venerdì 28 febbraio 2014

«LA CODA DI PAGLIA» di Marxista dell'Illinois n.2

28 febbraio. La natura è matrigna. Esistono esseri il cui ego è inversamente proporzionale alla loro profondità di pensiero. Alberto Bagnai non ci ha perdonato l'averglielo fatto notare.

Dopo averci qualificato come Marxisti dell'Illinois ogni tanto ci tira in ballo, ci punzecchia riempiendoci d'insulti. Lo stile, si sa, ognuno c'ha il suo.

Bagnai ci chiama in causa in merito al convegno Quali scenari per l’Europa e l’euro? che si svolgerà il prossimo 12 aprile a Roma. Ospiti d'onore del convegno saranno esponenti di spicco della classe dominante come Paolo Savona, nonché liberisti incalliti come Frits Bolkestein —sì, il politicante olandese promotore della famigerata direttiva Bolkestein, atlantista e liberista sfegatato e membro del gruppo BilderbergBagnai deve aver temuto che avremmo fatto notare le sue poco raccomandabili compagnie, così ha messo le mani avanti per non sbattere il muso.
Questa volta si è sbagliato. Non avremmo fatto notare un bel nulla per la semplice ragione che non c'era la notizia. A forza di voler stupire Bagnai non stupisce più.

Ci pare tuttavia utile ricordare come la polemica nacque. Era il 23 maggio dell'anno passato quando Pasquinelli pubblicò il noto articolo Le divergenze tra il compagno Bagnai e noi. Il Nostro andò su tutte le furie e da allora se l'è segnata al dito.

L'articolo così ricapitolava il pensiero di Bagnai:
«La tesi di Bagnai è alquanto semplice (ciò che non rende inutile leggersi il suo ponderoso Il tramonto dell’euro). Proviamo a ricapitolare la concezione generale di Bagnai: (1) la crisi non chiama in causa la struttura del sistema capitalistico, essa trae origine da alcuni “squilibri”; (2) dipende dal fatto che i debiti privati sono diventati pubblici; (3) se è anzitutto crisi dell’eurozona, ciò dipende dallo squilibrio delle partite correnti e delle bilance commerciali; (4) l’euro è causa essenziale poiché, con le parità fisse, impedisce alle leggi di mercato di farsi valere anche nella sfera valutaria.
La cura per uscire dal marasma è quindi semplice: tornare alle valute nazionali, e, grazie al gioco compensativo delle svalutazioni e rivalutazioni, i mercati capitalistici, compresi quelli finanziari torneranno a scoppiare di salute».
I lettori più attenti potranno giudicare se si trattava di una ricapitolazione arbitraria. Da essa comunque si ricavavano una tesi e un ammonimento. La tesi era che Bagnai, rifiutandosi di vedere le antitesi congenite al modo capitalistico di produzione, restava prigioniero del pensiero economico borghese, che egli non solo non aveva capito un'acca di Marx, che non aveva nemmeno compreso a fondo la lezione di Keynes.
L'ammonimento consisteva nel rimproverargli che dall'euro si poteva uscire in diverse maniere, anche "da destra", ovvero a spese dei salariati e del popolo lavoratore e negli esclusivi interessi del capitale tricolore primo responsabile del disastro in cui è stato cacciato il Paese. Che dunque, come la moneta unica non è neutrale, anche l'uscita dall'euro avrebbe avuto un segno di classe e quindi, o veniva qualificata con radicali misure anti-liberiste oppure si sarebbe risolta in un liberismo all'amatriciana.

Non ci fu traccia di risposta, solo invettive e contumelie, ciò nello sfrontato tentativo di nascondere agli occhi dei cretini che la sinistra che noi rappresentiamo pro-euro non è mai stata (mentre lui sì che lo è stato).

Che ne dice il Bagnai se dalle polemiche in rete ci si affrontasse direttamente in una pubblica sfida? Decidiamo luogo, tempi e arbitro, noi siamo pronti alla singolar tenzone. 

Si potrebbe sorvolare le praterie dell'economia politica (e Bagnai permettendo della critica marxiana ad essa e di quanto Keynes gli debba), discutere se l'economia politica è una scienza neutrale o se anche essa sia attraversata dalla lotta di classe; per poi venire a noi, all'analisi delle cause della più grave crisi che il capitalismo abbia mai conosciuto e di come venirne fuori. 

Quindi affrontare la questione del come uscire dalla moneta unica, al che noi avremmo alcune domande da fare al Bagnai. 

Ritiene o no che occorra non solo tornare alla sovranità monetaria ma uscire  dal mercato unico? Ritiene che si debba tornare alla Lira o che sia invece la Germania ad uscire dall'eurozona (delle due l'una)? Ritiene o no che sia necessaria, come minimo, una moratoria sul debito pubblico? Ritiene o no che la Banca d'Italia diventi pubblica? Ritiene o no che vada annullato il Testo unico del 1993 nazionalizzando il sistema bancario chiudendo fondi e banche d'affari? Ritiene o no che vada ripristinato il costituzionale regime di repressione finanziaria e posto fine al "libero" movimento dei capitali? Ritiene o no che il potere politico-statale sia sovraordinato rispetto al mercato? Ritiene o no che bisogna sganciare il Paese dal sistema di capitalismo-casinò? Ritiene o no che i beni comuni vadano definitivamente sottratti al mercato? Ritiene o no che i diritti sociali conquistati non siano negoziabili? Dulcis in fundo: con quali forze sociali e politiche pensa eventualmente di venir via dall'euro, ovvero a chi pensa di consegnare le chiavi della sovranità politica?

Albè, i Marxisti dell'Illinois sono pronti.

giovedì 27 febbraio 2014

GRILLO, MA TI SEMBRA QUESTO IL MODO? di Piemme

27 febbraio. L'espulsione dal Movimento 5 Stelle dei senatori Bocchino, Campanella, Battista e Orellana, solleva questioni di sostanza e di forma. Partiamo dall'aspetto formale. 

E' nota la querelle sullo Statuto-non-Statuto dei pentastellati, ovvero l'assenza di un documento costitutivo in cui fossero scolpite le regole sulla vita interna.  L'Huffington Post nell'aprile dell'anno scorso ci informava che in realtà uno Statuto associativo di M5S c'era, e come —potete leggerlo QUI.
Anche prendendo per buono quest'ultimo Atto, depositato nel dicembre 2012, è facile rilevare come esso non contenga alcun capitolo su eventuali sanzioni per chi trasgredisca le regole della vita associativa, tantomeno la più grave e definitiva tra esse, l'espulsione. 

Quando la vita di un'Associazione politica non è normata da chiare regole è facile che essa sia esposta a procedure arbitrarie se non addirittura assolutistiche. Questo ci pare il caso. Un movimento politico può certo riservarsi di cacciare dalle sue file chi contravvenga in modo grave alle sue regole associative. Ma ciò implica non solo che chiarezza sulle regole, ma altrettanto chiare procedure, tra cui quella di concedere, a chi sia accusato di violazione delle regole e dunque sottoposto a sanzione, garanzie certe di autodifesa. Ciò implica a sua volta la chiara distinzione tra l'organismo che deve condurre l'istruttoria tesa a verificare la veridicità delle accuse, e quello esecutivo che commina la sanzione. 
Non v'è traccia di tutto ciò nello Statuto di M5S. Una mancanza non grave, gravissima.

