martedì 31 marzo 2015

LA CRESCITA C'È... DELLA DISOCCUPAZIONE

[ 31 marzo ]

«Dall’Istat arriva una doccia fredda sul mercato del lavoro italiano. Il tasso di disoccupazione a febbraio è risalito al 12,7%, un aumento di 0,1 punti percentuali sul mese precedente e di 0,2 su base annua. I disoccupati sono aumentati di 23mila unità su mese. Si interrompe il calo registrato a dicembre e gennaio. Nei dodici mesi a febbraio il numero di disoccupati è cresciuto del 2,1% (+67mila)». [Il Sole 24 Ore di oggi 31 marzo - nella foto]

I nostri lettori si chiederanno: ma come, Renzi e il Ministro Poletti non andavano esultando per i "79mila posti a tempo indeterminato in più nel primo bimestre del 2014"? Scrivevamo qualche giorno fa: 

«Viva il Jobs Act quindi? Nient'affatto. Vedremo in futuro se si tratta di occupazione aggiuntiva o di licenziati che sono stato riassunti con le nuove regole capestro». [Una ripresa che fa cagare]
La conferma che avevamo ragione l'ISTAT ce l'ha data prima di quanto ci aspettassimo. Leggiamo
«...i dati governativi differiscono da quelli diffusi dall'istituto statistico, in particolare quelli sull’aumento dei contratti a tempo indeterminato si riferiscono ad attivazioni di contratti che non necessariamente equivalgono a nuovi occupati, ma possono essere transizioni da tempo determinato a tempo indeterminato».  [Il Sole 24 Ore di oggi 31 marzo].
Il  Jobs Act non sta quindi producendo gli effetti taumaturgici promessi dal governo Renzi. E' una nuova conferma, del carattere sistemico, di lungo periodo della crisi economica del capitalismo italiano. E' una conferma che le terapie
neoliberiste, per quanto favorevoli al capitale, servono a poco o niente.

Tranne alcune eccezioni —le aziende che producono in gran parte per quei mercati esteri in salute— il settore privato non investe, per la semplice ragione che non si attende profitti adeguati. 

I dati ISTAT smentiscono infine tutte le sirene che avevano strombazzato il Quantitative easing della Bce come salvifici. 

Il sistema capitalistico potrebbe uscire dal marasma (sottolineiamo potrebbe) solo a patto di avviare un gigantesco piano di investimenti, cosa che solo lo Stato potrebbe fare. Ma ciò cozza sia con i dogmi neoliberisti che con le regole mercantilistiche e libero-scambiste su cui è fondata l'Unione europea.

Ergo: l'euro non è stato solo una concausa del collasso dell'economia italiana, si dimostra essere il principale ostacolo per venire fuori dal marasma.


MA QUALE SINISTRA DEL PD? di Piemme

[31 marzo ]

Sento dire che con l'arrivo di Matteo Renzi sarebbe in atto una "svolta genetica del Pd".
E' un'affermazione che fa molto comodo alla cosiddetta "sinistra del Pd", ma è falsa.
Renzi porta solo a compimento una mutazione genetica iniziata con la "Bolognina", ovvero con i funerali del vecchio Partito comunista.

E si sbagliava chi allora sosteneva che il Pci, divenuto Pds,  si era trasformato in un partito socialdemocratico. Quel mutamento era invece più profondo, simboleggiava lo spostamento definitivo di quel gruppo dirigente e del partito nel campo della classe dominante. Una classe dominante che aveva abbracciato da almeno un decennio la visione del mondo liberista e globalista.
Per diventare il referente politico principale della grande borghesia italiana l'ex-Pci doveva quindi accettare il neoliberismo.
E questo in effetti avvenne.

La verifica l'avemmo presto. Prima ancora di accedere direttamente al governo, l'ex-Pci accettò entusiasticamente i neoliberisti Trattati di Maastricht che fondarono, sulla moneta unica, l'Unione europea. Poi, dopo aver avallato con una finta opposizione il governo Amato, il sostegno al governo Ciampi, quindi a "riforme" liberiste che cambiarono per sempre il paese ed il mondo del lavoro. Una volta giunti al potere liberalizzazioni e privatizzazioni a tutta randa (Bersani docet). Quindi l'abolizione in combutta con le destre del sistema elettorale proporzionale (Mattarellum) e la "bicamerale" con cui si tentò di scardinare la Repubblica parlamentare e la Costituzione in nome della governabilità e di un modello presidenzialistico. Infine, ciliegina sulla torta, D'Alema primo ministro, partecipazione diretta alla guerra d'aggressione contro la Iugoslavia.

Di passata è doveroso ricordare che se oggi la sinistra italiana è agonizzante è per questo, ed anche perché il partito che era sorto per contrastare questa deriva liberista, parliamo di Rifondazione, agì come quinta ruota del carro di questo colossale processo di putrefazione politica; perché la CGIL assicurò la pace sociale non disturbando i guidatori.

Renzi è dunque figlio legittimo di una mutazione genetica pienamente compiuta.

I notabili del Pd oggi piagnucolano, non perché non sono d'accordo con le politiche di Renzi, ma perché quest'ultimo gli ha sfilato di mano il partito, ovvero lo strumento che assicurava loro, assieme al predominio nelle istituzioni, prestigio e immenso potere. 

Quando i renziani rinfacciano tutte queste cose ai notabili, quando gli ricordano che essi han sostenuto senza fiatare il peggiore massacro sociale della storia repubblicana, ovvero il governo Monti imposto dall'euro(pa), hanno quindi ragione. E dunque si spiega come sia stato possibile che Renzi gli abbia sottratto il partito, non l'ha fatto con un golpe interno ma ottenendo il sostegno del basso clero degli amministratori piddini e di un'ampia maggioranza degli iscritti e di elettori del Pd.

Renzi ha ragione a non temere la scissione dei vecchi notabili. Non la teme perché sa bene che fuori dal suo Pd non andranno da nessuna parte se non verso l'oblio. 

E' vero che con Renzi si apre a sinistra del Pd un grande spazio a sinistra. Ma ve l'immaginate un partito di sinistra capeggiato da Bersani, D'Alema e la Rosi Bindi? Un partitello che avrebbe difficoltà a superare lo sbarramento elettorale. 
A meno che...
A meno che Landini non decida di ospitarli nella sua "cosa" ancora tutta evanescente.
E noi scommettiamo che Landini non vorrà imbarcarli. E non vorrà farlo perché invece di un valore aggiunto sarebbero un nocumento alla sua causa.

Che ci faccia uno come Stefano Fassina in questa porcilaia per noi è un mezzo mistero. Fassina, al netto di certe sue ambiguità (ieri, nella direzione del Pd, ha affermato che all'Italicum preferirebbe i collegi uninominali —Sic!)  è il solo che abbia avuto il coraggio di indicare la radice di tutti i mali del Pd, la sua adesione alla dottrina neoliberista, la sua supina sottomissione all'Europa oligarchica, processi di cui i notabili che oggi dicono di "stare a sinistra di Renzi" sono stati artefici. Prima si smarca meglio è. Per lui e per la futura opposizione sociale e politica.



lunedì 30 marzo 2015

ELEZIONI IN ANDALUSIA: LA RESTAURAZIONE ED I LIMITI DI PODEMOS di Manolo Monereo

[ 30 marzo ]

Un commento a tutto campo sui risultati svoltesi in Andalusia il 22 marzo scorso. Le ragioni del successo della candidata del PSOE Susana Díaz [nella foto], il crollo delle destre ed il mancato sfondamento di PODEMOS.


Deve essere sottolineato più e più volte che la chiave è sempre, tanto più in questi momenti storici, sapere quali sono gli scopi dei dominanti. La questione fondamentale, a mio avviso, è quella di "leggere e interpretare la fase": lotta infaticabile, sistematica e incessante tra passato e futuro, continuità e cambiamento, restauro dinastico-oligarchico o rottura plebea-democratica. Tutto il resto, a mio avviso, deve essere letto nel contesto di questo conflitto in classe e, soprattutto, di potere, comprese le elezioni andaluse.

