domenica 30 giugno 2013

BRASILE: PANEM, CIRCENSES ET RIVOLTA POPOLARE di Attilio Boron

30 giugno. Le grandi manifestazioni popolari di protesta in Brasile hanno demolito in pratica una premessa coltivata dalla destra, e assunta anche da diverse formazioni di sinistra – a cominciare dal PT (1) e continuando con i suoi alleati: se si fossero garantiti "panem et circenses" il popolo – disorganizzato, depoliticizzato, deluso da dieci anni di governo del PT – avrebbe docilmente accettato che l'alleanza tra le vecchie e le nuove oligarchie continuasse a governare senza scosse.

La continuità e l'efficacia del programma della "Borsa Famiglia" (2) assicurava il pane, e la Coppa del Mondo e il suo preludio - la Coppa delle Confederazioni - e poi i Giochi Olimpici, avrebbero portato il "circo" necessario a consolidare la passività politica dei brasiliani.

Questa visione, non solo sbagliata ma profondamente reazionaria (e quasi sempre razzista) è stata fatta a pezzettini in questi giorni, il che rivela la corta memoria storica e il pericoloso autismo della classe dominante e dei suoi rappresentanti politici, che si sono dimenticati che il popolo brasiliano ha saputo essere protagonista di grandi giornate di lotta e che i suoi periodi di quietismo e passività si sono alternati a episodi di improvvisa mobilitazione che hanno indebolito gli stretti margini oligarchici di uno stato democratico solo superficialmente.

Basta ricordare le mobilitazioni popolari di massa che imposero l'elezione diretta del presidente agli inizi degli anni '80; quelle che resero possibile la caduta di Fernando Collor de Mello nel 1992 e l'ondata crescente di lotte popolari che resero possibile il trionfo di Lula nel 2002.

Il quietismo seguente, fomentato da un governo che aveva scelto di governare con e per i ricchi e i potenti, ha creato l'erronea impressione che l'espansione del consumo di un ampio strato dell'universo popolare fosse sufficiente per garantire a tempo indefinito il consenso sociale.

Una sociologia pessima si è combinata con l'arroganza traditrice di una tecnocrazia statale che, nel perdere la memoria, ha fatto sì che gli avvenimenti di queste settimane fossero così sorprendenti come un fulmine in un giorno limpido. La sorpresa ha ammutolito una dirigenza politica con il discorso facile e ad effetto, che non è riuscita a capire – e meno ancora a contenere – lo tsunami politico che irrompeva niente meno che nel bel mezzo dei fasti calcistici della Coppa delle Confederazioni. Notevole è stata la lentezza della risposta governativa, dalle istituzioni municipali ai governi degli stati e dello stesso governo federale.

Opinionisti e analisti vicini al governo ora insistono a mettere sotto osservazione queste manifestazioni, segnalando il loro carattere caotico, la mancanza di guida, l'assenza di un progetto politico di ricambio. Sarebbe meglio che, invece di esaltare le virtù di un fantasioso "post-neoliberismo" di Brasilia e di pensare che quanto è successo ha a che vedere con la mancanza di politiche governative rispetto a un nuovo attore sociale, la gioventù, dirigessero i loro sguardi verso i deficits della gestione governativa del PT e dei suoi alleati su un ampio ventaglio di temi cruciali per il benessere della cittadinanza.

Ritenere che le proteste siano state causate dall'aumento di 20 centavos di real nel trasporto pubblico di San Paolo è lo stesso, fatte salve le debite proporzioni, che affermare che la Rivoluzione Francese avvenne perché, come si sa, alcune panetterie della zona della Bastiglia avevano aumentato di pochi centesimi il prezzo del pane.

Questi propagandisti confondono il detonatore della ribellione popolare con le cause profonde che la causano, che parlano della relazione con l'enorme debito sociale della democrazia brasiliana, appena attenuato negli ultimi anni del governo Lula.

Il detonatore, l'aumento del prezzo del biglietto del trasporto urbano, ha avuto efficacia perché, secondo alcuni calcoli, per un lavoratore che guadagna appena il salario minimo a San Paolo, il costo giornaliero del trasporto per arrivare sul posto di lavoro equivale ad un poco di più di un quarto delle sue entrate. Ma questo fatto da solo ha scatenato l'ondata di proteste perché si è combinato con la pessima situazione dei servizi di salute pubblica, con il tratto classista e razzista dell'accesso all'educazione, con la corruzione governativa (un indicatore: la presidente Dilma Rousseff ha mandato via diversi ministri per questa ragione), con la ferocia repressiva impropria di uno stato che si proclama democratico e con l'arroganza tecnocratica dei governanti, a tutti i livelli, davanti alle richieste popolari che sono sistematicamente disattese: è il caso della riforma della previdenza sociale o della paralizzata Riforma Agraria, o i reclami dei popoli originari di fronte alla costruzione di grandi dighe in Amazzonia.

Con questi problemi in sospeso, parlare di "post-neoliberismo" rivela, nel migliore dei casi, indolenza dello spirito critico; nel peggiore, una deplorevole sottomissione senza condizioni al discorso ufficiale.

All'esplosiva combinazione segnalata sopra, bisogna aggiungere il crescente abisso che separa l'uomo comune dalla partitocrazia governativa, incessante tessitrice di ogni tipo di alleanze e trasformismi che burlano la volontà dell'elettorato, sacrificando identità partitiche e adesioni ideologiche. Non a caso tutte le manifestazioni esprimevano il rifiuto dei partiti politici.

Un indicatore del costo fenomenale di questa partitocrazia – che sottrae all'erario pubblico risorse che potrebbero essere destinate agli investimenti sociali – viene dato da quello che in Brasile si chiama Fondo Partitico, che finanzia il mantenimento di una macchina meramente elettoralistica e che nulla ha a che vedere con quel "principe collettivo", sintetizzatore della volontà nazional-popolare di cui parlava Antonio Gramsci.

Un solo dato sarà sufficiente: nonostante la popolazione chieda, infruttuosamente, maggiori investimenti per migliorare i servizi di base che "fanno" la qualità della democrazia, il summenzionato Fondo è passato dal distribuire 729.000 reales nel 1994 alla bellezza di 350.000.000 reales nel 2012, e sta per essere aumentato nuovamente nel corso di quest'anno. Questa enorme cifra parla con eloquenza della fenditura che separa i rappresentanti dai rappresentati: né i salari reali, né l'investimento sociale in salute, educazione, case e trasporti hanno avuto la prodigiosa progressione sperimentata da una classe politica completamente separata dal suo popolo e che non vive per la politica ma che vive, e molto bene, della politica, sulla pelle del suo stesso popolo.

E' tutto? No, c'è qualcos'altro che ha provocato la furia dei cittadini: i conti esorbitanti di cui si fa carico Brasilia per un'assurda "politica del prestigio" incamminata a trasformare il Brasile in un "giocatore globale" nella politica internazionale. La Coppa del Mondo della FIFA e i Giochi Olimpici esigeranno enormi esborsi che avrebbero potuto essere utilizzati più proficuamente per risolvere annosi problemi che toccano le classi popolari. Sarebbe stato meglio ricordare che il Messico organizzò non una ma due Coppe del Mondo nel 1970 e nel 1986, e i Giochi Olimpici del 1968. Nessuno di questi grandi fasti trasformò il Messico in giocatore globale della politica mondiale: servirono invece a occultare i problemi reali che sarebbero venuti alla luce impetuosamente nel decennio degli anni '90 e che perdurano ancor oggi.

Secondo la legge approvata dal congresso brasiliano, la Coppa del Mondo dispone di un bilancio iniziale di 13.600 milioni di dollari, che sicuramente aumenteranno via via che l'inaugurazione dell'evento si avvicinerà, e si stima che i Giochi Olimpici richiederanno una somma ancor più grande. Conviene qui ricordare una frase di Adam Smith, quando diceva che "ciò che è imprudenza e follia nella gestione del bilancio familiare non può essere responsabilità e saggezza nella gestione delle finanze del regno". Chi, in casa sua, non dispone di entrate sufficienti a garantire la salute, l'educazione e un'abitazione adeguata per la sua famiglia non può essere elogiato quando spende ciò che non ha in una costosissima festa.

La dimensione di questa assurdità può essere scritta in un grafico, come osserva con perspicacia il sociologo e economista brasiliano Carlos Eduardo Martins, quando compara il costo del programma "Borsa famiglia", 20.000 milioni di reales, con quanto divorano gli interessi del debito pubblico: 240.000 milioni di reales. Tradotto, in un anno i pescecani finanziari del Brasile e dell'estero, i bambini viziati del governo, ricevono quale compenso dei loro prestiti-trappola l'equivalente di 12 piani "Borsa Famiglia" all'anno.

Secondo uno studio della Revisione Cittadina del Debito, nell'anno 2012 la spesa per interessi e ammortizzazioni del debito pubblico ha raggiunto il 47,19% del bilancio nazionale; di contro, alla salute pubblica è stato dedicato il 3,98%; all'educazione il 3,18% e al trasporto l'1,21%. Con questo non si vuole diminuire l'importanza del programma "Borsa famiglia", ma sottolineare la scandalosa emorragia originata da un debito pubblico – illegittimo fino al midollo – che ha fatto dei banchieri e degli speculatori finanziari i principali beneficiari della democrazia brasiliana o, più precisamente, della plutocrazia regnante in Brasile.

Per questo ha ragione Martins quando osserva che la dimensione della crisi esige qualcosa di più che riunioni di gabinetto e conversazioni con alcuni leaders dei movimenti sociali organizzati. Egli propone, invece, la realizzazione di un plebiscito per una riforma costituzionale che tagli i poteri della partitocrazia e dia realmente potere alla cittadinanza; o per derogare la legge di auto-amnistia della dittatura; o per realizzare una revisione integrale sulla oscura genesi dello scandaloso debito pubblico (come ha fatto Rafael Correa in Ecuador).

