sabato 31 maggio 2014

«CARI AMICI DI M5S» di Aldo Giannuli

31 maggio. 

a leggere i giornali di oggi si riceve l’impressione che la discussione non stia partendo sul piede giusto. Come sapete io non aderisco al Movimento, di cui però mi considero un compagno di strada e, se qualcuno potrebbe giustamente obiettarmi che, essendo un esterno, non devo interferire nella discussione, però questa mia posizione mi dà, forse, il vantaggio di vedere le cose con più distacco e dare un contributo, spero, utile. Ed, allora, prima di tutto, penso si possa essere d’accordo su una cosa: al M5s non servono processi ed imputati da portare alla fucilazione, ma una discussione politica pacata, seria, profonda, alla ricerca degli errori che possono aver prodotto questo cattivo risultato. E non serve cercare giustificazioni, anche perché, se ci sono errori soggettivi si può sempre cercare di correggerli, se invece non ci sono errori ed è tutto il frutto delle avverse circostanze, c’è solo da prendere atto che la battaglia è impari e occorre arrendersi. Ma, se si vuol continuare a combattere, è necessario capire cosa non ha funzionato e cosa va corretto.

Anche se poi nella vicenda hanno pesato altri elementi come l’assenza di Casaleggio che è stato fuori combattimento sino alla vigilia del comizio romano, il che ha avuto un suo peso e come!

Più che erranti, vanno cercati gli errori. E partiamo da una cosa molto facile: qui bestialità sono state fatte da tutti in questo anno. Anche da Grillo e Casaleggio (quando si perde, lo Stato Maggiore è sempre il primo a doverne rispondere), ma anche dai gruppi parlamentari, dagli addetti alla comunicazione ed anche dai militanti che sono stati troppo subalterni e non hanno alzato sempre la voce quando avrebbero dovuto. ecce cc. Ma la cosa è anche normale: in politica come nella vita si fanno un sacco di sciocchezze, è inevitabile, l’importante è riconoscerle in tempo e correggerle. Anche perché qui non siamo alla disfatta di Watterloo e neppure a Caporetto, siamo ad una sconfitta consistente, ma onorevolissima e suscettibile di ripresa. Per cui non facciamo psicodrammi.

Capisco che a un movimento politico giovane e fatto da giovani ed inesperti, la prima sconfitta sembri un fatto terribile e irreparabile, ma cari amici, imparerete che in politica si prendono un sacco di cazzotti in faccia, l’importante è non andare al tappeto e contrattaccare. Se mi consentite, da vecchio sessantottino, ho una certa pratica in materia di sconfitte e so dirvi che ci si può rialzare.

Allora, se lo spirito è questo, il metodo più corretto è quello per cui ciascuno parta dall’analisi dei propri errori, prima di parlare di quelli degli altri. Questo vale per tutti: dai parlamentari ai singoli militanti e per Beppe e Gianroberto che, troppe volte, si sono comportanti un po’ da primedonne insofferenti alle critiche. E, invece, un leader politico che sa accogliere le critiche ed ammettere i suoi errori non perde di autorevolezza, ne acquista.

E per essere coerente con quello che ho appena detto, non mi chiamo fuori ed inizierò dall’ammissione delle mie responsabilità: anche se in diverse occasioni ho criticato Grillo dalle pagine di questo blog, non l’ho fatto abbastanza e sono stato un po’ troppo indulgente. Ed anche io, pur non essendo fra i più scatenati, ho creduto in una facile vittoria, ero convinto di un risultato intorno al 27% e, soprattutto, non ho valutato adeguatamente le potenzialità di espansione del Pd che davo al 31-33%. Di conseguenza, anche io ho assecondato aspettative eccessive che oggi hanno un pesante effetto boomerang.

Gad Lerner mi ha gratificato di un post in cui mi definisce “demenziale azzeccagarbugli” con uno stile offensivo che non gli conoscevo e mi ha stupito; poco male: non sono permaloso e non me la prendo. Di tutte le cose che dice, su una ha ragione: quando mi rimprovera di non aver fatto subito presente, già in campagna elettorale, che la minaccia di Grillo, di farsi da parte se non avesse vinto, era una inutile sbruffonata perché si sarebbe trovato nella impossibilità di dar corso a quell’impegno. Giusto: non ho dato alla cosa il peso che avrebbe dovuto avere e non l’ho segnalata, sbagliano. Magari oggi sarebbe carino che Grillo ammettesse di essersi sbagliato, spiegando perché resta. Sono contrario alle sue “dimissioni”, ma, insomma, non è che si possa far finta di niente e continuare senza un briciolo di giustificazione.

Come vedete, anche da collaterale ho le mie responsabilità, che ammetto. Ora vediamo se questo lo fa anche chi non è collaterale ma è dentro. Ognuno si assuma la sua quota di responsabilità senza giocare al rinfaccio di colpe vere o presunte.

Soprattutto, per cortesia, abbassate i toni e siate tutti realisti: il M5s oggi non è in grado di sopravvivere senza Grillo (per lo meno non ancora), ma è anche vero che se Beppe non si fa un po’ di lato, lasciando spazio agli altri, il M5s non crescerà mai. Cattivi allievi quelli che non cercano di superare il maestro, ma pessimo maestro quello che non lavora per il suo superamento.

Peraltro, che tutti evitino di portare il dibattito al limite della rottura: è autolesionistico chiedere a Grillo di farsi da parte, ma basta anche con le espulsioni alla prima parola storta contro il “Capo”. Si discuta laicamente di tutto senza isterismi. Andare in Tv? Parliamone. Cambiare i toni della comunicazione? Si può ma che nuovi registri adottare? Criticare Grillo o Casaleggio? Si ma senza astio da una parte e risentimenti dall’altra. Si può parlare di tutto. Soprattutto se non si urla.

Credo anche che sarebbe bene discutere della forma organizzativa che, così com’è, non convince per niente. La soluzione del simbolo e sigla proprietà di una società di poche persone non è una novità: più o meno la stessa cosa avevano fatto molto prima Berlusconi e Di Pietro, che, però, non mi sembrano esempi da imitare.

Lo so che Grillo non usa questo suo potere, ad esempio, per fare le liste, ma questo del partito “personale” diventa un argomento degli avversari che si può togliere dalle loro mani. Dunque, sarebbe il caso di formalizzare l’esistenza del movimento, magari di dotarlo di organi dirigenti, i più snelli del mondo, sia chiaro, ma comunque certificati da atti formali.

Dopo di che, oltre che cercare errori, è il caso di individuare obiettivi e target: a chi vuole rivolgersi il M5s? In che aree sociali di elettorato vuol fare breccia? Che proposte offre e che battaglie intende fare in loro favore? Fra un anno ci saranno le amministrative, che sono un test sempre sfavorevole al M5s che prende regolarmente una metà o un terzo del suo elettorato delle politiche. Attenzione perché questo sarà servito come la prova del declino inarrestabile del movimento e, dunque, occorre uno sforzo straordinario per reggere l’impatto.

E voglio farla io una proposta: il M5s esca dal chiuso del blog, delle stanze di Montecitorio, di Palazzo Madama o di via Morone, vada in piazza, promuova assemblee popolari, mandi i suoi parlamentari nei posti di lavoro, nelle facoltà, nei circoli di quartiere, nel caso anche nei bar dello sport, per chiedere alla gente, faccia a faccia, “Cosa ti aspetti dal M5s? Cosa vorresti che facesse? Cosa non ti convince nel M5s? Come vorresti che parlasse?” E cominci di lì la consultazione per la ripresa. Un confronto forse più faticoso, ma certamente meno velenoso e più produttivo delle faide interne.

Dopo di che si riprenda il confronto interno senza arrocchi settari ma anche senza autolesionismi. Ultimissima cosa e perdonatemi la lunghezza: l’Ukip di Farange non è un gruppo fascista, come Alba dorata, siamo d’accordo, ma è un gruppo ultranazionalista, xenofobo, nuclearista e reazionario. Cosa ha a che fare il M5s con un gruppo così? Temo che fare gruppo insieme a Strasburgo costerebbe una paccata di voti al M5s. Pensateci bene.

Mi rendo conto che ci sono pochi giorni e che se si finisce nel gruppo misto, per il demenziale regolamento del Parlamento europeo, non si ha neppure diritto di parola e di proposta, ma solo di voto, per cui occorre fare gruppo con qualcuno. Ma non sarebbe meglio cercare verso i Verdi o la lista Tsipras? Magari escogitando qualche formula tecnica particolare (avrei delle idee in proposito). Capisco che neanche Verdi e Tsipras siano la stessa cosa del M5s, ma, insomma, mi pare siano complessivamente ben più simili di Farange.

Scusate la lunghezza, ma vi assicuro che da amico non vi tacerò mai nessuna critica, anche aspra, quando lo meriterete. Quelli che dicono sempre di si non sono gli amici veri, sono i lacchè ed i carrieristi.

Cordialmente vostro

* Fonte: Aldo Giannuli

venerdì 30 maggio 2014

LA RESISTIBILE ASCESA DI MATTEO RENZI di Leonardo Mazzei

30 maggio. Adesso c'è già chi parla di "nuova Dc" e di un "altro ventennio". 

Secondo molti gli italiani, come se lo avessero scritto nel loro Dna, avrebbero trovato il moderno "uomo del destino". Si tratta, a mio modesto parere, di solenni sciocchezze. Sciocchezze che non è difficile confutare, senza per questo sottovalutare le gravi conseguenze immediate dell'indiscutibile vittoria del berluschino fiorentino.

Nel breve periodo Renzi potrà affondare con facilità i suoi colpi, accelerando ancor di più sulla legge elettorale, le controriforme costituzionali, le privatizzazioni, la precarizzazione del lavoro. Un bottino non da poco, che spiega l'entusiastico sostegno di tutti i principali centri del potere economico e finanziario.

Era questa la vera posta in gioco delle elezioni del 25 maggio in Italia, ed era principalmente per questa consapevolezza che ci siamo pronunciati per il voto al M5S. Non va dunque sottaciuta la portata della sconfitta subita: sconfitta politica con gravi conseguenze per la democrazia, che verrà pagata sul piano sociale dalle classi popolari.

Ma da questo a parlare di regime ce ne corre. Il consenso ottenuto da Renzi è tutt'altro che solido e verrà ben presto messo alla prova. Al pari di Monti e Letta, il segretario del Pd dovrà fare i conti con i vincoli europei, che si incaricheranno di spazzare via tutte le illusioni diffuse a piene mani in questi mesi.

Perché Renzi ha vinto?

Molti hanno già provato a dare una risposta a questo quesito. Io penso che abbia vinto per due motivi: perché ha indovinato i tempi, perché ha trasmesso due messaggi falsi ma efficaci.