La politica è un'arte, e la strategia è il suo strumento principale. Susana Díaz, la Presidente PSOE della Giunta di Andalusia, sapeva quello che faceva quando decise di anticipare le elezioni andaluse: contenere l’avanzata di PODEMOS, distruggere il Partito Popolare e liberarsi della non affidabile Izquierda Unida di Antonio Maíllo. Tutti si sono trovati d'accordo che i risultati elettorali hanno dato ragione a Susana Díaz. Fin qui, tutto normale, prevedibile. Dobbiamo andare oltre.

Ma qual’era la posta in palio delle elezioni andaluse? Dovremmo concentrarci su questo. La Presidente di Andalusia è "organica al potere", ha coscienza di Stato: difende il regime e si oppone con tutte le forze alla rottura democratica. Lo strumento per farlo è il PSOE e lei, il capo, decide. E’ la sua missione storica, difendere la classe politica, il bipartitismo, e soprattutto i gruppi di potere, quelli che comandano e non si presentano alle elezioni. Lei lo sa bene, meglio di chiunque altro; poiché lei è apparato, puro apparato. Il Re è la chiave perché assicura la stabilità del potere, che tutto rimanga come dovrebbe essere, cioè che bottino resti nelle mani di chi lo detiene.
 
Teresa Rodriguez, candidata di PODEMOS 
Il vero partito di regime è dunque il PSOE. Felipe González lo dimostrò. Il PP è troppo a destra, troppo legato alle classi parassitarie e classiste. Il PSOE è 'moderno' e aperto al mondo. Quelli che comandano davvero sanno come fare, cioè, trovare il "centro di gravità" in cui è possibile che le classi inferiori (salariati, lavoratori) accettino che i governanti continuino a governare. Non è facile, ma essi conoscono il segreto. Essi si fidano del PSOE, lo sostengono e lo finanziano abbondantemente; il PSOE dimostra di essere in grado di difendere quegli interessi meglio di chiunque altro, meglio del PP di Rajoy. Questa è la battaglia che Susana Díaz ha vinto in Andalusia. Il dubbio è se Pedro Sanchez [il segretario nazionale del PSOE, Ndr] sarà all’altezza; se non lo sarà, lei sarà sempre lì per garantire la linea di ultima difesa e la governabilità del sistema.

In Andalusia quello del PSOE è un regime, vale a dire, la cristallizzazione di una struttura di potere, un formidabile dispositivo politico organizzato, strutturato e legittimato da oltre trenta anni di controllo sistematico sugli affari pubblici. In pochi anni abbiamo visto come il PSOE sia diventato il Partito dell’Andalusia. La chiave è un’immensa capacità di neutralizzare il conflitto sociale. Lo scandalo ERE questo dimostra, mezzi, strumenti per disattivare il rapporto tra politica e lotta sociale, tra conflitto e potere in Andalusia. La società civile è stata riorganizzata da parte delle istituzioni e integrata. Si pratica un gioco in cui la discriminazione e la cooptazione delle diverse e singolari opposizioni (sociali, culturali, politiche) sono sapientemente dosate.


L'ordito del potere creato nel corso di tanti anni si articola nelle diverse istituzioni: la Giunta, i consigli, i comuni e tutta una varietà di organismi che penetrano, organizzano i soggetti e li disattivano. Non si oppongono frontalmente alla società civile, altra è la modalità: impedire l'autonomia dei movimenti, disorganizzare ogni opposizione che possa mettere in pericolo chi comanda e conquistare il "senso comune" del popolo. La repressione pura e semplice la si lascia condurre a Madrid.

Il PSOE è in Andalusia un partito-regime che s’incarna nella persona della Presidente. Da quando è stata unta per la più alta carica della Comunità andalusa si è comportata come se fosse l’ultima arrivata, senza passato, al punto che spesso è apparsa come fosse lei la "opposizione" al governo andaluso, cioè di se stessa. Essere al contempo "posizione" e "opposizione" sono elementi caratteristici dei regimi che sono spesso chiamati derisoriamente "populisti". Questo aspetto non è secondario. La neutralizzazione del conflitto all'interno è abilmente sostituita dalla costruzione di un conflitto esterno: la destra di Madrid, Rajoy, che discrimina, punisce, insulta, e offende l'Andalusia, nella persona del suo presidente.

Il discorso populista di Susana Díaz ha fatto un balzo in avanti in queste elezioni, fino ad un vero e proprio caudillismo. Il populismo costruito è una varietà di "nazionalismo senza nazione", ma agisce con le stesse chiavi: definizione del nemico (la destra di Madrid); identificazione del Presidente con il popolo andaluso discriminato e offeso; colpevolizzare i "cattivi andalusi" e, di conseguenza, bollarli come alleati della destra, quelli che si oppongono alla Giunta ed al suo presidente. L'asse sinistra-destra è quindi subordinato ad un altro asse: il nemico (Madrid e Rajoy) e l’amico (Andalusia e Susana Díaz). Questo spiega anche due altre cose: la non-presenza di Pedro Sanchez e la presenza costante di Rajoy come partito avversario della candidata presidente.

E’ questa forma di partito-regime che spiega chiaramente il dramma, passato e presente di Izquierda Unida in Andalusia [I.U. è in Andalusia da molti anni alleata di governo del PSOE, Ndr]. La novità e la radicalità della proposta fatta da Julio Anguita aveva a che fare con il suo obbiettivo di costruire un’alternativa con vocazione maggioritaria e di governo al partito-regime che si è costruito in Andalusia intorno al PSOE. Non si trattava di convertirsi in "sinistra", nella "ala radicale"  di complemento del partito di Rodríguez de la Borbolla e di Felipe González, ma dell'alternativa alle loro politiche ed a come venivano organizzate. Il concetto di base era quello di costruire l'alternativa.

Rimuovere questo dispositivo di potere rendeva necessario una nuova forza politica, plurale, unita programmaticamente e organizzata come una forma-movimento. La strategia era quella della "guerra di posizione": costruire dal basso un contro-potere combinato con la lotta sociale ed elettorale, lavorando nelle
istituzioni e nei movimenti, forgiando alleanze e programmi comuni. Questo, oggi va sottolineato, generò unità e speranza, il recupero di militanza e una politicizzazione significativa delle nuove generazioni.

Nella fase di Luis Carlos Rejon è stato raggiunto da I.U. in Andalusia il punto più alto, sociale ed elettorale, 20 deputati. Non è questo il momento per giudicare quel periodo, gli errori eventualmente commessi. Basti dire che non si fu capaci, dentro e fuori l’Andalusia, di organizzare il dibattito su una questione strategica che riguardava e riguarda, le basi stesse del progetto. Questa questione, a mio parere, venne affrontata in maniera politicista: senza discussione e senza autocritica, e quel che è peggio, nei fatti, si adottò la posizione della preparazione della "Convocatoria por Andalusia" . Riapparvero i vecchi fantasmi ed i cliché ereditati dalla Transizione [il passaggio dal franchismo alla “monarchia costituzionale”, Ndr: si doveva fare politica ed essere realistici, lasciando i sogni utopici di Anguita ed abbandonando qualsiasi riferimento alla questione dell'alternativa.

Si è ripetuto l’errore di sempre: “toccare il potere”, ovvero, governare e farlo partendo da quel 12% di voti che avevamo in quel periodo. Per questo era necessario allearsi con il PSOE, porre l’accento su programmi suscettibili di essere approvati dal nostro socio di riferimento e, ciò che era decisivo, ricostruire un'organizzazione che sarebbe servita a questo scopo ed a nessun altro. Questi problemi, ma non solo loro, hanno a che fare con i risultati ottenuti da UI di Andalusia. La campagna è stata buona, e molto intelligente è stato il recupero del discorso di Anguita nella tappa finale della campagna elettorale.