Aggiunge anche che non basta dire che il 100% delle royalties originate dallo sfruttamento dell'enorme giacimento petrolifero di Pre-Sal verranno dedicate, come ha dichiarato Rousseff, all'educazione, nella misura in cui non si dice quale sarà la proporzione che lo stato prenderà dalle imprese petrolifere. In Venezuela e in Ecuador lo stato trattiene come royalties tra l'80 e l'85% di quanto prodotto ai pozzi. E in Brasile chi fisserà la percentuale? Il mercato? Perché non stabilirlo attraverso una democratica consultazione popolare?

Come si può dedurre da tutto quanto sopra, è impossibile ridurre la causa delle proteste popolari in Brasile ad uno scoppio giovanile. E' prematuro prevedere quale sarà il futuro di queste manifestazioni, ma di qualcosa siamo sicuri. Il "Che se ne vadano tutti" dell'Argentina del 2001-2002 non riuscì a costituirsi come un'alternativa di potere, ma per lo meno segnalò i limiti che nessun governo poteva tornare ad oltrepassare, sotto pena di essere rovesciato da una nuova insorgenza popolare. Di più, le grandi mobilitazioni popolari in Bolivia e Ecuador dimostrarono che la loro debolezza e la loro inorganicità – come quelle che ci sono oggi in Brasile – non impedirono di abbattere i governanti che agivano in favore dei ricchi.

Le masse scese in strada in più di 100 città brasiliane possono forse non sapere dove vanno ma, nella loro marcia, possono farla finita con un governo che ha scelto chiaramente di porsi al servizio del capitale.

Brasilia farebbe molto bene a guardare quanto successo nei paesi vicini e a prender nota di questa lezione, che fa presagire crescenti livelli di ingovernabilità se continua nella sua alleanza con la destra, con i monopoli, con gli agro-affari, con il capitale finanziario, con gli speculatori che dissanguano il bilancio pubblico del Brasile.

L'unica soluzione a tutto questo è attraverso la sinistra, potenziando – non nelle parole ma nei fati concreti – il protagonismo popolare e adottando politiche coerenti con il nuovo sistema di alleanze. Non sarebbe esagerato pronosticare che un nuovo ciclo di ascesa delle lotte stia iniziando all'interno del gigante sudamericano. Se fosse così, la cosa più probabile sarebbe un ri-orientamento della politica brasiliana, il che sarebbe una notizia eccellente per la causa dell'emancipazione del Brasile e di tutta la Nostra America.


Note:

(1) Partito dei Lavoratori, al governo, a cui appartiene la presidente Dilma Rousseff

(2) Insieme di programmi di aiuti alimentari dello Stato, legati all'obbligo di frequenza della scuola per i bambini delle famiglie che ne beneficiano.


da rebelion.org
(*) Politologo argentino

** traduzione di Daniela Trollio - Centro di Iniziativa Proletaria "G. Tagarelli" - Via Magenta 88 Sesto San Giovanni

sabato 29 giugno 2013

VIALE, MA TI PARE LOGICO? di Piemme

29 giugno. Guido Viale, tra i promotori di ALBA, è uno dei pochi esponenti della sinistra che consideriamo intellettualmente onesto. Ma l'essere intellettualmente onesto non è sinonimo di chiarezza di pensiero. Vale la pena leggere l'articolo di Viale che pubblichiamo qui sotto, il cui titolo originale è "Ristrutturare il debito" (e non a caso pubblicato su il manifesto di ieri). Viale compie, dati alla mano,  un'analisi ineccepibile sul debito pubblico e la sua assoluta insostenibilità. Allo stesso tempo interpola un discorso contrario all'uscita dall'euro. Una opposizione alla sovranità monetaria buttata lì, priva di fondamenti logici, economici e politici.
Vi chiederete, perché la pubblicate? Affinché i nostri lettori abbiano la misura della palude in cui è finita anche la parte migliore della sinistra italiana. Una palude eurista dalla quale questa sinistra sembra non potere e volere uscire mai più.

D'altra parte c'è chi sostiene che l'uscita dall'eurozona sia di per sé sufficiente a derubricare il debito pubblico. Con una lira che si svaluterà, diciamo del 20-30 per cento rispetto all'euro, dicono, il debito potrà diventare "sostenibile". Siamo sicuri che sia così? Nella situazione di collasso del tessuto economico il nostro paese non potrà permettersi di dissanguarsi per risarcire i creditori (siano essi esteri o grandi banche d'affari italiane) per una cifra che oscillerebbe attorno ai 1500 miliardi (a cui andrebbero aggiunti gli interessi). Ergo: l'uscita dall'euro non cozza affatto, va combinata anzi con un default programmato.

«Ci siamo assuefatti a convivere con un meccanismo economico e finanziario che ci conduce inesorabilmente a una progressiva distruzione del tessuto produttivo del paese e delle istituzioni fondanti della democrazia: in questo quadro la perdita di imprese, posti di lavoro, know-how e mercati in corso è irreversibile, come lo è la progressiva abolizione dei poteri degli elettori, del Parlamento e, soprattutto, degli Enti locali: cioè dei Comuni, che sono le istituzioni del nostro ordinamento giuridico più vicine ai cittadini. La Grecia, avanti a noi di un paio di anni in quel percorso di distruzione delle condizioni di esistenza di un'intera popolazione imposto, con una omogeneità impressionante, a tutti i paesi europei del Mediterraneo, ci mostra come alla devastazione provocata dai diktat della finanza e dalla governance europea non ci sia mai fine.

Il Governo italiano non sa dove trovare otto miliardi per soddisfare le richieste su Iva e Imu a cui Berlusconi ha subordinato la sua permanenza nella maggioranza. Ma nessuno mette in discussione il fatto che ogni anno lo Stato italiano riesca sempre a trovare - e paghi - 80-90 miliardi di interessi ai detentori del debito pubblico italiano. E nessuno dice che dall'anno prossimo, a quegli 80-90 miliardi se ne dovranno aggiungere ogni anno altri 45-50 per riportare in 20 anni il debito pubblico al 60 per cento del PIL. Nel frattempo il PIL cala e il debito cresce mentre interessi e quota del debito da restituire aumentano; e nessuno sa o dice dove troverà tutto quel denaro che, con il pareggio di bilancio in Costituzione, non può che essere estratto da nuove tasse - ovviamente a carico di chi già le paga - facendo precipitare ancor più in una spirale senza fine occupazione, redditi, bilanci aziendali e spesa pubblica, cioè scuola, sanità, pensioni, ricerca, salvaguardia del territorio e del patrimonio artistico. C'è stata una cessione di sovranità a favore della finanza internazionale sia in campo economico che politico e ciò a cui molti di noi si sono assuefatti è l'idea che a tutto ciò "non c'è alternativa".
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Quell'alternativa va dunque trovata, ma bastano i pochi numeri citati per capire che a queste condizioni nessuna promessa, o anche solo proposta, di "rilancio produttivo" e di lotta alla disoccupazione e alla povertà ha la minima possibilità di funzionare; e che coloro che le fanno, ignorando volutamente questo quadro, mentono; forse anche a se stessi. Certo, all'interno del bilancio statale si potrebbero spostare molte poste: per esempio dalla spesa militare a quella civile; dalle grandi opere inutili e costose al reddito di cittadinanza; dalle 100mila pensioni oltre i 90mila euro (per un totale di 13 miliardi all'anno!) a quelle sotto i 10mila; oppure recuperare fondi dall'evasione: in fin dei conti il debito pubblico italiano (2.040 miliardi) è meno della somma dell'evasione fiscale e degli interessi sul debito degli ultimi 20-25 anni: e in gran parte, probabilmente, i beneficiari sono gli stessi.

Il debito pubblico italiano, con gli interessi, è insostenibile e incompatibile con qualsiasi prospettiva che non sia la chiusura e il degrado progressivo di tutte le nostre fonti di sostentamento; lo Stato italiano, come quello greco, di fatto è già fallito. Ridurre in misura sostanziale il debito svendendo il patrimonio pubblico, più che un'illusione è un imbroglio: la svendita della quota pubblica di Eni, Enel, FS, Finmeccanica e Fincantieri oggi frutterebbe poco più di 100 miliardi, meno di quanto continueremmo a pagare ogni anno tra interessi e quota di restituzione; la svendita di tutto il demanio e degli immobili di Stato ed Enti locali a prezzi di mercato frutterebbe ancor meno.

Meno che mai potrebbe funzionare, per rimettere in piedi il tessuto economico, "l'uscita dall'euro", che probabilmente si verificherà comunque come conseguenza dello sfascio di tutto l'edificio dell'UE a cui ci sta portando la sua governance; non prima, però, di aver ridotto a zero il potenziale economico di metà del continente. Né c'è da sperare che dopo le elezioni tedesche la musica cambi... Che una svalutazione anche consistente possa far ripartire esportazioni e domanda interna a un'economia ormai in frantumi è una mera illusione: il quadro internazionale è profondamente cambiato e niente è più come prima. E che il problema principale non sia la sopravvalutazione dell'euro ma il blocco della spesa pubblica lo dimostra il fatto che le imprese italiane rimaste solide hanno esportato e continuano a esportare anche con l'euro.

Il fatto è che senza una radicale ristrutturazione del debito (il suo consolidamento; o un "default" controllato; o una moratoria sul pagamento degli interessi) ben più radicale di quella attraverso cui, senza dirlo, è già passata la Grecia (senza peraltro trarne alcun beneficio, perché è stata insufficiente e tardiva) e possibilmente adottata congiuntamente da tutti i paesi non più in grado di far fronte al loro debito, non c'è che il tracollo. Ma ristrutturare il debito non basta. Senza una radicale riconversione del tessuto economico per dare nuovi sbocchi alle imprese che hanno perso il loro mercato interno o estero; o a quelle che per produrre fanno più danni che benefici - e non sono poche, dall'Ilva all'industria bellica, per non parlare dell'auto - non c'è alcuna possibilità di salvare quel che resta dell'apparato produttivo italiano, del suo patrimonio impiantistico, del suo know-how, dell'occupazione. E meno che mai di creare i milioni e milioni di nuovi posti di lavoro necessari a restituire a tutti un presente e un futuro decenti.

