi tutti questa auctoritas allo Stato quando gli chiediamo di attenersi alla Costituzione, per cui lo Stato ha il dovere di far rispettare ed anzi di promuovere i diritti sociali e civili? Non riconosciamo forse noi tutti ai diversi organismi che fanno capo allo Stato il potere di consegnare o non consegnare una patente di guida, una licenza edilizia o commerciale, di perseguire, giudicare e punire chi si macchi di crimini sociali?  Forse che abbiamo mai protestato quando la Giustizia punisce i criminali colpevoli di stupro, o di aver ammazzato ingiustamente dei  cittadini? Abbiamo forse mai protestato perche sono stati condannati i dirigenti di TyssenKrupp per la strage sul lavoro nello stabilimento di Torino? O i Riva per avere inquinato la città di Taranto facendo ammalare tanti suoi cittadini di tumore? O i dirigenti della Eternit di Casale Monferrato? Certo che non abbiamo protestato, i cittadini lo hanno anzi fatto quanto lo Stato li ha assolti o ha lasciato cadere in prescrizione i reati loro ascritti. 

Noi non solo riconosciamo allo Stato certi suoi poteri, gli chiediamo il più delle volte che li eserciti a favore del popolo lavoratore, mentre spesso, violando la legge, e per assecondare i privilegi e gli interessi dei potenti, si rifiuta di farlo. Come a questo Stato si può e si deve chiedere che eserciti sul nostro territorio la sua sovranità, ad esempio chiudendo le basi militari americane o uscendo dalla NATO e dalla Ue, così chiediamo che rispetti la Carta costituzionale difendendo i beni pubblici e ponendo fine alla loro svendita, così possiamo e dobbiamo chiedere che si ponga  fine al far west dell’immigrazione sregolata, adoprandosi per pianificare i flussi, e quindi anche respingendo, certo nel rispetto dei loro diritti umani, coloro ai quali il diritto di risiedere con dignità non può essere accordato.

Se solo certi compagni provassero a smettere di lievitare nel vuoto pneumatico del moralismo buonista converrebbero che nel senso comune popolare c’è del “buon senso”, ovvero che per essere “sostenibili” i flussi migratori dovrebbero essere controllati, pilotati, programmati. E’ quantomeno singolare che certa sinistra che condanna l’anarchia capitalistica, che contesta il principio della concorrenza mercantile, che condanna la deregulation neoliberista, si opponga al criterio che l’immigrazione, come ogni altro fenomeno sociale, debba essere regolato, anzi pianificato, e non lasciato alla giungla della globalizzazione, quindi sotto un altro controllo, quello delle oscure forze del capitalismo globale.

Che lo Stato, anzitutto lo Stato costituzionale di diritto non sia solo una “banda armata a difesa della classe dominante” ma un organismo ben più complesso e proteiforme, abbiamo tentato di spiegarlo (QUI e QUI).

Con ciò siamo giunti al secondo piano del discorso.

IMMIGRAZIONE E STATO DI DIRITTO

L’idea che per essere coerenti con lo Stato di diritto ed il principio della solidarietà umana occorra “accogliere tutti” è figlia di una specifica concezione giuspositivistica del diritto (in Italia difesa dalla scuola Bobbio-Ferrajoli).

Questa concezione, pur discendendo dall’ideale kantiano di un ordine mondiale cosmopolitico pacificato e armonioso, è diventato il Cavallo di Troia con il quale l’ideologia globalista e neoliberista ha sfondato a sinistra. Alla base di questa concezione un preteso giudizio di fatto ed uno di valore: che lo Stato-nazione sia necessariamente destinato, per consunzione naturale, a miglior vita; che questa consunzione sia un fatto progressivo di per sé. Di qui l’idea che la globalizzazione, per quanto sia oggi pilotata da forze neoloberiste non debba essere contrastata, che essa sia una provvidenziale anticamera al “regno della grazia”, ad un mondo giusto e buono. Di qui discende infine la posizione che il sovraordinamento delle costituzioni nazionali da parte di un fantomatico “diritto internazionale” sia giusto, anche ove esso, come in effetti accade, sia la sovrapposizione di uno spazio giuridico imperiale a quelli nazionali. Manco a dirlo questa concezione sta alla base dell’utopismo spinelliano e delle farneticazioni del fondamentalismo europeista. [3]

Di passata: se a sinistra si è andata consolidando l’idea che ci sia una specie di equipollenza tra la concezione cosmopolitica di origine kantiana e la visione internazionalistica, è certo a causa della profonda falla teorica in seno al corpus teorico marxista, e ci riferiamo proprio alla teoria dello Stato e del Diritto. Ciò deve spingerci ad averne finalmente una, non a sdraiarci e ad abbracciare quelle dell’avversario. Chiamiamo cosmo-internazionalistico questo miscuglio tra cosmopolitismo kantiano e internazionalismo di matrice marxista.

