giovedì 31 dicembre 2009

ULTIM'ORA: LA POLIZIA EGIZIANA ATTACCA GAZA FREEDOM MARCH

[ 31 dicembre 2009 ]

Il Cairo: Ci sono diversi feriti, tra cui alcuni italiani


Avvocato Vainer Burani (Giuristi democratici - Reggio Emilia):

"Dal punto di vista giuridico, siamo di fronte a un assurdo: il governo egiziano impedisce a 1500 attivisti di lasciare l'Egitto, non di entrarvi (come potrebbe essere suo diritto). A rigor di logica, dovrebbe essere il legittimo governo di Gaza a non autorizzare l'ingresso nella Striscia, non l'Egitto. Questo sta infatti compiendo un'illegalità, una violazione di un diritto. E' un paradosso del diritto internazionale. Come si potrebbe affrontare il problema? Rivolgendosi, come stanno facendo gli attivisti, alle proprie ambasciate al Cairo, per chiedere loro di essere protetti e 'accompagnati' a Gaza. E' un loro diritto. Inoltre, si potrebbe fare causa al governo egiziano, in quanto viola i diritti dei cittadini stranieri di uscire dall'Egitto, tenendoli sequestrati. Tuttavia, ancora una volta constatiamo che il diritto internazionale è sostanzialmente inesistente. E' il diritto dei più forti: gli Usa e Israele".

Nel pomeriggio a Roma il Forum Palestina e altre organizzazioni hanno convocato dalle 16 alle 18 una manifestazione di protesta davanti all'ambasciata egiziana, altre manifestazioni sono previste a Londra e Parigi. Alcune centinaia di arabi e di pacifisti israeliani si sono raduntati al valico di confine con la striscia di Gaza a Erez.

leggi gli ultimi aggiornamenti

mercoledì 30 dicembre 2009

Ultim'ora

[ 30 dicembre 2009 ]

GAZA: FREEDOM MARCH. MUBARAK BLOCCA IL CONVOGLIO

Il Cairo. Un gruppo di attivisti internazionali, membri del Convoglio del Gaza Freedom March ha protestato oggi davanti a una sede dell'Onu al Cairo, dopo che il governo egiziano ha negato loro l'autorizzazione per entrare nella Striscia di Gaza assediata. I dimostranti sono ormai diverse centinaia, e sono circondati e assediati dalla polizia.
Un membro della delegazione, un'ebrea sopravvissuta all'olocausto, Hedy Epstien, di 85 anni, ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro la posizione assunta dal governo egiziano. Il Convoglio del Gaza Freedom March è composto da circa 1.400 volontari provenienti da 42 Paesi e diretti nella Striscia di Gaza attraverso il valico di Rafah. I negoziati tra la delegazione e il governo del Cairo sono ancora in corso.

La rivoluzione? Necessaria ma impossibile

[ 30 dicembre 2009 ]

Riflessioni sul marxismo

di Mario Tronti

Socialismo reale.

Il socialismo reale aveva un destino segnato di sconfitta nel momento in cui quell’esperimento non si è ripetuto in Occidente. Adesso possiamo verificare che non era possibile quel socialismo in un paese solo, e soprattutto in quel paese. Prima ancora del crollo del socialismo reale la sconfitta vera è quella della rivoluzione in occidente. E’ qui che Marx ha subito la vera sconfitta.

Conoscenza del capitale/Conoscenza della classe operaia.

Credo che la conoscenza scientifica della classe operaia è stata inferiore alla conoscenza scientifica del capitale. E questo già nell’opera di Marx. Marx ha conosciuto di più e meglio la struttura del capitale, la sua opera fondamentale è su questo argomento, mentre non ha approfondito la conoscenza della forza lavoro. L’ha approfondita in quanto parte del capitale, come capitale variabile, lavoro vivo e così via. Ma non l’ha approfondita nel senso della sua possibile autonomia. Un’autonomia da intendere in senso forte: prima ancora che sindacale e politica, è antropologica. Marx non ha dato un antropologia operaia come invece hanno fatto le grandi dottrine borghesi che contavano su un’antropologia borghese formulata dagli economisti classici a partire da Adam Smith. Nel Novecento non c’è stato alcun approfondimento su questo problema. L’“uomo nuovo” che si voleva costruire nel socialismo non era credibile perché non veniva da una precedente analisi scientifica della figura operaia. Tanto è vero che il lavoro è stato equivocato all’interno di una mitologia positiva. Purtroppo non è stata elaborata una mitologia negativa del lavoro.
Quando siamo andati a vedere l’operaio in carne ed ossa nelle grandi concentrazioni operaie questo era evidentissimo. L’operaio non amava il suo lavoro, semmai lo odiava. Quest’odio poteva essere la carta vincente della forma organizzata della classe. Il movimento operaio non ha capito bene il suo punto di riferimento: l’operaio delle industrie. Man mano che si passava dall’operaio professionale all’operaio massa, aumentava l’alienazione del lavoro e il suo carattere automatico, il carattere di appendice dell’operaio rispetto alla macchina, ma aumentava anche la sua lotta contro il capitale e nello stesso tempo la lotta contro il proprio lavoro dentro il capitale. Questa incomprensione prosegue anche oggi in cui la figura operaia sparisce di fronte al processo automatizzato della produzione capitalistica.
La figura operaia non ha avuto dietro di sé questa genesi, è un prodotto che nasce nella rivoluzione industriale. Nasce alla fine del Settecento. A un certo punto si è trovata a gestire una forma sociale come il socialismo reale che tutto sommato, tra tanti limiti e difetti e crimini, dava la possibilità ad un lavoratore o a un contadino di arrivare a dirigere un complesso industriale, una struttura di partito o anche lo Stato. Se si va vedere le biografie dei dirigenti bolscevichi che guidano la fase della costruzione del socialismo, in grandissima parte hanno un’origine proletaria. Però non era sufficiente perché queste figure non portavano dietro di sé l’accumulo di sapere, scienza, tecnica, cultura e arte. Non a caso si è dovuto fare ricorso, nei casi migliori, al sapere delle altre classi sociali che venivano incluse nei livelli di gestione della società e del potere con tutte le contraddizioni che questo comportava, al punto da risultare impropria alla costruzione e alla gestione del socialismo. La rottura che c’è stata nella gestione del socialismo tra il potere e il sapere è stata drammatica.

Classe operaia oggi.

In Cina, in India o in Corea, dal punto di vista quantitativo non si può dire che esista un declino operaio, ma secondo me questo non basta. Nel senso che la crescita della classe operaia non si può misurare quantitativamente. Non basta la concentrazione operaia in alcuni luoghi per farne un elemento soggettivo di antagonismo. Ci vuole qualcos’altro. Per me la nozione di classe è una nozione che diventa un fatto politico quando si passa ad un livello di coscienza di classe e poi quando questa coscienza si esprime in forma organizzata. Se non esistono questi passaggi la quantità delle figure operaie non fa il salto verso la qualità. La mia impressione è che anche in queste condizioni manca questo passaggio. In Occidente il passaggio dalla centralità alla marginalità operaia è evidente anche dal punto di vista empirico. In Oriente questo elemento quantitativo, almeno ad oggi, non mostra di passare alla qualità. Ma queste più che certezze, sono dubbi.

Marx non poteva essere un pensatore riformista.

Marx non poteva esistere senza il proletariato, non ci sarebbe stato il suo pensiero senza questo punto di vista, questo per dire che Marx, ad esempio, è il portatore di un grande progetto. Ecco perché non può essere un pensatore riformista. Si può non essere marxisti ed essere riformisti., nel novecento abbiamo avuto degli esempi straordinari di riformismo: Keynes, chi più di lui, e non era certo marxista. Poi c’è Roosevelt. Hanno riformato il capitalismo nella teoria e nella pratica. Ma riformisti sono stati anche quelli che hanno rovesciato la prospettiva keynesiano: i neoliberisti hanno rifondato il capitalismo in maniera altrettanto forte nell’era thatcheriana. Mentre essere marxisti, significa essere rivoluzionari. L’istanza di Marx, per quanto se ne voglia dire, non è un miglioramento delle attuali condizioni, ma un loro rovesciamento. E quindi se il riformismo è la piccola storia, la rivoluzione è la grande storia del Novecento.