Una riconversione del genere non può essere fatta che mettendo al centro l'obiettivo della sostenibilità: sia per spostarsi sulle produzioni che hanno un futuro, anche di mercato; sia per prevenire i costi sempre più pesanti, e destinati a crescere, provocati dai cambiamenti climatici. Tutto ciò richiede produzioni e consumi ecologici e processi che esigono decentramento e ridimensionamento degli impianti, la loro differenziazione in base alle caratteristiche del territorio, la partecipazione ai processi decisionali di maestranze, cittadinanza attiva e governi locali e, soprattutto, riterritorializzazione (cioè rilocalizzazioni): attraverso accordi diretti tra produttori e consumatori o utilizzatori che non annullano certo le funzioni del mercato, ma che le regolano e lo sottraggono, senza cadere nel protezionismo, a quella competitività selvaggia e globalizzata che è solo una corsa verso il sempre peggio.
Il debito pubblico degli U.S.A.


In questo processo un ruolo cruciale possono e devono giocarlo i servizi pubblici locali riconquistati al controllo dei poteri pubblici e, attraverso di loro, di una cittadinanza capace di imporre nuove forme di democrazia partecipata. E' l'unica strada per sottrarsi al dogma del "non c'è alternativa" e andrebbe sottoposta a una a un confronto pubblico tra tutte le forze che si ritengono "alternative"; ma soprattutto tra quelle miriadi di organizzazioni che operano, spesso in silenzio. per costruire un modo di vivere e convivere diverso, a volte senza nemmeno realizzare di essere la parte attiva di quel 99 per cento della popolazione vessata dal capitale finanziario. Un confronto del genere andrebbe esteso anche a livello europeo (con un occhio alle prossime elezioni) per ricavarne un programma generale, di respiro internazionale nel suo impianto, ma articolato e sorretto da una molteplicità di proposte, di rivendicazioni, di buone pratiche e di casi di successo a livello locale.

Per chi si pone in questa prospettiva governo significa innanzitutto autogoverno e le cose da fare non sono la "sintesi" - come spesso si dice e si cerca di fare - tra le mille istanze differenti che agitano il movimento; occorre invece aiutare queste stesse forze a fare loro stesse questa sintesi: a riconoscere nel proprio agire l'embrione insostituibile e irrinunciabile di un programma di governo alternativo. In tutti i luoghi dove già sono all'opera, queste forze sono le sedi potenziali di un'aggregazione di istanze consimili, di un confronto tra rivendicazioni diverse ma convergenti, di una volontà di coinvolgere nei propri progetti il governo del territorio. La riformulazione di un programma e l'aggregazione intorno a esso delle forze disponibili è la condizione per legittimare il rigetto dei patti di stabilità e per sostenere le ragioni di questa prospettiva a livello europeo.

Su questa stessa strada si costruiscono anche le premesse per fare fronte alle ritorsioni che immancabilmente seguirebbero alla scelta di ristrutturare i debiti; ma anche alle conseguenze di un'eventuale dissoluzione dell'euro causato dall'impasse politica in cui sta precipitando la governance europea; e, ancor più, per prevenire il progressivo deterioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione, se le cose continueranno a procedere nella direzione in cui le spinge il governo delle larghe intese».

venerdì 28 giugno 2013

SE QUESTI SONO SINDACATI Intervista di Anna Lami a Sergio Bellavita


 28 giugno. Sergio Bellavita (a sinistra nella foto) esponente della Rete 28 Aprile è stato membro della Segreteria nazionale della Fiom, fino a quando non è stato cacciato in malo modo nell'ottobre scorso dalla maggioranza di Landini.


D. E’ stato firmato l’accordo sulla rappresentanza e democrazia tra Confindustria Cgil Cisl e Uil, successivamente sottoscritto anche dall’Ugl. Il gruppo dirigente Fiom non solo non si è opposto ma ne ha dato un giudizio sostanzialmente positivo. La valutazione della Rete 28 Aprile è invece molto negativa, ci puoi argomentare i principali punti di disaccordo tra voi e la maggioranza Fiom?
 

R. E' riduttivo parlare di "accordo negativo", con quell'intesa si instaura un vero e proprio regime sindacale. Un regime riservato esclusivamente al sindacalismo complice , destinato cioè, a praticare la contrattazione di restituzione, di riduzione di salari e diritti. In continuità peraltro con quanto previsto dall'accordo del 28 giugno 2011 e dall'articolo 8 di Sacconi, le deroghe cioè al Contratto ed alla legge. In sostanza serve ad applicare sul terreno sociale le politiche d'austerità. Sin da subito abbiamo parlato del giudizio positivo di Landini come della firma tecnica sul modello Marchionne, la stessa per capirci che la Cgil e settori Fiom proponevano di apporre nel 2010 a Pomigliano di fronte all'intesa separata che cancellava la Fiom dagli stabilimenti. L'accordo su rappresentanza e democrazia è appunto la piena affermazione del modello Marchionne su scala generale. Lo stesso modello autoritario e sanzionatorio che contempla solo il sindacalismo complice. E' sufficiente vedere cosa è previsto sul terreno della rappresentanza: solo le organizzazioni sindacali firmatarie e/o che piegano la testa accettando di non confliggere con l'impresa in rispetto degli accordi vigenti, hanno il diritto a presentarsi alle elezioni rsu. Così si cancella il diritto dei lavoratori ad opporsi agli accordi, a lottare cioè per migliorare le proprie condizioni. Si cancella il sindacalismo conflittuale. Se quest'accordo fosse stato sottoscritto prima del 2010, la Fiom avrebbe dovuto firmare gli accordi di Mirafiori e Pomigliano, dove, non dimentichiamolo, i lavoratori hanno votato. Hanno votato per cancellare la Fiom, per peggiorare le proprie condizioni, per uscire dal Contratto nazionale. Ecco perchè il voto dei lavoratori previsto nell'accordo e che tanto viene enfatizzato, altro non è che lo strumento per legittimare il ruolo di un sindacato che sottoscrive accordi peggiorativi, è l'istituzionalizzazione del referendum come strumento per imporre la contrattazione di restituzione. Quando nel 2010 decidemmo come Fiom di non firmare l'accordo di Pomigliano, decidemmo di lottare mettendo al centro i diritti dei lavoratori, non quelli d'organizzazione. Tutti ci invitavano al realismo, ci raccomandavano di stare dentro. E' evidente che c'è un radicale cambio di linea.
 


D. Il corteo della Fiom dello scorso 18 maggio, l’abbiamo potuto vedere tutti, non è stato particolarmente partecipato ed è passato senza produrre risultati per i lavoratori. Per il prossimo venerdì è previsto lo sciopero del settore auto Fiom. A tuo avviso può rappresentare un nuovo inizio e restituire un profilo conflittuale al sindacato dei metalmeccanici o invece è ancora insufficiente?

R. Certamente la manifestazione del 18 maggio non è stata delle più partecipate nella lunga storia dei metalmeccanici. Le ragioni sono molteplici, pesa sopratutto la profonda crisi di credibilità del sindacato nel nostro paese. La condizione di chi lavora precipita e più nessuno crede, non a torto, che siano le manifestazioni a Roma a poterla cambiare. In particolare tuttavia occorre sottolineare che da molti mesi la Fiom non ha più nessuna grande vertenza in campo, continua certamente a rappresentare un punto di vista importante, radicale sul terreno politico, ma un punto di vista che non è più, da molto tempo, conseguente sul piano dell'iniziativa concreta. E i lavoratori misurano un sindacato su quello che fa concretamente, non su quello che dice, per quanto importante. La stessa manifestazione su Fiat di venerdi 28 ha questi limiti. Non c'è più in piedi una vertenza Fiat che vada oltre le sacrosante battaglie legali, oltre la denuncia dell'anomalia Marchionne. Tutti sanno che nei prossimi anni Fiat metterà pesantemente le mani sull'occupazione. E' in gioco forse più di metà dell'occupazione e degli stabilimenti. La sovraccapacità produttiva rispetto al dato delle vendite è persino eclatante. Non risolveranno né nuovi modelli che pure sono necessari, né una nuova indispensabile strategia industriale . Tra le altre cose non va sottovalutato il fatto che per gli azionisti Fiat Marchionne è la gallina dalle uova d'oro per i profitti che ha portato loro con le diverse operazioni finanziarie ed industriali. Voglio dire che non c'è una proprietà arrabbiata per i dati disastrosi sulle vendite, se non qualche ricco e attempato sabaudo nostalgico della Fabbrica Automobili Torino. Cisl,Uil, la politica e le Istituzioni, a partire dal Governo sanno benissimo cosa succede e cosa si prepara. Non ci si può aspettare nulla visto che hanno legittimato e legalizzato il modello Marchionne. Per queste ragioni occorre costruire una pura vertenza sindacale. Senza una battaglia per la redistribuzione del lavoro su tutti gli stabilimenti e la difesa intransigente di ogni sito si rischia semplicemente di accompagnare la pesante ristrutturazione che verrà. Ed è in quella chiave che la lotta contro il modello Marchionne va inserita. La leva della battaglia è la difesa dell'occupazione. Diversi compagni che lavorano in Fiat da tempo propongono inascoltati di riprendere il terreno della lotta, pur consapevoli della difficilissima fase. A Pomigliano per esempio, è allucinante la contraddizione tra il ricorso al lavoro straordinario e la cassa integrazione. Per queste ragioni molti si aspettavano un blocco dei cancelli, qualcosa di più forte che la semplice denuncia.

D. Sabato a Roma avrà luogo l’assemblea nazionale della Rete. Quale bilancio faresti dell’operato della vostra area programmatica dalla sua nascita ad oggi? Per quale ragione nonostante l’aggravarsi delle condizioni nel mondo del lavoro avete incontrato così tante difficoltà a costruire un’opposizione di massa alla linea maggioritaria della Cgil? Come mai siete ancora poco conosciuti in tanti luoghi di lavoro? Cosa vi proponete di fare per il futuro?