I tempi sono stati importanti. La storia della "luna di miele" di cui godono normalmente i governi nei primi mesi di vita è assai stucchevole, ma non infondata. Avevamo già segnalato questo pericolo nel febbraio scorso, all'atto della pugnalata portata con determinazione ad Enrico Letta. Una mossa pressoché obbligata proprio per presentarsi alla scadenza elettorale con un'immagine completamente nuova.

Attenzione! Questa esigenza non era solo di Renzi e del Pd. Essa era condivisa dal blocco dominante, in Italia ed in Europa, perché questo era l'unico modo per evitare una debacle del governo e dell'UE. Da qui il pieno sostegno di Bruxelles, dei potentati economici, dei media al gran completo.

Questa mossa si è rivelata vincente perché abbinata ai due messaggi di cui abbiamo già detto. Il primo, veicolato attraverso i famosi 80 euro, è che "l'austerità starebbe finendo". Messaggio falso come più non si potrebbe, messaggio del tutto contraddetto dal contenuto del DEF (Documento di economia e finanza), e tuttavia efficace perché ha consentito a Renzi di presentarsi con il volto della "speranza" anziché con quello (Monti, Letta) dei sacrifici.

Il secondo messaggio è stato per certi versi ancora più forte. Volete la fine della casta, volete una nuova classe politica? Bene, chi più di me, il rottamatore, merita il consenso? Ora, noi sappiamo benissimo che la nuova classe politica che sta emergendo attorno a Renzi è perfino peggiore della precedente, e soprattutto sappiamo benissimo che questo cambiamento è funzionale alla conservazione del potere e dei privilegi della vera Casta dominante, ma non è semplice andarlo a spiegare al famoso uomo della strada.

Questo secondo messaggio aveva anche l'obiettivo di recuperare una parte del voto andato al M5S nel 2013, ed ha funzionato. A dimostrazione di quanto sia pericoloso concentrarsi sulle persone, piuttosto che sul sistema di cui la "casta politica" è parte.

Tutto ciò ci spiega la cosiddetta "anomalia italiana", il fatto cioè che, a differenza degli altri paesi maggiormente colpiti dalla crisi europea, gli italiani abbiano rafforzato anziché indebolito il proprio governo nazionale. Una anomalia che deriva proprio dall'essersi presentato come il "nuovo", un "nuovo" che si vorrebbe in discontinuità con i governi precedenti, un "nuovo" appena insediatosi e come tale meritevole di fiducia.

Un consenso fragile

Se queste sono le ragioni del successo ottenuto da Renzi, vediamo ora quelle per cui il consenso raccolto è in realtà più fragile di quanto appaia. In primo luogo, si tratta fondamentalmente di un consenso personale più che al Pd. In secondo luogo, siamo di fronte ad un consenso meno grande di quel che sembra. In terzo luogo la crescita del Pd avviene in buona parte a spese degli alleati di governo, il che in un sistema che si vorrebbe bipolare può essere alla lunga un bel problema.

Che oggi il consenso si strutturi attorno al leader piuttosto che al partito non deve certo sorprendere. E' questo uno dei frutti più velenosi della personalizzazione della politica prodotta dai meccanismi del maggioritario. Ma quel che qui ci interessa è la maggiore instabilità di questo tipo di consenso rispetto a quello delle forze organizzate. E che questo scarto esista è dimostrato dalle maggiori difficoltà incontrate dal Pd alle comunali. Difficoltà simboleggiate dai risultati di due vecchie roccaforti come Livorno e Modena, dove il Pd è stato costretto al ballottaggio. Quel che è certo è che così come il consenso personalizzato può esplodere più facilmente, altrettanto rapidamente esso può svanire.

Secondo punto: è così grande il consenso raccolto? E' stato già messo in evidenza come, in valori assoluti, i voti raccolti dal Pd siano stati meno di quelli incassati da Veltroni nelle elezioni politiche (peraltro perse) del 2008. Ma volendo restare alle percentuali, che dire del quasi 50% dell'Unione che portò alla vittoria di Prodi nel 2006? Certo, si dirà, in quel caso si trattava di una coalizione e non di un singolo partito. Giusto, ma senza coalizioni anche Renzi non potrebbe restare in sella. A meno che si creda ad una riedizione del progetto bipartitista. Progetto ben visibile dietro la super-truffa della nuova legge elettorale, ma che in Italia è sempre miseramente fallito.

Arriviamo così al terzo punto. Il Pd ha avuto un aumento percentuale che nessuno immaginava, ma in buona parte lo ha ottenuto a spese degli alleati. Consideriamo la coalizione di governo (Pd, Ncd, Scelta Civica) e ci accorgiamo che non arriva al 46%. Sinceramente più di quel che pensavamo, ma sempre ben al di sotto del 50%. Non solo, è assai probabile che in futuro Ncd torni alla vecchia alleanza con le forze di destra. Chiediamoci dunque cosa rimarrebbe del vecchio schieramento del centrosinistra. Anche in questo caso, sommando Pd, Lista Tsipras (almeno nella sua componente maggioritaria) e Verdi, non si arriva al 46%. Dunque il Pd a trazione renziana ha fatto sì un gran risultato, ma facendo terra bruciata attorno a sé, basti pensare all'annientamento dei resti dell'ambizioso progetto montiano.

Il nodo dell'Europa

Fin qui alcune delle ragioni della fragilità del consenso a Renzi. Ma queste sarebbero niente se non vi fosse il nodo dell'Europa. Alcuni credono che siamo arrivati ad un punto di svolta, che la Merkel di fronte ai risultati francesi e britannici dovrà pure mollare qualcosa. Penso che si tratti di un errore clamoroso. Certo, tutti vogliono far credere che è arrivato il momento del cambiamento, che crescita ed occupazione verranno messe al primo posto, ma all'orizzonte non c'è alcuna vera riforma né dell'UE né del mostruoso sistema dell'euro.

Si profila dunque una situazione nella quale viaggeranno in parallelo la perdurante crisi economica ed una crisi politica aggravata dai risultati elettorali di domenica scorsa. L'asse Parigi-Berlino non esiste più, e l'ipotesi dell'Europa federale, degli Stati Uniti d'Europa che piacciono a tanta parte della sinistra è ormai su un binario morto. E' impensabile che la Francia possa accettare nuove cessioni di sovranità, per non parlare di un Cameron che a questo punto ben difficilmente potrà evitare il referendum in qualche modo già annunciato per il 2017. Questo mentre nell'Europa meridionale gli euristi hanno perso vistosamente terreno in Spagna ed in Grecia.

Più che una Germania indebolita, dalle elezioni è uscita un'Europa incasinata, incapace di esprimere una leadership davvero autorevole, come confermato dalle prime scaramucce attorno alla nomina della nuova Commissione Europea. Sosteniamo da tempo che l'UE è per sua natura irriformabile, ma anche se non la volessimo considerare tale è evidente che oggi non esistono comunque le condizioni politiche per una qualsiasi riforma.

Dunque di cosa stanno parlando? Stanno parlando solo di propaganda. E su questo concentreranno la loro azione nei prossimi mesi, a partire dal semestre europeo di Renzi, che nell'occasione venderà certamente più fumo del solito. Attenzione dunque a distinguere bene la propaganda dalla realtà. In ogni caso, al di là di tutto parleranno i fatti, un quadro economico senza veri miglioramenti, una disoccupazione ancora in crescita.

Del grande consenso di Renzi riparleremo dunque tra qualche mese... Allora sarà chiaro quanto sia resistibile la sua ascesa. Nel frattempo, però, sarà necessario che un progetto di alternativa (a lui e all'Europa) cominci a prendere forma. E' questa la sfida decisiva non solo per noi. Anche il M5S dovrà porsi a questo livello. Il risultato di domenica, negativo ma non drammatico, dovrebbe facilitare una vera riflessione. I primi segnali in proposito non sono però incoraggianti, ma è presto per esprimere giudizi definitivi. In ogni caso approfondiremo il tema delle prospettive del M5S in un prossimo articolo.

Adesso torniamo a bomba, o meglio al "bomba". La mia opinione è che il momento magico dello sbruffone di Palazzo Chigi non potrà durare a lungo. Beninteso, sottovalutarlo sarebbe un grave errore (e questo lo diciamo da sempre), ma non meno pericoloso è il pessimismo diffuso a piene mani da chi parla di un nuovo "ventennio". Non abbiamo la sfera di cristallo, ma nessuna vera stabilizzazione è alle porte. Dunque, non cadiamo nella trappola e prepariamoci piuttosto ai grandi sconvolgimenti che molti segnali già ci annunciano.

giovedì 29 maggio 2014

ECCO CHI SONO NIGEL FARAGE E LO UNITED KINGDOM INDIPENDENT PARTY (UKIP)

29 maggio. IL PROGRAMMA DELLO UKIP: UN CONDENSATO DI LIBERISMO, SECURITARISMO E XENOFOBIA.


Sul sito del Partito Indipendente del Regno Unito (UKIP) di Nigel Farage campeggia oggi la notizia dell'incontro svoltosi ieri a Bruxelles con Beppe Grillo. La notizia che l'UKIP e M5S tenteranno di strutturare un gruppo parlamentate comune a Bruxelles è confermata. L'accordo verrà affinato, si scrive, in un prossimo incontro. Una mossa inquietante, devastante, quella di Grillo, destinata, speriamo, a suscitare tra i pentastellati un moto d'indignazione e protesta. 
Ma che cos'è lo UKIP? Chi è davvero Nigel Farage? 
Un condensato di liberismo, securitarismo e xenofobia. Leggere per credere. 
Ci siamo tolti la briga di tradurre il programma dello UKIP. No alla Le Pen ma sì a Farage? Come passare dalla padella alla brace.
«Noi crediamo nel governo minimo necessario che difenda la libertà individuale, sostenga coloro in reale stato di necessità, prenda il meno possibile nostro denaro e non interferisca nelle nostre vite».

No siamo per

«Questi sono tempi ansiosi e difficili. Mentre le crisi si succedono alle crisi, i nostri politici non fanno nulla di fronte ai pericoli che ci circondano.
Aumentano tasse e debito pubblico. I costi energetici e di trasporto salgono. La disoccupazione è troppo alta. Il sistema scolastico e quello sanitario soffrono a causa di un aumento della popolazione di 4 milioni dal 2001.
Un'altra ondata di immigrazione incontrollata proviene dall'UE (questa volta la Bulgaria e la Romania). Eppure la classe politica ci dice che l'Unione europea è un bene per il Regno Unito.
Un abisso si è aperto tra la classe dirigente e il pubblico [Non vengono mai usati né il sostantivo “popolo” né quello di “cittadini”, Ndr]. Poiché tutti devono seguire i diktat di Bruxelles, ognuno dei principali partiti è ormai simile agli elettori, che non possono compiere alcuna scelta reale.
L'UE controlla l’mmigrazione, l’economia e il lavoro, la finanza, la pesca , l’agricoltura, l’energia e il commercio. E ora cerca di controllare la giustizia, gli affari esteri e il sistema fiscale. Solo al di fuori dell'UE possiamo iniziare a risolvere i problemi che sono davanti al nostro paese.