I cinque senatori espulsi
Di cosa sono stati accusati i quattro senatori? Di aver pubblicamente criticato la maniera con cui Beppe Grillo ha gestito l'incontro con Matteo Renzi. Se ne deve dedurre che la regola d'oro di M5S sarebbe quella del "centralismo democratico" di matrice leninista, per cui ferma restando la libertà di critica interna, all'esterno può essere veicolata solo la posizione della maggioranza. Non che questa regola d'ora sia sbagliata di per sé, anzi! —sarà ora di farla finita con l'idea postmoderna dei partiti liquidi, gassosi, in cui ognuno fa quel che gli pare— ma se le cose stanno così allora ciò andrebbe non solo detto, ma descritto in uno Statuto degno di questo nome.

La vicenda dei quattro senatori Bocchino, Campanella, Battista e Orellana, è consistita in due distinte ma fulminee tappe: prima essi sono stati espulsi dal gruppo senatoriale con voto a maggioranza da parte dell'assemblea dei parlamentari. Successivamente sono stati espulsi dal Movimento attraverso un voto on line con (una maggioranza schiacciante 29.883 per l'espulsione 13.485 contro).

Ciò che a noi pare davvero fuori dal mondo —ammesso e non concesso che il consesso dei parlamentari possa arrogarsi il diritto di cacciare dal gruppo istituzionale, in quattro e quattr'otto, questo o quello—  è il plebiscito on line che ha espulso i quattro dal Movimento. Anche volendo sorvolare su chi e come gestisce la piattaforma informatica, resta che ai quattro non è stata concesso alcun diritto alla difesa davanti agli iscritti votanti, i quali quindi sono stati chiamati a deliberare senza possedere tutti gli elementi necessari per una decisione ponderata. 
Non è ammissibile che sia comminata una sanzione grave e definitiva come l'espulsione senza un'istruttoria degna di questo nome e quindi un dibattimento in cui sia concesso gli accusati di fornire le loro eventuali ragioni. In poche parole quello on line è stato un processo sommario, che chiama in causa nuovamente il regime interno di M5S, centralista e nient'affatto democratico.

Fermo restando che in molti casi le questioni formali sono decisive, non ci sfugge che dietro alle questioni formali c'è la sostanza. Ammettiamo che sia vero che i quattro pendono verso il Pd e che avrebbero voluto, tanto per dire, dare la fiducia al governo di Renzi. Questa fiducia non l'hanno data, così quello che abbiamo davanti appare come un brutto processo alle intenzioni. 

Non è un segreto che noi apprezziamo la "linea dura" di M5S, ovvero il suo rifiuto di fare da stampella al regime ed ai suoi partiti. Il fatto è che certi metodi, per la gioia dei partiti di regime, danneggiano questa sacrosanta battaglia d'opposizione.

Ps. A proposito di coerente battaglia contro il regime. Siamo oramai alle porte delle elezioni europee. Quanto tempo ancora occorre a M5S per prendere una posizione netta contro l'euro(pa)?




mercoledì 26 febbraio 2014

PIER PAOLO PADOAN: CURRICULUM di Carlo Fracassi

26 febbraio. «La riforma Fornero è stato un passo importante per la risoluzione dei problemi dell’Italia», dichiarò un anno fa il neo ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Ex dirigente del Fondo monetario internazionale, ex-consulente della Bce ed ex-vice segretario dell’Ocse, Padoan è di casa tra i potenti del mondo.

Scelto personalmente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e osannato dai grandi media italiani, il neo ministro non è stimato da tutti gli economisti, soprattutto da quelli non liberisti. Sentite cosa scrisse di lui sul New York Times il premio Nobel per l’economia Paul Krugman: 
«Certe volte gli economisti che ricoprono incarichi ufficiali danno cattivi consigli; altre volte danno consigli ancor peggiori; altre volte ancora lavorano all’Ocse».
Padoan era responsabile dell’Argentina per conto del Fondo monetario internazionale nell’anno in cui il Paese sudamericano fece default.
A cosa si riferiva Krugman? Padoan è stato l’uomo che ha gestito per conto del Fondo monetario internazionale la crisi argentina. Nel 2001, Buenos Aires fu costretta a dichiarare fallimento dopo che le politiche liberiste e monetariste imposte dal Fmi (quindi, suggerite da Padoan) distrussero il tessuto sociale del Paese. In quegli anni il neo ministro si occupò anche di Grecia e Portogallo. 

Krugman scrisse in un altro articolo che furono proprio le ricette economiche «suggerite da Padoan a favorire la successiva crisi economica nei due Paesi».
Ecco cosa dichiarò Padoan a proposito della crisi greca: 
«La Grecia si deve aiutare da sola, a noi spetta controllare che lo faccia e concederle il tempo necessario. La Grecia deve riformarsi, nell’amministrazione pubblica e nel lavoro». 
In altre parole,  Atene avrebbe dovuto rendere il lavoro molto più flessibile, alleggerendo (licenziando) la macchina della pubblica amministrazione. Nel marzo del 2013, quando la Grecia era sull’orlo del collasso, l’allora numero due dell’Ocse suggerì più esplicitamente: 
«C’è necessità che il governo greco adotti una disciplina di bilancio rigorosa e di un continuo sforzo di risanamento dei conti pubblici, condizioni preventive per il varo di misure a sostegno dello sviluppo».
Padoan è stato per quattro anni responsabile per conto del Fmi della Grecia. Successivamente, ha influenzato le politiche economiche di Atene in qualità di vice presidente dell’Ocse.

martedì 25 febbraio 2014

RENZI: SOTTO IL VESTITO NIENTE di Leonardo Mazzei

25 febbraio. Una caustica e lucidissima analisi del "renzismo" e della sua parabola.

Dicono che Renzi abbia tenuto un "discorso programmatico". Lo dicono, ma nessuno sa dire cos'abbia detto. Neppure quelli che al Senato c'erano. Dunque: sotto il vestito niente. Stupore? No, dopo il discorsetto del siluramento di Letta tenuto al cospetto della direzione piddina niente può più stupire.

La sensazione è quella di una banda assetata di potere, che giunta al traguardo ancor prima del previsto adesso non sa bene cosa fare. Se questa è l'ultima carta del regime oligarchico che incatena l'Italia alla gabbia europea, allora questo regime è veramente alla frutta.

Ma cos'è davvero il renzismo? A giudicare dal discorso di ieri è il nulla circondato dal niente. Un fritto misto di frasi fatte, luoghi comuni, retorica di basso livello. Il tutto nella solita cornice iper-liberista, ma un liberismo scopiazzato, di seconda mano, logorato dal tempo e dall'esperienza della crisi. Sulla quale nulla si sa dire. Anzi, ad ascoltarlo sembra quasi che la crisi sia arrivata per caso, al massimo per responsabilità della burocrazia e di una politica troppo vecchia. Una lettura da scuola elementare, verrebbe da dire, visto che Renzi ha voluto farsi bello con qualche frase innocua sull'istruzione.

Se è ancora presto per dire cosa sia esattamente, assai più facile è capire da dove arriva il renzismo. Il processo di americanizzazione (e dunque spettacolarizzazione e personalizzazione) della politica qui ci doveva condurre. Altro che berlusconismo come "anomalia"! Se il Buffone di Arcore non sarebbe mai potuto emergere senza la legge maggioritaria, il suo pari-grado fiorentino è il figlio legittimo e naturale dell'idiozia delle primarie.

L'emersione di un simile soggetto ci parla dunque, ed in modo assai chiaro, del curioso corpaccione che l'ha prodotto. Il compagno Preve lo definiva come una specie di serpentone metamorfico, il Pci-Pds-Ds-Pd, un aggregato di potere alla perenne ricerca di un "nuovo" in grado di perpetuare i livelli di potere raggiunti, anche grazie alla cancellazione di ogni memoria storica sulle proprie origini.