 

R. L'assemblea di sabato è un passaggio importante. Si tratta,per noi che abbiamo da tempo deciso di presentare un documento alternativo al congresso Cgil , di qualificare il come ma anche perchè continuare la battaglia in Cgil. Non ci misuriamo solo con la deriva inarrestabile di una Cgil che ha sostanzialmente aderito al modello Cisl consentendo così la totale destrutturazione del sistema dei diritti e delle tutele del mondo del lavoro. Il quadro nel nostro paese, come peraltro nella maggior parte dell'area euro, è segnato dalla durezza del combinato disposto tra politiche d'austerità e crisi economica. Una si alimenta dell'altra e entrambe, nell'assenza totale di rappresentanza politica e sociale delle classi popolari, deflagrano creando impoverimento, disoccupazione ma anche, per ora, rassegnazione e passività. Tutte le vecchie forme della rappresentanza sono travolte, siano esse complici o antagoniste. E' lo spazio concreto dell'iniziativa sindacale rivendicativa che è praticamente scomparso e non solo per responsabilità del sindacalismo complice che c'è ed è enorme, non dobbiamo dimenticare che la crisi è crisi del capitale, della sua capacità di generare profitti, di garantire consenso e crescita. Ogni lotta sindacale in difesa dell'occupazione, per il salario, per i diritti diviene immediatamente lotta politica, immediatamente diviene sovversiva rispetto alle compatibilità date. Questa è la ragione di fondo che rende complicata la costruzione del conflitto. La condizione dei lavoratori è divenuta variabile dipendente dei margini del capitale nella sua competizione globale. L'accordo sulla rappresentanza e democrazia e le deroghe previste dal 28 giugno 2011 sono gli strumenti concreti per applicare nel concreto questa subordinazione. Se questo è il quadro, il punto centrale per la Rete 28 aprile è come essere parte della necessaria ricostruzione del conflitto sociale a partire dai luoghi di lavoro. Stare nelle lotte parziali, agire per una nuova coscienza di classe, stare nella contraddizione che nei diversi soggetti si pare e che è sempre più esplosiva. La Rete, sin dalla sua nascita nel 2005, ha cercato in ogni modo di contrastare la deriva della Cgil, la sua progressiva cislizzazione. Sia nella battaglia interna, per una lunga fase insieme alla Fiom ed a altri pezzi della Cgil, sia nel tentativo di costruzione di un fronte sociale contro le politiche del padronato e del Governo. Siamo un punto di riferimento per larghissima parte dei militanti della sinistra antagonista nei luoghi di lavoro, ovviamente per tutti quelli che continuano a lottare. Tanti compagni purtroppo sono semplicemente tornati nel privato senza che nessuna nuova generazione si sia affacciata sullo scenario sociale. Certamente si poteva fare di più, tuttavia la marginalità della nostra esperienza non è cercata, ma imposta dalle condizioni date. Il congresso da questo punto di vista è una straordinaria possibilità di farci conoscere, di consolidare e aggregare nuovi quadri, di ri-costruzione di una nuova esperienza collettiva interna alla Cgil.
 

D. Vi proponete di presentare un documento alternativo al congresso della Cgil. Nel precedente furono denunciate procedure quantomeno dubbie e risultati manipolati nonostante l’opposizione al gruppo dirigente di pezzi importanti della Cgil quali gli allora segretari di categoria dei metalmeccanici, funzione pubblica e bancari. Non hai timore che possano ripetersi simili pratiche? E soprattutto, pensi sia ancora possibile poter invertire la rotta del sindacato di Corso Italia in assenza di conflitti costruiti dal basso?

R. Chiediamo un congresso democratico, regole certe e trasparenti che garantiscano il diritto di ogni iscritto di conoscere le diverse posizioni e di decidere. Lo scorso congresso è stato devastante da questo punto di vista se si pensa che ancora oggi non conosciamo i dati del voto disaggregati per territorio e categorie... regioni del sud che hanno raddoppiato i voti di quelle industriali. Una cosa inaccettabile. In più, la stretta autoritaria che viviamo nell'organizzazione e che è direttamente figlia della crisi della forma sindacale, rischia di degenerare nel tentativo di cancellare politicamente e sostanzialmente il dissenso in Cgil. Le contraddizioni che apriamo sulle scelte dell'organizzazione sono vissute dai gruppi dirigenti come atti di lesa maestà, come aggressioni violente. Difenderemo con ogni mezzo, ripeto, con ogni mezzo, il diritto al dissenso. Il sindacato non è proprietà dei suoi dirigenti. No, senza un nuovo ciclo di lotte il sindacato, tutto, non cambierà mai. E' illusorio pensare che sia la nostra battaglia congressuale a modificare un'organizzazione come la Cgil. Solo un nuovo protagonismo sociale può obbligare il sindacato a cambiare o ad adeguarsi.
 

D. Per rilanciare il conflitto sociale non si potrà certamente fare a meno di coinvolgere i milioni di disoccupati e precari. L’Usb a tal proposito ha iniziato a ragionare sulla costruzione del “sindacalismo metropolitano” e della “confederalità sociale”. L’idea è che il sindacato si debba porre il problema della relazione con i settori sociali esclusi dai circuiti lavorativi tradizionali, dunque fuori dalla contrattazione ordinaria. Questi soggetti, che è difficile come nel caso dei precari se non impossibile come nel caso dei disoccupati organizzare nei luoghi di lavoro vanno organizzati sul territorio, affiancando alle lotte sindacali classiche quelle per le occupazioni di case, per la sanità, e per tutte le problematiche che riguardano la vita nei territori. Cosa ne pensi? Ti sembra un esperimento interessante?

R. Si, davvero molto interessante. La crisi che tutto travolge riduce nei fatti la stratificazione sociale e generalizza la condizione di massima delle classi popolari, cancellando anche vecchie divisioni. La questione salariale,la lotta contro il carovita ad esempio travalica da tempo le diverse appartenenze categoriali. Si impone la necessità di promuovere un'azione unificante interna ed esterna ai luoghi di lavoro, sia perché imposta dal processo di espulsione del sindacato da fabbriche e uffici, sia per effetto della crescente disoccupazione di massa. Non dimentichiamo che con la cancellazione dell'art.18 la Costituzione è uscita dai luoghi di lavoro riducendo molto la possibilità della tradizionale organizzazione interna ai luoghi di lavoro. Stesso processo riguarda la contrattazione sindacale. Diviene quindi centrale il territorio che, guarda caso, è una dimensione altamente unificante per le classi popolari. La casa, il salario, i servizi, il lavoro. Senza dimenticare, ovviamente, un livello generale che riunificando il parziale,dia alle lotte una prospettiva progressiva e solidale impedendo che quella stessa dimensione che vogliamo indagare non diventi causa di nuove separazioni, egoismi, o peggio.



giovedì 27 giugno 2013

«MARIO DRAGHI E GLI INCAPPUCCIATI DELLA FINANZA» di Roberto Musacchio

27 giugno. Musacchio (nella foto) ricapitola molto bene quanto l'economista Bruno Amoroso ha scolpito nel suo ultimo libro Figli di troika. Ricordiamo che Amoroso sarà a Perugia, sabato 29 giugno alle ore 18:00 in Via Tornetta.

«Tuttavia questi fattori endogeni non sono di per sé le cause maggiori della situazione attuale (quella europea ndr), ma effetti collaterali di una scelta strategica di modello sviluppo economico e sociale che risale alla fine degli anni Sessanta del Novecento. Una scelta che, al monito sui "limiti dello sviluppo", segnalato da più parti e dal Club di Roma in particolare (1972), ha trasformato un modello di economia e di società basato su un capitalismo espansivo e fordista —forti investimenti diretti esteri per la conquista graduale di nuovi mercati e produzione di massa per consumo di massa— in un modello di crescita intensivo e introverso. Quindi un modello di "apartheid globale" fondato sui tre centri maggiori dell'Occidente, cioè Giappone, Unione europea e Usa. Questo ha dato vita alla Triade e ha messo in moto il processo di marginalizzazione economica che ha portato alla crisi delle economie in Africa e America Latina e, all'interno dei Paesi europei, alla distruzione dei sistemi di Welfare".

Scritto in modo asciutto e incalzante, quasi come la sceneggiatura di un film, il nuovo libro di Bruno Amoroso, "Figli di Troika" edito da Castelvecchi, apre con un preambolo, da cui e' tratto il brano che ho riportato, che sembra uno di quegli antefatti che proprio nei film precedono, e spiegano, lo svolgersi successivo degli avvenimenti.

Avvenimenti che vanno dalla Triade alla Troika, nella realizzazione di quella strategia del capitale concepita in quel volgere di tempo, appunto la fine degli anni '60, quando il capitalismo sembra avviato ad una crisi irreversibile. Quello di Amoroso, economista di fama internazionale rimasto fedele agli insegnamenti del suo grande maestro, Federico Caffè, e' un argomentare duro e impietoso, che non fa sconti. Tanto meno al campo che avrebbe dovuto resistere e contrapporsi a questa nuova strategia del Capitale e che ha finito con l'essere sussunto o sconfitto.

Non c'è dubbio che i propositi della Triade si siano ampiamente realizzati. Sconfitto, in buona parte, anche quel movimento che ha provato a fondare l'idea di un'altra globalizzazione, perche' troppo forte è risultata quella pensata e imposta dal Capitale. Che, dopo i moti di Seattle, si è subito impegnato a sussumere nella governance parti di quello stesso movimento. Così come molte Ong sono state cooptate nelle cosiddette "guerre umanitarie".

Ma gli strali di Amoroso sono rivolti tutti a loro, gli artefici della crisi economica, come recita il sottotitolo. Così descrive gli agenti di questa strategia: "Gli "incappucciati della finanza" agiscono oggi a viso scoperto, con ruoli istituzionali e con l'autorità auto-attribuitasi dalle istituzioni della globalizzazione, reclutano tra i nostri giovani i futuri sicari della economia globale, mettono in atto le loro strategie di "marginalizzazione economica" delle economie e di "destabilizzazione politica" delle istituzioni e degli Stati".