Da questo punto di vista, i risultati di PODEMOS sono stati buoni. C'è sempre un gioco pericoloso che mescola le aspettative, i risultati e la mobilitazione elettorale. E’ stato detto prima e lo ripetiamo ora: era il momento peggiore ed il posto peggiore per il partito di Pablo Iglesias. Susana Díaz lo sapeva e i sondaggi, in un modo o nell'altro, lo confermavano. L'aritmetica è semplice: in voti ed in seggi, la somma dei voti di PODEMOS e IU è la stessa che ai tempi di Rejón.
I risultati elettorali
Questo è il tetto da superare e non sarà superato solo con (è la grande lezione da IU di Andalusia) il lavoro istituzionale e avanzando nei mezzi di comunicazione. Si tratta di conquistare posizioni, di intrecciare alleanze e costruire un progetto autonomo a vocazione maggioritaria e di governo; questo richiede organizzazione, militanza, attivismo per promuovere forme plurali di articolazione sociale e sfidare i dominanti sul terreno del “senso comune”. Soprattutto serve unità: IU e PODEMOSe sono insufficienti per costruire una vera alternativa alla struttura di potere dominante oggi in Andalusia
.

La novità è stata Ciudadanos. Alla fine (non era facile) sono riusciti a creare una forza di cambiamento da destra. L'obiettivo era chiaro: contrastare PODEMOS e trovare un jolly, un partito cerniera capace di allearsi a destra e a sinistra. Presto sapremo la provenienza dei loro voti e la coerenza e la direzione della politiac di CIUDADANOS.

CIUDADANOS mostra le debolezze del discorso di PODEMOS, ad esempio, l’insistenza sulle procedure democratiche e non sul contenuto delle politiche. C'è il pericolo che una forza liberale come CIUDADANOS possa, senza grandi difficoltà, fare un discorso in rigenerazione democratica sostenendo al contempo che per lottare contro la corruzione ha bisogno di meno Stato, più agenzie indipendenti per regolare il mercato e meno tasse per i ricchi. Ciò che Renzi in Italia fa senza troppe difficoltà.



Se la "casta" sono i politici si lasciano da parte i decisivi poteri economici: basterebbe cambiare i primi, ovvero i politici, perché l'oligarchia finanziaria ubbidisca. Vi è una certa difficoltà a comprendere la debolezza delle nostre democrazie deboli ha a che fare con il crescente controllo che i gruppi di potere economico esercitano sugli affari pubblici. Il problema centrale delle nostre società è la disuguaglianza crescente, che non è solo economica ma di forza: i dominanti hanno sempre più potere e lo esercitano. Senza affrontare questo punto, la presunta rigenerazione democratica è mera retorica.

* Fonte: Quarto Poder
** Traduzione a cura di SOLLEVAZIONE

BASTA CON L’APOLOGIA DELLO SPIRITO LIBERALE di Topos Rosso

[ 29 marzo ]

Riceviamo da alcuni compagni un documento a cui conferiscono una grande importanza. Lo spirito è decisamente anticapitalistico tuttavia il bersaglio è il liberalismo tout court. Chi ci segue sa che noi riteniamo che oggi il nemico da battere è il neo-liberismo che, pur affondando le sue radici nel pensiero politico liberale, ne rappresenta, tra i suoi inveramenti, quello più mostruoso e pericoloso. Lo stesso amico Luciano barra Caracciolo sembra commettere il medesimo errore. Pur non usando la categoria di "neo-liberismo" egli lascia intendere che va respinta ogni distinzione tra liberalismo sul piano politico e liberismo in economia.


BASTA CON L’APOLOGIA DELLO SPIRITO LIBERALE

10 FONDAMENTALI MOTIVI PER ESSERE ALIBERALI


1° C’è  la schiavitù del mercato ma non c’è l’affrancamento dall’indigenza

2° C’è lo sviluppo ma non c’è il progresso

3° C’è la ricchezza ma non c’è il benessere

4° C’è la libertà individuale ma in antagonismo ai diritti collettivi

5° C’è il divertimento ma non c’è la serenità

6° C’è il primato della competizione a scapito della solidarietà

7° C’è l’esaltazione dell’individualismo in antitesi al senso di appartenenza

8° C’è il dominio economico su ogni opzione politico sociale

9° C’è la democrazia formale ma non quella reale

10° C’è di tutto ma tu puoi non avere niente

TOPOS ROSSO
Organizzazione Politica di Alternativa Culturale
(perché il rosso non è solo un colore ma anche una filosofia)

“giunse dove sorgean da vivo sasso
in molta copia chiare le lucide onde,
e fattosense un rio volgeva a basso
lo strepitoso piè tra verdi sponde.
Quivi egli ferma addolorato il passo
e chiama, e sola ai gridi Eco risponde;
e vede intanto con serene ciglia
sorger l’aurora candida e vermiglia”


per contattarci 338-3335142

domenica 29 marzo 2015

LIBERTÀ, SOVRANITÀ, DEMOCRAZIA E STATO DI DIRITTO di Moreno Pasquinelli

[ 29 marzo ]

Pubblichiamo la seconda parte del saggio LIBERTÀ E COMUNITÀ. Fa seguito alla prima parte comparsa il 20 marzo scorso


Della Libertà

Il concetto di libertà è molto più spinoso di quanto si pensi, e su di esso di discute sin dai tempi della Grecia antica, vera culla della civiltà europea. Segnaliamo subito che il concetto di Libertà è peculiare all’Occidente e non sembra appartenere, almeno nel significato che siamo abituati ad attribuirgli, all’Oriente, né antico né moderno.
Malgrado le numerose varianti, tre sono le principali scuole di pensiero e tutte e tre nacquero in Grecia. 
Platone, sulla scia di Socrate, concettualizzò la Libertà come possibilità. L’uomo può scegliersi il suo proprio destino, ma le eventuali alternative sono sempre finite, limitate, condizionate. Le azioni umane sono determinate dalle condizioni in cui opera e dalla circostanze esterne, tuttavia questo non significa che l’uomo sia obbligato da esse, e quindi l’esito del suo operare non è né prescritto, né fatalisticamente predeterminato, né infallibilmente prevedibile.
Aristotele perora quello che modernamente potremmo chiamare concetto soggettivistico di libertà. Le condizioni in cui l’uomo opera non sono limiti determinanti alla sua azione. Egli, in quanto animale politico, progetta il proprio destino, è quindi causa sui, è il principio dei suoi atti. La libertà è tale solo in quanto incondizionata. La libertà è autodeterminazione.
Gli stoici fondano il concetto di libertà come necessità, come accettazione e comprensione della necessità. La libertà è conformarsi e adeguarsi all’ordine necessario del mondo e, in ultima analisi, al destino che è già scritto nell’ordine cosmico.

In epoca moderna le tesi di Aristotele avranno in vero poca fortuna. Se si eccettuano Fichte, Stirner e Bergson (che per altro curveranno l’idea dell’autodeterminazione in senso indeterministico), le altre due scuole si contenderanno il campo.
Non è certo un caso se tutti i grandi pensatori europei che a vario titolo possiamo definire interpreti della borghesia nascente e poi affermatasi come classe dominante (Hobbes, Locke, Hume, Kant, S. Mill, ecc.), abbiano difeso e sviluppato la posizione di Platone della Libertà come possibilità. E’ senz’altro questo filone di pensiero che ha finito per diventare egemone, contaminando a fondo l’etica, la politica e il diritto contemporanei.
La scuola stoica troverà in Spinoza il suo primo e coerente interprete moderno. Solo Dio è libero, cioè causa sui, poiché agisce senza essere costretto o condizionato. Libertà e autodeterminazione non appartengono dunque all’uomo, che può invece solo conformarsi alla totalità, al cosmico Spirito divino. L’uomo è solo una modalità della sostanza. Shelling ma soprattutto Hegel raccoglieranno l’eredità stoica filtrata da Spinoza, Hegel addirittura irrigidendo il concetto di libertà come accettazione della necessità, trasformandolo in un pilastro della filosofia trascendentale. Soggetto di libertà è infatti solo lo Spirito Assoluto, gli uomini essendo solo manifestazioni di esso. La Libertà equivale per Hegel al determinismo, e gli uomini, che sono strumenti necessitati dalla volontà universale che li sovrasta, non hanno scampo, potendo soltanto agire dentro una concatenazione di eventi necessari, a loro volta determinati e preordinati dallo Spirito divino. Come gli stoici e gli gnostici dunque, anche per Hegel, vale il principio esoterico per cui solo un piccolo manipolo di sapienti possono essere veramente liberi, poiché solo loro posseggono la ragione che gli permette di rassegnarsi fatalisticamente al provvidenziale Spirito che determina il coso degli eventi. Abbiamo visto come questa sofisticata ontologia trascendentale conduca ad una concezione etica per cui lo Stato è potenza della ragione, “l’ingresso di Dio nel mondo” (dove lo Stato è quello assolutistico di tipo prussiano).