Non che fosse già iscritto in qualche congiunzione astrale, ma guardando ai passaggi salienti di questo processo come stupirsi dell'esito attuale? Prendiamola da lontano, limitandoci ai leader. Il primo fu Occhetto, passato alla storia per aver fornito a Segni le firme che non avrebbe mai raccolto da solo per affossare il proporzionale. Il secondo fu D'Alema, colui che andò al governo giusto perché c'era da bombardare la Jugoslavia. Tralasciando la mesta figura di Fassino (che comunque sta anch'egli con Renzi) il terzo fu Veltroni, quello delle figurine Panini. Che è poi lo stesso Veltroni che si vantò di candidare una ventisettenne proprio in virtù della sua acclarata inesperienza. Inesperta, ma raccomandatissima, come ha raccontato Odifreddi in un gustoso articoletto, la ventisettenne è ora diventata ministro: una perfetta icona del renzismo, non c'è che dire.

Ma se alla fine il Pd ha partorito Renzi, la responsabilità maggiore ce l'ha il gruppo dirigente dalemiano (con Bersani segretario) che l'ha preceduto alla guida del partito. Un gruppo dirigente ben felice di mettersi al servizio delle oligarchie finanziarie. Un gruppo dirigente che è stato il maggior sostenitore del governo del Dracula Monti, che si è contrapposto al berlusconismo solo come campione del rigore europeista, che non ha saputo neppure gestire l'elezione del Presidente della Repubblica e che infine ha dato il via libera alle "larghe intese" con l'odiato Cavaliere. Un gruppo dirigente che non ha saputo neppure regolamentare le primarie, aprendo così la strada ad una specie di "Papa straniero", un avventuriero senza scrupoli che si è fatto forte solo per la dabbennaggine altrui.

Poco importa, ai fini di questo ragionamento, andare a vedere quali sono i "poteri forti" che stanno sponsorizzando Renzi. Quali volete che siano? Sono quelli altrettanto spregiudicati, quelli che possono permettersi di scommettere sull'ex sindaco di Firenze perché sanno di poterlo eventualmente mollare al momento che si rendesse necessario.

La cosa più interessante è però un'altra. Ed è che in fondo tutti i maggiori centri di potere sperano in Renzi. Magari non lo amano, spesso anzi lo detestano, considerandolo in fondo un dilettante allo sbaraglio. E tuttavia sono tutti costretti a sperare in lui. Perché dopo il barzellettiere, dopo il salvatore della patria, dopo il tessitore della tela di Penelope delle "larghe intese", cosa potrebbero mai inventarsi se anche lo sbruffone fiorentino dovesse fallire?

Ecco il vero punto di forza di Renzi: non solo la debolezza dei competitors politici, ma anche lo sbando, che non sottolineeremo mai abbastanza, dell'intera classe dirigente italiana. Uno sbando che ha prodotto Renzi, di una classe dominante che a Renzi deve per forza aggrapparsi.

E' per questo che il segretario del Pd può permettersi tanta arroganza. Ma fino a quando? Se torniamo al discorso tenuto al Senato c'è un nodo che verrà al pettine assai rapidamente. E' il nodo dei vincoli europei, che Renzi finge di non vedere, ma che a Bruxelles gli spiegheranno assai presto. Sull'Europa il neo-premier è tornato perfino indietro rispetto al dibattito politico precedente. Al ragionamento ha preferito uno slogan, quello degli "Stati Uniti d'Europa". Ed all'analisi della crisi dell'eurozona ha preferito l'insulsa retorica sull'europeismo alla Spinelli.

Sul programma Renzi ha detto davvero poco, ma anche quel poco - ad esempio sulla questione del "cuneo fiscale" - appare del tutto incompatibile con il vincolo del 3%, che forse vorrebbe sforare confidando sul fatto che l'Europa possa chiudere per una volta entrambi gli occhi. Speranza assai infantile, perfettamente nella natura del personaggio, ma che ben difficilmente si realizzerà. Ridicola dunque la scelta di non dir niente sulle coperture finanziarie della misura prospettata. Un metodo questo che ricorda quello del suo vero ispiratore, quel Berlusconi che l'ex sindaco ha rimesso in campo a tutti gli effetti.

Sul "cuneo fiscale", la pittoresca vaghezza del nuovo capo del governo ha raggiunto l'acme. Forse non sapeva neppure esattamente di cosa stava parlando, come il suo vice Delrio a proposito dei Bot. Sta di fatto che ha annunciato trionfante una riduzione a "doppia cifra", dunque da 10 a 99. Ma doppia cifra in percentuale o in miliardi? Come riferisce il Corriere della Sera questa mattina, qualcuno a Palazzo Chigi ha precisato che si tratta di miliardi e che non saranno neppure 10 bensì 7/8. Di questi, 5 dovrebbero andare ai lavoratori, per una riduzione fiscale mensile di circa 27 euro.

Vedremo più avanti, ma sembra proprio che la montagna abbia partorito il più classico dei topolini. Giunto al dunque, il Renzi che alle primarie diceva di voler "mettere" 100 euro nelle buste paga dei lavoratori è già sceso ai più miti consigli dettati dai guardiani dell'euro. Quelli che gli hanno messo (via Napolitano) Padoan al Ministero dell'Economia.

Ora molti si chiedono chi sia questo Padoan. E chi volete che sia! E' solo uno delle centinaia di appartenenti alla casta sacerdotale trans-nazionale che amministra la religione del tempo: quella liberista e mercatista. Eccezion fatta per i dati somatici, costoro sono in un certo senso tutti uguali. Parlano la stessa lingua, adoperano lo stesso gergo, sono transitati dagli stessi centri del potere finanziario, hanno ricoperto le stesse cariche negli stessi organismi internazionali (Fmi, Bm, Ocse, Bce, eccetera). E sono tutti addestrati per andare a dettar legge nei rispettivi governi nazionali, quando la "causa" - quella dell'oligarchia alla quale di fatto appartengono - lo richiede.

Nel caso italiano i precedenti di Monti e Saccomanni sono più che sufficienti. E Padoan è uno di loro. Di costoro si sa già cosa diranno. Del resto hanno passato una vita in giro per il mondo a dire sempre le stesse cose: "ci vuole più mercato", "bisogna liberalizzare", ma anche "privatizzare per dare efficienza", i "conti vanno tenuti in ordine", dunque bisogna "tagliare le spese", eccetera, eccetera. E se la loro politica si rivela un disastro, come nell'Europa reale della crisi infinita, avanti un altro della stessa pasta (e della stessa setta) a dirci che non si è liberalizzato, privatizzato e tagliato abbastanza. E davvero non si capisce a cosa serva una laurea e tanti studi universitari per ripetere come un disco rotto questi dogmi smentiti dai fatti.

Se Padoan è il guardiano di turno, Renzi sarà il ciarliero imbonitore dell'ennesimo governicchio di un paese di fatto commissariato da Bruxelles. Quanto possa durare questo giro di giostra non lo possiamo sapere. L'ex sindaco sa che i parlamentari non vogliono andare a casa troppo presto, e conta quindi di poter andare avanti con i loro voti. Voti non convinti, dunque, ma necessari al mantenimento del loro privilegiato "posto di lavoro".

Dalla tragedia alla farsa a volte il passo è breve, e nell'odierna situazione italiana anche il futuro "occupazionale" delle pecore ladre che pascolano nelle istituzioni è un fattore da tenere ben presente. E, tuttavia, proprio perché la situazione sociale è drammatica, Renzi sta scherzando col fuoco.