Il libro offre una conoscenza ravvicinata di quel Potere unico, che e' l'evoluzione del Pensiero unico che lo ha concepito, che si è edificato in questi 40 anni. Un Potere unico che ha naturalmente sede negli Usa, ma che si materializza in strutture economiche-finanziarie di portata multinazionale. C'è un trust di Banche, Assicurazioni e Fondi, figlio di quel processo di privatizzazione e liberalizzazione della finanza, iniziato da Regan e continuato con Clinton. L'ape regina è la Goldman Sachs, quella con le maggiori propaggini globali, che riguardano pesantemente anche l'Italia. 




Ma sarebbe un errore, spiega Amoroso, credere che tutto dipenda da una finanza autonoma e deviata. In realtà essa resta strumento di quella scelta ricordata in premessa, di "trasformare un sistema capitalistico basato sullo sfruttamento del lavoro con la produzione di massa e il consumo di massa (capitalismo fordista-keynesiano) in un sistema di apartheid fondato sui consumi high-tech per uso civile e militare, e sulla rapina dei risparmi (pubblici e privati) per finanziare la sostenibilità di questo costoso sistema di produzione e di potere. Pertanto, a mio avviso, chi pensa che basti controllare la moneta a livello nazionale o controllare la finanza speculativa, non capisce che queste sono oggi gli effetti del progetto capitalistico di "apartheid globale", basato sulla rendita e sul controllo militare e civile delle economie, e non la causa. Un progetto che non ha bisogno dei ceti medi e dei lavoratori in Occidente, e che quindi smantella anche tutte le forme di welfare e di reddito non necessario al suo piano di dominio."

Non è dunque un caso che lo sviluppo della UE assomigli ad una sorta di banana, figura che risulta dalle aree coinvolte che arrivano fino alla Padania, e che si avvalga di una sistematica spoliazione delle aree meridionali. Il libro ricostruisce come rispetto alla Grecia, a Cipro, ma anche all' Irlanda si sia usata da parte della Troika la stessa cassetta degli attrezzi messa a punto dalla Triade e ampiamente collaudata negli anni '80 in Africa e America Latina. Una cassetta degli attrezzi che prevede che al Paese oggetto delle attenzioni vengano sistematicamente sottratte sovranità e risorse.

Questa pratica richiede naturalmente di essere sostenuta da un apparato di consenso forte ed agguerrito. E questo apparato è stato forgiato negli anni ed ha portato ad una occupazione sistematica dei luoghi di elaborazione, come le università, da parte degli epigoni del pensiero unico e alla creazione di nuovi circoli di lobbing. E' la storia della Trilateral e di organizzazioni come il Club Bilderberg. Amoroso ne ricorda molti dei soci che hanno acquisito ruoli fondamentali nella direzione di strutture finanziarie politiche, con quel meccanismo delle porte girevoli ben descritto anche da Gallino. Tra loro, così come tra gli uomini che hanno avuto relazioni con la Goldman Sachs, si trovano per altro numerosi dei recenti Presidenti del Consiglio italiani.

La capacità di fare "egemonia" di questo potere unico porta ad una sostanziale sussunzione della politica, e alla marginalizzazione "forzata" di chi prova ad opporsi. E si estende pesantemente sul sistema mass-mediale.


Amoroso accompagna il racconto delle nomenclature del potere unico, fornendo la composizione della Troika che si occupa ad esempio di Grecia, con quello delle sue "narrazioni". L'idea di "governance" si va sostituendo a quella di governo, relegando quest'ultima a mera gestione delle penurie laddove la ricchezza è appannaggio della prima. Si edifica l'economia del terrore, in cui è centrale l'elemento del debito come chiave e leva per la espropriazione sistemica di democrazia e beni.

Uno spazio importante è dedicato a Mario Draghi di cui vengono ricostruiti passaggi di ruoli e di funzioni, le molte porte girevoli, che lo vedono protagonista in momenti di grande importanza come quello della privatizzazione del sistema bancario italiano, poi dello scoppio della crisi globale e infine della sua gestione attuale.

Sono, quelle di Amoroso, 84 pagine che pesano come pietre. Come pesante come pietra appare, al confronto, il silenzio delle sinistre occidentali, europee e italiane.

mercoledì 26 giugno 2013

«IMPRESA DISPERATA». ROSS@: perché non ci siamo di Leonardo Mazzei

26 giugno. «Stiamo tentando un'impresa disperata», questa la poco incoraggiante premessa di Giorgio Cremaschi nella sua relazione alla “riunione di vertice” di Ross@ svoltasi il 15 giugno scorso. Se disperata è l'impresa, di certo abbiamo trovato davvero disperanti alcuni passaggi del discorso del combattivo leader sindacale.

Un discorso che abbiamo il dovere di esaminare e criticare, perché indica una strada senza sbocchi, frutto di un'analisi della situazione assai superficiale, privo di coraggio su alcuni punti dirimenti e portatore di un pessimismo cosmico che ben spiega la premessa di cui sopra.

Come Movimento popolare di liberazione (Mpl) abbiamo espresso fin dal principio diverse riserve sul progetto di Ross@. E tuttavia, in considerazione del fatto che condividiamo tanto la necessità della costruzione di un soggetto politico anticapitalista, quanto quella di un fronte che si ponga nella prospettiva della sollevazione popolare, abbiamo scelto fin da subito di interloquire con questo progetto politico.

Purtroppo, e lo dico con dispiacere sincero, la relazione di Cremaschi ha confermato in pieno le nostre preoccupazioni iniziali. Avremmo preferito essere smentiti, ed invece le ragioni di dissenso sono decisamente aumentate. Ed all'interno di uno schema di ragionamento assai fragile, vi sono dei passaggi che lasciano francamente costernati.

A chi dovesse trovare ingeneroso od eccessivo questo giudizio, consiglio l'ascolto del file audio della relazione introduttiva di Giorgio Cremaschi.

Entriamo nel merito

Lanciare un progetto politico, e dichiararne in partenza il quasi certo fallimento, potrebbe sembrare a qualcuno un apprezzabile esercizio di realismo ed onestà intellettuale. Non è questa l'opinione di chi scrive. Così facendo, infatti, altro non si fa che incrementare il clima di pessimismo, depressione e passività, pur dichiarando di volerlo combattere. Certo che non può esserci la certezza della riuscita, ma con questa mancanza di convinzione si avrà solo la certezza del fallimento.

Un fallimento che, a mio modesto giudizio, è inscritto proprio nella visione proposta da Cremaschi, per il quale Ross@ sarebbe una sorta di "ultima spiaggia". Un atteggiamento politico e psicologico, quest'ultimo, che non ci si aspetterebbe da un leader esperto e capace come l'ex dirigente della Fiom. Certo, è capitato nella storia politica di molti di sentirsi davanti ad uno scenario da "ultima spiaggia". Ora, però, l'esperienza dovrebbe pur insegnare qualcosa. E la gravità della crisi dovrebbe far intravedere il grande mare delle contraddizioni sistemiche, ben al di là della misera spiaggia dello stato della sinistra più o meno sinistrata.

In realtà, così come non esistono conquiste definitive, siano esse politiche o sociali, (e giustamente Cremaschi lo ricorda nella parte conclusiva della sua relazione), non esistono neppure "ultime spiagge" assolute. Tanto meno potrà essere il progetto di Ross@ la verifica definitiva dell'esistenza o meno di "uno spazio per un movimento politico anticapitalista".

La cosa ancor più preoccupante è che Cremaschi dice a chiare lettere che un momento decisivo di tale verifica sarà rappresentato dalle prossime elezioni europee. La cosa curiosa è che quando noi, lo scorso anno, abbiamo proposto, all'interno del "Comitato No debito", l'esigenza di misurarsi con le imminenti elezioni politiche, ci fu risposto che non c'erano le condizioni per una presentazione. Perché queste condizioni sarebbero maturate solo ora, fra l'altro con l'ostacolo tecnico del maggior numero di firme necessarie? Forse solo perché la componente rifondarola di Ross@ non ha più nemmeno un Ingroia a cui aggrapparsi, come invece ha fatto con una disinvoltura pari all'insuccesso a febbraio?


Ma lasciamo perdere, ed affrontiamo questioni più serie. Il pessimismo cosmico che straborda da tutta la relazione ha un suo punto forte nell'analisi di quello che viene chiamato "sistema Pd". Un sistema che viene definito come trionfante, come capace di recuperare a destra e a manca, praticamente invincibile, addirittura "più forte del pentapartito" del secolo scorso. Ora, che il Pd sia il vero partito sistemico, piuttosto che l'anomalo Pdl, è cosa assai ovvia che andiamo dicendo da anni. Ma da qui ad attribuirgli una simile forza ce ne corre.

Il Pd è un partito in crisi, dentro quella più generale crisi del sistema politico italiano che i promotori di Ross@ proprio non riescono a vedere. Il Pd ha perso nella sostanza le elezioni politiche, ha perso milioni di voti, ha visto cadere il proprio segretario, si è diviso sull'elezione del presidente della repubblica, ed ha dovuto accordarsi alla fine con Silvio Berlusconi. Certo, è vero che il Pd è andato bene (pur essendo in discesa nei consensi) alle amministrative di maggio. Ma ci siamo scordati della specificità del voto amministrativo rispetto a quello politico?

E non sarà che ci si butta su certe interpretazioni, per quanto infondate, solo per fa piacere ai tanti che vorrebbero mettere immediatamente tra parentesi il significato più profondo del travolgente successo del M5S a febbraio?

Negare la crisi del sistema politico, ed addirittura tratteggiare un Pd pigliatutto, tanto più in una fase convulsa come l'attuale, sembra solo un modo per non vedere le potenzialità della situazione. In sostanza, un errore analitico che apre la strada ad un disastro politico, disegnando (nella migliore delle ipotesi) un tragitto meramente resistenziale, con l'obiettivo massimo di costruirsi una nicchia identitaria quanto incapace di entrare nelle contraddizioni del blocco sociale e dello schieramento avversario.