Ridare il potere al Regno Unito

• Un voto per l'UKIP è un voto per lasciare l'Unione europea e riconsegnarci il potere sulla nostra vita nazionale .
• Libero scambio, ma non unione politica con i nostri vicini europei. Siamo il più grande mercato di esportazione dell'UE: essi dipendono da noi per i nostri posti di lavoro, non il contrario.
• Obbligo di referendum a scala locale e nazionale sulle principali questioni, su richiesta del pubblico.

Proteggere le nostre frontiere

• Riprendere il controllo delle frontiere e dell'immigrazione, ciò che è  possibile solo lasciando la UE.
• Gli immigrati devono finanziariamente sostenere se stessi, i loro familiari e i loro dipendenti per 5 anni. Questo significa assicurazione sanitaria privata (ad eccezione dell'assistenza medica di emergenza), istruzione privata e politica abitativa privata - dovrebbero pagare di tasca loro prima di attingere fuori.
• Sistema dei visti basato sul punteggio e permessi di lavoro limitati nel tempo.
• La prova che si dispone di un’assicurazione sanitaria privata deve essere una condizione preliminare affinché gli immigrati e i turisti possano entrare nel Regno Unito.

Ricostruire la prosperità

• Risparmiare le 55mila sterline al giorno che ci costa l’adesione alla UE, creando 800.000 posti di lavoro per i britannici attualmente occupati dai lavoratori dell'UE.
• Nessuna imposta sul salario minimo.
• Registrare i disoccupati che accedono al welfare affinché siano rispettate le regole, o riqualificazione dei programmi di workfare.
• Rottamare l’HS2 [Alta velocità ferroviaria, Ndr], tutte le imposte ecologiche e i sussidi all’eolico.
• Sviluppare lo shale gas per ridurre le bollette energetiche e liberarci dalla dipendenza dal petrolio e dal gas stranieri - collocare le entrate fiscali in un Sovereign Wealth Fund britannico.
• Lo UKIP abolirà l'imposta di successione. L’imposta di successione porta meno di 4 miliardi di sterline - meno di un terzo di quello che spendiamo per gli aiuti esteri. Il super-ricchi la ecvitano, mentre mne pagano le conseguenze i possessori di modeste proprietà. Colpisce persone durante un momento di dolore e lo UKIP inserirà  nei suoi piani di spesa per il 2015 laq completa abolizione di questa tassa ingiusta sulla morte.
• Effettuare tagli agli aiuti esteri che sono reali e rigorosa .

Salvaguardia contro la criminalità

• Nessun taglio alle forze di polizia di prima linea.
• Applicare le sentenze .
• Nessun voto per i detenuti.
• Impedire ai criminali stranieri di entrare nel Regno Unito - reintrodurre i controlli di confine che l'Unione europea ci ha costretto ad abbandonare.
• Rottamare il Mandato d'Arresto Europeo, che invia i cittadini britannici in carceri straniere senza prove - sostituirlo con un sistema di estradizione adeguato.
• Tirare fuori il Regno Unito dalla giurisdizione della Corte europea dei diritti dell'uomo.

Cura e sostegno per tutti

• Aprire gli ambulatori la sera, per i lavoratori a tempo pieno, dove c'è richiesta.
• Diritto ai eletti delle locali County Health Boards di ispezionare gli ospedali - per evitare un'altra crisi come quella allo Stafford Hospital.
• Dare priorità per alloggi sociali alle persone i cui genitori e nonni siano nati in zona.
• Consentire la creazione di nuove scuole di grammatica.
• fare del welfare una rete di sicurezza per i bisognosi, non un letto per i pigri. Benefici disponibili solo per coloro che hanno vissuto qui per oltre 5 anni .

Libertà di parola e democrazia

• No al politicamente corretto - che soffoca la libertà di parola.
• La legge del nostro Paese deve valere per tutti noi. Ci opponiamo a qualsiasi altro sistema di diritto.
• Insegnare ai bambini messaggi positivi e l'orgoglio di far parte del Paese. Vogliamo unire attraverso una migliore integrazione.


Lo UKIP è un partito patriottico che crede nel mettere al primo posto la Gran Bretagna . Solo lo UKIP riconsegnerà al al popolo britannico l’autogoverno».



* Fonte: Ukip.org
** Traduzione a cura di SOLLEVAZIONE



«CARO BEPPE, TE L'AVEVO DETTO...» di Antonio Maria Rinaldi*

29 maggio. Caro Beppe avendo girato lo stivale per lungo e per largo nei Meetup come credo nessun’altro, mantenendo tuttavia stretta la mia indipendenza, ho acquisito sul campo i titoli per poterti scrivere una lettera aperta dopo i risultati delle ultime elezioni al solo fine di fare qualche serena e pacata riflessione costruttiva, nella consapevolezza che ne prenderai questa volta atto.

Ricorderai infatti che, all’indomani della pubblicazione a gennaio scorso dei 7 punti per le europee come “manifesto” programmatico, sentii l’esigenza di replicarti per esprimerti chiaramente che erano un trionfo di ambiguità. Tutto e il contrario di tutto: non era possibile ripudiare (giustamente) il Fiscal Compact ed il relativo pareggio di bilancio in esso contemplato, per poi auspicarsi l’adozione di eurobond, espressione massima e irreversibile verso il suo più rigido rispetto! Ma chi ti ha consigliato l’inserimento di questo tipo di bondcondivisi, ha valutato preventivamente a cosa saremo inevitabilmente andati incontro?

Lo stesso ha mai sentito cosa si sta preparando in silenzio in Europa sotto il criptato micidiale acronimo di ERF (European Redemption Fund)? E poi, perdonami, la storia del referendumconsultivo: va benissimo sentire i cittadini, ma non con questo strumento, poiché per rimuovere gli impedimenti tecnici (art.75 Costituzione) il tempo necessario giocherebbe a favore della speculazione finanziaria internazionale che annullerebbe i sicuri vantaggi da un esito positivo di uscita. Molto meglio proporne uno interno per conoscere l’orientamento degli iscritti e prendere di conseguenza la linea da seguire.

Tutto questo te lo faccio presente perché sento il dovere, da semplicissimo cittadino italiano a cui ancora sta fortemente a cuore il destino del Paese per garantire un futuro ai propri figli in una Nazione ancora libera e non come un protettorato straniero, di prendere atto che la stragrande maggioranza della tua base è solidale con quanto ti ho espresso e che avrebbe gradito posizioni più nette e chiare e non quelle indicate dal vertice orientate nel dare il solito colpo al cerchio e una alla botte. Insomma avresti dovuto pendere una decisione precisa“senza se e senza ma” nei confronti dell’Europa e della nostra partecipazione alla moneta unica. E bada bene che questo ti viene fatto presente da un europeista convinto, ma che non si riconosce nell’attuale deriva in cui ci ha portato in modo subdolo e ingannevole il governo dell’Europa con la complicità più o meno inconsapevole della nostra classe politica dirigente.

La necessità di riportare il cittadino realmente al centro dell’attenzione e non più gli interessi smaccatamente di parte di cui l’euro è il mezzo tecnico ideale per realizzarli. Ormai la moneta unica è divenuta l’unico l’elemento di destabilizzazione che sta minando quei principi in cui fortemente credevano i Padri Fondatori e a cui vogliamo ritornare per il bene comune. Rivedere profondamente lo stesso concetto di democrazia divenuta ormai, per come è esercitata in Italia, la più subdola delle dittature, avendo interrotto l’irrinunciabile collegamento fra cittadini e istituzioni. Sono principi inalienabili e non negoziabili in cui ancora ci riconosciamo fortemente.


La maggioranza relativa degli elettori hanno invece premiato chi ha condotto una linea di asservimento verso i dettami europei, impauriti forse dall’incognita di chi non ha saputo proporre un’alternativa opposta lineare e credibile. Esattamente il contrario di quello che è avvenuto nella stragrande maggioranza degli altri paesi chiamati ad esprimersi sulla bontà delle attuali scelte europee. Ma ancora nulla è perduto e hai tempo per riflettere e per ritornare all’attacco perché riconosco, nel MoVimento che hai creato dal nulla, la capacità di dare quella sferzata che da troppo tempo manca sulla scena politica nazionale e di cui il Paese ha disperatamente bisogno. Però affinché questo possa avvenire rivolgiti d’ora in poi, senza timori, alle migliori risorse disponibili che fortunatamente ancora esistono in Italia, non affidandoti più ai soli requisiti di “persona pulita e onesta” perché le considero per scontate non essendo da sole sufficienti per tirarci fuori da questo tragico pantano. È una forte responsabilità che hai anche in previsione delle prossime consultazioni politiche nazionaliche non tarderanno a venire per chi ha interesse nel certificare anche in casa i risultati delle europee.

Sono certo che dagli errori, se così possiamo definirli, se ne traggono sempre ottimi insegnamenti e che già da oggi ti stai sicuramente organizzando per il domani. Rimani al tuo posto, ma fai tesoro anche dei miei modesti consigli affinché il nostro rimanga ancora il più Bel Paese del mondo! Buon lavoro!

martedì 27 maggio 2014

MA PERCHÉ HA VINTO RENZI? di Piemme

27 maggio. Capisco che sotto botta ci si interroghi anzitutto sulle ragioni dell'insuccesso dei cinque stelle. Tuttavia, se sono le dimensioni del successo del Pd renziano il vero fatto eclatante, è sulle ragioni di questa inattesa avanzata che occorre interrogarsi.

Solo in questo quadro segnalo la spiegazione di Gianluigi Paragone della sconfitta dei pentastellati. In piena controtendenza rispetto ai molti che addebitano la causa della sconfitta di M5S all'eccesso di "estremismo protestatario", Paragone sostiene che Grillo avrebbe perso perché ha dato retta a Casaleggio:
«Il vero responsabile della sconfitta si chiama Gianroberto Casaleggio. Casaleggio era convinto di tenere in cassaforte i voti che prese alle politiche e perciò si dovesse “tranquillizzare” il voto moderato per tentare il sorpasso. Così ha messo la giacca e la cravatta ai suoi golden boy, li ha istruiti affinché parlassero come fighettini. E’ di Casaleggio la scelta di andare da Vespa e poi ai talk comodi, seduti, tranquilli».
Non per eccesso di radicalismo gli stellati avrebbero quindi perso tanti voti, quanto piuttosto perché non sono stati in grado di dargli sostanza, sorreggendolo con proposte di politica economica credibili, perché sono stati elusivi e sfuggenti sulla questione dell'uscita dall'euro. E' la stessa chiave di lettura che, su questo sito, in tempo reale, avanzava Maria Gargano il 20 maggio. ha quindi ragione la Segreteria di Mpl nel sostenere che si è rivelato un grave errore impostare le elezioni come un referendum su Renzi, trattandolo però come un fantoccio della "casta", mentre a livello di massa era riuscito il tentativo di quest'ultimo di passare come il "rottamatore" dei vecchi pescecani politici, ad iniziare da quelli del suo Pd. A maggior ragione occorrevano argomenti tosti, tanto più perché il Renzi non ha affatto impostato la sua campagna elettorale al grido mortifero di "Viva L'europa delle banche e dell'austerità", quanto invece, proprio all'opposto, all'insegna del "cambiamo l'Europa" e del "porremo fine all'austerità".