La validità di un postulato giuspolitico dipende dalla sua attuabilità. Malgrado il suo preteso realismo, la concezione mondialista di cui stiamo parlando, sia nella sua versione cosmopolitica che in quella cosmo-internazionalistica, non ha alcuna validità epistemica, è al massimo la codificazione teorica di un pio desiderio, un wishful thinking.

Lo spazio giuridico imperiale a guida U.S.A. che si è venuto costituendo dopo la seconda guerra mondiale e consolidatosi dopo la catastrofe del 1989 non amplia la democrazia, bensì la mutila; non alimenta la forza normativa del diritto, la depotenzia; non estende la platea dei titolari di diritti, la restringe; non assicura la garanzia giuridica dell’esigibilità di un diritto ma le rende evanescente; non emancipa i cittadini dai vincoli di obbedienza al potere, li accentua;  non conduce al rinvigorimento dei vincoli sociali, li annienta; non consolida il comando del politico sull’economico, lo rovescia nel suo opposto; non aiuta i popoli ad autodeterminarsi ma al contrario, togliendoli da sotto i piedi il terreno stesso della nazione, li disarma.

La democrazia implica il diritto statuale, quindi lo Stato-nazione, quest’ultimo a sua volta che sovrano è il popolo. Se metti l’impero al posto delle nazioni sovrane non avrai una elegiaca scomparsa dello Stato ma il Moloch di super-Stato senza democrazia. Nessun impero, per sua natura, può essere democratico, per il fatto che esso si può costituire soltanto sulle ceneri dei demos, dove per demos intendiamo appunto gli spazi giuridici degli Stati-nazione, —gli spazi entro cui il popolo, riconoscendosi come comunità, può esercitare la sua sovranità; i soli spazi entro cui i diritti di cittadinanza possono essere effettivamente esigibili.

Giuseppe è basito dalla mia affermazione che uno Stato sovrano (sovranità che può appunto dispiegarsi solo in un determinato uno spazio giuridico nazionale) possa e debba stabilire “il primato dei diritti di cittadinanza su quelli genericamente umani” e si chiede:
«Ma poi, che vuol dire “primato del diritto di cittadinanza? Che si hanno più punti per la graduatoria della casa popolare? Che solo il cittadino può accedere a certi lavori o a certi istituti scolastici?».
Col che siamo appunto alla tripartizione dei diritti che fu posta da Thomas Marshall e quindi alle critiche di Bobbio e Ferrajoli tra gli altri. Non abbiamo qui lo spazio per addentrarci nella questione.  E’ evidente che gli immigrati a cui sia stato dato il permesso di soggiornare (oltre a poter ottenere, ove lo chiedano, lo status giuridico della cittadinanza) debbano poter godere di diritti sociali, civili e politici al pari degli cittadini italiani.

Tuttavia una differenza deve pur essere posta tra cittadini e non cittadini residenti. Sarà d’accordo con noi, Giuseppe, che ad un diritto deve corrispondere un dovere. I non-cittadini non sono sottoposti ai medesimi obblighi dei cittadini. Tanto per fare due esempi un cittadino deve accettare le funzioni del giudice laico (di giurato o giudice in Corte d’assise); oppure concorrere alla difesa dello Stato con il servizio militare. La chiamata alle armi in caso di conflitto, contrariamente a quanto si ritiene, non è stata affatto abolita. Le leggi recentemente approvate solo sospendono la leva obbligatoria, e non cancellano la forza giuridica dell'Art. 52 della Costituzione —che sovraordina ogni successiva legislazione e così recita: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino. Il servizio militare è obbligatorio nei limiti e modi stabiliti dalla legge».[4] 

Suona tanto politicamente scorretto che ad una disparità sul piano degli obblighi corrisponda una differenza in fatto di esigibilità dei diritti? Un esempio estremo: in caso (Dio non voglia) di guerra con la Romania il giovane rumeno residente in Italia con regolare permesso di soggiorno sarebbe obbligato —pena, in base alla legge marziale, condannato a molti anni di prigione e, in casi gravi, alla fucilazione; ciò che varrebbe anche per i cittadini italiani— ad arruolarsi con l'esercito dello Stato di cui è cittadino e quindi a combattere contro il nostro Paese e forse inviato da noi a compiere atti di sabotaggio oltre le linee. Ergo la domanda: può uno Stato qualsivoglia (fatte salve le disposizioni della Convenzione di Ginevra) permettersi di assicurare ad un combattente di un Paese ostile gli stessi diritti? Ovvio che no.