Sulla collocazione rispetto al Pd Cremaschi è chiaro: indipendenza ed alternatività. E ci mancherebbe altro! Il problema è che questa collocazione, che certo rappresenta un passo avanti rispetto al ventennale disastro chiamato Prc, non è affatto sufficiente per tratteggiare un'adeguata fisionomia politica.

La questione dell’euro e della sovranità

E qui infatti nascono i problemi più seri. Sto parlando soprattutto delle questioni dell'Europa, dell'euro, della sovranità. Cremaschi dice di voler rompere l'Unione Europea, affermando - vivaddio! - «Quest’Europa è come quella di Metternich del 1848, non è riformabile. I sovrani assoluti debbono essere spodestati, altrimenti non riesci a fare niente». Perfetto, verrebbe da dire. Peccato che i passaggi successivi della sua relazione vadano in tutt'altra direzione. Alla chiarezza delle enunciazioni di cui sopra fa infatti seguito il confusionarismo tipico di una parte dei suoi compagni di strada.

Ma sentiamo cosa afferma testualmente Cremaschi:

«Poi c’è una discussione fra di noi: la sovranità europea, la sovranità nazionale, io ho l’impressione che non sia la nostra discussione. Mi riferisco ai compagni di Mpl, che non aderiscono al nostro progetto perché non siamo chiari su euro e sovranità nazionale. Io penso che non possiamo dire “torniamo alla lira”, perché non è una battaglia di sinistra. Magari ci si torna, ma non possiamo ragionare su questo.
Dobbiamo ricordare, lo ripeto sempre, che l’unica volta che l’Italia decise in qualche modo di tornare alla lira riconquistando l’autonomia monetaria (era il 1992 quando l’Italia uscì dallo Sme), in cambio noi dovemmo dare l’abolizione della scala mobile, del contratto nazionale, il taglio delle pensioni, la privatizzazione delle banche, la tassa straordinaria. Ve la ricordate la Manovra del governo Amato del 31 luglio del 1992?»
Questa ricostruzione dei fatti è falsa e inaccettabile! 
Cremaschi tenta di far credere che l'eliminazione della contingenza, l’attacco al contratto nazionale e il taglio delle pensioni, vennero adottati come conseguenza della svalutazione della lira. Il taglio della scala mobile avvenne con l’accordo del luglio 1992, mentre la lira venne svalutata solo a settembre. La verità dunque è che i sacrifici per i lavoratori - incluso l’attacco ai contratti (accordo del luglio 1993) e quello alle pensioni culminato con la legge Dini del 1995 - scattarono in virtù dell’applicazione del Trattato di Maastricht (firmato non a caso poco prima dell’abolizione della scala mobile, il 7 febbraio 1992). Si trattò dunque di un insieme di misure finalizzate alla nascita della moneta unica. Ed il fatto che si glissi proprio su questo è perciò assai significativo.

La rivendicazione della riconquista della sovranità nazionale viene brutalmente respinta perché ... “non è di sinistra”. Una prova lampante di quello che chiamiamo “identitarismo”. Anzi, se posso permettermi, identitarismo trascendentale. Qui non c’è l’analisi concreta della situazione concreta, bensì una vera e propria metafisica degli obbiettivi: al di sopra della realtà e dei suoi mutamenti, ci sarebbero quelli “puri” di sinistra. Un astrattismo disarmante quanto semplicistico. Come se fosse la prima volta che contraddizioni secondarie diventano primarie (o viceversa), e che obbiettivi prima esclusi dall’agenda possono entrarvi in forza del mutato contesto storico e sociale. 


Per dirla tutta: non si vuole prendere atto che dentro l’Unione eurista ad egemonia tedesca l’Italia è diventata una specie di semi-colonia, una provincia a sovranità limitata, un protettorato governato da proconsoli. Non si vuole capire che una sinistra rinascerà in questo paese solo se impugnerà, prima che sia troppo tardi, la battaglia sovranista, che è una battaglia per sua stessa natura anti-oligarchica e democratica. Non ci si vuole rendere conto che a forza di essere abbarbicati a vecchi postulati identitari pseudo-internazionalisti (di passata: per alcuni sinistrati la questione della "sovranità nazionale" rimane un tabù, mentre non lo era l'andare in parlamento a far da sgabello a Prodi) si spiana la strada a quelle forze reazionarie che declineranno il sovranismo in funzione antiproletaria. E allora saranno dolori.

Ma citare il caso del 1992 è inaccettabile anche sul piano politico, oltre che su quello della ricostruzione storica. Anzitutto perché Cremaschi sa benissimo che chi come noi ritiene necessaria l'uscita dall'euro, affianca a questo obiettivo una serie di misure strutturali (nazionalizzazione del sistema bancario, ristrutturazione del debito pubblico, reintroduzione della contingenza su salari e pensioni, eccetera). In secondo luogo perché non fu a causa della svalutazione della lira che perdemmo la battaglia degli Accordi antipopolari del luglio 1992, quanto per la complicità dei sindacati confederali e del grosso della sinistra, che li sostennero proprio in virtù dell’adesione a Maastricht e in nome dell’euro.

E’ disarmante, poi, che Cremaschi non tenti per niente di tenere ROSS@ in sintonia con l’evoluzione della sinistra radicale europea. Dalla Grecia al Portogallo, dalla Germania alla Spagna (vedi il manifesto anti-euro della sinistra spagnola) la maggioranza delle sinitre radicali è oramai per uscire dall’euro e riconquistare la sovranità monetaria. Per non parlare delle sinistre antagoniste dei paesi dell’Unione che non hanno l’euro e che non si sognano nemmeno lontanamante di adottarlo.


Impossibile infine non segnalare la contraddittorietà del discorso di Cremaschi: da un lato egli dice che "l'euro rappresenta un'operazione reazionaria ai danni delle classi popolari", dall'altro se ne esce con la formuletta secondo cui: "noi non siamo per l'unità nazionale per l'euro, ma neppure per l'unità nazionale per la lira".


Ora, a parte il fatto che non sappiamo chi abbia proposto “l'unità nazionale per la lira”, che significa questo ponziopilatismo di fronte ad una questione di cui tutti discutono, con pezzi della sinistra europea che, iniziano a posizionarsi per l'uscita dalla moneta unica? Insomma, Cremaschi non può spingersi neppure laddove è già arrivato perfino Lafontaine?


E l’antimperialismo?


Un atteggiamento simile a quello sull'euro lo troviamo più in generale sulle questioni internazionali. Anche in questo caso le contraddizioni interne ai promotori avranno certo pesato. Ma dove può andare un soggetto politico anticapitalista senza una chiara posizione sull'imperialismo e sulla legittimità delle resistenze antimperialiste? Eppure è proprio questo che si va profilando.


Cremaschi, bontà sua, concede che "esiste un campo imperialista", ma nega che esista un "campo antimperialista". Qui emerge tra le righe la consunta narrazione pacifista e nuovamente identitaria per cui le resistenze legittime sarebbero solo quelle... "di sinistra", narrazione che cela a malapena il suo marchio islamofobo.
Bologna 11/5/13: l'assemblea fondativa di ROSS@


La conseguenza, non da poco almeno per le sue componenti dichiaratamente antimperialiste, è che il soggetto politico in gestazione non è in grado di esprimere una sua posizione sulla politica internazionale. Del resto l'acronimo Ross@ già lo lasciava intendere. Esso sta infatti per Resistenza, Opposizione, Socialismo, Solidarietà, mentre all'assemblea di Bologna (11 maggio) ci venne spiegato che la A (ora più volentieri trasformata in @) poteva essere interpretata come Anticapitalismo, Antimilitarismo, Antipatriarcato, eccetera, ma non in Antimperialismo. Un particolare che rivela molte cose.

Ultimo, ma certo non per importanza, a tutto ciò fa da cornice, come abbiamo già detto, una prospettiva meramente resistenziale. Dove la resistenza non è concepita come base per un progetto che guarda alla sollevazione, ma come habitat e forma mentis di una sinistra ormai incapace anche solo di pensare alla discesa in campo di ampi settori popolari.

Cosa potrà venir fuori da una simile impostazione? Certo, se eravamo pessimisti prima, figuriamoci ora dopo la riunione del 15 giugno. Una riunione che ha confermato i timori più seri, quelli sui quali avremmo voluto essere smentiti. La sensazione è che alla fine o il progetto non decollerà per niente (e le difficoltà nel convocare le assemblee regionali questo fanno pensare), o al massimo porterà ad una sorta di "piccola Rifondazione", certo indipendente dal Pd ma con le stesse palle al piede, culturali prima ancora che politiche.

martedì 25 giugno 2013

FINALMENTE ALL'ATTACCO! Il discorso di Carlo Sibilia (M5S) in Parlamento

Oggi 25 giugno, il Presidente del Consiglio Enrico Letta era in Parlamento, con un discorso patetico, ha spiegato ai deputati cosa il suo governicchio andrà ad elemosinare all'imminente vertice europeo. Per il Movimento 5 Stelle è intervenuto Carlo Sibilia (nella foto). Un intervento potente, d'attacco, lucido, emozionante. Egli ha dato voce agli sfruttati e a tutto il popolo oppresso dall'eurodittatura, facendo onore a milioni di italiani che, stufi di subire, hanno votato M5S. Noi tra questi. Non ci siamo sbagliati.



USCIRE DALL'EURO: BRANCACCIO RISPONDE AI "GRILLINI" di Paola Alagia*

25 giugno. C'è un sito, Economia a 5 stelle, che per quanto non ufficialmente, divulga le idee di M5S per uscire dalla crisi economica. C'è un fatto nuovo. Un report di 71 pagine che farà scalpore: si propone senza ambagi di uscire dall'eurozona. Ci sono anche altri spunti importanti, tra cui una critica alle tesi della MMT e anche critiche alla proposta di reddito di cittadinanza. E' stato chiesto ad Emiliano Brancaccio (nella foto) cosa ne pensi.