Sotto l'effetto della sconfitta, per primi i "grillini", si sono spiegati l'avanzata di Renzi come la vittoria dell'Italia della conservazione, leggendola quindi come risposta reazionaria all'Italia del cambiamento. Quindi giù a dare addosso ai cittadini italiani, beoti e pecoroni. E' una spiegazione non solo parziale ma sbagliata, che può condurre solo a nuove batoste.

Due sono quindi le sorgenti che hanno alimentato il fiume renziano. Da una parte,
certamente, il consenso gli è venuto dalle classi e dai ceti sociali agiati, attestati su una linea di conservazione dell'esistente —si tratta, in una società post-fordista segnata dalla diagonale del debito, del "popolo dei creditori", come segnalava Pasquinelli—, e che quindi sono terrorizzati dal cambiamento, dal crollo dell'euro e dal default. Fosse stata solo questa la sorgente Matteo Renzi non avrebbe superato il 30%. Tutto il resto dei consensi gli è venuto da quella parte di popolo lavoratore che non è ancora con l'acqua alla gola e che si illude che la catastrofe sia evitabile con decisi aggiustamenti e facendo cambiare "verso all'Europa". Gli 80 euro non sono stati sono una regalia, sono stati il simulacro della speranza, come dice Paragone "l'inizio di una stagione nuova".

In questo senso la vittoria di Renzi è una sua personale vittoria, non del suo partito, che porta sulle spalle tutte le responsabilità delle politiche di macelleria sociale e di salvataggio del capitalismo predatorio.

Se quest'analisi è corretta occorre saperne trarne le dovute conseguenze politiche.

Quali sono queste conseguenze? La prima è che questo folgorante successo di Renzi è fragile, fragile proprio per l'ampiezza delle aspettative che ha suscitato in tanti italiani, i quali ora si aspettano che una svolta rispetto alle politiche austeritarie avvenga, e avvenga presto.

Ma quali sono i margini di manovra di Renzi? Essi sono strettissimi —si tenga conto che il fatidico banco di prova del "semestre europeo" finisce il 31 dicembre 2014. E di quali arnesi Renzi dispone, oltre al capitale di consenso ottenuto, per poter adottare politiche economiche espansive efficaci. Nessuno o quasi.

Da questa angolatura si capisce il basso profilo tenuto da Renzi nella sua conferenza stampa di ieri. Dopo aver temuto la sconfitta, ora gli tremano i polsi proprio per la spettacolare dimensione del suo successo. Una dimensione che da la cifra politica delle aspettative enormi che ha suscitato. Egli sa quanto sia arduo ora soddisfarle. Egli avrebbe bisogno, non solo di piegare le resistenze dei tedeschi e dei tecno-oligarchi europei, ma pure di una benevolenza dei grandi investitori internazionali e che l'economia internazionale conosca subito un ciclo espansivo —tale da premiare la politica mercantilistica sul cui solco il governo Renzi si muove.

Ammesso che i centri nevralgici dell'euro-sistema concedano al governo Renzi sforamenti parziali delle prescrizioni dei Trattati come il Fiscal compact, questi saranno sufficienti per imprimere una svolta e farla finita con l'asuterità? E se, come è probabile, invece di una dilatazione del ciclo espansivo di paesi come gli USA, il Giappone e il Regno unito, questo si risolvesse in una recessione generale?

Il destino di Renzi non è nelle sue mani, né in quella della Divina Provvidenza. E' nelle mani delle cieche leggi economiche capitalistiche, che in tempi di crisi sistemica, non sono certo generose verso politicanti egotici che per salire al trono promettono mari e monti. La crisi è un tritacarne, fa presto a gettare nella polvere politici saliti alla stelle grazie ad annunci miracolistici. La loro caduta, di norma, è altrettanto fulminea quanto la loro ascesa.

Bando al pessimismo dunque. Si attrezzino piuttosto, e in fretta, quelle forze che vogliono salvare il popolo lavoratore dal baratro, e quindi rovesciare l'ordine di cose esistente.

L'INFAUSTA SCELTA DEL POPOLO ITALIANO di Antonello Cresti

27 maggio. Mentre ovunque in Europa vincono le ragioni della protesta e della alternativa politica e culturale gli italiani ci dicono, quantomeno coloro che si sono recati a votare, che la crisi è immaginaria, che l’austerity è una manna per le famiglie e che, tanto per guardare allo scenario italiano, la sospensione dei diritti democratici dal Novembre 2011 a oggi (tre governi da allora NON eletti dal popolo) rappresenta l’apoteosi della libertà di una nazione ed anche una ricetta insuperabile per rilanciare lo sviluppo e l'equità sociale.

Si può naturalmente discutere se chi ha votato negli altri stati europei abbia affidato le chiavi dell’alternativa alle persone giuste, ed almeno in alcuni casi è piuttosto evidente che non è stato così. Ma un segnale, anche se in maniera scomposta, è stato dato.

In Italia no e credo francamente che invece che scomodare le categorie della analisi politologica sia necessario fare riferimento alle tare storiche di un popolo che ama essere assoggettato, lamentarsi senza fare assolutamente nulla perché le cose cambino, un popolo soprattutto privo di slancio e di grandezza secondo cui il massimo principio, come insegnano i genitori borghesi ai propri figli, è “non farsi riconoscere e non dire cose sconvenienti”.

E’ dunque la vittoria di Matteo Renzi (una vittoria da noi pronosticata nel lontano 2012 quando il popolo mutante del PD l’aveva eletto a “male assoluto”), ma soprattutto è il vero trionfo della DC, intesa come mentalità di branco, come partito dell’impiegato Fantozzi che china la testa, magari inveisce con la moglie quando torna a casa, ma poi la nazionale vince una partita, gli si promette qualche cazzata oppure gli si danno 80 euro pre-elettorali (…) e tutto torna ad essere roseo. Vite inutili, prive di valore.

Gli effetti di questa mentalità perniciosa per chiunque voglia provare ad immaginare una vita migliore saranno disastrosi non tanto sull’elettorato di ordine, la rediviva maggioranza silenziosa che si vergogna del proprio voto tanto da non confessarlo ai sondaggisti, quanto sull’eventuale spazio di alternativa. Per dirsela chiara chiara è facile immaginare che da oggi l’unico movimento che poteva incarnare, per numeri e forza, un nuovo paradigma politico, ossia il Movimento 5 Stelle sarà sottoposto ad un fuoco di fila che ne condannerà “estremismo, violenza, urla etc… etc…” indicando la via per uscire dall’impasse, ossia una normalizzazione, divenire una pacata coscienza critica della politica vecchio stampo, opzione che se fosse seguita dal movimento ne segnerebbe la fine politica immediata. Certo è vero che per un popolo di vigliacchi e servi capaci di consegnare la chiavi di casa in maniera così smaccata alla troika probabilmente sarebbe premiante vedere un M5S fare alleanze col PD, ma politicamente sarebbe la conclusione di un percorso.

Mi ero illuso, in questi giorni, vedendo decine di intellettuali (intellettuali, non pennivendoli di regime…), persone che si astenevano da lunghissimo tempo, impegnarsi per un voto al movimento guidato da Grillo, ma è facile adesso rendersi conto che questa era solo la dimostrazione che una politica portata avanti in maniera giustamente intransigente sia patrimonio solo di una minoranza.

Nanni Moretti nel fatto di trovarsi d’accordo con una minoranza amava crogiolarcisi ai tempi dell’ascesa berlusconiana, adesso cambierà certamente idea (sia pur con l’”odiato” Renzi), noi invece ritenevamo e riteniamo che un movimento di alternativa debba lottare per conquistare una egemonia. Ma questo deve avvenire senza lasciare indietro nulla delle proprie specificità e senza cadere nel trucco di diventare “utile idiota” al servizio del sistema come è capitato negli anni a miriadi di formazioni di sinistra come di destra.

Mentre l’Europa si risveglia ci attendono qui tempi durissimi, nessuno è più autorizzato a lamentarsi poiché ancora una volta gli italiani la testa dentro il cappio l’hanno messa di loro spontanea volontà. Per quelli come noi non resta che l’espatrio, sono troppe le battaglie perdute e gli anni di totale marginalità.

lunedì 26 maggio 2014

HANNO VINTO LORO. PER ADESSO. Segreteria nazionale del MPL

26 maggio. Ci vorrà tempo per svolgere un’analisi non grossolana delle elezioni del 25 maggio. Lo faremo, come siamo abituati a fare, quando disporremo di tutti i dati. Solo allora si potranno decodificare i segni che stanno dietro allo sfondamento del Pd di Matteo Renzi e al flop di M5S di Beppe Grillo. 

Come c’era da aspettarsi, un simile responso delle urne, sta facendo esultare le classi dominanti e, in particolare, l’aristocrazia finanziaria.

Il Sole 24 ore per descrivere il clima euforico che regna a Piazza Affari, fa parlare i pescecani. Lo squalo n.1 esordisce: 
«È il risultato migliore che si potesse ottenere per i mercati finanziari, l'Italia è stato l'unico Paese a esprimere un voto europeista fra i fondatori e, contemporaneamente, ha ottenuto dopo anni un risultato di stabilità politica».
Lo squalo n.2 precisa: 
«L'euforia è giustificata dal fatto che il risultato italiano era una delle maggiori incognite, c'era il rischio di un'affermazione di Grillo in un Paese come l'Italia che pesa così tanto in Europa e questo aveva generato prese di beneficio notevoli sia sui Btp sia sulla Borsa italiana».
Lorsignori esultano, prima ancora che per la larga vittoria di Renzi, per la cocente debacle del Movimento 5 Stelle, considerato dai dominanti, al netto di tutti i suoi limiti, “la forza anti-sistema”. Essi sanno infatti meglio di noi che le bugie del piazzista fiorentino hanno le gambe corte, che non passerà molto tempo prima che le sue promesse sfracellino e il suo governo traballi, li conforta che il nemico pubblico numero uno non sia più alle soglie del potere.