La rivoluzione oggi: necessaria ma impossibile

l’attualità di Marx è nell’attualità della rivoluzione che si declina in un modo molto complesso, perché io credo che oggi ci sia una necessità della rivoluzione e nello stesso tempo c’è un’impossibilità della rivoluzione. La rivoluzione è necessaria e non è possibile. questo è il tragico del nostro tempo che bisogna assumere in proprio e convivere con questa contraddizione tra necessità e possibilità.
Il futuro sarà determinato dallo sviluppo del capitalismo mondiale.
La storia dello scontro tra potenze politiche, storiche sta ritornando. Più che nell’aggressione dell’occidente da parte di potenze estranee come quelle che vengono evocate nello scontro di civiltà, che è una cosa da non sottovalutare, nell’occidente, che per me è più grande dei suoi ipotetici confini “culturali, e corrisponde al mondo capitalistico, stanno entrando dimensioni enormi che fino a ieri erano fuori, il mondo cosiddetto sottosviluppato. La pratica futura sarà determinata da questo sviluppo capitalistico mondiale. Non possiamo sapere cosa accadrà quando si muoveranno queste realtà. Oggi ritorna il conflitto tra potenze come accadeva un tempo in Europa: la Francia contro la Spagna, l’Impero tedesco contro l’Inghilterra. Il conflitto tra le potenze ritornerà presto a livello mondo. E anche la pratica della lotta di classe sarà determinata da questi sommovimenti.
[A cura di E.A.]

Da http://www.centroriformastato.it/

martedì 29 dicembre 2009

Associazione Rivoluzione Democratica

[ 29 dicembre 2009 ]

CHI SIAMO

In occasione delle elezioni politiche della primavera del 2008 circa trecento tra intellettuali, lavoratori e studenti di diverso orientamento politico e culturale, sottoscrissero un appello all’astensione, sulla base di un radicale rifiuto del sistema bipolare qualificato come “post-democratico” e della necessità di fondare una nuova Opposizione popolare. Nel febbraio 2009 molti dei firmatari, ritenendo che il sistema vigente non sarà cambiato né dall’interno né per mezzo di riforme, diede vita all’Associazione Rivoluzione Democratica. 
Qui sotto l'appello che convocava la Conferenza fondativa che si svolse nel gennaio 2009


OLTRE LA DIARCHIA EURO DOLLARO

[ 29 dicembre 2009 ]

Dieci tesi su crisi, egemonia valutaria e imperialismo

di Vladimiro Giacchè  

All’origine della crisi vi è un’enorme sovrapproduzione di capitali e di merci

Sulle cause della attuale crisi ci è stato detto di tutto. Banchieri avidi, compratori di case sprovveduti, agenzie di rating distratte o colluse: tutto o quasi è stato tirato in ballo. Tutto, salvo quello che è veramente importante. La stessa finanza deregolamentata e il credito facile, che sono diventati il comodo (e consolatorio) capro espiatorio di opinionisti e scrittori di cose economiche, non sono la causa di questa crisi.
L’enorme esplosione del debito su scala mondiale che ha preceduto l’esplodere della crisi (con asset finanziari che nel 2007 avevano superato il 350% del PIL mondiale) è servita a conseguire tre obiettivi: 1) ha permesso di costruire prodotti finanziari (quali le carte di credito, ma anche i mutui subprime) attraverso i quali, in particolare nei paesi anglosassoni, lavoratori che guadagnavano meno di prima hanno potuto continuare a consumare come prima; 2) ha consentito a imprese in crisi di sopravvivere (grazie al credito ottenuto a tassi estremamente favorevoli); 3) ha offerto una via di sfogo profittevole a capitali in fuga dall’impiego industriale perché ormai poco profittevole(1). In altre parole: la finanza non è la malattia. È la droga che ha permesso di non avvertirne i sintomi. Con il risultato di cronicizzarla e di renderla più acuta. La malattia, ossia la crisi da sovrapproduzione di capitale e di merci, si è infine manifestata con violenza nell’estate del 2007, e assume ormai le caratteristiche di una vera e propria “crisi generale” che investe almeno l’intero occidente capitalistico, se non il mondo intero.

L’egemonia del dollaro è un elemento fondamentale del meccanismo che ha portato all’attuale crisi

Ma cosa ha reso possibile il credito facile? Rispondere a questa domanda è molto semplice: la politica monetaria espansiva della Federal Reserve statunitense, che è entrata in azione a più riprese. Questa politica monetaria ha favorito la creazione della bolla della new economy (1999-2000), è stata giocata in chiave anti-recessiva nel 2001 (con la scusa dell’11 settembre – mentre la recessione era iniziata già nel marzo 2001), e poi ha accompagnato la bolla immobiliare sino a quando essa è scoppiata nel 2006. Il punto fondamentale da intendere è che questa politica è stata resa possibile da una caratteristica unica del dollaro: il suo status di valuta internazionale di riserva, il suo continuare ad essere “moneta mondiale” a dispetto del venir meno della convertibilità in oro (1971) e di una bilancia commerciale in passivo dal 1976. Solo questo “esorbitante privilegio” del dollaro, legato in particolare al pagamento in dollari delle materie prime (soprattutto energetiche), ha consentito agli Stati Uniti di continuare ad attrarre capitali pur facendo una politica di bassi tassi di interesse. Qualsiasi altro Paese che, come gli Usa, consumasse più di quanto produceva avrebbe pagato una politica monetaria così espansiva con una crisi del debito come quella patita da molti Paesi emergenti.

Il dollaro non è più il dominatore incontrastato della scena valutaria mondiale…

Il predominio del dollaro però, da almeno 10 anni, non è più un dominio incontrastato. Con l’affacciarsi sulla scena mondiale dell’euro, per la prima volta nella storia il dollaro ha un antagonista temibile. Precisamente questo era il disegno perseguito da chi ha voluto l’euro. Leggiamo Guido Carli, tra i negoziatori italiani del trattato di Maastricht: “La realizzazione del trattato di Maastricht significherebbe la sottrazione agli Stati Uniti di quasi metà del potere di signoraggio monetario di cui dispongono… L’Unione economica e monetaria prefigura la nascita di uno strumento monetario di riserva internazionale che potenzialmente può cancellare molto del potere di attrazione che oggi ancora il dollaro riveste, per assenza di valide alternative. Conquistare potere di signoraggio significa anche acquisire la capacità di attirare capitali, di spostare risorse, di partecipare da posizioni di forza alla distribuzione mondiale del lavoro e del capitale(2)”. La creazione stessa dell’euro è insomma in se stessa un progetto imperialistico: è il tentativo di opporre all’imperialismo americano un nascente imperalismo europeo, che si esprime in un’area valutaria autonoma e in grado di competere con l’area (inizialmente molto più vasta) del dollaro. In effetti, nei dieci anni che ci separano dall’entrata in vigore dell’euro, il dollaro ha perso molte posizioni nei confronti dell’euro, e non solo. La rendita di posizione del dollaro viene erosa in più direzioni, come prova tra l’altro la crescita delle quotazioni dell’oro, che dal 2002 ad oggi ha più che triplicato il proprio valore. La cosiddetta “guerra al terrorismo”, ed in particolare l’aggressione all’Iraq, che non a caso ha visto gran parte dei governi europei fortemente contrari, ha rappresentato anche un capitolo di questo confronto valutario, in quanto aveva tra i suoi obiettivi quello di proteggere il pagamento del petrolio in dollari(3).