Il suo è l'azzardo del dilettante. E' alla guida di una maggioranza malferma, condizionata da un pezzo della coalizione elettorale avversaria. Un coacervo che rappresenta sì e no - lo vedremo alle prossime elezioni europee - il 40% degli elettori. Certo, può contare sulla "non opposizione" di Forza Italia, ma questo appoggio esterno vi sarà solo fino a quando converrà al Cavaliere. Una convenienza che verrà a mancare tanto prima, quanto prima la popolarità di Renzi inizierà a scemare.

Se i tempi non sono facilmente ipotizzabili è dunque invece prevedibile che Renzi andrà a sbattere. E con lui l'intero Pd, vista anche l'infima qualità delle altre componenti interne. Da quella che con Cuperlo ha steso per prima il tappeto rosso che ha condotto lo sbruffone a Palazzo Chigi, a quella civatiana del "vorrei ma non posso". E' possibile, a modesto avviso di chi scrive perfino probabile, che con Renzi avrà fine anche il curioso serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd. Bene, quando avverrà, se avverrà, non saremo certo noi a rimpiangerlo.

Il renzismo è dunque assai più debole di quel che sembra, ma questo non significa che non possa fare danni. Anzi, è certo che li farà. E cercherà di farli alla svelta, in primo luogo sul lavoro e sulla legge elettorale. La fretta del neo-premier è figlia della consapevolezza di una certa popolarità che potrebbe però consumarsi alla svelta. Per questo è urgente che si manifesti da subito un'opposizione politica e sociale in grado di mettere immediatamente in difficoltà l'arrogante emulo del Cavaliere.

Ci riusciremo? Solo i fatti ce lo diranno, ma non bisogna essere pessimisti. Renzi è arrivato là dove voleva arrivare in poco tempo. Ma forse è arrivato comunque in ritardo, perché dopo sei anni di crisi anche gli imbonitori non hanno più l'audience di un tempo. Il problema non è dunque tanto nella forza di Renzi, quanto nella debolezza del campo che dovrebbe opporsi al suo governo. Un campo che deve organizzarsi, ma che - il 9 dicembre l'ha dimostrato - può contare ormai sulla disponibilità a battersi di una consistente fetta di popolo.

lunedì 24 febbraio 2014

PATRIMONIALE... MA DE CHE?! di Piemme

24 febbraio. Abbiamo appena ascoltato il comizio con cui Matteo Renzi ha chiesto la fiducia al Senato. Sfuggente su molte questioni egli è stato paraculescamente perentorio nel sottolineare non solo il suo convinto europeismo ma le sue simpatie per una "svolta radicale", ovviamente all'insegna del più beota neoliberismo. Torneremo domani sulla questione

Ha fatto scalpore la dichiarazione del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Graziano Del Rio e braccio destro di Renzi: "si potrebbero tassare i Bot". C'è stata una specie di insurrezione generale da parte delle destre politiche, comprese quelle del neonato governo, e di pressoché tutti gli organi di stampa: "NO ALLA PATRIMONIALE! DIO CE NE SCAMPI DA ALTRE TASSE!".

Vediamo di vederci chiaro.
«L'idea di aumentare la tassa sulle rendite finanziarie non è una novità. È anzi uno dei cavalli di battaglia di Davide Serra, il finanziere fondatore del fondo Algebris che vive da circa 20 anni a Londra, considerato il mentore economico di Renzi. Lo stesso Serra che è in più occasioni ha detto che l'Italia - che dal 2012 ha equiparato la tassazione su redditi diversi (capital gain su strumenti finanziari) e redditi da capitale (interessi e dividendi) al 20%, con l'eccezione di titoli di Stato, buoni postali, bond di Paesi in White list e di organismi internazionali che godono dello sconto al 12,5% - dovrebbe aumentare l'aliquota sulle rendite finanziarie al 30%. Per favorire una redistribuzione sul mondo del lavoro, tassato complessivamente al 68%. Va detto che Enrico Letta a ottobre ha provato a introdurre un aumento al 22% ma non è riuscito». [Vito Lops. Il Sole 24 Ore del 24 febbraio]
Non una patrimoniale vera e giusta quindi, ma finta e ingiusta, è quella che hanno in mente Del Rio e i renziani. Si tratterebbe di un modesto adeguamento agli standard europei della tassazione sui ricavi delle rendite, non sulle rendite stesse. [vedi Tabella 1]

Ingiusta infine, perché finalizzata non a trasferire risorse ai settori sociali che stanno in basso ma, ben al contrario, a rimborsare il debito pubblico, quindi a spostare risorse verso chi sta in alto, proprio quindi ai settori rentier che s'ingrassano lucrando sul debito. Per farla corta: la sola patrimoniale che concepiscono i liberisti (renziani compresi) è una rapina sociale a favore dei ricchi speculatori.


Tabella 1
Quale dovrebbe essere una patrimoniale vera e giusta? Quella che applica un tributo non solo ai ricavi delle rendite ma alle rendite medesime, partendo da quelle più grandi. Un esempio? Un conto è tassare un milione di euro tesaurizzati (i quali possono essere cristallizzati in conti correnti, obbligazioni bancarie, azioni, fondi, e in parte in titoli di stato), un altro è tassare solo gli interessi annui che quel tesoro frutta.

Non si può pensare che un regime politico figlio dell'epoca neoliberista, che ubbidisce agli interessi degli strati rentier delle classi dominanti, possa darsi la zappa sui piedi: esso non vuole colpire ma proteggere le rendite finanziarie —che per loro natura ingrassano chi le detiene e le banche che le amministrano e sui cui staccano un pizzo ben più grosso del tributo dello Stato. 

L'aristocrazia finanziaria ottiene infatti i suoi guadagni proprio dalla tesaurizzazione, dal trattenere la liquidità nei circuiti bancari e borsistici (compresi quelli ombra). Si tratta di ricchezza monetaria tolta alla sfera dell'economia produttiva, e che non vi rientra fintanto che i ricavi che si ottengono in quei circuiti sono più consistenti di quelli che si ottengono nel ciclo della produzione di merci. Lo stesso Keynes insegnava che chi voglia far ripartire il meccanismo dell'accumulazione capitalistica e degli investimenti deve colpire alla radice le rendite finanziarie per drenare risorse immobilizzate come "tesoro" affinché affluiscano  nella "economia reale". Di qui il ruolo centrale dello Stato che per avviare un ciclo virtuoso d'investimenti e aumentare la domanda aggregata, può e deve, non solo usare la leva monetaria, ma pure quella fiscale.
Tabella 2. Clicca per ingrandire

E' un fatto che di misure keynesiane le oligarchie euriste non vogliono saperne. E i governi italiani ubbidiscono. Gli oligarchi neoliberisti sono contrari a tasse patrimoniali sui ricchi redditieri, ma hanno imposto una crudele e colossale tassa patrimoniale sul popolo lavoratore e sulle classi sociali che stanno in basso. In questo consistono le misure austeritarie di macelleria sociale.

Avremo modo di tornare con una specifica inchiesta sulle rendite finanziarie e la ricchezza mobiliare e immobiliare in Italia e la loro specifica composizione. Qui basti dire che una GIUSTA PATRIMONIALE è quella che non si limita a tassare i ricavi delle rendite finanziarie —ad esempio il prelievo sui conti correnti che dal 27 è stato abbassato al 20%— ma le rendite medesime. In effetti questa tassa sull'intero patrimonio mobiliare c'è già è consiste in un misero 2 per mille. Ovvero, sempre stando al tesaurizzatore che tenga fermo un milione di euro, egli paga un modestissimo tributo di 2mila euro. 