Può apparire buffo che il marxismo reale, quello che si è imposto come dottrina sul finire del secolo decimonono, abbia sostanzialmente fatto sua, sul piano concettuale, solo riciclandola in senso storicistico e positivistico, l’idea di libertà hegeliana come accettazione della necessità. Su questo terreno idealismo assoluto e materialismo assoluto sono convolati a nozze —e ciò dimostra, come già sostenuto da Costanzo Preve, quanto aleatoria sia la bipolare divisione engelsiana della storia del pensiero come dialogo tra idealismo e materialismo. 

Il giovane Marx, a dire il vero, perorò, nelle sue imprescindibili Tesi su Feuerbach come pure nella Ideologia Tedesca, una concezione della libertà antitetica a quella hegeliana, concepita come la capacità dell’uomo di progettare il proprio destino, di imporre cioè ai processi pur causali, fini e ritmi desunti eticamente, cioè dalla sfera dei valori e dell’utopia (quindi la tesi aristotelica dell’autodeterminazione, dell’uomo che può essere causa sui). Ma questa è un’altra storia. Il lettore la rammenti tuttavia, poiché ci aiuterà più avanti a comprendere meglio il colossale e tragico pasticcio dello stalinismo.

Certo è che il concetto di Libertà che si verrà lentamente affermando come egemone in tutto l’Occidente, per quanto ambiguo e polisemico, è quello curvato in senso sostanzialmente liberistico e individualistico poggiante sull’antitesi tra Libertà ed Eguaglianza (Kelsen definirà questa concezione “libertà negativa”, in quanto essa prende in considerazione solo lo spazio della autonomia individuale rispetto alla comunità e ai poteri dello Stato). Una concezione “robinsoniana”, atomistica e individualistica del cittadino. Che ci sia o no coincidenza tra l’interesse singolo con quello pubblico (su questo i liberali sono divisi: gli statalisti che postulano la primazia dello Stato come espressione della volontà generale, e i liberisti che la negano), l’individuo che il liberalismo prende in considerazione è in realtà il cittadino proprietario, l’uomo della società borghese capitalistica che ha valore sociale solo in quanto portatore di mercantile valore di scambio. Bentham tentò di fornire all’individualismo borghese una leggitimità ontologico-morale, affermando che il singolo, quando cerca il proprio piacere, ipso facto, persegue quello di tutti gli altri, postulando in questa maniera la perfetta coincidenza tra l’interesse privato e quello pubblico.

Saranno i pensatori rivoluzionari, Marx su tutti, a demistificare la concezione ideologica della libertà propria del liberalismo, e dell’eguaglianza solo giuridica dei cittadini. Essi getteranno le fondamenta della concezione della libertà comunista, per cui quest’ultima implica la rimozione di tutti gli ostacoli (di ordine non solo giuridico, ma economico e sociale) che impediscono ai cittadini di disporre pienamente dei mezzi per partecipare alla vita associata. La Libertà implica infatti la partecipazione attiva dei cittadini alla formazione della volontà generale e alle decisioni politiche inerenti non solo alla sfera amministrativa ma alla definizione degli scopi che la comunità stessa si prefigge come finalità. Questa Libertà presuppone l’eguaglianza sociale e l’abolizione delle differenze di classe, anzitutto quella antagonistica tra sfruttatori e sfruttati, in quanto le disparità di condizioni, il lavoro salariato, e la lotta di classe che ne consegue, sono delle catene al libero sviluppo della comunità e delle individualità.

Della Sovranità

Non si può giungere ad una comprensione adeguata dello Stato di Diritto senza prima concettualizzare le categorie di Sovranità, Popolo e Democrazia, che sono sue condizioni essenziali. Seguiremo il percorso che dall’astratto ci conduce al concreto, modalità che ci consentirà, sia di decodificare queste tre categorie, che di toglier loro di dosso il velo ideologico con cui il Diritto capitalistico postmoderno le ha rivestite.
Dopo la crisi della fondazione teologica del Diritto (lex naturalis come riflesso terreno della lex divina), che coincise con l’epoca delle guerre civili di religione che dilaniarono l’Europa e condussero alla costituzione degli stati-nazione moderni; il composito filone di pensiero giusnaturalista, secolarizzò e razionalizzò il concetto di Sovranità, nel quadro del tentativo di dare al Diritto e alla morale uno statuto epistemologico analogo a quello delle scienze matematiche, liberando l’uno e l’altra dagli ossimori insanabili contenuti nell’universalismo religioso. La Sovranità non discende dall’alto e non ha un carattere divino-naturale, ma appartiene al mondo umano-sociale e si fonda sul consenso degli individui.
Da Grozio fino a Kelsen, si afferma dunque l’idea che la Sovranità sia la facoltà o il potere di determinare le regole della convivenza civile e dei rapporti inter-umani, di normare dunque la vita associata. 
La secolarizzazione della vita pubblica, affacciatasi con la separazione degli affari religiosi dalla sfera del governo della cosa pubblica, è stata una notevole conquista della borghesia nell’epoca del suo avvento. Seppure in modo solo potenziale essa ha infatti associato la Sovranità all’idea di autodeterminazione della comunità.

Ma questa autodeterminazione, nella società borghese, soggiace a condizioni sociali e limiti politici che ne impediscono il pieno dispiegamento. Ove la comunità fosse atomizzata, divisa in classi antagonistiche, di cui una dominante perché proprietaria dei mezzi di produzione e di scambio, parlare di comunità sovrana è una deliberata finzione. L’effettiva Sovranità della borghesia (o del Capitale come forza sociale proprietaria in quanto incarnazione di denaro che si valorizza) è camuffata da una concezione formale e meramente giuridica della Sovranità, così come miseramente giuridica e post-feudale è l’eguaglianza dei cittadini. Capitalista e salariato, padrone e proletario, non sono eguali in nulla, sono anzi, sul piano astratto e nel caso della cruda vita, opposti in tutto, divisi da un’opposizione insanabile. Dal nostro punto di vista la Sovranità si esercita infatti non solo nel campo normativo, essa è piena solo se sostanziale, ed essa lo è solo se può decidere sulla ripartizione della ricchezza sociale, del tempo di vita e di lavoro delle persone. Questo è tanto più vero nella società moderna, in un sistema sociale che fa della ricchezza materiale e monetaria la misura di ogni cosa e del valore di scambio la vera pietra angolare dei rapporti interumani. Nella società borghese tutto viene a dipendere (il che non vuol dire meccanicamente determinato) dai rapporti di produzione, da come i cittadini si relazionano al processo di produzione e dalla distribuzione della ricchezza sociale. La Sovranità è dunque sequestrata dal Capitale mentre chi è costretto per sopravvivere a vendere l’unica merce che possiede, la forza lavoro, deve subire l’una e l’altro. E finché la Sovranità, attraverso lo Stato, è sovranità del Capitale, essa non può che avere, anche se in maniera politicamente mediata, un carattere coercitivo. 

Se la comunità è il soggetto della Sovranità, affinché quest’ultima possa esercitarla pienamente occorre che disponga non solo delle facoltà giuridico-normative, ma di quella sostanziale di esercitare dominio nel campo dei rapporti economici e sociali (che rappresentano la piattaforma reale su cui si erge il complicato marchingegno delle sovrastrutture, quella giuridica compresa), e questo esercizio implica la proprietà delle forze produttive. Per dirla tutta la Sovranità della comunità implica che i suoi cittadini siano liberati dalle catene del lavoro coatto. Questo è ciò a cui diamo il nome di comunismo, né più e ne meno di questo. In altre parole, alla concezione politico-giuridica e parziale della Sovranità, opponiamo quella politico-sociale, cioè integrale.

Abbiamo surrettiziamente introdotto il principio per cui la Sovranità appartiene alla comunità tutta intera. Per il Diritto borghese, specie per quello liberale che ha preso il sopravvento nell’ultimo mezzo secolo, le cose stanno diversamente. Qui abbiamo che la Sovranità è del Popolo, ed esso la esercità delegandola ad apparati separati dalla società, cioè lo Stato.