...ma mantiene il proprio ruolo come valuta internazionale di riserva

In ogni caso il dollaro, pur svalutandosi (anche a causa dell’aumento del debito pubblico connesso alle spese militari sostenute in Afghanistan e in Iraq), non crolla. Questo anche perché massicci acquisti di titoli di Stato americani da parte di Giappone e Cina, e il tasso di cambio non fluttuante tra dollaro e yuan cinese consentono di mantenere relativamente stabili (anche se comunque declinanti) le ragioni di scambio del dollaro. Di fatto la Cina per un verso ha visto la propria bilancia commerciale rafforzata dalle esportazioni verso gli Usa, dall’altro ha contribuito a mantenere la capacità di spesa (cioè di consumo) dei cittadini americani anormalmente alta comprando titoli di Stato Usa, e quindi impedendone un deprezzamento e l’innescarsi di una crisi debitoria americana.

La crisi sconvolge gli equilibri del sistema valutario mondiale e aggiunge un nuovo fronte alle difficoltà per il dollaro…

In modo solo apparentemente paradossale, la crisi – che ha tra le sue cause scatenanti la politica monetaria espansiva statunitense resa possibile da questi massicci acquisti di titoli di Stato Usa – evidenzia il disordine del sistema valutario attuale e mette definitivamente in crisi gli equilibri valutari in essere. Con le parole del governatore della Banca centrale cinese: “lo scoppio della crisi ed il suo propagarsi al mondo intero riflettono l’intrinseca vulnerabilità e i rischi sistemici insiti nell’attuale configurazione del sistema monetario internazionale.” Più in particolare, essa evidenzia il fatto che “una valuta internazionale di riserva… non dovrebbe essere legata alle condizioni economiche e agli interessi nazionali di un singolo Stato(4)”.
In questo senso, la crisi mette in primo luogo a rischio il dominio del dollaro e il suo status di valuta internazionale di riserva. Questo fronte si aggiunge al dibattito, che coinvolge molti Paesi produttori di materie prime, circa l’opportunità di agganciare il prezzo delle materie prime stesse non più ad una singola valuta, ma ad un paniere di valute. Vanno inoltre menzionate le difficoltà di un controllo geopolitico Usa sui Paesi produttori di petrolio, evidenziate dall’andamento tutt’altro che favorevole della guerra in Iraq. Non meno importante è il sempre minore controllo degli Stati Uniti su una sua tradizionale area di influenza economica e valutaria quale l’America Latina, simboleggiato dall’accordo valutario recentemente stipulato con la Cina dall’Argentina, che consentirà di regolare in yuan le transazioni commerciali tra i due Paesi(5). A questo vanno aggiunte le crescenti difficoltà a finanziare i titoli di Stato americani (a gennaio 2009 si sono avute vendite nette di titoli di Stato Usa a lungo termine per un valore di 43 miliardi di dollari), tanto che la stessa Federal Reserve si è vista costretta ad acquistarli direttamente(6).

…ma crea problemi non meno seri all’euro

Se Sparta piange, Atene non ride. Intanto, il problema del crescente debito pubblico accomuna Unione Europea e Stati Uniti(7). Inoltre l’Est europeo è tra le aree più colpite dalla crisi, in quanto maggiore era stato negli anni immediatamente precedenti l’utilizzo della leva del credito(8). Quasi tutti i paesi dell’Europa centrale e orientale si trovano in gravi difficoltà. Destinatari di finanziamenti esteri per oltre 1.000 miliardi di dollari soltanto nel 2007 (quasi la metà dell’intera domanda mondiale), questi paesi vengono sorpresi dalla crisi con enormi deficit di bilancio, un credito interno in forte espansione e in genere anche notevoli bolle immobiliari. Una marcata svalutazione delle valute locali è già in atto in Ungheria, Polonia, Bulgaria, Serbia, Repubblica Ceca, Romania e Ucraina. Non diversa è la situazione dei paesi baltici.
Molti di questi Paesi sono sull’orlo di una crisi del debito, secondo il classico copione più volte andato in scena nelle economie emergenti: rapido deflusso dei capitali stranieri in ragione del forte debito estero, forte svalutazione (che causa un ulteriore aumento del debito estero), crisi economica più o meno generalizzata. È importante notare che, se questi rischi si materializzassero, sarebbero colpite in prima linea le banche di Paesi come l’Austria, la Spagna e l’Italia, le quali – assieme a Svizzera e Svezia – rappresentano i principali creditori dell’economie dell’Est europeo. Ma, più in generale, sarebbe minacciata la convergenza delle monete locali verso l’euro e la stessa stabilità politica dell’Unione Europea sarebbe sottoposta a forti tensioni. La debolezza dell’euro negli ultimi tempi, pur in presenza di Stati Uniti in crisi profonda, trova qui una delle sue principali radici. È pur vero che la crisi attuale spinge questi Paesi ad accelerare la loro marcia per l’ingresso nella zona euro (di recente il Fondo Monetario Internazionale ha addirittura proposto e chiesto che questi Paesi adottino la moneta unica anche senza entrare formalmente nell’eurozona, per evitare i vincoli di bilancio richiesti!(9) ). Il punto è che proprio la crisi allontana questi Paesi dall’euro.
Sta di fatto che oggi sta diventando realtà lo storico spauracchio dell’Unione Europea: ossia shock asimmetrici (una crisi che colpisce alcuni paesi più di altri) e differenziali tra le economie che si ampliano anziché ridursi. Questo è già un fatto compiuto se confrontiamo i paesi della zona euro con quelli che si trovano alla sua periferia. Ed è tutt’altro che escluso che la stessa situazione si riproponga anche all’interno dell’eurozona.
La verità è che questa crisi mette impietosamente in luce i limiti strutturali della costruzione europea: imperniata sulle esigenze dei mercati dei capitali, e priva proprio per questo di una politica economica comune (perché si trattava di salvaguardare la possibilità per i capitali di scegliere il Paese di volta in volta più “conveniente”), essa ha fatto completo fallimento. Il disastro attuale è il risultato necessario di una costruzione che ha ricercato la “competitività” nella concorrenza fiscale, nell’attacco ai diritti del lavoro e nell’erosione progressiva del welfare state. Nella conseguente attuale afasia dell’Unione Europea, emergono poi le “soluzioni” proposte dagli Stati membri, con misure scoordinate e non di rado ad esplicito contenuto protezionistico.
Tutto questo negli ultimi mesi ha favorito il dollaro(10).

La crisi e il conseguente disordine valutario non rafforza il bipolarismo euro/dollaro

La crisi ha avuto un fortissimo impatto sui rapporti di cambio. Per certi versi, essa ha potuto dare l’illusione di un rafforzamento del bipolarismo euro/dollaro, tramite il crollo di molte valute “periferiche”. Ad esempio, essa ha colpito severamente la sterlina, per la quale è iniziata probabilmente la fine come valuta autonoma: come dimostra il suo crollo sia rispetto al dollaro che rispetto all’euro – conseguente al crollo della sua industria finanziaria ed alla fortissima crescita dell’indebitamento pubblico resosi necessario per puntellarla(11). Ma anche alcuni dei progetti di unione valutaria regionale sono stati almeno rallentati dalla crisi: è il caso, ad esempio, del progetto di valuta araba del Golfo (che ha comunque un motivo di debolezza strutturale nell’eccessivo legame delle singole valute locali con il dollaro(12) ).
Per contro, ci sono anche valute che rispetto al dollaro e all’euro sono cresciute troppo, al punto da scegliere di effettuare svalutazioni competitive: è il caso del franco svizzero(13). Va poi considerato anche il revival dell’oro, che negli ultimi mesi appare più correlato alla crescita del debito pubblico in Europa e Usa che alla debolezza del solo dollaro. Sono altrettanti segnali dell’incrinarsi del bipolarismo valutario che sino a pochi anni fa sembrava il futuro prossimo del sistema monetario internazionale. L’auspicio di Carli sembra ormai azzardato: l’euro non riuscirà a dividere con il dollaro lo status di valuta internazionale di riserva. E non per la forza della valuta americana, ma perché stanno entrando in gioco nuovi attori. Uno su tutti: la Cina.