Ma non meniamo il can per l’aia, che il punto è questo: proprio affinché i migranti possano godere degli stessi diritti sociali e civili dei residenti, occorre respingere l’immigrazione massiva e regolare i flussi; occorre cioè consegnare il permesso di soggiorno in base alla capacità effettiva dello Stato di rendere questi diritti esigibili.
Chi si oppone a questa regolazione, con tutto il rispetto per la di essi beata e spesso ipocrita moralità, finisce per sostenere un sistema di apartheid sociale di cui proprio gli immigrati irregolari saranno le prime vittime, andando ad ammucchiarsi nelle nostre degradate periferie metropolitane, divenendo gioco-forza un fattore di degrado della vita sociale e di decomposizione del demos, terreno su cui poi lo Stato di diritto legittima la sua metamorfosi in Stato penale o di polizia. Altro che la “vecchia talpa!”. Non è certo consegnando permessi di soggiorno a gogò che gli immigrati avranno lavoro, casa, cure sanitarie, diritto all’istruzione, rispetto. Così essi saranno lasciati, come vittime, in balia della giungla sociale neoliberista.
Quindi, come minimo, prima di fare entrare altre centinaia di migliaia di migranti, che si facciano uscire, quelli che già risiedono (italiani e non), dal recinto dell’esclusione sociale e della clandestinità.

Qualcosa dovrebbe pur dire il totale fallimento dei modelli di “integrazione” adottati nei diversi Paesi in cui i dominanti hanno consentito l’immigrazione di massa, di quelli yankee-wasp, di quello inglese, di quello francese ad esempio. Qualcosa dovrebbero insegnare le pur leggittime rivolte sociali di Los Angeles, delle banlieues francesi o, per venire a noi, quella di Rosarno!

Quindi, come minimo, prima di vagheggiare dell’estensione dei diritti che spetterebbero a coloro che vogliono emigrare, che quindi ancora non sono qui, li si assicurino a quelli che qui già vivono e penano come paria e non li hanno —e tra essi ci sono anzitutto milioni di italiani che si sentono abbandonati e ignorati dalle autorità pubbliche. Ha forse natura razzista questa richiesta degli strati sociali emarginati questa richiesta che lo Stato li protegga dall’esclusione e dall’indigenza? No che non lo è! Questa richiesta esprime anzi non solo una giusta esigenza (che lo Stato si prenda cura dei suoi cittadini), ha un valore politico perché contesta la tendenza globalista a smantellare gli stati e i loro sistemi di welfare. Ma lo diventa se, con la puzza sotto il naso tipica di certi borghesucci “per bene” che vivono nei loro quartieri puliti dove il degrado non ammorba, anche noi che ci diciamo rivoluzionari lasciassimo soli questi proletari e “compatrioti” marcire nei loro quartieri-ghetto, in balia delle scorribande e della penetrazione dei rottami neofascisti e consimili—ci darete ora l’ostracismo perché ripeschiamo questo sostantivo “nazionalista”?

Non quindi il razzista e fascitoide “prima gli italiani!”, bensì:
“I diritti dei cittadini e dei residenti, anzitutto dei proletari, coloro verso i quali lo Stato, con vincolo costituzionale, ha già contratto l’obbligo di consegnarglieli e rispettarli, prevalgono su quelli attesi di chi non c’è ancora”.
FALLACE FISOLOFIA MORALE

Siamo quindi giunti alla fine, al terzo piano del discorso di Giuseppe Pelazza, quello filosofico.
Francamente non abbiamo molto da aggiungere a quanto da noi già scritto.