Del Popolo

E’ un luogo comune delle società liberal-democratiche odierne che il Popolo sia depositario della sovranità. La base stessa della complessa costruzione che va sotto il nome di Stato di Diritto consiste nella sovranità popolare.
La società borghese non è giunta ad assumere questo principio in modo lineare e pacifico. Ciò è accaduto solo recentemente, nell’ultimo mezzo secolo, dopo la sconfitta del fascismo e infine del socialismo reale. Le tesi organicistiche e assolutistiche (da Hobbes a Hegel) hanno lasciato il posto a quelle contrattualistiche per cui il primato spetta al Popolo e solo esso conferisce allo Stato dignità e sovranità. Ritorniamo sulla concezione di Hegel, che ci serve, non soltanto per meglio mettere a fuoco le concezioni liberal-democratiche che alla fine si affermeranno in Occidente, ma pure per comprendere quali fossero state le scaturigini della statolatria staliniana. Ecco quanto egli afferma nei suoi Lineamenti di Filosofia del diritto:
«Solo nello Stato l’uomo ha esistenza razionale. Ogni educazione tende a far si che l’individuo non rimanga qualcosa di soggettivo ma diventi oggettivo a se stesso nello Stato... Tutto ciò che l’uomo è, lo deve allo Stato: solo in esso egli ha la sua essenza. Ogni valore, ogni realtà spirituale l’uomo l’ha solo per mezzo dello Stato». 
Come mai la borghesia si è sbarazzata di questa concezione che affidava allo Stato e non al Popolo la sovranità? Perché (alcune fondamentali ragioni le abbiamo viste nel primo capitolo) la tesi organicistica, che supponeva una società omogenea in cui fosse possibile stabilire una “comune volontà generale” non è riuscita a contenere tutta la complessità delle moderne ed eterogenee  società capitalistiche e si è dimostrata un’architettura rigida, incapace sia di accogliere le molteplici e conflittuali spinte interne alla società borghese, sia di contenere la forza eversiva del proletariato.
La sovranità popolare (sui cui poggia lo Stato di Diritto postmoderno) contiene in sé, come abbiamo visto, la possibilità del pluralismo sociale, cioè la capacità di di tener testa ad una società articolata e disomogenea, composta non solo da classi potenzialmente antagonistiche, ma da ceti che tendono a rappresentarsi politicamente e ad autonomizzarsi dalla stessa classe dominante.

E’ un grande punto di forza della liberal-democrazia che il concetto di sovranità popolare sia diventato senso comune. A dimostrazione del carattere pervasivo del liberalismo e della sua forza egemonica, nessuna forza politica occidentale odierna, dall’estrema destra all’estrema sinistra, mette in discussione che il Popolo sia il soggetto della Sovranità. Come spesso accade, tuttavia, il senso comune tracima nel luogo comune, cioè nell’ideologia.

Affermava Cicerone : «La Res Publica è cosa del popolo e il popolo non è qualsiasi agglomerato di uomini riunito in modo qualsiasi ma una riunione di gente associata per accordo nell’osservare la giustizia e per comunanza di interessi».

Abbiamo detto che il Diritto liberale borghese oggi egemone si fonda su due concetti assiomatici e coassiali: il concetto individualistico e atomistico del cittadino (ovvero dell’individuo proprietario), e l’incompatibilità tra libertà ed eguaglianza. Il suo concetto di Popolo non è quindi né quello giacobino né quello comunitario, bensì quello anglosassone, riflesso di una società ormai compiutamente mercantile e capitalistica. Il popolo che corrisponde a questa società è in verità la moltitudine: una somma di volontà particolari, di soggetti diseguali; un agglomerato di uomini separati l’uno dall’altro, ostili l’uno all’altro, in quanto protesi a frodarsi a vicenda per strappare il maggior vantaggio possibile dallo scambio delle merci. La moltitudine atomizzata è il popolo che corrisponde ad una società in cui il mercato è il luogo in cui si stabilisce la natura e la gerarchia dei bisogni e ove debbono essere realizzati. Il luogo insomma dove il lavoro morto sovrasta quello vivo, dove non può che dominare incontrastato il nuovo Principe, Monsieur le Capital.

In questo senso, nella odierna formazione sociale borghese occidentale, contraddistinta anzitutto dal suo carattere imperialistico, la sovranità popolare esiste solo nella sua forma parziale e zoppa, cioè nella democratica dittatura della maggioranza. La sua natura è essenzialmente moltitudinaria, il suo carattere è si associativo ma fondato sulla forma mercantile e capitalistica della ricchezza, gli interessi che finiscono per prevalere come comuni sono in verità quelli di un blocco sociale comunemente proteso, sia a tenere in piedi il sistema di rapina imperialistica della maggioranza della popolazione mondiale, sia a tenere soggiogati e senza diritti sostanziali tutti coloro che non sono inclusi in questo blocco. Alle spalle della comunità frantumata, sovrastata da questo sconfinato e tentacolare blocco sociale plebeo, chi detiene il bastone del comando, pur attraverso complesse mediazioni politiche e ideologiche, è alla fine dei conti una ristretta olicarchia ultracapitalista.

Della Democrazia

La Democrazia è per il pensiero liberale l’insieme delle modalità politiche e normative attraverso cui si esprime la sovranità popolare, le quali poggiano su determinate forme istituzionali e statuali. E’ bene stabilire subito che il Diritto borghese pone un limite invalicabile all’esercizio della sovranità: essa può decidere delle forme di governo, ma non può mettere in discussione il sistema o sovvertire l’ordinamento delo Stato. Vedremo più avanti come questi limiti siano costitutivi dello Stato di Diritto.
Sorta in antitesi alla democrazia diretta, quella liberale è indiretta, implica il principio della delega. La sovranità popolare è quindi una sovranità delegata, nella fattispecie ad una serie di istituti rappresentativi composti da corpi separati di funzionari preposti ad amministare la cosa pubblica. Pochi di essi sono eleggibili e revocabili. In genere anzi, a parte il personale legislativo ed esecutivo (Parlamento e governo), come lascito della società feudale, abbiamo vere e proprie caste autoreferenziali che in alcuni casi non sono nemmeno strumentali all’Esecutivo. Il popolo è “sovrano”, ma esso può scegliersi solo una parte del personale pubblico. Ad esempio non può eleggere i giudici, né può scegliersi chi è preposto alla sicurezza collettiva o alla difesa. Alcune decisive funzioni sono dunque sottratte alla sovranità popolare. Per cui la democrazia liberale moderna si presenta anche come una democrazia prefettizia
Per di più essa ha subito negli ultimi decenni una progressiva degenerazione censitaria e apparentemente segregazionista dato che, a cominciare dagli U.S.A, solo una parte dei cittadini si reca alle urne ad esprimere un proprio voto —negli USA è il ceto medio conservatore fondamentalmente bianco ad esercitare il suo diritto di voto per la scelta del Presidente e dei membri di Congresso e Senato. Il sistema bypartizan o bipolare si presenta dunque apertamente come una camicia di forza entro cui i diritti di cittadinanza sono coartati e sostanzialmente svuotati di ogni potenza, al punto che il primo di questi diritti, la partecipazione pur delegata e passiva alla vita politica interessa solo la metà della popolazione. Ciò non accade per caso. La democrazia statunitense, nonostante certi suoi apologeti (i più pericolosi tra essi sono quei neofiti dell’americanismo che si fregiano del loro passato marxista o operaista) facciano finta di dimenticarlo, non incorpora soltanto la spinta radicale della rivoluzione antinglese, ma pure il genocidio dei nativi americani, la schiavitù plurisecolare dei neri africani, e la discriminazione razziale (che se è stata giuridicamente abolita negli anni ‘60 del secolo scorso, esiste sostanzialmente ancora oggi).