Per la ragione specularmente opposta la parte viva e dinamica del popolo italiano, quella che la decomposizione del sistema ha spinto all’indignazione e alla protesta, dovendo ingoiare l’amaro boccone della sconfitta di M5S, è addolorata e triste.

Come siamo stati vicini a questa Italia della sofferenza e della rabbia nel momento in cui ha alzato la testa e ha cercato un canale per erompere, gli siamo accanto ora nell’ora dello sconforto. Con nessun altro ci sentiamo di condividere niente. 
Non ce lo nascondiamo, quella dei 5 Stelle è anche una nostra sconfitta. Ma siamo stati battuti in battaglia, sostenendo a viso aperto chi solo poteva seminare il panico nel fronte nemico. Doppiamente sconfitti escono tuttavia coloro che si erano illusi che queste elezioni nulla contassero, che sono restati alla finestra non andando alle urne —peggio ancora è andata a quelli che hanno scelto di fare da reggicoda al berlusconismo in decomposizione.

Non abbiamo da spacciare consolanti messaggi di "mezza vittoria", né possiamo cantare demagogici inni di riscossa. L’incrollabile ottimismo della volontà deve fare spazio al pessimismo dell’intelligenza, ovvero alla ragione analitica. Non ci sarebbe nulla di peggio che nascondersi la portata della sconfitta o, peggio, imprecare contro il “popolo bue”. Lo Stato maggiore che ha condotto l’esercito alla mezza disfatta è tenuto a dare spiegazioni. Noi diamo le nostre. Tre su tutte.

(1) L’anno scorso M5S poté diventare un fiume in piena perché seppe ricevere i mille rivoli di una eterogenea protesta sociale, tra cui quella morale contro la putrefatta “casta” politica di regime. E’ stato un errore gravissimo quello di non avere cambiato musica, il non avere compreso che non era su quel terreno che si poteva battere “Renzi il rottamatore”.
Come tutto il continente ha dimostrato, queste elezioni chiamavano in causa l’Unione europea, la moneta unica e quale doveva essere l’alternativa. M5S ha pagato a caro prezzo la sua ambiguità, il generico pressapochismo delle sue proposte, il suo dire e non dire.
Invece di strimpellare lo spartito “doroteo” di una “Europa migliore” , M5S avrebbe dovuto indicare con nettezza che solo l’uscita dalla gabbia dell’euro può far risorgere il Paese, riconsegnandogli democrazia e sovranità. Solo così non si sarebbero persi i voti di chi ha già capito che bisogna uscire dall’euro (verso l’astensione o verso la Lega e Fratelli d’Italia); né si sarebbero ceduti alla lista “Un’altra Europa con Tsipras” e soprattutto a Renzi, che del “cambiamo verso all’Europa” ha fatto il suo principale slogan elettorale.

(2) Lo Stato Maggiore di M5S, ha continuato a fare sermoni soporiferi sulla sacralità del rito elettorale, 
ha insistito nella sua pudica strategia legalitaria, si è dato ad una vera e propria idolatria delle procedure democratiche e della Costituzione. A maggior ragione si sarebbe dovuto chiamare alla rottura dell'euro-dittatura. Invece niente!  
Ma come si fa a sostenere che sulla decisiva questione dell’euro decideranno gli elettori con un referendum, evitando poi di dire se M5S sia per l’uscita o meno? I cittadini, tanto più su temi tanto complicati e dirimenti, vogliono risposte chiare, non sentirsi ponziopilatescamente affermare che “decideranno loro”. Meglio non parlare, viste le deboli (è dire poco) candidature stellate alle europee, delle illusioni sulla “democrazia diretta” e sulle fantomatiche qualità della rete.
Non solo un metodo, ma il casaleggio-pensiero sulla “democrazia liquida” sono andati a sbattere contro il muro della solida realtà.
L'idea che da questo marasma si esce solo con una sollevazione popolare (idea che sta diventando senso comune) è stata respinta da M5S come un tabù. Placare, invece di stimolare, la spinta alla rivolta sociale, non paga una forza che dice di voler mandare "tutti a casa".

(3) Infine M5S paga il suo settarismo autoreferenziale, la irresponsabile presunzione di autosufficienza, per cui “vinciamo noi”, che sta a dire: “bastiamo a noi stessi, non abbiamo bisogno di aiuto da parte di nessuno, non ci fidiamo di nessuno”. E’ finita l’illusione di una marcia rettilinea e trionfante a suon di voti. Questa roba qui non porta da nessuna parte se non all’irrilevanza. Non si conquista il potere (poiché di questo si tratta) se non essendo capaci di forgiare un blocco sociale e politico altrettanto forte e articolato di quello dominante, che abbia un baricentro della massima potenza politica.

Si aprirà questa riflessione in seno a M5S? Sarà in grado il suo Stato Maggiore di coinvolgere in una discussione aperta le sue migliaia di militanti? O li chiuderà nel recinto plastificato e asfittico della rete? Saprà riconoscere M5S i nemici dagli amici ed aprirsi all’ascolto di questi ultimi? Staremo a vedere.

Ci rapporteremo con modestia e rispetto al travaglio interno a M5S, ma andando per la nostra strada. Teniamo conto dell’umore delle masse, sapendo tuttavia che esso, più che mai in questa fase magmatica, è volubile, e può rovesciarsi nel suo contrario. La rassegnazione fa presto a lasciare il posto alla ribellione. Non sullo stato d’animo delle masse si deve anzitutto basare la linea politica e la prassi dei rivoluzionari, bensì sui fattori oggettivi. La crisi sistemica resta, e si aggraverà. Da essa non se ne esce coi pannicelli caldi della meteora Renzi, ma solo con terapie radicali. O la sollevazione democratica e popolare o la controrivoluzione liberista dispiegata.

domenica 25 maggio 2014

ELOGIO DEL CONFLITTO: PERCHÉ M5S MI CONVINCE di Marcello Barison

25 maggio. Tra le diverse critiche che noi rivolgiamo a M5S c'è quella di svolgere un'opposizione, coerente e tenace sì, ma tutta istituzionale, attenta ad evitare che questa trascenda e si materializzi nella mobilitazione sociale. L'ostentato distacco dei 5 Stelle dalle proteste del 9 dicembre (protesta che in un certo senso era una spuria forma sociale  del "grillismo") ne è stata una plastica conferma. Barison [nella foto], mette in evidenza come l'opposizione dei 5 Stelle sia in radicale discontinuità con le pratiche consociative di prima e seconda repubblica. Non solo questo è vero. Noi riteniamo che quello che potremmo definire il "disfattismo anticonsociativo di M5S", lungi dal rappresentare un "tappo" alla lotta diretta, aiuterà l'opposizione sociale ancora latente ad irrompere sulla scena.




«M’è capitato spesso, in questi giorni, d’interrogarmi sui motivi del successo politico del M5S. Indipendentemente dall’esito dell’imminente consultazione, infatti, è indubbio che il Movimento di Grillo ha già determinato uno spartiacque nient’affatto trascurabile sulla scena italiana, raccogliendo un quantitativo di consensi tale da imporsi come protagonista nell’attuale panorama politico. È lecito domandarsi, allora, quale sia la ragione di un simile successo. Si può dire ‒ ed è elemento non certo secondario ‒ che il M5S, intralciando gli intrallazzi del malaffare con l’atipica figura dell’“onesto curioso”, si sia affermato per discontinuità rispetto ai Lanzichenecchi di Stato che hanno depredato il Paese. Tuttavia, come ammonisce Tolstoj, “l’onestà non è che una qualità negativa”, condizione necessaria ma non sufficiente per organizzare un’effettiva strategia politica. Qual è allora il punto?

La risposta, a mio parere, sta nel fatto che il M5S ha reintrodotto, in un ambiente politico debilitato, stagnante e sostanzialmente uniforme, un elemento di aperta conflittualità, dunque, ad un tempo, di differenziazione, polarizzazione, radicalizzazione del confronto sociale. Il senso di questa nuova forma di lotta, per essere adeguatamente compreso, necessita però di un inquadramento storico preliminare.
È il 1976 quando s’insedia il Governo Andreotti III ‒ un Governo monocolore di Solidarietà Nazionale che si avvale dell’appoggio esterno dei Comunisti, appoggio che viene rinnovato anche per il Governo successivo (sempre presieduto da Andreotti) che rimarrà in carica fino al 20 marzo 1979. Negli anni della contestazione e delle ‘autonomie’ extraparlamentari, quando, sia nel mondo operaio che in quello studentesco, prende forma un’alternativa radicale schierata apertamente a sinistra, il PCI, anziché sostenerla, l’avverte come minaccia e reagisce facendo fronte comune col potere costituito ‒ illudendosi così di poter finalmente ottenere quella legittimità istituzionale che gli permettesse, in un secondo momento, di costituirsi come vera e propria alternativa intra-atlanticaalla monocrazia biancoscudata. Il caso Moro (16 marzo-9 maggio 1978) non è che il suggello di quest’abbraccio mortale ‒ il capolavoro politico di Andreotti ‒ per cui il PCI, pur di non concedere nulla a sinistra, è costretto al paradosso di sostenere istituzionalmente il cappio politico abilmente allacciato dai democristiani che, senza nemmeno agire, guardano i ‘compagni’ che, dimenandosi, se lo stringono da soli.
Si consolida in quegli anni quella che a mio parere rappresenta una sindrome endemica alla democrazia italiana e che definirei moderatismo istituzionale. (Va detto per inciso che massimo responsabile di tutto ciò è stato proprio il PCI di Berlinguer, a dimostrazione del fatto che anche essere “una brava persona” è qualità certo apprezzabile, ma nient’affatto sufficiente per realizzare un progetto politico).
Il moderatismo istituzionale prevede sostanzialmente questo: le istituzioni ‒ quindi il Parlamento, la Presidenza della Repubblica, la Corte Costituzionale, ecc. ‒ possono tollerare solo un grado diconflittualità minima, essenzialmente fittizia, che, pur acconsentendo a qualche fisiologico assestamento, non intacchi mai alcuni capisaldi fondamentali, su tutti: la ridistribuzione del reddito, il metodo criminale che governa l’assegnazione degli appalti pubblici, il sistema istituzionale delle tangenti, l’evasione fiscale, la connivenza tra potere mafioso e potere politico, gli interessi del Vaticano, il baronato clientelare accademico, la lottizzazione della RAI, il potere bancario e di alcuni grossi gruppi industriali, l’impunibilità sostanziale dei colletti bianchi, ecc. Insomma, sotto il paravento di una moderazione politica inclusiva, i raggruppamenti partitici più rappresentativi ‒ DC, PSI e PCI prima, FI e DS, PdL e PD poi ‒, hanno sempre e comunque garantito che, quanto alle questioni succitate, non si verificassero mutamenti di sorta. È un tacito accordo che vige ormai da quasi quarant’anni, che ha i suoi riti, una sua retorica (che il Renzi imbonitore nazionalpopolare interpreta peraltro benissimo) e pratiche istituzionali precise, tutte tese da un lato alla conservazione dello status quo, dall’altra all’esclusione sistematica di ogni forma di conflittualità politica che possa incrinare l’omertoso patto sottostante. Basta ascoltare un ‘monito’ a piacere di Napolitano, oppure un’omelia moralizzatrice di Laura Boldrini ‒ o ancora: leggere un editoriale a scelta tra Scalfari, Mieli o Romano ‒ per capire di cosa si parli.
Ebbene, Grillo e il M5S, sia nei modi che nei fatti, rappresentano per questi signori l’inatteso: una forza oggi istituzionalmente determinante la quale, anziché accettare il moderatismo bipartisan ed entrarne a far parte, si propone invece di sovvertirlo. Lo slancio anti-istituzionale che connota l’agire del Movimento non è disprezzo per le istituzioni, bensì la necessaria conseguenza del fatto che, dopo quarant’anni di consociativismo, le istituzioni stesse sono incancrenite, organizzate in modo tale da garantire sempre e solo una difesa ad oltranza dell’assetto socio-economico vigente.
Ecco allora che affinché si determini una rottura di quest’ordine immobilista, è necessaria una tonificante inserzione di conflittualità: rompere lo stallo tramite una politica della discordia produttiva che identifichi in modo chiaro chi sono i nemici senza instaurare con essi alcun tipo di mediazione moderatrice.
L’aveva compreso egregiamente Carl Schmitt quando scriveva che “la possibilità reale della lotta [...] dev’essere sempre presente affinché si possa parlare di politica [...]”. Come a dire: non c’è politica senza conflitto, senza che siano chiari i nemici contro cui schierarsi. “Infatti solo nella lotta reale” ‒ continua Schmitt ‒ “si manifesta la conseguenza estrema del raggruppamento politico di amico e nemico. È da questa possibilità estrema che la vita dell’uomo acquista la sua tensione specificamentepolitica”. Altro che ‘antipolitica’: rispristinando la conflittualità come elemento fondativo e strategico, dopo quarant’anni di moderazione conservatrice, il M5S ha riportato in auge la politica sic et simpliciter».