E' di un rovesciamento di paradigma quello di cui c'è bisogno. I portabandiera neoliberisti dei rentier spaventano i cittadini dicendo che una tassa patrimoniale colpirebbe i "poveri risparmiatori". Facile demagogia. 
Tabella 3

In Italia la ricchezza mobiliare (finanziaria) complessiva ammonta a circa 3.800 miliardi di euro [vedi Tabella 2, che non tiene conto delle stime sull'aumento verificatosi nel 2013], 2,3 volte il Pil. Secondi i dati di Bankitalia di questi 3.800 Mld la quota di risparmio popolare ammonta a circa 800 miliardi (40mila€ medi x 20 milioni di famiglie).

Si può ben preservare la fascia di risparmio popolare e colpire chi detenga rendite superiori. Si potrebbe istituire un'imposta patrimoniale, diciamo del 0,6% annuo (invece che del 2x1000 attuale). Otterremmo la "cifretta" di 18 miliardi. Si potrebbe fare una cosa ancor più equa: stabilire che l'imposta patrimoniale sia progressiva, ovvero che chi più ha più paga. 

Ma restiamo ad un'imposta standard del 6x1000. 

La si potrebbe chiamare "imposta di scopo", ad esempio per dare un assegno minimo mensile garantito ai disoccupati. I disoccupati sono all'incirca 3 milioni, e i 18 miliardi assicurerebbero appunto l'elargizione di un assegno mensile —nell'ipotesi di un reddito garantito di 500€ al mese avremmo infatti che l'importo complessivo annuo sarebbe di 18Mld (500x12x3Mln).
Tabella 4 (clicca per ingrandire)

Questa non sarebbe solo una misura sacrosanta di giustizia sociale, un modo per far uscire i cittadini privi di garanzie (esclusi dal cosiddetto "welfare") dalla povertà. Sarebbe un modo per rianimare il mercato dei consumi dei  beni di prima necessità e quindi, ci direbbe il keynesiano, per incoraggiare la domanda.

I neoliberisti, della destra e della sinistra sistemiche, urleranno allo scandalo. Ci diranno che "i risparmiatori hanno la memoria di elefante e le zampe di lepre", per spaventarci col discorso che i capitali liquidi davanti ad una simile imposta scapperanno per porti più sicuri e remunerativi.

E' questo il senso di appartenenza alla comunità nazionale dei neoliberisti. Più spesso è il loro portafogli più si sentono patrioti, dal patriottismo passano in un battibaleno al disfattismo anti-popolare se in quei portafogli lo Stato prova a mettere il naso a salvaguardia delle classi più umili.

Questi disfattisti sono traballanti ma coerenti. Invisi se non odiati dalla maggioranza dei cittadini hanno per questo invocato il "vincolo esterno", accettando di farsi tramite del regime di doppio Protettorato (Euro-americano) a cui il Paese è ora sottoposto. Matteo Renzi promette una "svolta radicale". In realtà non la farà, non può e non vorrà farla, poiché la sola svolta radicale necessaria e degna di questo nome è l'uscita dall'Unione europea e la riconquista della sovranità nazionale, il solo perimetro in cui la stessa sovranità popolare può essere effettiva.




domenica 23 febbraio 2014

TROPPI "SPINELLI" A SINISTRA di Spartaco A. Puttini

23 febbraio. Quante possibilità ha Renzi di sbattere la testa contro il muro dell'euro(pa)? Altissime. Nel frattempo la sinistra si va divaricando in modo sempre più netto tra due linee, tra chi (come Renzi) si illude di poter evitare l'abisso con "più Europa", e chi ritiene (come noi) che il primo passo per la salvezza del Paese e del popolo lavoratore sia l'uscita unilaterale della gabbia eurista e la riconquista della sovranità nazionale.
«La crisi ha mostrato il vero volto del processo d’integrazione europeo. A dispetto di tanta pubblicità, oggi la Ue non gode di grande reputazione presso i popoli europei. Quando si parla di Europa occorre evitare i facili equivoci. L’Unione europea non è infatti l’Europa, ma una sua parte e l’Eurozona è, a sua volta, una parte della Ue. Ciononostante nel linguaggio corrente i termini sono interscambiabili.
Il processo di integrazione europeo si è ammantato di nobili ideali e anche di qualche utopia, rincorrendo il sogno federale degli Stati Uniti d’Europa ma realizzando l’incubo sovranazionale della Ue, cioè dell’Europa degli Stati Uniti.
Europa degli Stati Uniti sia nel senso che ad integrarsi sono stati i paesi di quella parte d’Europa soggetta all’egemonia Usa (significativo che l’allargamento dell’Ue ad est avvenga parallelamente all’espansione ad est della Nato), sia nel senso che la costruzione dell’unione avviene sotto la tutela americana, all’insegna dell’accettazione piena della reazione neoliberista già in voga nel mondo anglosassone e, in definitiva, come ulteriore tappa del processo di mondializzazione1.
Nicola Acocella ha recentemente sottolineato come l’accelerazione che vive il processo di integrazione europeo tra gli anni ’80 e gli anni ’90 avvenga in un clima segnato dall’affermazione del modello neoliberista sulla base dell’obiettivo di completare la costruzione di un mercato unico dei beni, dei capitali, delle persone2. Il processo si configura nei fatti sintonizzato alla reazione globale neoliberista, con la sua proposta di finanziarizzazione e libera circolazione dei capitali senza controllo, con la sua richiesta di stato minimo e privatizzazione, con il suo porre l’accento sull’autonomia del mercato e la lotta all’inflazione anziché sullo sviluppo orientato dalla mano pubblica e sulla lotta alla disoccupazione.

La spinta ad una maggiore integrazione dell’Europa occidentale, con il salto dalla Comunità all’Unione, avviene proprio in questa temperie, dal vertice di Lussemburgo che sancisce la firma dell’Atto unico europeo nel 1986, a Maastricht. L’intelaiatura e lo spirito della Ue sono caratterizzati e segnati dallo stigma reazionario. La credenza nella capacità di autoregolazione dei mercati e l’ostilità verso l’intervento pubblico spiegano in certa misura la scelta di introdurre una moneta unica soggetta ad un’istituzione bancaria centralizzata e conservatrice ossessionata dalla lotta all’inflazione e spiegano anche “l’incompiutezza istituzionale” in cui versa la Ue. Senza il complemento di altre istituzioni che sovraintendano ad una politica fiscale comune si riteneva scontato che sarebbe stato l’input della politica monetarista a disciplinare l’attività economica dei vari paesi e a far convergere le economie dell’Eurozona. Acocella rileva come “Ciò introduce una tendenza deflazionistica che successivamente accentuerà e prolungherà gli effetti della crisi economica iniziata nel 2007”3. Del resto, a sottolineare ulteriormente che una politica di compressione dei salari e dei diritti dei lavoratori era insita nell’impostazione che l’integrazione si era data era la stessa Commissione europea, che già nel 1990 indicava la strada maestra: “si è progressivamente affermato il convincimento che le divergenze economiche reali che si manifestano in squilibri esterni vanno affrontate di norma con misure di aggiustamento interno, piuttosto che con riallineamenti, cioè con un aggiustamento esterno”4. Vale a dire che già alla vigilia di Maastricht la Commissione aveva indicato come gli squilibri di competitività interni all’area della moneta unica non dovessero essere affrontati tramite la leva della svalutazione monetaria (che avrebbe invalidato il principio del cambio fisso su cui l’area stessa veniva costituita) ma tramite la svalutazione interna dei salari. Del resto, l’area valutaria a cambi fissi prima e la moneta unica dopo sono state volute a tutto pro del capitale e della sua possibilità di circolare liberamente senza pagare il pegno delle possibili svalutazioni. In proposito scriveva Padoa Schioppa in tempi non sospetti: “l’euro assume un significato speciale perché porta la creazione di un mercato alla sua conseguenza ultima, che è l’introduzione di una moneta unica”5.