Non capiremmo nulla della posizione politica dello “accogliamoli tutti” se la privassimo del suo peculiare fondamento filosofico —per cui non solo sarebbe un obbligo concedere il diritto d’asilo ai perseguitati politici ed ai profughi di guerra, ma a tutti coloro che “fuggono dalla fame”, quali che siano conseguenze e risultati. [5]

Si tratta del combinato disposto di cristianesimo e kantismo. Beninteso, noi apprezziamo sia l’egualitarismo solidaristico di matrice cristiana che il discorso democratico kantiano, che del primo era una razionalizzazione liberale sul piano filosofico-politico. Ne contestiamo l’utopismo.

Chi abbia dimestichezza col dibattito teorico dovrebbe tuttavia sapere in che modo Marx, come del resto gran parte del pensiero politico moderno, sulla scia di Hegel, abbiano smontato il moralismo umanitaristico kantiano.

Kant postulava che la razionalità della buona volontà potesse essere la base oggettiva per una società armoniosa e senza conflitti, una società simile esige che i cittadini mettano al primo posto il dovere ed il rispetto di quello che chiamò “imperativo categorico”:
«Agisci in modo da trattare l'umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo. (…) L’imperativo categorico è [...] uno solo, ed è questo: Agisci unicamente secondo quella massima, in forza della quale tu puoi volere nello stesso tempo che essa divenga una legge universale». [6]
Non rubare, non uccidere, ama il prossimo tuo come te stesso…. Kant non fece che fornire una base non eteronoma (cioè non fondata su prescrizioni divine) a quanto stava già scritto nelle tavole di Mosè.
Detto che la filosofia morale kantiana è oggigiorno la base dell’ideologia cosmopolitica e globalista delle classi dominanti, salta agli occhi ’astrattezza metafisica di questo discorso.

In una società basata sulla diseguaglianza di classe e sulla violenza che gli oppressori esercitano sugli oppressi, non è forse giusto e legittimo che un povero rubi ad un ricco? O che la vittima di un sopruso reagisca a chi lo compie? O che chi è minacciato di morte si difenda fino ad uccidere il suo aggressore? Certo che è legittimo e giusto. Ma se tali atti sono giusti va a farsi friggere l’idea che esista una morale universalmente valida. C’è una morale loro, degli oppressori, e una morale degli oppressi. Morali che non possono convolare a nozze.

CONCLUSIONI

Che c’entra tutto questo con l’immigrazione? C’entra e come!

Se “noi” occidentali (notare come qui compare un NOI,  come se stessimo sulla stessa barca di chi comanda) fossimo tenuti, mossi da un cristiano senso di colpa, all’obbligo morale di tirar fuori le moltitudini del Sud del mondo dall’estrema indigenza non dovremmo solo accettare i migranti in arrivo —che, detto di passata, non sono affatto i più diseredati, che quelli sono coloro che non hanno le risorse per pagarsi l’esodo.
Perché lasciare che si consegnino nelle mani dei “mercanti di morte”? Dovremmo far si che centinaia di milioni di reietti che non hanno un soldo vengano presi in consegna dai luoghi dove risiedono, sostenendone dunque le spese di viaggio, nonché l’ospitalità da “noi” sine die. Oppure, volendo evitare l’esodo, potremmo, “noi” cittadini occidentali, auto-infliggerci una tassa di solidarietà universale per assistere i diseredati del Sud del mondo? Chissà quanti se ne sfamerebbero.

Perché accettare quei profughi siriani che già sono accolti come tali in Turchia, o in Libano, o in Giordania? La cosiddetta “comunità internazionale” non dovrebbe assisterli in modo degno dove hanno già trovato rifugio? E dei tantissimi che restano nell’inferno siriano e che crepano sotto le bombe di Assad o sotto quelle dell’ISIS che ne facciamo? Sono forse figli di un Dio minore? Abbiamo così che accogliere chi ha i mezzi per venire in Europa finisce per diventare un atto ingiusto e discriminatorio verso coloro che quei mezzi non li hanno. [7]

E poi, se questa emigrazione è auspicabile, perché i paladini dell’accoglienza universale parlano anche loro di “tratta degli schiavi” o di “mercanti di morte”? Dovrebbero invece chiedere che sia data a questi mercanti, in quanto consentono a tanti esseri umani di spostarsi dall’inferno al paradiso, una medaglia al valore civile.

Il pietistico combinato disposto di cristianesimo e kantismo, come si vede, non porta da nessuna parte, se non all’assurdo teorico e, se fatto proprio dai rivoluziunari e dai demicratici, al suicidio politico.