sabato 24 maggio 2014

NORMA RANGERI, SINISTRATI E... SPINELLI di Emmezeta

24 maggio. A proposito di "voto utile": quando la "sinistra" fa il controcanto a Lorsignori


Ecco un bel tema per il giorno delle elezioni: il "voto utile". La direttrice del Manifesto, Norma Rangeri, è di certo un'autorità in materia. 

Da sempre, infatti, il suo giornale è uno dei massimi cultori del genere. Sarà per questo che non ha resistito neppure questa volta alla magica formuletta. In campagna elettorale, si sa, il voto alla propria lista è giusto, bello, intelligente, raffinato e perfino sexy. Per quelli del Manifesto, invece, dire "voto utile" è più appropriato. Un modo per essere subalterni, ma senza mai smettere di fare gli snob.

Questa volta, però, il problema è diverso. Ed è solo per questo che ce ne occupiamo. La signora Rangeri sostiene la Lista Tsipras, e dunque non è accusabile, almeno in apparenza, di voler portare acqua al mulino di sempre. Ma il lupo perde il pelo ma non il vizio, e la direttrice ha voluto lasciare, anche in questa occasione, tracce abbondanti dell'adesione dell'attuale "sinistra" al pensiero dominante.  

Leggere per credere questo articolo, uscito ieri sul Manifesto, e significativamente ripreso dal sito del Prc, che evidentemente ne condivide la sostanza. 

Il titolo ci ha subito incuriositi: «Niente scherzi. Il voto utile è per Tsipras!». Ora, siccome il cosiddetto "voto utile" è rivolto generalmente contro qualcuno, ci siamo chiesti chi fosse costui. In passato la risposta sarebbe stata scontata: bisognava votare Pds, Ds, Pd, Ulivo, Unione, eccetera, contro il farabutto d'Arcore e la sua accozzaglia di puttane e faccendieri. Ma ora il truffatore è fuori dai giochi. E così pure, almeno temporaneamente, la sua oscena congrega.

Ingenui come siamo, abbiamo sinceramente pensato per un attimo che il "voto utile" della Rangeri fosse rivolto questa volta contro Renzi. Non solo perché in genere si vota "utile" contro chi ha le leve del comando, ma anche per la natura sua e del suo famelico gruppo di potere, portatore di un progetto autoritario ed ultra-liberista. 

E invece... invece è stato sufficiente leggere l'incipit dell'articolo per rendersi conto che non si pensa mai abbastanza male di certa gente.

Ecco qua:
«Funziona, purtroppo. Anche per le elezioni del 25 maggio, nell’elettore di sinistra, ancora incerto se e chi votare, suona la sirena del “voto utile”. L’allarme populismo, il pericolo della coppia Grillo-Casaleggio pigliatutto è scattato, alimentato dalla (intelligente) propaganda del Pd: per frenare l’ondata grillina, la diga è Renzi, solo lui ci salverà».
Chi scrive sapeva già di appartenere ad un mondo diverso da quello di una Rangeri, ma dopo questo articolo viene da pensare di abitare perfino galassie diverse. La qualcosa, sia chiaro, di certo non ci dispiace.

Avete capito a quale mondo appartiene la direttrice? A quello che ha come nemico il "populismo", mica le oligarchie finanziarie, l'eurocrazia di Bruxelles, il boy scout della P2. No, no, quella è tutta brava gente, bersaglio semmai dell'orrendo "populismo". Da Grillo bisogna salvarsi, mica dall'amico di Marchionne! E allora... "voto utile", anche se per Tsipras e non per il Pd. Il che è comprensibile, data la funzione di ruota di scorta che la lista altreurista si è auto-assegnata fin dall'inizio.

Di fronte a questo controcanto del coro di lorsignori non c'è bisogno di spendere troppe parole. Con questo editoriale il Manifesto si allinea con il governo e con le oligarchie europee, ripete i concetti sguaiati di Renzi,  Berlusconi e Napolitano. Il grave è che una simile visione sia stata fatta propria anche dal sito del Prc. Ora, è vero che al peggio non c'è limite, ma osiamo sperare che almeno di fronte a questo molti compagni di Rifondazione provino se non altro un po' di sano disgusto. 

Sarebbe già qualcosa, perché in quanto al risultato elettorale degli tsipriti c'è ben poco da dire. Domani sera, statene certi, basterà far ricorso a due proverbi: «chi è causa del suo mal pianga se stesso» o, se preferite: «mal voluto non fu mai troppo».

Ci dispiace per i sinceri militanti comunisti, non certo per il gruppo dirigente. Poteva scegliere diversamente e non lo fatto. E siamo così passati dall'opposizione alle politiche europee alla lotta senza quartiere contro il M5S. Una strada quasi obbligata, dopo essersi accodati al clan di Repubblica ed all'amico dei Riva. L'editoriale di Rangeri non è dunque un incidente, è invece la Norma di chi non sa uscire dal labirinto della subalternità in cui si è da tempo (felicemente?) rinchiuso.

LA PACCOTTIGLIA (Note sul non-programma di Tsipras) di Paolo Giussani



24 maggio. «Nell’immondo bordello in cui l’Europa è precipitata si sentiva proprio il bisogno di altre anime belle, di qualcuno candido e ingenuo, che portasse sulla scena un po’ di calore umano e di spirito da educanda. Ed ecco venire in soccorso la lista Tsipras per le elezioni europee, nella quale i pii desideri si mescolano mirabilmente con l’ignoranza delle cose del mondo e con un dolce spirito da agnello sacrificale, differente da quello di una certa parte dei popoli di oggi, certo sempre volti al sacrificio ma più come recalcitranti pecore nevrotizzate.

Il programma di Tsipras, diffuso anche in milioni di volantini distribuiti nelle abitazioni, si compone di dieci punti, tutti di carattere economico. Una solenne novità, questa, perché sino all’altro ieri molti dei sinistri e dei loro intellettuali “di massa” minimizzavano le faccende economiche nascondendole dietro quelle politiche, sia perché di cose economiche normalmente non capiscono nulla sia perché la cosiddetta politica offre l’illusione di maggiore libertà di movimento e quindi di leaderismo.
Sviluppo e Austerity

Anche se la successione dei dieci punti non segue un ordine logico cerchiamo di seguirlo noi in modo da cercare di avere un quadro coerente. Il primo punto riguarda l’austerity:
“1. L’Austerità è una medicina nociva somministrata al momento sbagliato con devastanti conseguenze per la coesione della società, per la democrazia e per il futuro dell’Europa.”
Nel programma di Tsipras l’austerity non è esattamente definita. Ancor meno è spiegato perché la classe dominante europea è stata ed è unanimemente e compattamente favorevole all’austerity. Questa mancanza è un peccato perché, oltre ad aggirare un punto cruciale, con la frase “somministrata al momento sbagliato” potrebbe lasciar intendere che esiste anche un momento giusto per somministrare l’austerity, il che rende strettamente necessario sapere cosa esattamente l’austerity sia. Ma tant’è…Possiamo presumere che l’austerity consista nel mix di riduzione della spesa pubblica, privatizzazioni dei servizi sociali e precarizzazione dei rapporti di lavoro che da svariati decenni è la normale politica adottata da tutto il mondo in tutte le circostanze, tanto più durante laGreat Recession del 2007-2008 e la crisi dell’euro. Bene, se è questa, quali sono le conseguenze per la coesione della società, per la democrazia e per il futuro dell’Europa di cui Tsipras teme?

Innanzitutto, cos’è mai la coesione della società e quando una società cessa di essere coesa? Quando c’è in corso una rivoluzione e la/le classe/i sociale/i dominata/e si rifiuta/no di essere tale/i oltre e cerca/no di far fuori la classe sino ad allora dominante instaurando un nuovo ordine sociale e politico. Non esiste altro modo per una società di non essere più coesa ossia andare in pezzi. È chiaro che una società non è un pezzo di stoviglia e non può frantumarsi in assoluto. Quindi Tsipras è preoccupato dalle conseguenze rivoluzionarie, a lungo termine si presume, dell’austerity? È così?

Democrazia? Cos’è la democrazia? Esattamente quel sistema politico che ha consentito e consente ai governanti di impiantare cose tipo l’austerity e altre ancor peggiori – tipo fascismi, nazismi, colpi di stato, guerre locali e mondiali, distruzioni delle vite delle persone etc. Non c’è nessun altro tipo di democrazia proposto nei programmi di Tsipras o altri. Il fatto stesso che Tsipras si presenti alle elezioni, in particolare a elezioni così ridicole come quelle per il ballo in maschera di Strasburgo, dimostra la sua totale adesione a questa democrazia, con quello che ne consegue.