L’attacco cinese al predominio del dollaro, con la proposta di una riforma del sistema monetario internazionale, segnala un passaggio di fase

È in questo contesto che va inserita la proposta, avanzata il 23 marzo dal governatore della Banca del Popolo cinese, di una “riforma creativa” del sistema monetario internazionale in direzione di “una valuta internazionale di riserva con un valore stabile, che sia emessa in base a regole precise e la cui offerta sia gestibile”, con l’obiettivo di “salvaguardare la stabilità economica e finanziaria a livello mondiale”(14). Le tre caratteristiche ideali indicate sono precisamente il contrario di quello che rappresenta oggi la valuta americana: una valuta estremamente instabile, emessa su basi discrezionali e offerta in quantità eccessiva e destabilizzante. Non è il caso di entrare nei dettagli tecnici della proposta cinese, imperniata sulla creazione di una valuta internazionale basata sui diritti speciali di prelievo (DSP) del Fondo Monetario Internazionale. Anche perché l’aspetto importante della proposta non è la sua concreta realizzabilità, ma il messaggio lanciato agli Usa e al mondo: l’era del dollaro è finita. L’unica vera nuova Bretton Woods, di cui si è tanto cianciato a sproposito in questi mesi, sarebbe questa: una riforma del sistema valutario internazionale. Precisamente il grande tema che è stato esorcizzato dall’inizio della crisi. La proposta cinese ha incontrato subito approvazione da parte della Russia, e anche da Chavez, che ha avanzato una proposta interessante (anche se interessata): fare in modo che la nuova valuta internazionale sia garantita (come un tempo dall’oro), dalle riserve petrolifere. Anche il premio nobel Stiglitz si è espresso a favore di una profonda riforma del sistema monetario internazionale(15).

In parallelo, si rafforza il ruolo internazionale dello yuan

Perché proprio ora? Perché è forte il timore che il governo Usa, il cui indebitamento cresce in misura preoccupante, possa decidere di risolvere la situazione come altre volte in passato: svalutando drasticamente il dollaro (o addirittura con un default)(16). Cosa che comporterebbe una perdita di valore dei debiti espressi in dollari (a cominciare dai 10mila miliardi di dollari di titoli di Stato Usa in circolazione), e anche delle riserve di dollari nei forzieri delle banche centrali: e in particolare la Cina ha oltre la metà delle sue riserve (del valore di 2.000 miliardi di dollari) impiegate in dollari.
Ma la proposta di riforma del sistema monetario internazionale non è l’unica misura assunta dalla Cina. Abbiamo citato sopra l’accordo valutario con l’Argentina, che segue di pochi giorni analoghi accordi stipulati con Corea del Sud, Malesia, Indonesia, Hong Kong e Bielorussia. L’obiettivo è chiaro: porre le basi per una valuta asiatica imperniata sullo yuan e in grado di competere con dollaro ed euro. Del resto, già da tempo si parla di una Asian Currency Unit, analoga all’Ecu (il progenitore diretto dell’euro) .

Si profila un sistema monetario internazionale in cui i rapporti tra le valute esprimeranno lo scardinamento delle antiche gerarchie economiche. A meno che…

È probabile che la crisi attuale avrà tra i suoi effetti quello di sconvolgere le gerarchie attuali tra le valute. In astratto, tra gli effetti più prevedibili c’è la fine del vero e proprio assurdo economico per cui il Paese più indebitato del mondo esprime anche la principale valuta internazionale di riserva. C’è un unico piccolo problema a complicare il quadro: il paese più indebitato del pianeta è anche quello di gran lunga più armato. Non è una novità. Adolf Hitler decise di dare il via alla Seconda guerra mondiale allorché il suo ministro delle finanze, Hjalmar Schacht, gli comunicò che la Germania era sull’orlo della bancarotta a causa del debito accumulato e della produzione bellica in eccesso.

NOTE

1-Per maggiori approfondimenti sul punto rinvio a: V. Giacché, “Crisi economica e crisi dell’ideologia neoliberale”, in Proteo, n. 3/2008, pp. 83-86 e “Le ragioni della crisi e le ragioni dei comunisti”, comunicazione sulla crisi finanziaria alla Direzione nazionale PdCI, 4 febbraio 2009: http://www.comunisti-italiani.it/modules.php?op=modload&name=News&file=article&sid=5228 .
2-G. Carli (con P. Peluffo), Cinquant’anni di vita italiana, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 412 sg. Corsivi miei.
3-Sul tema vedi A. Burgio, M. Dinucci, V. Giacché, Escalation. Anatomia della guerra infinita, Roma, DeriveApprodi, 2005, e in particolare il cap. 2, “L’economia della guerra infinita”, pp. 113-188. Per una rilettura dei conflitti interimperialistici che tiene conto della dimensione valutaria vedi V. Giacché, La debolezza della forza. L’imperialismo americano e i suoi problemi, in L. Vasapollo (a cura di), Il piano inclinato del capitale. Crisi, competizione globale e guerre, Milano, Jaca Book, 2003, partic. pp. 177 sgg.
4-Z. Xiaochuan, Reform the International Monetary System , 23 marzo 2009 (vedi sul sito della Banca del Popolo cinese: http://www.pbc.gov.cn/english/ ).
5-F. Rampini, “L’Argentina tradisce il dollaro: accordo valutario con la Cina”, la Repubblica, 1° aprile.
6-M. Mackenzie, “Foreign investors slash US holdings”, Financial Times, 17 marzo 2009; F. Russo, “Bernanke gioca il grande bluff”, Finanza & Mercati, 20 marzo 2009; A. Greco, “La Fed che batte moneta allarma i mercati”, la Repubblica, 20 marzo 2009.
7-Vedi ad es. B. Romano, “Dal debito rischi per l’eurozona”, 28 marzo 2009.
8-L. Ahamed, “Subprime Europe”, Herald Tribune, 10 marzo 2009; S. Tong, “Getting a lift from falling dollar”, Herald Tribune, 24 marzo 2009.
9-Cfr. “Single currency gains new appeal for outsiders” e J. Cienski, “Warsaw to speed euro adoption”, Financial Times, 29 ottobre 2008; S. Wagstyl, “IMF urges eastern EU states to adopt euro”, Financial Times, 6 aprile 2009, e “ECB rejects calls for euro short cuts”, Financial Times, 7 aprile 2009.
10-Vedi ad es. “Flucht in Sicherheit belastet Euro”, Frankfurter Allgemeine Zeitung, 31 marzo 2009.
11-N. Dennis, E. Bintliff, “Sterling pays price for asset purchase plan”, Financial Times, 20 gennaio 2009.
12-R. Sorrentino, “A rischio la moneta del Golfo”, Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2009.
13-R. Sorrentino, “Berna potrebbe innescare una corsa alle svalutazioni”, Il Sole 24 Ore, 15 marzo 2009.
14-Z. Xiaochuan, Reform the International Monetary System , cit.
15-“China promotes overhaul of global monetary system”, Herald Tribune, 24 marzo 2009; H. Morris, “UN hears calls to end dollar’s reserve status”, Financial Times, 27 marzo 2009: D. Pilling, China is just sabre-rattling over the dollar”, Financial Times, 2 aprile 2009;
16-Y. Qiao, “How Asia can protect itself from a dollar default”, Financial Times, 1° aprile 2009.