Giuseppe Pelazza sembra infine scandalizzato dalla mia affermazione che chi fugge da un Paese desertificato dalla globalizzazione o dalla guerra è considerabile un “ignavo” o un “disertore”. Che l’emigrazione costituisca  un gravissimo vulnus per  paesi di provenienza —quindi funzionale alle potenze neocolonialistiche predatrici—, su questo non c’è discussione possibile.
Che siano “disertori” coloro che scappano dalle guerre che insanguinano i loro paesi, lo si chieda ai palestinesi dei campi profughi, agli abitanti della Cisgiordania o di Gaza. L’emigrazione di massa dei palestinesi in un altrove lontano è proprio il disegno strategico recondito dei sionisti.
O lo si chieda ai diversi fronti che si combattono in Siria. Quel che pensino i combattenti dell’ISIS è noto: peccato grave, anzi gravissimo. Ma lo si chieda pure alla minoranza alawita che combatte strenuamente per tenere in piedi il regine di Assad. Non c’è famiglia alawita che non abbia già perso uno, se non due giovani in questa guerra fratricida. Un contribuito di sangue altissimo. Andate a chiedergli cosa penserebbero se loro compatrioti cercassero di darsela,a gambe per fuggire in Occidente a cercare la "bella vita" e immaginatevi la risposta.

Giuseppe conclude la sua critica con un autgol, tirando in ballo Frantz Fanon, grande antimperialista, eroe della guerra algerina di liberazione contro il colonialismo francese. Sarà bene dire, per restare in tema, che il Fronte nazionale di liberazione algerino, di cui Fanon era uno dei portavoce, nelle zone liberate, non ammetteva alcuna defezione migratoria , tanto meno in Francia (dove semmai si inviavano militanti a combattere), ed imponeva l’obbligo di arruolarsi nella resistenza, pena la morte e l'ostracismo eterno. Come psichiatra, oltre che come militante rivoluzionario, la condanna di Fanon dell’emigrazione Sud-Nord era ancora più radicale, estrema, ontologica. 
«In “Pelle nera e maschere bianche” Fanon affronta il tema delle psicopatologie degli africani immigrati in Francia; nota come il corpo diventa spesso il luogo dell’aggressione della mente. Riprende la “Fenomenologia della percezione “ di Merleau-Ponty sul “corpo vissuto” e il “corpo percepito”; c’è il “corpo vissuto” dal migrante che rispecchia il “corpo percepito” dalla società francese. Quello che rimanda la società francese all’immigrato africano è la “bruttezza” del proprio corpo”, la sua immagine negativa. Questo meccanismo mentale frutto della situazione sociale e relazionale che vive il migrante provoca in lui un enorme complesso d’inferiorità che annulla la sua capacità di decidere e soprattutto di essere se stesso. Fanon analizza molto i processi di mimetizzazione cioè i tentativi che fa il migrante di essere come il francese». [8]
E qui mi fermo, poiché sono stato prolisso oltremodo.

NOTE

[1] Notare la contraddizione: al punto 1) Giuseppe bolla come “un abbandono della lotta per il sovvertimento dello stato di cose presenti” —in quanto sospetta sposterebbe in un futuro indeterminato questo sovvertimento— la tesi che per porre fine alla deportazione in massa dei migranti occorra una “rivoluzione globale”, mentre qui, al punto 4) egli conviene con la tesi stessa, facendo tuttavia intendere che l’emigrazione di massa in Occidente sarebbe utile, funzionale, anzi necessaria al sovvertimento globale del sistema.

[2] Canada: 7,3 milioni di immigrati, per una percentuale sulla popolazione complessiva del 20,7%;
Stati Uniti: 45,8 milioni, 14,3%, Regno Unito: 7,8 milioni, 12,4%, Germania: 9,8 milioni, 11,9%
Francia: 7,4 milioni, 11,6%. (Dati: Nazioni Unite)

[3] Una delle radici di questo pensiero cosmopolitico è la credenza fasulla che le due guerre mondiali vennero causate dagli stati-nazione. Invece, non gli stati-nazione produssero le due carneficine, furono invece le spinte imperialistiche, neo-colonialistiche e fasciste degli stati capitalistici più avanzati. La rimozione della categoria di imperialismo è infatti una delle caratteristiche dei paladini di sinistra della globalizzazione, che altro non è se non la forma ideologiche più recente dell’imperialismo stesso.
  