Di primaria importanza sono infine i mutamenti recentissimi maturati dentro il sistema nordamericano dopo i devastanti attentati dell’11 settembre. Che esso fosse gravido di Stato di Polizia era già evidente, con i Decreti presidenziali dell’autunno 2001, ciò che era incipiente ora si dispiega senza infingimenti. Con il consenso del Congresso, dunque anche dello schieramento liberal, e prendendo la “guerra al terrorismo” come pretesto, l’Amministrazione Bush sta letteralmente smantellando lo Stato di Diritto tradizionale di cui gli americani andavano fieri in quanto espressione alta della intangibilità dei diritti individuali. Nella scala dei diritti soggettivi, quello alla sicurezza, ha subordinato tutti gli altri, tra i quali quelli alla libera espressione delle proprie opinioni e del dissenso. Chiunque non condivida o peggio condanni la dottrina della “guerra al terrosimo”, della “guerra preventiva” (cioè l’asse della nuova politica estera americana), è bollato come disfattista e antipatriottico. Il Maccartismo impallidisce. Con un colpo di spugna Bush ha di fatto annullato il carattere sovralegislativo della Costituzione. Il processo che ha portato alla supremazia degli apparati repressivo-militari e strategici nell’ambito del sistema istituzionale nordamericano ha radici lontane, con Bush è stato apparentemente portato a compimento, ad un punto di non ritorno. Se aggiungiamo a questo che il personale di questi apparati strategici è spesso reclutato nel mondo delle grandi multinazionali, avremo che il capitale finanziario concepisce il governo come propria autorappresentazione e la Casa Bianca come proprio comitato d’affari. 
La catena della sovranità imperiale è dunque così articolata: il Capitale ha il primato sullo Stato, lo Stato sul Diritto, la legge ordinaria sulla Costituzione.

L’Europa continentale, culla della democrazia costituzionale e del sistema elettorale proporzionale, pare anch’essa avviata su questa china. Ogni paese a suo modo, ricorrendo ad ogni sorta di diavolerie giuridico-istituzionali, grazie al connubio destra-sinistra, tenta di blindare e menomare il sistema rappresentativo, ponendo i più svariati ostacoli per impedire alle forze antagoniste di usare gli scranni dei parlamenti o degli organismi amministrativi locali come tribune per la loro propaganda. In genere il sistema, tanto più velocemente quanto più smantellava il welfare state come meccanismo di protezione e inclusione politico-sociale degli strati sociali più deboli, è riuscito a prevenire e annientare la possibilità che questi ultimi si autorappresentassero politicamente —ciò che spiega il carattere sui generis dei nuovi movimenti di massa europei dopo Seattle, e quindi la vera e propria sublimazione movimentistica, che appare come la manifestazione del proprio status di politica inferiorità. 
La formazione dell’Unione Europea, scippando agli stati nazionali porzioni decisive di sovranità, surdeterminandoli e surrogando molte loro competenze istituzionali, riproduce e insegue, come in una platonica metessi, la statunitense catena della sovranità imperiale di cui sopra.


Se teniamo conto del processo di concentrazione della ricchezza nelle mani di una ristretta  un’oligarchia ultracapitalistica; del carattere blindato del principio di maggioranza (per cui la sovranità reale appartiene al blocco sociale dei ceti raccolti attorno all’oligarchia); del fatto che nella maggioranza dei casi i sistemi isituzionali liberali sono a carattere bonapartistico-presidenzialistico; infine della colossale concentrazione monopolistica dei mezzi di comunicazione di massa (diventati l’assolutistico demiurgo che forgia e plasma l’opinione pubblica); noi abbiamo che la democrazia è solo una delle faccie del sistema politico occidentale. Esso è in realtà un impasto di democrazia, aristocrazia, oligarchia, monarchia. E per riconoscerle, per intendere la loro interrelazione, non bastano il bianco e il nero ma serve la scala della quadricomia.  Questa ibridazione, questo carattere polimorfico del sistema politico tardo-capitalista, non avviene per capriccio, queste quattro forme esprimono i quattro canali attraverso cui si esprime la Sovranità reale. La democrazia consente al blocco sociale plebeale, attraverso il Parlamento, di autorappresentarsi e di concorrere alla formazione delle decisioni politiche secondarie. L’aristocrazia è il guscio entro il quale la multiforme nomenklatura degli intellettuali (quella che a vario titolo presume di essere l’élite depositaria degli esoterici saperi etici e scientifici, memoria e dunque sistema celebrale del sistema) si assicura l’appannaggio delle posizioni politiche e sociali dirigenti allo scopo di fabbricare l’egemonia che permette al sistema tutto di riprodursi e autoperpetuarsi. L’oligarchia, l’abbiamo già detto, è la classe ultracapitalista che detiene il monopolio incontrastato della ricchezza materiale, nella forma sempre più astratta di denaro che si valorizza. La monarchia è la modalità con cui il complesso sistema di pesi e contrappesi viene sovraordinato e stabilisce il proprio carattere decisamente piramidale, affidando ad un uomo solo le decisioni finali più scottanti, di vita o di morte, primarie.
Chiamiamo questa modalità interna del sistema imperialistico democrazia quadripolare censitaria.

Lo Stato di Diritto

Il profilo concettuale dello Stato di Diritto (che è il tratto distintivo principale dell’Occidente, l’allegoria con la quale esso si contrappone come superiore alle altre civiltà) è in realtà incerto e controverso. Sia per quanto concerne le determinazioni teoriche in cui si sostanzia, sia sotto il profilo normativo e istituzionale. Come già nel secolo scorso affermava Carl Schmitt, il lemma “... può significare cose tanto diverse quante sono le modalità organizzative implicite nel concetto di Stato”. 
Dunque non esiste una definizione semanticamente univoca, né tantomeno ideologicamente neutrale dello Stato di Diritto. Né un approccio scientista è possibile perché esso è costitutivamente contaminato da giudizi di valore di carattere etico-morale. La teoria politico-giuridica che recentemente e nel segno dei tempi va per la maggiore ha assunto al riguardo un approccio espistemologico debole, ispirandosi al pragmatismo e al convenzionalismo cognitivo. La teoria sociale ha il solo compito di elaborare, non definizioni certe e veritative, di carattere programmatico o assiologico, ma solo interpretazioni più o meno coerenti o meno ancora raccomandazioni interpretative.
Proveremo tuttavia a concettualizzare lo Stato di Diritto vigente, sia esponendo quelli che sono oggigiorno accettati come sui principi fondanti, sia mettendo in luce i tratti distintivi che ai nostri occhi giustificano l’attribuzione di postmoderno.

Il primo tra tutti è in realtà di carattere etico e astratto. I teorici liberali convengono infatti che la realizzazione e la soddisfazione delle aspettative individuali è la fonte primaria di legittimazione del sistema politico e sua precipua funzione.
Lo Stato di Diritto (per gli angloamericani Rule of Law —esula da questo lavoro mostrare le differenze tra lo Stato di Diritto europeo continentale e la sua versione atlantica) si presenta dunque come sistema le cui istituzioni politiche e apparati giuridici sono rigorosamente finalizzati, oltre tutto, alla tutela dei diritti soggettivi fondamentali, intendendo, per diritti soggettivi, non solo quelli privati ma anche pubblici (ma dove quello pubblico è solo un soggetto singolare tra gli altri). La tradizionale antitesi liberale tra libertà ed eguaglianza trapassa nel diritto postmoderno in una forma che denuncia la sua ascendenza individualistica: la dimensione pubblica e l’interesse generale sono sottoposti al primato assoluto dei valori, delle aspettative e dei bisogni del singolo soggetto (proprietario e mercantile); l’ordinamento giuridico espleta il compito di garantire i diritti individuali, frenando l’incombente arbitrio del potere politico. Ed eventualmente, aggiungiamo noi, contrastando la spinta di masse organizzate che dovessero irrompere sulla scena avanzando istanze egualitarie.