Oggi è sotto gli occhi di tutti il fallimento del modello neoliberista così come lo sono le divergenze crescenti all’interno dell’Eurozona. Assistiamo ad una dinamica segnata da crescenti squilibri a causa dell’aumento del divario tra i paesi centrali dell’Eurozona e quelli periferici e semiperiferici da un lato, e tra le classi sociali, con una netta tendenza alla proletarizzazione da parte di fasce crescenti del ceto medio, dall’altro. Di fronte all’eurocrisi in corso ciascuno può toccare con mano come le ricette di austerità della Commissione europea e della BCE portino a un crescente immiserimento delle classi popolari e ad una brutale regressione dei diritti del lavoro in tutta la Ue, prospettando la formazione di masse di working poor, lavoratori poveri che non riescono a campare del proprio lavoro cui si sommano, nella disgrazia sociale imperante, quote rilevanti di disoccupati.
Ma questo non basta: occorre avere presente il quadro che nelle righe precedenti è stato didascalicamente abbozzato per comprendere che il problema posto dalle attuali politiche promosse dalla Ue risiede nello stesso DNA del processo di integrazione, che è, per così dire, nel manico. 
 
L’unione monetaria (UEM)
La libera circolazione dei capitali e la costruzione di uno spazio economico integrato richiedevano, per ragioni di stabilità dei cambi, la moneta unica e la devoluzione, da parte degli stati europei, di quote di sovranità in ambito monetario ed economico. La funesta scelta dell’euro appare una conseguenza della scelta a monte di costruire uno spazio integrato a misura di capitale che fosse un ramo della Triade dei paesi capitalistici avanzati. Bisogna in proposito elogiare Padoa Schioppa per la sua schiettezza: “[…] la decisione di completare il mercato unico con una moneta unica prese origine dal riconoscimento di due fatti. In primo luogo, si riconobbe che l’ordine di un mercato unico non poteva essere mantenuto senza stabilità macroeconomica; in secondo luogo, che la stabilità nel suo insieme non poteva essere raggiunta in modo duraturo se ciascun paese continuava ad agire in modo indipendente”6. Di conseguenza: “Nel governo dell’economia la creazione del mercato unico europeo ha imposto allo Stato nazionale una drastica limitazione della sovranità, cioè del suo diritto illimitato e della sua capacità di prendere decisioni autonome”7.
Come nella più classica storia dell’imperialismo si verifica così, tramite il processo di integrazione, l’attacco alla sovranità, dapprima in ambito economico, e poi in altri ambiti; fino alla costruzione della piramide che vuole al vertice il diritto comunitario cui in subordine devono essere relegate le costituzioni dei paesi membri. L’attacco alla sovranità è l’attacco agli spazi di democrazia che il movimento operaio si è conquistato nel corso del Novecento tramite dure lotte. Nelle parole di Padoa Schioppa la questione posta dalla democrazia agli imperativi delle forze del capitalismo monopolistico che dirigono il mercato viene liquidata così: “Una concordanza completa e sistematica delle politiche macroeconomiche condotte da gruppi di governi sovrani risulta estremamente difficile per una molteplicità di ragioni. Ciascun governo risponde, in ultima analisi, al proprio elettorato: vi sono assai scarse probabilità … che gli elettori di paesi diversi votino per le stesse politiche nel medesimo tempo […] per evitare conseguenze negative, occorre rafforzare il coordinamento delle politiche in modo indiretto, cioè attraverso l’istituzionalizzazione o l’organizzazione di un mercato europeo dei capitali”8.
L’eterogeneità dei paesi che compongono l’Eurozona in presenza di una politica liberale deregolata e del cambio fisso contribuiscono a delineare un centro, costituito essenzialmente dal grande capitale monopolistico tedesco, e delle aree periferiche e semiperiferiche, costituite dai paesi meno sviluppati. Ripropone cioè all’interno dell’Unione europea monetaria (UEM) la dialettica centro-periferia tipica delle relazioni tra i paesi imperialisti e le loro vittime sacrificali dei paesi in via di sviluppo.
La politica europea si configura così come volta a trasferire ricchezze dai salari alle rendite, dalle classi popolari lavoratrici e medie alle oligarchie alto-borghesi, dai paesi periferici e semiperiferici al centro tedesco. Il cambio fisso consente ai capitali del centro di affluire alla periferia, dove i più alti tassi d’interesse garantiscono una maggiore remunerazione, senza incorrere nel rischio della svalutazione. Parimenti, la politica di pesante deflazione salariale seguita dalla Germania dopo le riforme del mercato del lavoro attuate dai socialdemocratici all’inizio degli anni 2000 le consente di impostare una politica di feroce concorrenza sui prezzi di costo dei suoi prodotti che la portano a sottrarre quote crescenti di mercato ai suoi partner comunitari. Si delinea così un modello tedesco trainato dalle esportazioni che accumula surplus strutturali nei confronti dei suoi partner europei, che importano dalla Germania (anche grazie alla domanda drogata dall’afflusso di capitali) più di quanto possano esportarvi (altro effetto della politica di deflazione salariale inaugurata dalla socialdemocrazia tedesca). I paesi periferici non possono reagire svalutando la moneta, agganciati come sono al cambio fisso dell’euro-marco, e i prodotti tedeschi non subiscono rivalutazione alcuna per lo stesso meccanismo. In breve i paesi del sud, i PIGS, ingrassano il centro tedesco, e sono spinti ad accumulare deficit strutturali nei suoi confronti9.
La loro situazione peggiora sempre più, a causa degli attacchi speculativi dovuti alla loro manifesta fragilità, evidenziata dall’inclinazione assunta dalla bilancia dei pagamenti. La crisi da debito estero, contratto principalmente dal settore privato, diventa debito pubblico e spiega il differenziale tra i tassi d’interesse dei titoli di Stato di questi paesi nei confronti dei bund tedeschi, perché gli investitori li ritengono a rischio insolvenza, e tale rischio se lo fanno ovviamente pagare profumatamente, alimentando il debito.
I PIGS si trovano di fronte due scelte, non solo a causa delle politiche di austerità imposte loro dalla tecnocrazia europea ma per lo stesso meccanismo insito nell’unione monetaria. Non potendo svalutare la moneta i paesi in deficit sono spinti a svalutare il lavoro, cioè ad operare una drastica deflazione salariale inseguendo la Germania sul suo stesso terreno. Ma è una corsa al massacro, che implica il crollo della domanda interna e la contrazione del Pil (con possibile esplosione della quota di debito sul Pil). Nella fase successiva l’onda della recessione, ormai inevitabile, si abbatte sulla Ue lambendo la stessa Germania, i cui clienti vanno in affanno e riducono la quota di importazione di prodotti tedeschi. Ma i paesi periferici e semiperiferici sono a questo punto sostanzialmente piegati e le loro imprese subiscono una svalutazione reale che li pone in balìa di acquisizioni a basso costo. La desertificazione seguente produce quella che è stata definita una “mezzogiornificazione”10 delle aree deboli dell’Eurozona che, a quel punto, non possono che offrire le loro braccia, sempre a basso costo, s’intende.
La seconda scelta consiste nell’emigrazione massiccia di manodopera verso le aree economicamente più dinamiche per riequilibrare le tendenze divaricanti. Una scelta insita nell’afflato degli europeisti a garantire la libera circolazione delle persone, oltre che delle merci e dei capitali, e tipica della dinamica di alta mobilità dei fattori produttivi propria di un’area valutaria ottimale. Ma, ovviamente, le grandi disparità di lingua, cultura etc., che intercorrono tra i paesi europei rendono poco praticabile questa opzione su larga scala, almeno per il momento. Ma il punto è un altro: l’emigrazione massiccia comporta sempre una sconfitta e un dramma per chi se ne va e anche per la propria comunità, mentre la mezzogiornificazione spinge intere nazioni nel terzo mondo, a dispetto dei fiumi di parole spesi da certa stampa in onore al cosmopolitismo, che è sempre borghese e non deve essere confuso con l’internazionalismo.
Il fatto è che in un’unione monetaria, in presenza di shock asimmetrici, il paese che si trova ad accumulare deficit deve garantire un’alta flessibilità e un’alta mobilità della forza lavoro. Quindi chi accetta l’euro si trova giocoforza ad accettare la flessibilità, la deflazione salariale, l’emigrazione. Punto.
 