«Dietro la proposta di un referendum sull’euro lanciata da Beppe Grillo, c’è di più. 
Analisi, discussioni e pareri, tutti confluiti in un report di 71 pagine dal titolo “Documento di supporto per il laboratorio di economia del Movimento 5 stelle”. Segno di quanto nell’entourage grillino il tema della crisi e soprattutto di un’eventuale exit strategy per superare l’euro sia centrale. 
Lettera43.it è in possesso del vademecum pentastellato, frutto dell’attività del sito Economia cinque stelle che coinvolge numerosi attivisti e alcuni parlamentari del movimento. In tutto sono cinque gli scenari tratteggiati in questo «manifesto-riferimento», che presto deve essere oggetto di riflessione tra deputati e senatori del M5s.

PRO E CONTRO L’USCITA DALL’EURO


Si parte con «cosa succede se il nostro Paese rimane nell’euro così com’è», quindi si scandagliano le modalità in cui «il governo italiano potrebbe chiedere di riformare i trattati europei in materia economica» e «quali sono le condizioni, i vantaggi e gli svantaggi dell’introduzione di una moneta per i Paesi dell’Unione europea più forti e di una per quelli più in difficoltà». Dopo l’analisi su «cosa accadrebbe nel caso di immissione in corso di una seconda valuta in Italia», però, si fa strada, quasi ad excludendum, l’ultimo scenario, «pro e contro dell’uscita del nostro Paese dall’euro», con l’assunto che «il recesso dall’Eurozona appare come la scelta ottimale», che sembra riassumere meglio l’orientamento prevalente nel gruppo di lavoro.

NO ALLA MONETA A DUE VELOCITÀ


La linea della via d’uscita, insomma, è caldeggiata, seppure in maniera diversa, da economisti non organici al movimento come Alberto Bagnai ed Emiliano Brancaccio che, non a caso, sono citati nello studio. Non i soli esperti di economia, tra l’altro, che fanno capolino nel documento. C’è spazio per il pensiero di Gustavo Rinaldi, Giuseppe Pennisi e Luca Fantacci. Oltre che di Loretta Napoleoni. Sebbene la tesi dell’euro a due velocità dell’economista vicina al M5s, nella bozza, venga derubricata a «un’ipotesi priva di senso macroeconomico».

L’ECONOMISTA BRANCACCIO ALL’OSCURO DEL DOCUMENTO 


Brancaccio, raggiunto da Lettera43.it, si sofferma su alcuni punti chiave enunciati nel lavoro, del quale era del tutto all’oscuro: 

«In passato sono stato contattato da alcuni attivisti e gestori del sito Economia cinque stelle, così come da esponenti di altre realtà politiche», premette l’economista napoletano che insegna all’Università del Sannio, «ma di questo studio in particolare non sapevo nulla. Non sono mai stato coinvolto nella redazione del testo né finora l’ho mai letto». Certo, vedere il suo nome al fianco di quello di Bagnai lo lascia abbastanza perplesso: «Non conosco le ultime evoluzioni del pensiero del collega, ma accostarci significa mettere insieme tesi un po’ diverse sull’uscita dall’euro». «A mio avviso», sottolinea Brancaccio, «un’exit strategy dall’euro dovrebbe prevedere meccanismi che salvaguardino i salari, impediscano ulteriori sperequazioni dei redditi e contrastino qualsiasi rischio di svendita a buon mercato dei capitali nazionali. Su questi punti decisivi alcuni colleghi favorevoli all’uscita dall’euro mi sono sembrati fino a oggi un po’ distratti».

È A RISCHIO L’EUROZONA


Al di là di questo, comunque, l’economista campano apprezza l’impegno dei pentastellati
«La probabilità di una deflagrazione della zona euro resta alta: potrebbe sopraggiungere per ragioni oggettive, indipendentemente dai nostri auspici pro o contro la moneta unica. Ecco perché è necessario cominciare in ogni caso ad affrontare la questione». Proprio per tale ragione Brancaccio critica la sinistra, che «sul tema continua a sonnecchiare, mentre a destra sembrano già preparati a sfruttare l’opportunità».

BANCONOTE A BORSE CHIUSE


Nel merito delle proposte sviscerate, tuttavia, non mancano i dubbi dell’esperto. A cominciare dall’idea del Laboratorio del M5s di «stampare le banconote prima dell’annuncio di uscita» e quindi di comunicare l’abbandono dell’euro «di venerdì sera, o comunque a mercati e banche chiusi, impedendo di ritirare dagli sportelli bancomat fino al giorno di riapertura dei mercati, purché si abbiano già pronte le nuove banconote da far circolare; in caso contrario occorrerebbe limitare i prelievi». 
 «Mi pare illusorio credere che dare la notizia di venerdì sera sia una soluzione risolutiva», sottolinea Brancaccio, «come se un evento del genere possa rimanere nel chiuso di una stanza, senza creare aspettative da parte degli investitori». Secondo il professore, insomma, «sperare nell’effetto sorpresa non risolve il problema. La fase di transizione da un regime di cambi fissi è delicata e complessa, ma non mancano i meccanismi per poterla gestire in modo razionale, a cominciare dall’introduzione di controlli sui movimenti di capitali».

PERICOLO DELLO SHOPPING ESTERO


Tra le modalità di uscita dalla moneta unica, il gruppo di attivisti del M5s ha avanzato anche la proposta di «deprezzamento del cambio reale italiano». Ecco perché sul fronte della domanda estera «occorre ridurre l’import ed aumentare l’export: per far ciò noi dobbiamo deprezzare il cambio reale». A questo riguardo l’esperto concorda che il vero problema italiano siano i conti esteri e non tanto quelli pubblici, «ma la svalutazione del cambio», ha messo in guardia, «oltre a essere un’opzione per recuperare competitività, aumentare l’export e ridurre l’import, serba dei rischi da non sottovalutare». Quali sarebbero gli effetti collaterali? «Per esempio, il pericolo che si crei una situazione favorevole ai soggetti esteri che vogliono fare shopping a buon mercato dei nostri capitali nazionali è dietro l’angolo. Occorre adottare contromisure».

CONTRO IL REDDITO DI CITTADINANZA


Il gruppo di studio pentastellato non è poi tentato da soluzioni quali il doppio regime di cambio e la moneta complementare, definiti «palliativi temporanei» nel vademecum economico. Salta anche all’occhio, tra le ipotesi stroncate nel quarto scenario, quella delle «distribuzioni monetarie su base pro capite». Gli attivisti, infatti, bocciando la linea degli economisti Warren Mosler e Marshall Auerback, si dicono contrari pure a proposte quali il reddito di cittadinanza tanto caro a Grillo: «Non si rende un buon servigio né ai disoccupati né alla società mantenendoli in una condizione di estraneità al mondo del lavoro e di effettiva subalternità rispetto a chi ha un impiego». Un aspetto degno di nota, secondo Brancaccio: «È interessante che degli attivisti individuino dei limiti in una proposta che ha carattere di mero sussidio. Abbiamo bisogno di un piano di politica economica che punti direttamente a creare occupazione e sviluppo».

LA RISTRUTTURAZIONE DEL DEBITO


Una contraddizione, questa sì più grande, riguarda casomai l’ultimo post del comico ligure sulla ristrutturazione del debito pubblico che fa dire a Brancaccio: «Dentro il M5s dovrebbero decidersi: la ristrutturazione del debito è logicamente alternativa all’uscita dall’euro di cui si parla nello studio. Delle due l’una». Tertium non datur».

24 giugno 2013

* Fonte: Lettera43

lunedì 24 giugno 2013

EURO: COMPAGNI FACCIAMO AUTOCRITICA di Andrea Ricci

24 giugno. Andrea Ricci (nella foto) è un economista, docente all'università di Urbino. E' stato responsabile economia del Prc, parlamentare e coautore del programma dello stesso partito per le elezioni europee del 2004, un programma in cui si chiedeva "più integrazione europea". In questo intervento, il cui titolo originario è «Il nodo dell'euro non può più essere eluso», Andrea, dimostrando un'onestà intellettuale sempre più rara afferma:  
«La vecchia, consolidata posizione, un tempo espressa nello slogan “Si all’euro, No a Maastricht”, che anch’io personalmente, come responsabile economico nazionale di Rifondazione Comunista per tanti anni ho contribuito a diffondere e ad articolare, non risulta più comprensibile, appare essa sì una scorciatoia velleitaria per sfuggire ai problemi e alle responsabilità reali e concrete».  
Quanto tempo dovrà ancora passare affinché a sinistra si seguano le sue orme?

«L’idea di dotare 17 paesi di una moneta unica in presenza di enormi divergenze nella struttura delle loro economie reali, senza contemplare meccanismi automatici di integrazione e redistribuzione fiscale, come avviene per qualunque altra moneta, è risultata folle.

Nell’ultimo semestre i mercati finanziari europei hanno vissuto una situazione di tranquilla bonaccia. Gli spreads tra i titoli di Stato dei PIIGS e quelli della Germania, pur se storicamente elevati, si sono assestati su valori ben inferiori a quelli registrati nel biennio 2011-12. Per l’Italia il differenziale tra BTP e Bund decennali ha oscillato intorno a quota 270, circa la metà del livello toccato nei momenti più acuti della crisi. Gli indici azionari sono ovunque aumentati nel continente, con la Borsa italiana in testa al gruppo, avendo incrementato la propria capitalizzazione di oltre il 30% nel corso dell’ultimo anno. Di fronte a queste rassicuranti notizie si è via via smorzato nei media l’allarme per un imminente crollo dell’euro. Rimane alta la preoccupazione per il debito pubblico, ma come dato strutturale di lungo periodo, destinato comunque a condizionare le politiche economiche dei prossimi anni.

Stridente è la contraddizione con l’andamento dell’economia reale, che invece ha visto peggiorare tutti gli indicatori, primi fra tutti quelli relativi al tasso di disoccupazione e al tasso di crescita della produzione. In Italia gli ultimi dati sul calo delle esportazioni, dopo mesi d’incremento della domanda estera che aveva generato incauti ottimismi, appaiono particolarmente preoccupanti. Segnali drammatici di una precipitazione della crisi sociale si colgono quotidianamente nelle notizie di cronaca. In tale situazione, non solo attenti osservatori, ma ormai anche autorevoli responsabili delle politiche economiche europee, come ad esempio il ministro dell’Economia italiano ed ex direttore generale della Banca d’Italia, Saccomanni, hanno parlato esplicitamente negli ultimi giorni del rischio di una nuova bolla finanziaria. In questo scenario, pensare che la questione del crollo dell’euro sia ormai alle nostre spalle è quantomeno imprudente e questa convinzione deriva da un’errata comprensione delle cause strutturali che stanno dietro alla crisi monetaria europea.