In realtà abbiamo visto come la democrazia imperialistica abbia subito negli ultimi decenni una tale metamorfosi che questo modello non esiste se non nel solipsistico e fatato mondo dei teorici del diritto. La postmodernità ha ridefinito i concetti di Res Publica, sovranità, libertà, popolo, democrazia, così che lo Stato di Diritto di cui parlano i giuristi non è che un vacuo simulacro di quello reale. Dallo Stato di Diritto siamo passati infatti al Diritto dello Stato (sempre significando, per Stato, quell’organismo complesso di cui abbiamo parlato sopra), ad un sistema fondato sull’arbitrio della maggioranza, cioè di quel blocco sociale interessato al mantenimento dell’ordine di cose esistenti. Un arbitrio la cui struttura assomiglia ad un sistema di scatole cinesi o ad un sistema nervoso, al cui centro più interno la maggioranza affida smisurate possibilità di comando. Il sofisticato sistema di pesi e contrappesi del tradizionale ordinamento giuridico è da tempo inceppato, e anche quando tra i poteri avviene la lotta (e l’Italia è uno di questi casi), non è il l’arbitrio dello Stato che viene posto in questione, ma solo a chi spetti il privilegio di esercitarlo.
Ma l’aspetto distintivo dello Stato di Diritto postmoderno risiede altrove, nello strapotere dei mezzi di comunicazione di massa. Abbiamo detto che i media hanno subito un colossale processo di concentrazione oligopolistica e spesso monopolistica. Questo fatto rappresenta, per se stesso, la più  brutale smentita del carattere democratico del sistema. Nei fatti non esiste più quella libertà che per secoli è stata la bandiera prima della borghesia poi del proletariato e causa di accanite lotte sociali: la libertà di stampa. Impercettibilmente, senza traumi, la società è scivolata in un sistema di tipo totalitario, nella tirannide e nella demagogia.
La concentrazione ha raggiunto tali livelli che i conflitti interni al blocco dei dominanti relativi a questa problematica, sono spesso la principale causa di instabilità e fibrillazione del blocco medesimo. La liquidazione della libertà di stampa ha trascinato con sé quelle di parola e d’opinione. Essendo la televisione il luogo fondamentale se non esclusivo del confronto di idee, chi fosse escluso da questa tribuna è privato di fatto del diritto di parola e di quello ad esprimere le sue idee.

Ma la televisione ha introdotto un’altra novità dalle conseguenze incalcolabili e apparentemente irreversibili: essa ha risucchiato nelle sue viscere tutte le sedi sociali orizzontali dove si formavano le opinioni e la coscienza sociale. Essa è diventata l’unico vero luogo ove i cittadini possono compiere la loro esperienza politica, in certi casi anche esistenziale (la rete Internet essendo un palliativo, lo zuccherino amfetaminico per tenere buoni i ribelli del ghetto digitale, illudendoli di avere voce in capitolo). 
Attraverso di essa il sistema può compiere un’opera di diffusione dell’ideologia dominante, di persuasione e indottrinamento, che neanche Goebbels, in stato di delirio, avrebbe potuto immaginare. I meccanismi e i protocolli comunicativi hanno assunto un carattere polisemico così sofisticato e immaginifico, la persuasività dell’esperienza virtuale è così potente, che il sistema può permettersi di fabbricare la sua egemonia saltando addirittura la politica, che nei palinsesti televisivi viene sempre sobriamente dopo il divertissement. Sempre più spesso, anzi, la tv-cloaca trasfigura la politica in svago demenziale, in pagliacciata, in populistica demagogia. Così che la coscienza politica che essa contribuisce a formare nelle menti dei cittadini (oscurata d’ufficio ogni critica sistemica, cancellata ogni utopia possibile) è la coscienza dei pagliacci. Fondata sulla trasfigurazione della realtà, sull’autoreferenziale rappresentazione di se stessa, la televisione accentua e produce l’idiotismo di massa, la passività apolitica, accentuando mostruosamente il carattere verticale e delegato della democrazia, i suoi tratti plebiscitari. Le moltitudini teleguidate  non possono in effetti esercitare alcuna effettiva sovranità, così che non possono fare altro che accettare una relazione di sudditanza con la classe dominante, e consegnare all’occorrenza, tra una tornata elettorale e l’altra, ogni immaginabile potere al suo personale politico, nella convinzione che l’alternanza sia la forma più compiuta di sovranità democratica.

E siccome parliamo di Stato di Diritto come architettura del sistema politico imperialistico, rendiamo omaggio a Guy Debord e alle sue geniali tesi sulla Società dello spettacolo, che hanno riscattato la senescenza del marxismo tardonovecentesco, consegnandoci intuizioni analitiche che mantegono una straordinaria vitalità e che sottolineavano come, oggi più che mai, solo una rivoluzione totale e tremenda possa riscattare l’umanità dal suo stato tanto smisuratamente servile.

[continua]

sabato 28 marzo 2015

COS'È DAVVERO LA CORRUZIONE? di Norberto Fragiacomo

[ 28 marzo ]

«Corruzione sono l’ingiustizia sociale, l’avidità esaltata e blandita, la spietata sopraffazione elevata dal capitalismo neoliberista a legge fondamentale. Guardiamo la terra, non l’italico dito: se il soldo è misura di tutte le cose, la corruzione non è più patologia —è fisiologia».

Dopo averne ascoltate tante, per giorni e giorni, anche il cuore più arido può farsi vincere dal desiderio (dal capriccio?) di narrare una storia.
Magari una favola nera, tutt’altro che a lieto fine: quella della corruzione in Italia. 

Capiamoci: il fenomeno esiste, è anzi diffusissimo e allarmante – ma il fatto che tutti ne parlino complica le cose, lo rende vago, indistinto, impalpabile. Manca una definizione che si imponga alla babele di voci dissonanti, non di rado prezzolate.

Quando frequentavo l’università, nel secolo scorso, per corruzione si intendeva un delitto —anzi, una coppia di delitti— contro la pubblica amministrazione: corruzione propria, se il patto delittuoso tra funzionario e privato aveva ad oggetto la violazione di un dovere d’ufficio, impropria se l’indebito compenso remunerava il compimento di atti dovuti (es. del dipendente che accetta del denaro per velocizzare una pratica).

Troppo semplice, ci fu confidato in seguito: la corruzione è ormai assurta a costume, a pratica dai contorni sfumati —è “fenomeno politico-amministrativo-sistemico”, scandì all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2013 il Presidente della Corte dei conti Giampaolino. Potremmo descriverla come un’alterazione fraudolenta delle regole del gioco, un intralcio alla concorrenza che, per i tecnocrati della UE, rappresenta il primo comandamento, e anche l’ultimo.

Il legislatore della 190/2012, denominata per l’appunto “legge anticorruzione”, fece propria questa nozione allargata, atecnica, e si propose ambiziosamente di prevenirla, anziché limitarsi a reprimerla penalmente. Come? Moltiplicando responsabilità, adempimenti e carte. C’è un’Autorità nazionale, che adotta un piano (il PNA), recepito e “personalizzato” da ogni singola amministrazione del variegato universo pubblico, società incluse. I contenuti sono legislativamente delineati: quattro aree di massimo rischio (autorizzazioni e concessioni, procedure concorsuali, evidenza pubblica, concessione di sovvenzioni e pubblici denari a privati), valutazioni di impatto, misure standard da adottare e, se del caso, potenziare (come la famigerata rotazione del personale).

Si punta ad assicurare la piena (anzi: “totale”) accessibilità ai siti internet delle amministrazioni, ad escludere in radice la possibilità di conflitti di interesse (con il nuovo articolo 6-bis della 241, monco ma imperioso), ad inasprire i divieti in materia di incompatibilità, ad imporre ai lavoratori, a pena di licenziamento (per condotte gravi o reiterate), il rispetto di una pletora di minuziosissimi obblighi. Si prevede, in ogni singolo ente, la figura di un cerbero – il responsabile anticorruzione – che scriva, monitori, insegni e poi scriva ancora, ricevendo nei ritagli di tempo i rapporti dei suoi referenti d’area. Guai a chi sgarra: le sanzioni fioccano, si assommano, incutono terrore.

Attenzione! —ci ammonisce l’autorevole esperto da talk show— il responsabile farebbe bene ad affidare il patrimonio ad un blind trust, se qualcosa va storto c’è pericolo che resti in mutande! In verità, la legge ci parla di responsabilità diffusa, e di un controllore principe che rischia meno di altri (va esente da conseguenze se redige il piano e veglia sulla sua attuazione), ma cos’è mai la banalità di una norma al cospetto di un aziendalista onnisciente? E poi le disposizioni si rincorrono, mutano di giorno in giorno, appaiono spariscono e ricompaiono come se a dettarle fosse uno schizofrenico —o il puro caso.