Rompere la gabbia
In definitiva, essendo la reazione liberista insita all’Unione europea, ed essendo l’euro strumento principe dell’impoverimento dei popoli europei e della nuova gerarchizzazione tra i paesi europei, occorre prendere atto che la gabbia va rotta. E’ una sfida vitale. Il “più Europa” è il mantra delle forze che propongono, comunque ammantate, una politica antipopolare di destra.
La sinistra-destra (cioè le forze politiche che si presentano come di sinistra o centrosinistra ma che fanno politiche di destra) pensano di uscire dal rebus con il motto “più Europa”, cioè andando a rotta di collo verso lo stato sovranazionale europeo, delegando ulteriori poteri ad un governo centrale, che per sua natura sarà tecnocratico, visto come la Ue si è venuta costituendo. Chi parla di un’altra Europa è chiamato a chiarire di quale Europa parla. Se parla di un’altra Ue, cioè di una Ue riformata in senso sociale e democratico, sbaglia di grosso e insegue una pericolosa utopia. Non esiste infatti nessun popolo europeo dal quale possa emanare la sovranità, si tratterebbe semplicemente di aumentare di qualche briciola insignificante i poteri dell’europarlamento e mettere un po’ di belletto al processo di integrazione, così come esso è.
Aggiustamenti minimi non mi paiono credibili. Innanzitutto perché manca la volontà cooperativa, se ci fosse stata la Germania non avrebbe mai fatto una politica mercantilista così feroce. Quanto all’ipotesi di una redistribuzione di risorse, anche se lo volesse, Berlino probabilmente non potrebbe accollarsi i costi necessari ad operare un così massiccio trasferimento di capitali verso le periferie. Occorre considerare che non si tratta solo di sussidiare la Grecia, ma l’Italia e la Spagna, vale a dire la terza e la quarta economia dell’eurozona! Un costo che la Germania dovrebbe accollarsi per il 70%!11 La Germania è, al solito, abbastanza forte per mettere sotto l’Europa ma non abbastanza per domarla e gestirla. Apparentemente tale soluzione può apparire sempre meglio della situazione attuale, nella quale l’Italia è creditore netto all’interno della Ue(!) e l’interruzione dei trasferimenti di capitali dal centro ha scoperto la realtà dei deficit strutturali accumulati dai PIGS. Ma nei fatti tale politica presupporrebbe un rafforzamento del processo che porta i PIGS a divenire dipendenti e subordinati, mano a mano che il grande capitale tedesco penetra nei loro tessuti socio-produttivi. Ad ogni modo è questa un’ipotesi puramente teorica. Come quella di una reflazione dei salari da parte della Germania. La mancanza di spirito cooperativo taglia la testa ai tanti “se”.
A sinistra c’è chi vede la lotta per un’altra Europa come possibile solo nella sua dimensione transnazionale, con lotte compiute su scala Ue. Non ho la fantasia per immaginare lo svilupparsi di un simile processo e del suo sbocco. Per quanto posti di fronte alla stessa sfida i popoli europei vivono in condizioni analoghe ma diverse. E percepiscono molto le loro diversità. La loro appartenenza è quella alle comunità nazionali di riferimento, non ad un’impalpabile ed evanescente società europea, piaccia o meno. Il loro arsenale è depositato nella caserma dello Stato nazionale.
Come ha notato Samir Amin le condizioni per implementare le politiche che servono per uscire dalla crisi “non saranno mai raggiunte contemporaneamente in tutta l’Unione europea. Questo miracolo non accadrà. Occorrerà quindi accettare di cominciare là dove è possibile, in uno o più paesi. Rimango convinto che il processo avviato non tarderebbe a divenire valanga”12.
Gran parte della sinistra radicale ha, al riguardo, una visione distorta del problema, quando non ambigua. E’ il caso della Linke, che al suo ultimo congresso si è dichiarata contraria all’austerità ma non all’euro, come se i due aspetti potessero essere disgiunti, o della stessa Syriza, che ritiene possibile avviare delle trattative con Bruxelles, non si sa bene per finire dove.
La proposta formulata da più parti di presentare e sostenere alle prossime elezioni europee una lista che candidi il leader di Syriza, Tsipras, alla guida della Commissione appare caratterizzata da un profilo troppo debole rispetto alla sfida che si trova di fronte. Non affrontare il nodo costituito dall’euro e non tirare le necessarie conseguenze dalla natura e dall’esito del processo di integrazione europeo ipoteca a mio giudizio le più vaste potenzialità che un’iniziativa della sinistra di classe avrebbe potuto produrre se si fosse posizionata con parole d’ordine più coraggiose e con una postura più radicale. Il pericolo che può manifestarsi è quello di imbrigliare una volta di più le forze di sinistra in un cartello elettorale in cui le forze trainanti si basano su un’analisi approssimativa e non aderente ai bisogni popolari e formulano una proposta politica inefficace e fuorviante. Il tentativo di cavalcare questa tigre da parte di Barbara Spinelli, figlia di Altiero, il visionario di Ventotene, e compagna del già più volte citato eurotecnocrate Padoa Schioppa, rappresenta un indubbio peggiorativo, in questo senso. Vorrebbe impelagare la sinistra, che può essere un potenziale serbatoio per la costruzione di una proposta politica lucidamente ostile all’Eurozona e al progetto Ue, fino ad annullarla nel recinto, ben presidiato, di un’ipotetica Europa “altra”, che non corrisponde alla realtà dei fatti e che si pone comunque sullo scivoloso terreno sovranazionale ed eurozonista. Le ipotesi riformiste dei sei generali senza esercito sono destinate a coprire con una foglia di fico le vergogne della Ue, destino di tutte le suggestioni federaliste e terzaforziste coltivate sino ad ora. Sono ipotesi destinate alla compatibilità con il sistema di comando del grande capitale nel vecchio continente. Coloro che a sinistra hanno maturato visioni più mature del problema e formulano aperte critiche all’impostazione della sinistra europea, come buona parte dei comunisti, riusciranno a far sentire la propria voce e a caratterizzarsi in senso diverso rispetto a quello prevalente della lista nella quale hanno deciso di confluire? Sulle prime pare difficile. Colpisce che la componente comunista del Prc appaia incline a favorire ogni aggregazione che non sia l’unità dei comunisti e che su questo punto non riesca a vedere più in là di Ferrero, ed è decisamente poco. Troppo poco.
Occorre dissipare le illusioni circa questa costruzione europea, ci sono già stati troppi sognatori e troppi venditori di fumo in questa storia. Con una battuta potremmo dire troppi “spinelli”.