Pubblicato su www.campoantimperialista.org il 9 agosto 2009
Fonte: Marxismo Oggi, agosto 2009
 

lunedì 28 dicembre 2009

LE AUTORITA' EGIZIANE BLOCCANO LA "FREEDOM MARCH" DIRETTA A GAZA

[ 28 dicembre 2009 ]

La polizia egiziana ha bloccato oggi, 28 dicembre, gli antimperialisti e i pacifisti italiani che partecipavano alla Freedom March, diretta a Gaza. Oltre a fermare i manifestanti, gli agenti del Cairo hanno anche sequestrato gli autobus, impedendo ai pacifisti di passare il valico di Rafah.
A dare la notizia è stato Francesco Francescaglia, responsabile Esteri della PdCi - Federazione della Sinistra. "I nostri connazionali - ha detto Francescaglia - al momento sono riusciti a raggiungere l'ambasciata italiana. La situazione è molto tesa e grave. Consideriamo questo atteggiamento lesivo del diritto inalienabile dei partecipanti di raggiungere Gaza".
Sono in tutto 140 gli italiani che hanno preso parte alla Freedom March, iniziativa di solidarietà con la popolazione di Gaza, a cui partecipano 1360 persone, provenienti da quarantadue Paesi diversi.
"Chiediamo - ha affermato ancora Francescaglia - l'intervento del ministro Frattini e del sottosegretario agli Esteri, Stefania Craxi - affinché il governo egiziano conceda il passaggio dei manifestanti senza frapporre ostacoli all'ingresso dei nostri connazionali al valico di Rafah".

CRISI "NEL" O "DEL" CAPITALISMO?

[ 28 dicembre 2009 ]

di Osvaldo Pesce*

L’attuale crisi economica mondiale mette in discussione la globalizzazione – attuata nel corso degli ultimi dieci anni dagli USA, seguiti dall’Europa - che non può più essere perseguita.  Il meccanismo di crescita dell’economia si è inceppato, i vari paesi vengono a turno stravolti dai crack finanziari e coinvolti nella stagnazione produttiva, e per evitare che la crisi si riversi su di loro questi devono “chiudersi” in parte all’esterno e cercare  soluzioni proprie.


Oggi si prospettano tre diverse opzioni dei governi per far ripartire l’economia:
1.    aumentare il debito pubblico nei vari paesi;
2.    rispondere alla crisi con la guerra;
3.    sviluppare blocchi continentali.

Prima strada: debito pubblico.
 
Il debito pubblico è già considerevole in USA (circa il 65% del PIL); i fondi federali vengono utilizzati per “salvataggi” che puntellano le attività finanziarie (banche) e alcune industrie decotte (i colossi automobilistici), lasciando tuttavia la situazione sostanzialmente invariata.
L’attuazione di un’innovazione tecnologica che può rilanciare la produzione passa per la riduzione drastica delle spese poiché mancano i capitali da investire (essendo stati “bruciati” dalla speculazione o trovandosi ancorati all’interno delle banche che non vogliono rischiare di perderli). Per esempio la soluzione pensata per la General Motors consiste nel farla fallire e poi rinascere attraverso nuovi investimenti; ciò implica far fuori il fondo pensioni (accordo degli anni 60) che attualmente grava pesantemente sui costi (ogni occupato mantiene due pensionati): sarebbe la rovina per 4 milioni di famiglie, con conseguenze sociali gravissime.
La crisi attuale ha provocato il tracollo economico dell’Islanda e sta imperversando in Irlanda, Gran Bretagna, Olanda e Danimarca, paesi che hanno puntato  molto sul settore terziario (finanza, assicurazioni, settore immobiliare) a danno della produzione. L’esperienza insegna che i paesi non possono vivere di servizi, perché questi non producono ricchezza. Tuttavia laddove la produzione era stata delocalizzata, cioè nei paesi emergenti come India e Cina, si evidenzia una fase di recessione.
La disoccupazione cresce in tutto il mondo, con conseguente danno per i sistemi pensionistici e di capitalizzazione. Infine, occorre ricordare che i debiti prima o poi vanno saldati: gonfiare il debito pubblico significa quindi gravare sulle generazioni future!

Seconda strada: guerra.
 
Israele ha già risposto alla crisi, per dimostrare la sua forza, con l’invasione della Striscia di Gaza e i raid in Cisgiordania, e non si tratta soltanto dell’ennesimo episodio (basti pensare alle bombe al fosforo, al numero di vittime civili e all’attacco a sedi ONU); senza il sostegno degli USA Israele non potrebbe agire. Questa aggressione potrebbe inoltre portare ad accusare l’Iran di fornire missili ad Hamas, con il rischio di un’altra invasione del Libano e addirittura di possibili bombardamenti israeliani sull’Iran. In tutta quell’area ciò provocherebbe un’instabilità tale da favorire una nuova guerra India – Pakistan, fomentata dall’espansionismo indiano già rinfocolato dall’attentato di Mumbai.
Che questa guerra non sia un episodio meramente “locale” ma una pericolosa avvisaglia della possibile risposta alla crisi con la guerra, lo insegna la storia: nel 1931 il Giappone invase la Manciuria (Cina) e sembrò un “affare privato” del Giappone; nel 1935 l’Italia invase l’Etiopia e sembrò “un posto al sole” di colonialisti in ritardo; nel 1936 ci fu l’attacco di Franco alla repubblica spagnola, con l’intervento dei nazisti e fascisti, e da allora il mondo non ebbe più pace fino al 1945.
D’altra parte sulla crisi mediorientale i governi arabi sono latitanti, l’Europa mette sullo stesso piano aggressore e aggredito per preparare l’opinione pubblica all’eventualità della guerra, Putin tace valutando la pericolosità della situazione.

Terza strada: blocchi continentali.

Sviluppare dei blocchi continentali significa da un punto di vista politico andare verso un mondo policentrico, non più accentrato negli USA, da un punto di vista economico favorire uno sviluppo industriale avanzato - a scapito della finanza speculativa internazionale – e il dirigismo.
Sappiamo che la politica è l’espressione degli interessi delle diverse categorie sociali all’interno dei vari paesi: nel periodo di estesa globalizzazione il capitale (la finanza internazionale e le grandi imprese multinazionali) era estremamente più forte del sistema politico (stati nazionali e unioni di stati) nell’influenzare lo sviluppo sociale dato che il movimento dei lavoratori era indebolito dal declino della industria, dal precariato, dalla fase delle illusioni sul socialismo reale. Con il policentrismo invece aumentano le possibilità di ripresa di stati e governi. Ciò non elimina il rischio che dei blocchi continentali si indirizzino verso la guerra (accadde in Europa negli anni ‘30), ma occorre che il rafforzamento della politica sia orientato ad affrontare i problemi sociali e di sviluppo economico dalla spinta e dalla partecipazione popolare.
Essendo questa una crisi “del” capitalismo la soluzione del policentrismo è quella che ridà fiato alla ricerca, alla produzione ed agli scambi dei prodotti del lavoro (merci).
Ne trarrebbero vantaggio, in una prima fase, sia i popoli nel tenore di vita, ma anche il capitalismo, che sicuramente non vorrà perire, e la rinnovata produzione di merci e ripresa degli scambi gli ridarebbero linfa vitale.
In effetti  volendo rappresentare graficamente la situazione attuale si potrebbe immaginare un cerchio che immagazzina la globalizzazione nel quale prevale la superpotenza USA, che ha generato la crisi a catena e dalla quale cerca di rigenerarsi a spese degli altri ed il cui interesse è di tenere il tutto chiuso nel cerchio.
In questa situazione la sovrapproduzione delle merci, che non trovano mercati, blocca gli scambi rimanendo ingessata sia la formula M-D-M (merce-denaro-merce) sia quella di circolazione e valorizzazione del capitale D-M-D (denaro-merce-denaro). Conseguenza diretta il mercato dei capitali, quello finanziario, non trova sbocchi né ritorni rimanendo stagnante la produzione di merci reali.
La guerra appare l’unica soluzione di sblocco.
Diversamente il policentrismo rappresenta la rottura del cerchio, tutto rapportato al recinto della globalizzazione USA.
L’autonomia dei blocchi continentali determina indipendenza economica e gestionale trasformandola in politiche di salvaguardia dei propri interessi e dei rapporti commerciali con gli altri.
Oggi il policentrismo diviene l’unica strada praticabile nell’affrontare la contraddizione tra capitale e lavoro, come sempre dipendente dai rapporti di forza, nella condizione più favorevole alle masse. In Italia non esistono forze politiche in grado di proporre soluzioni o di intraprendere la terza strada che è orientata a possibili sviluppi positivi. I Partiti di governo sono sempre più filo americani che europeisti; ora agitano lo spauracchio del debito pubblico per tagliare sulla ricerca  e distribuire elemosine (40 euro), mentre elargiscono fondi per garantire le banche, privatizzare e svendere i trasporti pubblici e si limitano alla cassa integrazione per le industrie in crisi invece di creare un piano di investimenti per il rilancio produttivo, l’innovazione e l’occupazione.
I politici dell’ex PCI confluiti nel PD, per farsi perdonare di essere stati “comunisti”, sono filo – USA; le generazioni con esperienze di lotta si consumano nella “nostalgia”, la cosiddetta “sinistra radicale” non ha capito la storia e ripete le posizioni dell’Internazionale del ’29-31 per cui la crisi porta automaticamente al socialismo e bisogna radicalizzare la lotta muro contro muro. I partiti comunisti di allora condussero lotte per la democrazia e rivendicazioni sindacali senza avere una linea di risposta alla crisi, compresa una politica di alleanze (per l’ Italia si deduce da quanto hanno scritto Teresa Noce, Rivoluzionaria professionale, La Pietra 1974; Giorgio Amendola, Storia del PCI 1921-43, Editori Riuniti 1978; Carlo Salinari, in “I comunisti raccontano”, v.1, Teti 1975): l’unico a porre correttamente la questione di fare politica fu Gramsci, isolato in carcere e impossibilitato ad agire. Di conseguenza, in Europa vinse il nazismo e si affermarono varie forme di fascismo; in Italia si consolidò il regime, in USA, Gran Bretagna, Francia il capitalismo mantenne il suo dominio.
Oggi maggioranza ed opposizione non hanno una linea; la contrapposizione politica non arriva a niente, occorre un programma che garantisca lo sviluppo economico,l’occupazione e il reddito, e che raccolga attorno ai lavoratori ampie alleanze sociali, considerando che il 90% del ceto medio si sta impoverendo ed il divario tra i ricchi ed i poveri continua a crescere.