Se andiamo poi a valutarne la deterrenza scopriamo, con un sospiro di sollievo, che i pubblici dipendenti si sono fatti restii ad accettare prosciutti e bottiglie di spumante sotto Natale, che i segretari comunali anticorruzione, prossimi ad estinguersi, sgobbano come mai prima; che qualche gola profonda (poche, lamentano: ci vorrebbero le taglie!) manda dettagliate relazioni sui comportamenti “sospetti” del vicino di scrivania.

Tutto bene allora? Purtroppo no, perché —prosciutti a parte— le ruberie non cessano, gli appalti sono più inquinati di un tempo e il protagonismo criminoso di politici e supermanager a chiamata non fa rimpiangere gli anni di Tangentopoli, ridotta oggi a serbatoio di soggetti per serie televisive.

Gli scandali dell’EXPO e del Mose si aggiungono alle denunce di Transparency International che —come già scritto in un’altra occasione— tanto trasparente non è, ma ci schiaffa dietro al Ghana nella classifica della corruzione “percepita” (da chi? dagli uomini d’affari e dagli esperti di economia, ovvio), e allora tocca correre ai ripari, inventandosi o riciclando norme e addossando ulteriori obblighi a chi sta in basso. La novità del giorno è che le norme anticorruzione saranno estese in toto —con atto amministrativo, parrebbe— alle società partecipate, con l’esclusione di quelle quotate in borsa e di quelle che emettono strumenti finanziari… ottimo, ma non era già previsto? Risulta di sì (in caso contrario, ci vorrebbe un ritocco legislativo), ma poco importa: l’effetto annuncio è assicurato, il Governo Renzi può bearsi del suo “fare” e promettere agli italiani che prima o dopo il DASPO salterà fuori, e saremo tutti virtuosi e contenti —incorrotti, come certe mummie.

E a chi prova a ribattere che, anche a tacer del fatto che l’aumento a dismisura di adempimenti formali “senza maggiori aggravi per le finanze pubbliche” intralcia l’azione amministrativa, la 190 è nata zoppa di suo, perché non sanziona i comportamenti dei politici e soprattutto perché appare pensata per combattere esclusivamente la corruzione “minima” (quella del salame all’impiegato, appunto), azzimati professoroni intimeranno virtuosamente il silenzio: siamo o non siamo un popolo di cialtroni, guastati nell’intimo dalla morale cattolica? 

Forse sì, lo riconosco… ma chi profitta maggiormente della situazione, il travet che s’inventa un secondo lavoro o il signore degli incarichi dinanzi al quale ogni porta si spalanca? Il concorsista sfigato che perde un lustro sui libri o il direttore generale che, di fronte a una platea di neoassunti a 1.300 euro al mese, sminuisce il suo stipendio da 220 mila annui sentenziando: “badate che io, a differenza vostra, sono un precario”? Chi si ficca in tasca un po’ di briciole o chi pretende per sé, il figlio e il nipote la garanzia di cariche e sinecure vita natural durante, considerando il proprio privilegio un diritto, e affievolendo il diritto del cittadino comune a impudente pretesa? Sul serio possiamo mettere sullo stesso piano il modello e i suoi imitatori in sedicesimo, fingendo che le colpe degli ultimi lavino quelle del primo?

Cos’è davvero la corruzione? 
Provo a rispondermi: è un ascensore irrimediabilmente fermo al piano terra, un cancello di cui il merito non fornisce la chiave; un premier laureato in legge che, secondo recente giurisprudenza, non è tenuto a conoscere il diritto e può distribuire prebende a piacimento; un legislatore che, in dispregio di ogni decenza, regala a se stesso l’impunità amministrativa; aggiungiamo pure un gran signore che, tra una comparsata tv e la successiva, pontifica con patriarcale spocchia su (presunte) corruttele concorsuali. Corruzione è proporre di donare un mese di vacanze scolastiche alle aziende, perché gli studenti si avvezzino alla schiavitù; corruzione è sostenere che “il figlio di un operaio non può mica avere le stesse opportunità del figlio di un professionista”, ci mancherebbe; corruzione è l’inclusione di pochissimi e l’esclusione dei molti, dileggiati e costretti a contendersi un osso rinsecchito.

Corruzione sono l’ingiustizia sociale, l’avidità esaltata e blandita, la spietata sopraffazione elevata dal capitalismo neoliberista a legge fondamentale. Guardiamo la terra, non l’italico dito: se il soldo è misura di tutte le cose, la corruzione non è più patologia —è fisiologia. Ce la presentano come incompatibile con la legalità, niente di più falso: anche la legge può essere corrotta, e purtroppo per noi lo è.

Batteranno magari la piccola corruzione con l’intimidazione e la minaccia; quella grande dormirà invece sonni tranquilli, perché chi dovrebbe debellarla è il primo a trarne profitto, non di rado con la benedizione del diritto (e di chi officia i suoi stanchi riti).

* Fonte: Bandiera Rossa in Movimento

venerdì 27 marzo 2015

UNA "RIPRESA" CHE FA CAGARE (l'ISTAT non si sbaglia, Renzi, Padoan e Squinzi sì) di Piemme

[ 27 marzo ] 

Proprio oggi i giornali, anzitutto quelli di fede renziana, esultano per i "79mila posti a tempo indeterminato in più nel primo bimestre del 2014". Viva il Jobs Act quindi? Nient'affatto. Vedremo in futuro se si tratta di occupazione aggiuntiva o di licenziati che sono stato riassunti con le nuove regole capestro.

Intanto però sono giunti proprio oggi i dati dell'ISTAT, che smentiscono clamorosamente tutte le sirene della "ripresa in corso". 
Leggiamo:
«A gennaio 2015 il fatturato dell'industria, al netto della stagionalità, diminuisce dell'1,6% rispetto a dicembre, registrando flessioni dello 0,9% sul mercato interno e del 3,1% su quello estero.
Nella media degli ultimi tre mesi, l'indice complessivo diminuisce dello 0,1% rispetto ai tre mesi precedenti (-0,6% per il fatturato interno e +1,0% per quello estero).
Corretto per gli effetti di calendario (i giorni lavorativi sono stati 20 contro i 21 di gennaio 2014), il fatturato totale diminuisce in termini tendenziali del 2,5%, con cali del 3,7% sul mercato interno e dello 0,3% su quello estero.
Gli indici destagionalizzati del fatturato segnano un incremento congiunturale per i beni intermedi (+0,3%), mentre registrano variazioni negative per l'energia (-13,6%), per i beni strumentali (-2,2%) e per i beni di consumo (-0,4%).
L'indice grezzo del fatturato cala, in termini tendenziali, del 5,6%: il contributo più ampio a tale flessione viene dalla componente interna dell'energia.
Per il fatturato l'incremento tendenziale più rilevante si registra nella fabbricazione di mezzi di trasporto (+10,1%), mentre la maggiore diminuzione riguarda la fabbricazione di coke e prodotti petroliferi raffinati (-27,0%).
Per gli ordinativi totali, si registra una diminuzione congiunturale del 3,6%, sintesi di un aumento dello 0,7% degli ordinativi interni e un calo del 9,0% di quelli esteri.
Nel confronto con il mese di gennaio 2014, l'indice grezzo degli ordinativi segna una variazione negativa del 5,5%. L'incremento più rilevante si registra per i prodotti farmaceutici di base e preparati farmaceutici (+3,0%), mentre la flessione maggiore si osserva nella fabbricazione di mezzi di trasporto (-9,2%)». 
Quindi: malgrado la caduta del prezzo del petrolio; malgrado il "miracoloso" Quantitative Easing da 1140mld della BCE  (con contestuale discesa dei rendimenti dei titoli di stato, dei tassi dei mutui e dei prestiti); nonostante la svalutazione dell’euro... 
DELLA RIPRESA NON C'E' TRACCIA: le banche non prestano, i consumatori non consumano, i capitalisti non investono (né pensano di farlo in futuro). 

Mi perdonerete la presunzione, ma avevo visto giusto il 6 febbraio scorso!

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