Per rompere l’offensiva reazionaria, di cui la Ue e l’euro sono elementi cardinali, occorre uscire dalla moneta unica e provocarne la deflagrazione, recuperando pienamente la sovranità nazionale negli ambiti economici nei quali questa è stata sottratta. Per dare una spada a quelle classi popolari che sono state disarmate dalla reazione liberista in questi decenni. L’uscita non sanerebbe certo tutti i mali, come qualsiasi altra scelta del resto. Ma appare come una mossa sempre più obbligata, i cui possibili costi vanno commisurati con la certezza della dissoluzione e di una grandissima depressione che ci sprofonderebbe nel Terzo mondo. La svalutazione, specie se opportunamente gestita, è comunque meglio di una depressione senza fine.
Vi è una forte corrente euroscettica nell’opinione pubblica. Potenzialmente rappresenta un grimaldello per rompere la gabbia, e non solo un terreno di possibile coltura di minacce reazionarie. Ma questo dipenderà concretamente dalla capacità che i comunisti e la sinistra di classe avranno di posizionarsi strategicamente nella battaglia, ben oltre il limite consentito da queste elezioni europee, per indicare un’uscita da sinistra dall’euro e dalla Ue e avviare un processo di accumulazione di forze e fuoriuscita dalla minorità. Non posso fare a meno di notare che i partiti comunisti avevano sempre combattuto il processo di integrazione europeo, almeno fino a che non hanno iniziato la loro mutazione genetica (si vedano gli esempi del Pci e del Pcf)13. Il sogno federalista europeo era appannaggio dei repubblicani, dei liberali, del polo laico. Non per caso. La destra liberista ha due opzioni: restare nell’euro o uscirne a modo suo, scaricando i costi sul proletariato. La sinistra di classe ne ha solo una: uscire a modo suo, con una netta svolta nella politica economica e sociale a favore delle classi popolari e con la riappropriazione della sovranità nazionale alienata, conditio sine qua non per dare corpo ad una politica macroeconomica ed industriale completamente diversa da quella che ci ha condotto a questo punto (svolta che restando nella Ue sarebbe impossibile).
Nell’appello di Spinelli per Tsipras si sostiene che “gli Stati da soli non sono in grado di esercitare sovranità, a meno di chiudere le frontiere, far finta che l’economia-mondo non esista, impoverirsi sempre più. Solo attraverso l’Europa gli europei possono ridivenire padroni di sé”.
Sono tesi che fanno acqua da tutte le parti. Innanzitutto è questa Europa che ha impoverito e impoverisce gli europei e non può essere altrimenti, dato i meccanismi insiti in un’unione monetaria, come abbiamo già accennato. Secondariamente andrebbe tenuto conto che i paesi europei che non hanno adottato l’euro, già prima della crisi, hanno realizzato una crescita superiore a quella media dell’eurozona. Sfugge infine perché un paese sovrano dovrebbe chiudersi all’economia-mondo: al di fuori della Ue sono tutte autarchie? O il senso del rilievo è che per la Spinelli non bisogna toccare la libera circolazione dei capitali? Al contrario, come hanno sostenuto numerosi economisti, un’uscita dall’unione monetaria e una successiva svalutazione, i cui effetti possono essere attutiti con l’indicizzazione dei salari ed altre misure a tutela delle classi popolari, rilancerebbero a breve la crescita. Di fatto, poi, se si ha l’obiettivo di una riscrittura dei trattati è, per forza di cose, dalla dimensione nazionale che bisogna partire, dal confronto e dal concerto tra gli Stati. A volte si ha l’impressione che i sei sostenitori di Tsipras non sappiano con esattezza di cosa stanno parlando.
Chi, invece, ritiene che nell’attuale situazione internazionale non sia proponibile per l’Italia un’uscita unilaterale ed addita, meritoriamente, l’esempio dell’integrazione cooperativa latinoamericana dell’ALBA dovrebbe tener conto che anche in quel contesto il processo è partito dalla riaffermazione della sovranità di un paese che era fino ad allora tenuto al guinzaglio (il Venezuela) e che il progetto è stato reso possibile dalla cooperazione di governi che avevano un comune intendimento di fronte alle stesse sfide. L’ipotesi di una svolta politica di tale portata in tutti i PIGS appare improbabile ed ignora i riflessi che sul quadro politico interno dei vari paesi ha la legge dello sviluppo diseguale del capitalismo. Appare più probabile l’affermazione di un blocco euroscettico in un singolo paese. Se questo paese fosse l’Italia, avrebbe la massa critica sufficiente (nonostante tutto) per innescare una reazione a catena nella periferia dell’Eurozona; come affermano numerosi osservatori transalpini per la stessa Francia sarebbe un problema restare legata al carro tedesco con l’Italia fuori dall’euro.
Vi è un’area di forze e soggettività che a sinistra e da sinistra ha colto la necessità di uscire dall’euro e dalla Ue. Ma occorre tirare le fila e capire che qualsiasi politica economica che rompa con l’austerità e il liberismo non è possibile nel perimetro dell’eurozona e della Ue.
Come diceva Mao: “abbandoniamo le illusioni, prepariamoci alla lotta”.» 
* Fonte: Gramsci Oggi
NOTE 
1 Samir Amin parla in proposito di “imperialismo collettivo della Triade”, cioè “dei centri dominanti del capitalismo dei monopoli generalizzati”. Si veda: S. Amin, L’implosione programmata del sistema europeo; in: “Marx XXI”, n.1 2013, pp. 15-23
2 Si veda: N. Acocella, Teoria e pratica della politica economica: l’eredità del recente passato; in: “Rivista di storia economica”, n.2 agosto 2013, pp. 232 e seguenti
3 Ibidem, p.233
4 Cit. in: M. Badiale e F. Tringali, La trappola dell’euro; Trieste, Asterios 2012, pp. 37-38
5 T. Padoa Schioppa, Europa, forza gentile; Bologna, Il Mulino 2001, p. 59
6 T. Padoa Schioppa, La lunga via per l’euro; Bologna, Il Mulino 2004, p. 57
7 Ibidem, p. 54
8 Ibidem, pp. 46-47
9 Il surplus commerciale della Germania rispetto alla zona euro rappresenta il 60,5 % delle sue eccedenze totali. … essa realizza il 75% dei propri surplus sui paesi dell’Unione europea. […] dal 2002-2003 [il suo surplus] ha cominciato a ridursi rispetto ai paesi fuori dall’Unione europea, ma è stato compensato con un sovrappiù di competitività nell’eurozona”; si veda: : J. Sapir, Bisogna uscire dall’euro?; Verona, Ombre corte 2012, p. 64
10 Di “mezzogiornificazione” parla Emiliano Brancaccio, che riprende la definizione da Krugman. Si veda: E. Brancaccio, M. Passarella, L’austerità è di destra; Milano, Il Saggiatore 2012
11 Si vedano le stime compiute da Jacques Sapir: J. Sapir, op. cit., p.105
12 S. Amin, op. cit.; p. 21
13 Significativo è il giudizio che su tale questione offre Giorgio Napolitano nella sua autobiografia: “l’approdo del Pci all’europeismo costituì di fatto la più radicale rottura col suo bagaglio ideologico originario, con la sua visione rivoluzionaria di matrice leninista…”; si veda: G. Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo. Un’autobiografia politica; Roma, Laterza 2006, p.312

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