Il futuro dell’Europa? Lo slogan contenuto nel simbolo elettorale di Tsipras è “L’altra Europa”, di conseguenza Tsipras dovrebbe essere contento di tutto ciò che mette in pericolo il futuro dell’Europa, di questa Europa, aprendo magari la via al sorgere di quella nuova di cui lui si presenta antesignano. Se l’agente dell’austerity è l’Europa, e l’austerity è ciò che mette in forse il futuro dell’Europa, una volta tolta di mezzo l’Europa si dovrebbe poter evitare l’austerity visto che il suo autore è sparito. Questo secondo la logica…

In qualche modo Tsipras riconosce che il problema grosso è la recessione in cui l’economia europea, soprattutto quella dell’Eurozona, è piombata. L’argomento è affrontato nei punti due, tre e quattro del programma:
“2. L'Europa potrebbe e dovrebbe prendere in prestito denaro a basso interesse per finanziare un programma di ricostruzione economica focalizzato sull’impiego, sulla tecnologia e sull’infrastruttura

 3. La banca centrale europea dovrebbe seguire l’esempio delle Banche Centrali degli altri paesi e fornire prestiti a basso interesse alle banche se queste accettano di fare credito a piccole e medie imprese"

4. L’Europa dovrebbe mobilitarsi e ridirigere i Fondi Strutturali per creare significative possibilità d’impiego per i cittadini. Laddove i limiti fiscali degli stati membri sono stretti, i contributi nazionali dovrebbero essere azzerati”
I punti due e quattro sono completamente incomprensibili, il punto tre è basato su di un meraviglioso scambio fra causa ed effetto, oggi molto frequente nei commentatori “di sinistra”, e nessuno dei tre mostra un millimetro di avanzamento nella comprensione delle cause tanto della crisi in corso quanto della tendenza alla sparizione di qualsiasi crescita economica ormai in atto da decenni.

“L’Europa dovrebbe prendere a prestito capitali a basso interesse”: ma chi è qui “l’Europa”? Gli stati europei, la commissione di Bruxelles, l’euroburocrazia? I capitalisti europei? Mah?! E, prendere in prestito presso chi? La Bce? Il mercato dei capitali? [Chiedo scusa per tutti questi punti di domanda ma è difficile trovarci qualcosa di univoco e non interpretabile] Prendere a prestito significa aumentare il deficit e il debito pubblico: prima però bisogna fare completamente a pezzi tutti i trattati che hanno posto tali limiti. Tuttavia il punto quattro menziona i “limiti fiscali” degli stati – una cosa che non esiste o meglio esiste solo negli stati europei perché imposta artificialmente dalla UE mediante i trattati e la volontà delle nazioni più forti– e i punti cinque e sette (che vedremo) lo ribadiscono mentre in tutto il programma i trattati non sono neppure menzionati: è evidente che Tsipras li accetta come accetta che si guida a destra. E per essere l’alfiere di un’altra Europa non c’è davvero male.

E cos’è la ricostruzione economica? Focalizzare gli investimenti sull’occupazione e non sui profitti? E chi accetterebbe e praticherebbe una cosa del genere? Ovviamente solo gli stati potrebbero. E gli altri, i non beneficiati dal programma, quelli che p.es. un impiego ce l’hanno, cosa ne penserebbero? Alla fin fine il programma, niente di più e niente di meno di un programma per mantenere in qualche modo i disoccupati, dovrebbe gravare sul bilancio pubblico. E se, invece, si pensa che questo gravame non ci sia e che si possa liberamente spendere (investire) denaro creato dalla banca centrale senza conseguenze perché si rimane così limitati e non si dichiara invece apertamente che è possibile un programma per generare occupazione permanente di livello medio per tutti?

Cosa vuol dire “focalizzato sulla tecnologia”? Quale tecnologia? Per fare cosa? Sono i capitalisti che hanno sempre svolto il ruolo di creare nuovi mezzi di produzione che incorporano le nuove tecnologie. Vogliamo forse sostituirci a loro? Nel caso fosse così sarebbe un punto interessante e dunque perché non dichiararlo apertamente visto che questa sarebbe l’essenza della proposta. Se invece non la si intendesse così, perché allora dirlo del tutto, visto che in sé e per sé non significa nulla. (Non illudiamoci: è solo una deduzione del tutto involontaria e imprevista da parte di Tsipras).

“Focalizzato sull’infrastruttura”: terreno minato. Anche la Tav, cui gli Tsipras italiani sono contrari, è un’infrastruttura: del tutto rovinosa, ma pur sempre un’infrastruttura. Se non si specifica con grande precisione quali infrastrutture si vogliono e quali no e perché, allora è necessario non scrivere proprio niente.

Il clou è sicuramente il punto 3: “La banca centrale europea dovrebbe seguire l’esempio delle Banche Centrali degli altri paesi e fornire prestiti a basso interesse alle banche se queste accettano di fare credito a piccole e medie imprese”. Uno che scrive frasi del genere palesemente non sa assolutamente nulla di quello di cui sta parlando. Sembra che le banche centrali degli “altri paesi” – tipo la Fed, la Bank of England, la Bank of Japan etc. il cui esempio la Bce dovrebbe seguire -siano impegnate da mane a sera a sottomettere il proprio credito alle banche alla condizione che codeste lo girino a loro volta alle piccole e medie imprese. Una favola più favola di questa è difficile ascoltarla, anche di questi tempi. Non solo le banche centrali non fanno né possono fare nulla del genere ma, soprattutto, non sono minimamente le banche a costituire un ostacolo al credito alle aziende produttive quanto la totale mancanza di interesse di queste ultime nel richiedere alcun tipo di credito. A desiderare capitale monetario in credito sono solo le aziende in via di fallimento, ed è ovvio che nella maggior parte dei casi non lo ricevano date le nulle prospettive di restituzione. La altre hanno tutte notevoli riserve liquide assieme a considerevoli scorte di invenduto e portafogli di ordini abbastanza magri: per quale motivo mai dovrebbero domandare credito? Per aumentare la propria capacità produttiva già ampiamente eccedente? In giro non c’è nessuna domanda di credito che ecceda l’offerta: al contrario, come si osserva dai tassi di interesse fissati saldamente ai loro minimi storici. Il pregiudizio popolare da secoli incolpa il credito e le banche ogniqualvolta le crisi economiche erompono, ma, nonostante le credenze tanto diffuse quanto infondate, nei confronti della sfera produttiva il credito ha una funzione più che altro passiva: ad es. nella Great Recession prima sono calati i profitti, poi gli investimenti, quindi i business loans e alla fine il credito interbancario. Ma praticamente tutti quanti credono sia vera la sequenza opposta, naturalmente senza avere mai controllato.

Il fatto è che a Tsipras e a gran parte dei sinistri di oggidì le tendenze immanenti del capitalismo contemporaneo restano del tutto misteriose. Il fenomeno più spettacolare e più determinante, ossia il declino del tasso di accumulazione (ossia della crescita del capitale produttivo) tanto in assoluto che in relazione ai profitti realizzati -anche e soprattutto nella magna Germania -, per i sinistri è sconosciuto e misterioso nelle sue cause. Perché il capitalismo contemporaneo sia vieppiù inabile a generare investimenti produttivi e come questo si connetta alla finanza speculativa e a tutto il resto è, per i Tsipras e tutti quanti, un enigma avvolto in un mistero. Cui naturalmente non possono dare nessuna risposta; e mancando una risposta si autoconsolano con delle frasi sulle banche tratte dal vieto senso comune.

Debito pubblico e Banca Centrale

La Great Recession ha mostrato al mondo come la cosiddetta “responsabilità fiscale” degli stati sia un’invenzione della propaganda mediatica e, anzi, non abbia alcuna possibilità di esistere. Il debito pubblico in rapporto al Pil del Regno Unito è raddoppiato in 24 mesi, quello degli Usa è aumentato del 60%, quello giapponese, già il più alto del mondo, di un altro terzo, e così via. Tuttavia Tsipras crede una tale cosa esista e debba esistere:
“5. L’Europa necessita di un sistema fiscale che assicuri la responsabilità fiscale sul medio termine e allo stesso tempo permetta agli stati membri di usare lo stimolo fiscale durante una recessione.”
Usare lo stimolo fiscale, sì ma quanto? E chi nell’Unione Europea attuale dovrebbe decidere sull’aumento della spesa in deficit? E una volta che lo stimolo fiscale sia stato usato e abbia innalzato il debito pubblico, poniamo come quello britannico nella Great Recession, chi decide quanto e come riportarlo verso lo stato iniziale? E come? Con dei tagli di spesa? E, nel caso, quali? Se vuoi avere l’euro non puoi avere ciò che chiede Tsipras giacché l’euro è una divisa congegnata in modo tale da rivalutarsi continuamente nei confronti delle altre e quindi deve essere separata dagli stati e dei governi. Per quello che chiede Tsipras occorre che l’euro venga tolto di mezzo. E, va aggiunto, è indispensabile che i debiti pubblici attuali vengano cancellati almeno in gran parte, altrimenti la fine dell’euro con il mantenimento dei debiti pubblici provocherebbe un disastro di proporzioni sovrabibliche oltre a ripresentare tutti i problemi attuali magari aggravati dalle svalutazioni violente che inevitabilmente subirebbero le nuove divise nazionali dei paesi più deboli. Tuttavia Tsipras si accontenterebbe di una banca centrale europea che fosse “come le altre”: ma fino ad ora le “altre”– e siamo a sette anni dallo scoppio della crisi -non hanno minimamente evitato l’austerity né, men che meno, sono riuscite a riportare il capitalismo su di un percorso di crescita definibile seria. Ma l’erba del vicino continua a essere sempre più verde.
“6. Una vera e propria banca europea che possa prestare denaro come ultima risorsa per gli stati-membri e non solo per le banche.”
Il legame diretto fra Tesoro e Banca Centrale è stato da tempo reciso in tutti i paesi, in gran parte per predisporre un terreno più favorevole al funzionamento del capitale speculativo che teme la monetizzazione del debito pubblico, come spesso viene chiamata. Ciononostante il Tesoro può sempre essere finanziato dalla Banca Centrale per vie traverse ad es. facendo acquistare i titoli in emissione da determinate banche che si incaricano di girarli immediatamente alla Banca Centrale. La Bce questo lo ha certo fatto essendoci di mezzo la vita, ma lo può fare con molto maggiore difficoltà, perché non è il dipartimento bancario di un certo stato e perciò riceve direttamente le spinte e le pressioni della finanza speculativa, ed è soggetta all’esistenza della divisa comune che ha creato il meccanismo per cui trasferimenti di capitale monetario a favore di uno stato risultano come sottrazioni di capitale monetario agli altri stati e massimamente alla Germania, che nell’eurozona è diventata con la crisi l’importatore principe di capitale. Anche qui, siamo di nuovo al punto di partenza, se si vuole una vera e propria banca centrale che fornisca direttamente capitale monetario al proprio governo occorre prima avere un governo da cui la banca centrale possa emanare ossia non avere quello che c’è oggi. Ma, essendo questa prospettiva inaccettabilmente sovversiva, è meglio rifugiarsi nel volemose bene:
“8. Vogliamo una Conferenza del Debito Europeo per l’Europa. In questo contesto, si dovrebbero usare tutti gli strumenti politici disponibili, inclusi i prestiti dalla Banca Europea come ultima risorsa oltre alla istituzione di un debito sociale europeo, come gli Eurobond, per sostituire i debiti nazionali.”
Gli Eurobond? Va be’ che i tedeschi sono pur sempre tedeschi, ma perché dovrebbero accettare gli eurobond? Ricevono capitali da tutta Europa e dovrebbero accollarsi il peso dei debiti degli altri stati? Se avessero voluto aiutare gli altri paesi europei non avrebbero mai accettato né la Ue né, ancor meno, l’euro. A parte il fatto che è arduo capire cosa la locuzione “debito sociale europeo” possa voler dire (perché “sociale”?), ancor più avversi di politicanti e capitalisti a un debito comune, a trasferimenti ad altri paesi e anche alla politica monetaria della Bce che osa acquistare titoli dei Piigs sono proprio i lavoratori semplici, e più di ogni altri i lavoratori più pauperizzati, che nella magnificente Germania sono ben un quarto della manodopera. Costoro sono addirittura inferociti, non certo contro i propri padroni e/o governanti, ma contro i lazzaroni terroni che popolano i Piggs, sui quali sono disposti ad accettare qualsiasi menzogna se non direttamente a fabbricarsele da sé. All’interno dell’eurozona i conflitti non sono fra i governanti ma fra i popoli lavoratori delle varie nazioni, conflitto che viene molto accentuato dall’esistenza della divisa comune. Fra le altre cose, è anche il meraviglioso risultato di secoli di sinistra, di sessant’anni di Ue, di quindici anni di euro e Bce, e di quasi sette anni di crisi. Con l’aggiunta di una spruzzatina di vergognoso e volgare habitus degli intellettuali di sinistra i quali, totalmente incapaci di parlare e di avere un rapporto umano con la gente normale, da essi intimamente disprezzata, concepiscono i lavoratori salariati come una indistinta massa di esseri allo stesso livello di intelletto e personalità degli animaletti domestici, bisognosi di un padrone o di un istruttore, che non sono in grado di pensare ed agire se non nelle forme meccanicamente ricevute dal padrone o istruttore. La logica reazione istintiva dei lavoratori a questo trattamento è che tutte le cose “di sinistra” siano solo giaculatorie false e pretestuose che servono solo a coprire svariate forme di parassitismo.