La divaricazione tra gli andamenti finanziari e gli andamenti reali dell’economia europea (e italiana in particolare) sono il frutto delle politiche monetarie fortemente espansive condotte, attraverso strumenti non convenzionali, dalle principali banche centrali. BCE, Fed, Bank of Japan e Bank of England hanno inondato nell’ultimo anno i mercati finanziari con un’enorme massa di liquidità, che in assenza di prospettive di profitto nel settore industriale, si è riversata nell’acquisto da parte degli operatori bancari e istituzionali di titoli obbligazionari e azionari. Di nuovo, e in forma ancor più gigantesca rispetto alle politiche monetarie accomodanti dell’era Greenspan, è con la costruzione di una piramide di debiti che si stanno sostenendo i mercati finanziari e le grandi banche globali.

Questa enorme massa liquida fluttuante può in qualsiasi momento prendere direzioni opposte a quelle finora intraprese e scatenare di nuovo, e con una violenza ancor più devastante, un attacco speculativo contro l’euro. Le probabilità che ciò accada, in assenza di cambiamenti strutturali nella politica economica europea, non sono trascurabili, perché ne esistono le condizioni oggettive. Quando ciò accadrà dipende invece dalle decisioni soggettive di un numero ristretto di operatori finanziari globali. Certamente, l’approssimarsi delle elezioni tedesche, previste per il prossimo 22 settembre, rappresenta un momento particolarmente critico perché può essere forte il desiderio di condizionarne i risultati attraverso manovre finanziarie, in un senso o nell’altro a seconda delle rispettive convenienze strategiche dei capitali finanziari in concorrenza.

Un eventuale nuovo attacco speculativo contro l’euro sarebbe stavolta ben più difficile da respingere perché la BCE ha già utilizzato gran parte del proprio arsenale a disposizione. Soltanto una radicale modifica dei compiti istituzionali della BCE che, in completa rottura con il suo atto costitutivo e la sua storia, consentisse il finanziamento monetario diretto dei deficit e dei debiti pubblici dei Paesi membri potrebbe forse essere efficace, se accompagnato da concrete e immediate misure d’integrazione fiscale europea. Questo passaggio tuttavia potrebbe essere compiuto soltanto in seguito ad un accordo politico dei Governi e dei Parlamenti europei di ridisegno complessivo dell’architettura istituzionale e dei compiti dell’Unione Monetaria Europea nel senso della costituzione di uno Stato federale. Una tale prospettiva appare però assolutamente irrealistica, dato il prevalere e addirittura l’approfondirsi degli egoismi nazionali non solo nelle classi dirigenti ma nei popoli europei.

Le cause profonde della crisi dell’euro sono insite nella sua stessa costruzione iniziale. L’idea di dotare 11 Paesi, poi divenuti addirittura 17, di una moneta unica in presenza di enormi divergenze nella struttura delle loro economie reali, senza contemplare meccanismi automatici di integrazione e redistribuzione fiscale, come avviene per qualunque altra moneta, è risultata folle. D’altra parte non era questo il progetto iniziale dichiarato per una parte delle classi dirigenti europee, come quella italiana. L’euro doveva rappresentare soltanto il primo passo verso gli Stati Uniti d’Europa. L’oltranzismo europeista, illusorio e velleitario, è stato la principale fonte di legittimazione delle corrotte e decadenti classi dirigenti italiane nella ricerca di un consenso politico e sociale dopo il crollo della Prima Repubblica e la fine della divisione del mondo in blocchi. Infatti, accanto a corposi interessi materiali di una parte della borghesia italiana, la retorica dell’euro ha funto da collante politico-culturale per tenere insieme un Paese sempre più alla deriva, in preda alla frammentazione territoriale, sociale e politica e alla devastazione culturale e morale delle sue classi dirigenti.

I passi successivi alla nascita dell’euro non si sono però realizzati perché è apparso evidente che la Germania, e il blocco di stati satelliti che ruotano intorno ad essa, non perseguivano lo stesso obiettivo. Con l’euro la Germania ha ottenuto due risultati storici: il via libera politico e diplomatico alla propria unificazione e l’eliminazione di due strumenti fondamentali, tra loro interconnessi, di politica economica per i Paesi mediterranei (Italia e Francia in particolare), come la politica monetaria e la manovra sul tasso di cambio. Nelle discussioni intorno all’euro, capita spesso di assistere al levarsi di alti strali da parte dei coriacei difensori della moneta unica contro lo spettro della svalutazione, ricorrente negli ultimi venti anni di vita della lira. Si dimentica però che il tasso di cambio non è altro che un prezzo, più o meno amministrato dalle autorità di politica economica, pienamente rispondente al normale funzionamento di un’economia di mercato. Le sue fluttuazioni, spontanee o prodotte, servono per riallineare andamenti divergenti di fondamentali variabili economiche tra diversi Paesi. La fissazione irrevocabile di un tasso di cambio richiede necessariamente meccanismi alternativi che svolgano la stessa funzione. L’alternativa liberista al tasso di cambio, utopica e mai realmente esistita in nessuna epoca e in nessun posto, è la completa e istantanea flessibilità dei prezzi di tutti i beni e servizi, a cominciare dai salari. L’altra alternativa è quella seguita da tutte le monete esistenti ed esistite in passato, cioè la piena integrazione fiscale all’interno di uno Stato unitario, in cui operano meccanismi di redistribuzione sociale e territoriale delle risorse.

Con l’euro si è scelta, contro ogni logica, una “terza via”, quella di “una moneta senza Stato”. Ciò che ne è risultato è stato l’affermarsi dell’egemonia politica ed economica dello Stato più forte, la Germania, sul resto d’Europa spazzando via in un colpo solo e senza spargimenti di sangue, il precario equilibrio che dalla pace di Westfalia (1648) in poi aveva costituito il sacro principio delle diplomazie europee. Dapprima esercitata in forme morbide, con lo scoppio della crisi finanziaria l’egemonia tedesca è andata assumendo forme sempre più brutali, sino a sfociare in manifestazioni esplicite di neocolonialismo come nel caso greco, non dissimili da quelle esercitate dall’imperialismo USA nei Paesi dell’America Latina.

Di fronte a questa situazione, sempre più instabile, il problema dell’euro non può più essere eluso da parte delle forze della sinistra europea e italiana. Da questo punto di vista, non appare di buon auspicio la sconfitta all’interno della Linke tedesca di Oskar Lafontaine, che recentemente aveva sostenuto il superamento dell’euro e la necessità di un nuovo sistema monetario europeo. Non è più adeguato all’evolversi della situazione reale affermare la necessità di una svolta nelle politiche europee, abbandonando la logica dell’austerità e del rigore finanziario e le sovrastrutture istituzionali che all’interno dell’Unione Europea la sorreggono, senza affrontare la questione euro. Questa della svolta di politica economica è stata una partita aperta fino allo scoppio della crisi finanziaria globale del 2008. La partita si è chiusa con una sconfitta, perché le forze della sinistra europea, nelle diverse collocazioni di volta in volta assunte, non sono riuscite ad imporre l’abbandono delle politiche neoliberiste in Europa né ad impedirne il rincrudimento. Oggi il paradosso di questa posizione è che essa può realizzarsi soltanto se prima salta l’euro, perché l’euro reale, non quello immaginato, è un impedimento strutturale per politiche economiche alternative. Di ciò, sia pure in forma rozza, sta crescendo una consapevolezza di massa in Grecia, come in Italia e in tutti i Paesi più duramente colpiti dalla crisi. La vecchia, consolidata posizione, un tempo espressa nello slogan “Si all’euro, No a Maastricht”, che anch’io personalmente, come responsabile economico nazionale di Rifondazione Comunista per tanti anni ho contribuito a diffondere e ad articolare, non risulta più comprensibile, appare essa sì una scorciatoia velleitaria per sfuggire ai problemi e alle responsabilità reali e concrete. Per usare categorie gramsciane, quella linea era adatta a una fase di “guerra di posizione” e non ad una fase di “guerra di movimento”, come quella in cui la crisi sistemica del capitalismo ci ha condotti.

Una valuta non è mai semplicemente uno strumento neutro che può essere indifferentemente utilizzato per servire da sfondo a diversi modelli sociali. Nel sistema capitalistico la moneta è la sintesi finale, la più astratta e quindi la più complessa, di un ordine sociale storicamente determinato, frutto di sedimentazioni successive che costituiscono la concreta configurazione di classe realmente esistente. È ovvio che il crollo dell’euro (perché questo avverrebbe se un Paese delle dimensioni dell’Italia decidesse di uscirne) non equivale alla “vittoria finale”, né essa produrrà sicuramente immediati effetti positivi per le classi popolari. È ovvio che molto dipenderà da come avverrà e da quali saranno le forze trainanti di questo processo. Ciò che è certo è che la fine dell’euro ridislocherebbe le forze su scala europea e mondiale e aprirebbe nuovi scenari in cui svolgere il conflitto politico e sociale, che oggi in Europa appare chiuso a ogni ipotesi progressiva.

Il crollo dell’euro è oggi nell’ordine delle cose possibili, perché ne sono date le condizioni oggettive. La sinistra europea, e paradossalmente la sua componente oggi più disastrata, quella italiana, si trova di fronte ad un passaggio strategico cruciale. Essa, indipendentemente dalle sue volontà, deve decidere come collocarsi in questo scenario potenziale se vuole continuare ad esistere come forza attiva e non solo come scoria di un passato glorioso. Il nodo dell’euro è posto dalla storia, non dalle nostre elucubrazioni. Non rimane più molto tempo per scioglierlo».

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