[4]  «Le Forze Armate italiane sono strutturate per un impiego asimmetrico oppure in concerto con gli altri paesi membri della NATO. Esse non sono affatto sufficienti ad affrontare una guerra simmetrica a largo spettro, con l'impiego di armi strategiche e contrapposizione di truppe su vasti territori.
Proprio per questo motivo la leva obbligatoria è stata solamente sospesa e non abolita, può essere ripristinata in caso di guerra o grave crisi internazionale così come previsto dall'articolo 1929 del D.lgs. 66/2010 alias "Codice dell'ordinamento Militare":

Art. 1929 (Sospensione del servizio obbligatorio di leva e ipotesi di ripristino):
"1. Le chiamate per lo svolgimento del servizio obbligatorio di leva sono sospese a decorrere dal 1° gennaio 2005.
2. Il servizio di leva e' ripristinato con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, se il personale volontario in servizio e' insufficiente e non e' possibile colmare le vacanze di organico, in funzione delle predisposizioni di mobilitazione, mediante il richiamo in servizio di personale militare volontario cessato dal servizio da non piu' di cinque anni, nei seguenti casi:
a) se e' deliberato lo stato di guerra ai sensi dell'articolo 78 della Costituzione;
b) se una grave crisi internazionale nella quale l'Italia e' coinvolta direttamente o in ragione della sua appartenenza ad una organizzazione internazionale giustifica un aumento della consistenza numerica delle Forze armate.
3. Nei casi di cui al comma 2, al fine di colmare le vacanze di organico, non possono essere richiamati in servizio gli appartenenti alle Forze di polizia ad ordinamento civile ed al Corpo nazionale dei vigili del fuoco."

La difesa della Patria è, e rimane, un obbligo costituzionale di ogni cittadino... a tal scopo sono soggetti a mobilitazione tutti gli individui di sesso maschile dai 17 anni (ovvero dall'inclusione nelle liste di leva) sino ai 45 anni d'età (ovvero sino al 31 dicembre dell'anno del raggiungimento dell'età), così come disposto dall'art.1950 D.Lgs.66/2010.

Alla chiamata sono interessati tutti i cittadini italiani, compresi gli apolidi che hanno eletto residenza in Italia e chi "obiettori di coscienza" (per compiti secondari) e ovviamente anche chi ha optato per il servizio civile.

Gli "obiettori di coscienza" sono tenuti alla difesa, seppur privi di armi.

Il servizio obbligatorio potrebbe essere ripristinato, non solo in caso di guerra, ma anche per colmare le carenze organiche delle Forze Armate in caso di non sufficiente reclutamento volontario.

Attualmente nessuna legge prevede il servizio militare obbligatorio per le donne nemmeno in caso di guerra....il personale militare femminile in servizio, invece, é tenuto a esercitare i compiti di difesa sanciti con il giuramento alla Repubblica Italiana.
Sottolineo, inoltre, che il congedo a domanda é subordinato all'accettazione da parte del Ministero della Difesa che, ovviamente, respingerebbe già all'approssimarsi di una crisi (come la chiusura preventiva delle frontiere).

L'intero Libro Ottavo del D.Lgs 66/2010 succitato, ovvero quello relativo al ripristino del servizio militare obbligatorio in caso di guerra o grave crisi internazionale, impone che i comuni siano tenuti all'aggiornamento delle liste di leva a cadenza annuale (in base agli artt.14 e 54 del D.Lgs 267/2000), interessando solo i giovani di sesso maschile che nell'anno compiono 17 anni».