E perché i prestiti della Banca Centrale intesi come “ultima risorsa”? Se si tratta dell’ultima risorsa vuol dire che nel funzionamento normale sono i mercati dei capitali a finanziare il debito pubblico degli stati europei, e la Bce interviene solo in extrema ratio: esattamente quello che è successo con la crisi. E nulla di molto diverso da ciò che Trichet e Draghi hanno praticato (e teorizzato). Tsipras non ha neppure il coraggio di chiedere un audit generale sul debito pubblico, come è stato chiesto da svariati altri in Europa, per stabilire quali eventuali parti del debito vadano rigettate e non più rimborsate. Accetta il debito così com’è, lo vuole solo convertire in eurodebito, per ragioni misteriose lo chiama “sociale”, e ciò facendo spera di apparire alfiere di un’Europa “diversa”.
Commercio intraEuro.


L’appello all’amore universale prosegue:

“7. I paesi in surplus dovrebbero lavorare quanto i paesi in deficit per correggere il bilanciamento macroeconomico all’interno dell’Europa. L’Europa dovrebbe richiedere azioni dai Paesi in surplus sotto forma di stimolo, per alleviare la pressione unilaterale sui Paesi in deficit.”
Tsipras viene da un paese deficitario, con la bilancia corrente in disavanzo, è ovvio che dica questo. I paesi che hanno la bilancia in surplus pensano, ovviamente l’esatto opposto. Si badi bene, non sono i governanti a pensare questo o quello, ma sono soprattutto i popoli, e in questi massimamente i lavoratori, e fra i lavoratori, prima di tutti i più poveri e derelitti, che in Germania sono all’incirca un quarto della manodopera, e che, dal loro punto di vista, non hanno intenzione di cedere un centesimo ai maledetti Piigs (notoriamente popolati di sfaticati che secondo le statistiche dell’Ilo lavorano assai più dei tosti nordici). Tuttavia non si riesce a capire cosa precisamente viene chiesto ai paesi in surplus per favorire il bilanciamento macroeconomico (espressione non del tutto chiara ma che probabilmente intende l’equilibrio commerciale). Si richiede loro “uno stimolo”? Quale stimolo? Lo stimolo fiscale è difficile capire cosa c’entri con il bilanciamento a meno che non si creda che l’aumento della spesa pubblica in deficit dovrebbe innalzare il tasso di inflazione interno tedesco e per questo tramite ridurre le esportazioni e il surplus commerciale. Forse intende uno stimolo salariale che dovrebbe ottenere lo stesso effetto aumentando il costo unitario del lavoro. E perché i capitalisti tedeschi dovrebbero accettare questi consigli Tsiprasiani? Diminuire le proprie vendite all’estero e/o aumentare i salari diminuisce i profitti: perché dovrebbero i businessman tedeschi ridursi volontariamente i profitti? Per amore dell’eurostabilità? Prima di tutto a codesti figuri dell’eurostabilità non frega nulla, e comunque assai meno dei propri profitti; e in secondo luogo, per loro euro e Ue vogliono esattamente dire aumento dei profitti mediante la diminuzione dei salari, come è precisamente stato negli ultimi venticinque anni.

Secondo certuni manuali di storia sarebbe piuttosto compito dei lavoratori imporre un aumento dei propri salari, ma proprio il fatto che uno dei loro presunti rappresentanti, Tsipras appunto, chieda sommessamente ai loro padroni di aumentarli un pochino, siate gentili bitte, se no magari ci succedono cose brutte, beh! proprio questa scena patetica ci dice un po’ tutto.

La faccenda della bilancia commerciale è poi di scarsissima importanza. Molto inchiostro è stato e ancora viene sparso sull’argomento come se fosse stato l’accumulo di squilibri commerciali interni all’eurozona a mandare in crisi l’euro. Non è minimamente così. Le bilance correnti fra i paesi dell’area dell’euro non sono mai state in equilibrio, ma dal 1999 al 2008 questo ha perfettamente coesistito con un livello medio degli spread pari a zero. Gli spread fra i saggi di interesse sui titoli di stato della Germania e dei Piigs sono esplosi di colpo dal nulla quando il debito pubblico greco è stato dichiarato non garantito e questo ha provocato una gigantesca e fulminea fuga dei capitali da tutti i Piigs verso la Germania (e gli Stati Uniti, in parte). Il bilanciamento macroeconomico di cui parla Tsipras è semplicemente impossibile, non esiste nemmeno fra regioni di stati piccoli come la Svizzera figuriamoci nella Ue; ma che sia impossibile non ha nessuna importanza perché non è da quello che derivano i maggiori problemi di stabilità dell’euro ma dalla sua natura, diciamo, di oro sintetico, che nessuno fra quelli che sostengono il mantenimento dell’eurozona è finora riuscito a mettere in discussione.
Finanza: il ruggito del topo

I due ultimi punti di Tsipras sono sulla finanza e, francamente, recano un’impronta surreale. Il punto nove riesuma il famoso Glass-Stegall Act (il vero nome è Banking Act) americano del 1933, un effetto della Grande Depressione che istituiva l’assicurazione sui depositi bancari e separava l’attività bancaria strettamente intesa dalle altre attività finanziarie. Il Glass-Steagall Act è stato abolito nel 1999 e sostituito da un’altra legge che ha permesso nuovamente alle banche di svolgere un po’ tutte le funzioni in modo da metterle maggiormente in grado di sfruttare il più grosso boom speculativo della storia allora pienamente in svolgimento.
“9. Un Atto Glass-Steagall Europeo. L’obbiettivo è separare le attività commerciali e gli investimenti bancari per prevenire la loro unificazione in un’entità incontrollabile.”
Quello che il punto nove dimentica è che il Glass-Seagall Act non ha minimamente impedito il crollo finanziario degli anni ’30, anzi ne è stato un semplice effetto posteriore, non ha impedito l’accensione del boom speculativo all’inizio degli anni ’80, e quando avrebbe potuto essere di qualche utilità è stato ovviamente tolto di mezzo. E lo è stato perché le banche e le altre aziende finanziarie avevano già trovato parecchi modi per aggirarlo rendendolo un guscio vuoto, come sono tutte le leggi in materia finanziaria.

Cosa siano le “attività commerciali” e gli “investimenti bancari” riferiti alle banche commerciali, non è per nulla chiaro, al pari di tanti altri punti del programma, ma immaginiamo che ci si riferisca al normale credito bancario contrapposto alle attività speculative o qualcosa del genere. Sia come sia, quello che rende pericoloso lo sviluppo della finanza speculativa non sono le leggi, più o meno favorevoli, bensì la crescente quantità di capitale monetario che vi si riversa dentro e che deve generare una massa di debito che aumenta assai più del reddito nazionale, di fronte alle quali le leggi esistenti fanno una figura alquanto patetica. E questa massa crescente di denaro che entra nel circuito speculativo dipende dal funzionamento del resto dell’economia, e…la canzone continua ed è abbastanza lunga.
“10. Una legislazione Europea effettiva per tassare l’economia e le attività imprenditoriali offshore.”
Per finire, in linea col cretinismo legalitario oggi onnipresente non poteva mancare la petizione di principio da anime belle sulle attività offshore.

In definitiva, non si riesce a capire perché la lista Tsipras sia nata. Qual è il suo posto? Che ruolo pensa di potere avere? Dal programma è ovvio che non possa aspirare a nessun posto e a nessun ruolo. Il programma è vacuo e inconsistente limitandosi a fare qualche pulce alla linea dominante. In sostanza, se Romero avesse creato degli eurozombie e questi si ponessero il problema di un proprio partito da mandare a Strasburgo la lista Tsipras farebbe proprio al caso loro. Magari sembra viva, ma se ci si avvicina un po’ e si guarda meglio ci si accorge che l’impressione è falsa».

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