Il sistema capitalistico non può risolvere la crisi; questa è una crisi “del” e non “nel” capitalismo come quella del 1929.
Le proposte che vengono avanzate da politici, economisti e intellettuali verso l’opinione pubblica sono:
•    rivitalizzare il mercato (neoliberismo)
•    promuovere l’intervento pubblico (statalismo)
•    valutare i limiti dello sviluppo, ridurre lo spreco di risorse e promuovere la decrescita (no global, localismo).

In tutte esiste un elemento di critica che non viene  portata fino in fondo di conseguenza non emerge nessun nuovo modello e si cade nella passività e nell’impotenza. Diversamente sarebbe necessario approfondire la critica:
- Dov’è il mercato? Da quando esistono le grandi multinazionali, gli accordi di cartello e le guerre commerciali, cioè almeno da tutto il ‘900, non esiste più il “libero mercato” in cui teoricamente tutti i produttori si fanno concorrenza; esistono invece la speculazione internazionale sulle materie prime, l’imposizione dei prezzi al pubblico, la spartizione più o meno “pacifica” dei mercati di consumo,  lo spezzettamento o il raggruppamento di aziende secondo le convenienze di bilancio e di borsa, il controllo sui brevetti e l’innovazione.
- L’intervento pubblico si limita a regalare soldi pubblici a banche, società finanziarie e grandi S.p.A. senza regolamentarne l’attività, così che i profitti degli anni di “vacche grasse” restano a loro e i debiti dovuti alla speculazione folle vengono pagati dai cittadini, mentre i beneficiari ne approfittano per appropriarsi di altre aziende in crisi o di settori una volta pubblici (Alitalia).
- Lo sviluppo capitalistico porta a depredare selvaggiamente la natura, mettendo a rischio la disponibilità di risorse essenziali alla vita e la salute umana; tuttavia limitare i propri consumi individuali o rifornirsi solo sul mercato locale non è la soluzione ai problemi di fame, epidemie, inquinamento globale, povertà e disoccupazione. La scienza e la tecnologia non possono essere viste come sciagure che portano a uno sviluppo incontrollato e incontrollabile ma come fattori che, politicamente ben diretti, danno impulso all’innovazione per il miglioramento sociale.

Dobbiamo concludere che:
-    il mito del libero mercato è crollato (lo ammette anche Tremonti); che il sistema sia capace di risollevarsi da sé è una grande e provata menzogna;
-    è il lavoro, non la speculazione, che crea ricchezza; il capitalismo lo comprime con costi sociali sempre più alti (disoccupazione, precarietà, assenza o crisi della sicurezza sociale);
-    l’intervento dello stato per essere efficace deve regolare il sistema produttivo e non fornirgli stampelle assistenziali;
-    le banche e gli organismi finanziari devono essere regolamentati per dare ossigeno agli investimenti e non alla speculazione borsistica e monetaria;
-    alcuni settori essenziali, come acqua ed energia, sanità, istruzione, reti di trasporti, servizi di sicurezza sociale, devono essere sotto controllo pubblico.

In un mondo multipolare si può sviluppare un nuovo modello di sviluppo del XXI secolo che superi quelli novecenteschi della competizione USA-URSS e della globalizzazione, e che implichi rapporti tra le varie aree del mondo con pari dignità politica e vantaggi reciproci dovuti alla cooperazione e non alla competizione selvaggia. All’interno dei blocchi continentali, e nei rapporti tra i vari blocchi, ogni paese dovrebbe avere garantita la propria indipendenza e garantire quella degli altri, deve poter salvaguardare le proprie basi economiche nel quadro della cooperazione con gli altri paesi. 

Questo nuovo modello di sviluppo comprende:
-    la fine delle delocalizzazioni, lo sviluppo di industrie di eccellenza, basate sulla ricerca e l’innovazione, la ricostruzione di industrie manifatturiere e dell’agricoltura,
-    il miglioramento dei redditi dei lavoratori e dei piccoli o medi produttori;
-    una politica corretta sull’ambiente e l’uso di materie prime;
-    un commercio internazionale basato sul vantaggio reciproco;
-    una diffusione omogenea di una base minima di modernizzazione, l’utilizzo comune delle nuove tecnologie di base, una ricerca di respiro mondiale che rivitalizzi i settori industriali esistenti e ne sviluppi di nuovi.
Per l’Europa questo comporta la messa al bando del modello anglosassone responsabile della la crisi in tutti i campi, compresa la subordinazione militare. E’ necessario aprirsi ai paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente, fornitori di materie prime, che potrebbero collegarsi strettamente all’Unione Europea con accordi equi.

  

sabato 26 dicembre 2009

Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?


[ 26 dicembre 2009 ]