[5] Sulle reali cause delle migrazioni di massa dal Sud del mondo vale quanto precisato da Piemme:
«Occorre quindi correggere un errore pacchiano nel ragionamento degli “integralisti dell’accoglienza”. Il primo fattore che causa l’emigrazione di massa Sud-Nord, Est-Ovest, e Sud-Sud, non consiste affatto nelle guerre imperialistiche o fratricide (come quella che coinvolge il mondo islamico), e nemmeno nel carattere tirannico di certi regimi politici.
La prima causa è la globalizzazione, il libero-scambismo dispiegato, le politiche neoliberiste adottate a scala mondiale, non solo dalle classi dominanti dei paesi "avanzati" ma pure dai regimi fantoccio dei paesi "arretrati". La globalizzazione, la supremazia della sfera finanziario-predatoria —questo si che è un fenomeno epocale— non ha prodotto profondi sconvolgimenti nelle strutture sociali dei paesi imperialistici, ha prodotto mutamenti ancor più devastanti nei paesi che venivano definiti "in via di sviluppo" o del "terzo mondo", una delle conseguenze è appunto l'emigrazione di massa.Cosa è cambiato con la globalizzazione nei paesi del Su del mondo?In estrema sintesi: (1) gli stati nazionali sono stati progressivamente disarticolati, fino addirittura ad essere smembrati, ombre di ciò che essi furono. Tranne rarissime eccezioni le corrotte classi dominanti autoctone, convertitesi al neoliberismo, hanno smantellato le già deboli barriere difensive statuali, lasciando che i capitali stranieri potessero compiere le loro scorribande, ovvero la loro politica di rapina; (2) la penetrazione massiccia di capitali e investimenti stranieri ha causato la distruzione del tessuto economico e sociale tradizionale di questi paesi il quale, per quanto capitalisticamente arretrato, consentiva alle comunità, anzitutto quelle rurali, la possibilità di sopravvivere. La ricchezza prodotta era modesta, ma il grosso non veniva accaparrato da un'esigua minoranza.  (3) Non occorre tuttavia pensare che la globalizzazione abbia accentuato il "sottosviluppo" capitalistico. Al contrario! la gran parte dei paesi del Sud del mondo (Africa compresa) conoscono da un quindicennio tassi di sviluppo economico, in alcuni casi notevoli se paragonati alla stagnazione dei paesi del Nord. Per cui, se con il "sottosviluppo" si mangiava poco ma si mangiava tutti, con lo "sviluppo" ci sono ceti e classi che sono alla fame, mentre altri, gli strati compradores che sono gli intermediari della rapina delle multinazionali, raggiungono livelli di vita quasi occidentali.Non è affatto una "trovata", quindi, affermare che per bloccare l'emigrazione di massa il primo passo è porre fine alla globalizzazione. La soluzione è la de-globalizzazione, a Nord come a Sud, ad est come ad Ovest».
[6] Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, Laterza 2012, Ottava edizione

[7]  Sulla catastrofica guerra civile in Siria e la tragedia dei rifugiati ecco qual'è la situazione:
«I rifugiati che hanno lasciato la Siria sono oltre quattro milioni. Il 95 per cento di essi si trova in soli cinque paesi: Libano (1.200.000, un quinto della popolazione totale del paese), Giordania (650.000, un decimo della popolazione totale del paese), Turchia (1.900.000), Egitto (132.375) e Iraq (249.463 - in questo paese negli ultimi 18 mesi si sono registrati oltre tre milioni di sfollati). L'appello umanitario per i rifugiati siriani, lanciato dalle Nazioni Unite, risulta finanziato solo per il 40 per cento. Di conseguenza, i rifugiati in Libano ricevono meno di mezzo dollaro al giorno e l'80 per cento dei rifugiati in Giordania vive sotto la soglia della povertà.
Il conflitto in Siria ha causato la morte di 220.000 persone e ha reso 12.800.000 persone fortemente dipendenti dall'assistenza umanitaria.
Oltre il 50 per cento della popolazione siriana è ormai sfollata.
Dall'inizio della crisi siriana, il mondo ha messo a disposizione dei rifugiati siriani 104.410 posti per il reinsediamento, ossia solo il 2,6 per cento del totale dei rifugiati siriani presenti in Libano, Giordania, Turchia, Egitto e Iraq.
Secondo l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, 400.000 persone attualmente rifugiate presenti in Libano, Giordania, Turchia, Egitto e Iraq devono essere reinsediate.
I paesi del Golfo (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar ecc.) e altri paesi ricchi che ne avrebbero le possibilità (Corea del Sud, Giappone, Russia, Singapore ecc. hanno messo a disposizione zero posti per il reinsediamento.
La Germania si è impegnata a mettere a disposizione 35.000 posti per il reinsediamento, il 75 per cento di quelli su cui si è impegnata l'intera Unione europea. Gli altri 26 paesi dell'Unione europea hanno messo a disposizione 8700 posti, l'equivalente dello 0,02 per cento dei rifugiati siriani presenti in Libano, Giordania, Turchia, Egitto e Iraq.
Germania e Svezia, da sole, hanno ricevuto il 47 per cento delle richieste di asilo presentate dai rifugiati siriani nei paesi dell'Unione europea da aprile 2011 a luglio 2015».
[Dal rapporto di Amnesty International del 7 settembre 2015]
  
[8] In Disagio psichico e immigrazione. A cura dott. Alain Goussot

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