di Samir Amin


Il principio dell’accumulazione senza fine che definisce il capitalismo è sinonimo di crescita esponenziale, ed essa – come il cancro – porta alla morte. Stuart Mill, che l’aveva capito, immaginava uno “stato stazionario” che avrebbe posto fine a questo processo irrazionale. Keynes condivideva questo ottimismo della ragione. Ma né l’uno né l’altro erano attrezzati per capire come poter realizzare il necessario superamento del capitalismo. Marx invece, facendo posto alla nuova lotta di classe, poteva immaginare di rovesciare il potere della classe capitalistica, concentrato oggi nelle mani dell’oligarchia.
L’accumulazione, sinonimo anche di pauperizzazione, disegna il quadro oggettivo delle lotte contro il capitalismo. Ma essa si esprime soprattutto con il contrasto crescente fra l’opulenza delle società del centro, beneficiarie della rendita imperialistica, e la miseria di quelle delle periferie dominate. Questo conflitto diventa di fatto l’asse centrale dell’alternativa “socialismo o barbarie”.
Il capitalismo storico “realmente esistente” è associato a forme successive di accumulazione per spossessamento, non soltanto all’origine (l’accumulazione primitiva) ma in tutte le tappe del suo sviluppo. Una volta costituito, questo capitalismo “atlantico” è partito alla conquista del mondo e lo ha ridisegnato sulla base del permanere dello spossessamento delle regioni conquistate, che diventavano così le periferie dominate del sistema.
Questa mondializzazione “vittoriosa” si è dimostrata incapace di imporsi in modo durevole. Solo mezzo secolo dopo il suo trionfo, che sembrava già inaugurare la “fine della storia”, essa veniva messa in discussione dalla rivoluzione della semiperiferia russa e dalle lotte (vittoriose) di liberazione in Asia e Africa, che hanno fatto la storia del XX secolo – la prima ondata di lotta per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli.
L’accumulazione per spossessamento prosegue sotto i nostri occhi nel tardo capitalismo degli oligopoli contemporanei. Nei paesi del centro, la rendita di monopolio di cui beneficiano le plutocrazie oligopolistiche è sinonimo di spossessamento dell’insieme della base produttiva della società. Nelle periferie, questo spossessamento pauperizzante si manifesta nell’espropriazione dei contadini e con il saccheggio delle risorse naturali delle regioni interessate. Entrambe le pratiche costituiscono i pilastri essenziali delle strategie espansionistiche del tardo capitalismo degli oligopoli.
In questo spirito, io pongo la “nuova questione agraria” al centro della sfida per il XXI secolo. Lo spossessamento delle società contadine (in Asia, Africa e America Latina) costituisce la forma contemporanea più saliente della tendenza alla pauperizzazione (nel senso che dava Marx a questa “legge”) associata all’accumulazione. La sua attuazione è indissociabile dalle strategie di captazione della rendita imperialistica da parte degli oligopoli, con o senza agrocombustibili. Ne deduco che lo sviluppo delle lotte su questo terreno, le risposte che saranno date all’avvenire delle società contadine del Sud (circa la metà dell’umanità) determineranno ampiamente la capacità o meno dei lavoratori di progredire sulla strada della costruzione di una civiltà autentica, liberata dal dominio del capitale, per la quale io non vedo altro nome che quello di socialismo.
Il saccheggio delle risorse naturali del Sud necessario per proseguire il modello di consumo basato sullo spreco a beneficio esclusivo delle società opulente del Nord annulla ogni prospettiva di sviluppo degno di questo nome per i popoli interessati, e costituisce perciò l’altra faccia della pauperizzazione a livello mondiale. In questo spirito, la “crisi dell’energia” non è il prodotto della rarefazione di certe risorse necessarie per la sua produzione (naturalmente si parla del petrolio), e neppure il prodotto degli effetti distruttivi delle forme energivore di produzione e di consumo oggi in vigore. Questa descrizione – peraltro corretta – non va oltre le evidenze banali e immediate. Questa crisi è il prodotto della volontà degli oligopoli dell’imperialismo collettivo di assicurarsi il monopolio dell’accesso alle risorse naturali del pianeta,più o meno rare, per appropriarsi della rendita imperialistica, anche nel caso in cui l’utilizzo di queste risorse restasse com’è (energivora e di spreco) oppure fosse soggetto a nuove politiche correttive “ecologiste”. Ne deduco inoltre che se la strategia di espansione del tardo capitalismo degli oligopoli continuerà in questa maniera, provocherà necessariamente la crescente resistenza delle nazioni del Sud.
La crisi attuale non è dunque una crisi finanziaria, e neppure la somma di crisi sistemiche multiple, ma è la crisi del capitalismo imperialistico degli oligopoli, ilo cui potere esclusivo e suprema rischia di venir messo in questione, ancora una volta, con le lotte dell’insieme delle classi popolari nonché dei popoli e delle nazioni delle periferie dominate, anche se in apparenza “emergenti”. E’ nello stesso tempo una crisi dell’egemonia degli Stati Uniti. Capitalismo degli oligopoli, potere politico delle oligarchie, mondializzazione barbara, finanziarizzazione, egemonia degli Stati Uniti, militarizzazione della gestione della mondializzazione al servizio degli oligopoli, declino della democrazia, saccheggio delle risorse del pianeta e abbandono delle prospettive di sviluppo del Sud sono tutti fenomeni indissociabili.
La vera sfida è dunque questa: queste lotte riusciranno a convergere per aprire la strada – o le strade – sul lungo cammino verso la transizione al socialismo mondiale? Oppure resteranno separate le une dalle altre, o addirittura in conflitto, e perciò inefficaci, in modo da lasciare l’iniziativa al capitale degli oligopoli?

Da una lunga crisi all’altra
Il crollo finanziario del settembre 2008 probabilmente ha colto di sorpresa gli economisti convenzionali della “mondializzazione felice” e ha disarcionato qualche costruttore del discorso liberale che trionfava dal tempo della caduta del muro di Berlino, come si usa dire. Se invece l’evento non ha sorpreso noi – noi l’aspettavamo (senza certo averne predetto la data) – è semplicemente perché per noi esso si iscriveva naturalmente nello sviluppo della lunga crisi del capitalismo in fase di senescenza fin dagli anni 70.
E’ opportuno tornare a riflettere sulla prima lunga crisi del capitalismo, che ha forgiato il XX secolo, tanto è impressionante il parallelo fra le tappe di sviluppo delle due crisi.
Il capitalismo industriale trionfante del XIX secolo entra in crisi a partire dal 1873. I tassi di profitto crollano, per le ragioni evidenziate da Marx. Il capitale reagisce con un doppio movimento di concentrazione e di espansione mondializzata. I nuovi monopoli confiscano a loro profitto una rendita prelevata sulla massa di plusvalore generata dallo sfruttamento del lavoro. Essi accelerano la conquista coloniale del pianeta. Queste trasformazioni strutturali permettono una nuova ascesa dei profitti e aprono la “belle époque” – dal 1890 al 1914 – che è segnata dal dominio mondializzato del capitale dei monopoli finanziarizzati. I discorsi allora dominanti fanno l’elogio della colonizzazione (la “missione civilizzatrice”), fanno della mondializzazione il sinonimo di pace, e la socialdemocrazia operaia europea si unisce a questo coro.
La “belle époque”, annunciata come la “fine della storia” dagli ideologi del tempo, termina con la guerra mondiale, come solo Lenin aveva previsto. Il periodo che segue, fino all’indomani della seconda guerra mondiale, sarà un periodo di guerre e rivoluzioni. Nel 1920, isolata la rivoluzione russa (l’“anello debole” del sistema) dopo la sconfitta delle speranze rivoluzionarie in Europa centrale, il capitale dei monopoli finanziarizzati restaura contro venti e maree il sistema della “belle époque”. Una restaurazione, denunciata allora da Keynes, che è all’origine del crollo finanziario del 1929 e della depressione che comporta fino alla seconda guerra mondiale.
Il lungo XX secolo – 1873/1990 – è dunque il secolo della prima profonda crisi sistemica del capitalismo senescente (al punto che Lenin pensa che quel capitalismo dei monopoli costituisca la “fase suprema del capitalismo”) e nello stesso tempo quello di una prima ondata trionfante di rivoluzioni anticapitalistiche (Russia, Cina) e di movimenti antimperialistici dei popoli d’Asia e Africa.
La seconda crisi sistemica del capitalismo si apre nel 1971, con l’abbandono della convertibilità in oro del dollaro, quasi esattamente un secolo dopo l’inizio della prima. I tassi di profitto, di investimento e di crescita crollano (non ritroveranno mai più il livello che avevano raggiunto nel periodo 1945-75). Il capitale risponde alla sfida come nella crisi precedente facendo un doppio movimento di concentrazione e mondializzazione. Instaura così delle strutture che definiranno la seconda “belle époque” (1990-2008) di mondializzazione finanziarizzata che permette ai gruppi oligopolistici di prelevare la rendita di monopolio. Gli stessi discorsi di accompagnamento: il “mercato” garantisce la prosperità, la democrazia e la pace; è la “fine della storia”. Stesso allineamento dei socialisti europei al nuovo liberismo.  Eppure questa nuova “belle époque” viene accompagnata fin dall’inizio dalla guerra, quella del Nord contro il Sud, iniziata fin dal 1990. E appunto come la prima mondializzazione aveva provocato il 1929, la seconda ha prodotto il 2008. Siamo giunti oggi al momento cruciale che annuncia la probabilità di una nuova ondata di guerre rivoluzioni. Tanto più che i poteri attuali non sanno prevedere altro che la restaurazione del sistema come era prima del crollo finanziario.
L’analogia fra lo sviluppo delle due lunghe crisi sistemiche del capitalismo senescente è impressionante. Ci sono peraltro delle differenze la cui portata politica è importante.

Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?
Dietro la crisi finanziaria, la crisi sistemica del capitalismo degli oligopoli
Il capitalismo contemporaneo è soprattutto e anzitutto un capitalismo di oligopoli nel senso pieno del termine (finora non lo era che in parte). Intendo dire che gli oligopoli da soli dominano la riproduzione del sistema produttivo nel suo complesso. Essi sono “finanzia rizzati” nel senso che essi soli hanno accesso al mercato dei capitali. Tale finanziarizzazione presta al mercato monetario e finanziario – il loro mercato, quello su cui si fanno concorrenza fra loro – lo status di mercato dominante, che a sua volta forgia e domina i mercati del lavoro e dello scambio dei prodotti.
La finanziarizzazione mondializzata si esprime con una trasformazione della classe dirigente borghese, divenuta ora plutocrazia redditiera. Gli oligarchi non sono solo russi, come troppo spesso si dice, ma molto di più statunitensi, europei e giapponesi. Il declino della democrazia è il prodotto inevitabile di questa concentrazione del potere a beneficio esclusivo degli oligopoli.
E’ importante d’altra parte precisare la nuova forma della mondializzazione capitalistica, che corrisponde a questa trasformazione, in contrapposizione a quella che caratterizzava la prima “belle époque”. Io la esprimo in una frase: il passaggio dall’imperialismo declinato al plurale (quello delle potenze imperialistiche in conflitto permanente fra loro) all’imperialismo collettivo della triade (Stati Uniti, Europa, Giappone).
I monopoli che emergono in risposta alla prima crisi del tasso di profitto si sono costituiti su basi che hanno rafforzato la violenza della concorrenza fra le maggiori potenze imperialistiche del tempo, e hanno portato al grande conflitto iniziato nel 1914, proseguito attraverso la pace di Versailles e poi con la seconda guerra mondiale fino al 1945. Ciò che Arrighi, Frank, Wallerstein e io stesso avevamo definito fin dagli anni 70 come la “guerra dei trent’anni”, termine ripreso poi da altri.
Invece la seconda ondata di concentrazione oligopolistica, iniziata negli anni 70, si è costituita su basi totalmente diverse, nel quadro di un sistema che ho definito “imperialismo collettivo della triade” (Stati Uniti, Europa, Giappone). In questa nuova mondializzazione imperialistica, il dominio dei centri non si esercita più per mezzo del monopolio della produzione industriale (come era il caso prima) ma con altri mezzi (il controllo delle tecnologie, dei mercati finanziari, dell’accesso alle risorse naturali, dell’informazione e della comunicazione, delle armi di distruzione di massa). Il sistema che ho definito di “apartheid su scala mondiale” implica la guerra permanente contro gli Stati e i popoli delle periferie recalcitranti, guerra iniziata nel 1990 con il controllo militare del pianeta da parte degli Stati Uniti e gli alleati subalterni della Nato.
La finanziarizzazione del sistema è indissociabile, nella mia analisi, dal suo carattere oligopolistico. Si tratta di un rapporto organico fondamentale. Questo punto di vista non è quello dominante, non solo nella voluminosa letteratura degli economisti convenzionali, ma anche nella maggior parte degli scritti critici sulla crisi in corso.
Il sistema è tutto ormai in difficoltà
I fatti sono noti: il crollo finanziario sta già producendo non una “recessione” ma una vera, profonda depressione. Ma oltre questo, sono emerse alla coscienza pubblica altre dimensioni della crisi del sistema, ancor prima del crollo finanziario. Se ne conoscono le grandi linee – crisi energetica, crisi alimentare, crisi ecologica, cambiamenti climatici – e vengono quotidianamente presentate varie analisi, alcune pregevoli, di questi aspetti delle sfide contemporanee.
Io rimando comunque critico circa questo modo di trattare la crisi sistemica del capitalismo, che isola le diverse dimensioni della sfida. Ridefinisco quindi le “crisi” diverse come sfaccettature della stessa sfida, quella del sistema della mondializzazione capitalistica contemporanea (liberista o meno) fondato sul prelievo che la rendita capitalistica opera su scala mondiale, a profitto degli oligopoli dell’imperialismo collettivo della triade.
La vera battaglia si combatte su questo terreno decisivo fra gli oligopoli che cercano di produrre e riprodurre le condizioni che gli permettono di appropriarsi della rendita imperialistica e tutte le loro vittime – lavoratori di tutti i paesi del Nord e del Sud, popoli delle periferie dominate, condannati a rinunciare ad ogni prospettiva di sviluppo degno di questo nome.
Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?
La formula era stata proposta da André Gunder Frank e da me nel 1974.
L’analisi che noi proponevamo della nuova grande crisi che giudicavamo già iniziata ci aveva portato a concludere che il capitale avrebbe risposto alla sfida con una nuova ondata di concentrazioni, sulla cui base avrebbe proceduto a delocalizzazioni di massa. Cosa ampiamente confermata dalle ulteriori evoluzioni. Il titolo di un nostro intervento a un colloquio organizzato dal “Manifesto” a Roma in quella data (“Non aspettiamo il 1984”, con riferimento all’opera di George Orwell tratta dall’oblio in quell’occasione) invitava la sinistra radicale dell’epoca a rinunciare a correre in soccorso del capitale con la ricerca di “uscite dalla crisi”, per impegnarsi invece in strategie di “uscita dal capitalismo in crisi”.
Ho continuato su questa linea di analisi con una ostinazione che non rimpiango.
Io proponevo di teorizzare le nuove forme di dominio dei centri imperialistici fondandosi sull’affermazione di modi nuovi di controllo che si sostituivano al vecchio monopolio dell’esclusiva industriale, cosa confermata poi dall’ascesa dei paesi poi definiti “emergenti”. Io definivo la nuova mondializzazione in costruzione come “apartheid su scala mondiale”, che esigeva la gestione militarizzata del pianeta, e che perpetuava con nuove condizioni la polarizzazione indissociabile dall’espansione del “capitalismo realmente esistente”.

La seconda ondata di emancipazione dei popoli: un remake del XX secolo o qualcosa di meglio?
Non ci sono alternative alla prospettiva socialista
Il mondo contemporaneo è governato dalle oligarchie. Oligarchie finanziarie negli Stati Uniti, in Europa e in Giappone, che dominano non soltanto la vita economica, ma anche la politica e la vita quotidiana. Oligarchie russe a loro immagine che lo Stato russo cerca di controllare. Statocrazia in Cina. Autocrazie (a volte nascoste dietro qualche apparenza di democrazia elettorale “a bassa intensità”) inquadrate in questo sistema mondiale altrove, nel resto del pianeta.
La gestione della mondializzazione contemporanea da parte delle oligarchie è in crisi.
Le oligarchie del Nord non si sentono minacciate e pensano di restare al potere, una volta passato il tempo della crisi. Invece la fragilità dei poteri delle autocrazie del Sud è ben visibile. L’attuale mondializzazione si presenta per questo molto fragile. Sarà rimessa in discussione dalla rivolta del Sud, come nel secolo passato? Probabile. Ma triste. Giacché l’umanità si impegnerà sulla via del socialismo – sola alternativa umana al caos – solo quando i poteri delle oligarchie, dei loro alleati e dei loro lacchè saranno sconfitti sia nei paesi del Nord che in quelli del Sud.
Viva l’internazionalismo dei popoli contro il cosmopolitismo delle oligarchie.
E’ possibile che il capitalismo degli oligopoli finanziarizzati e mondializzati torni in sella?
Il capitalismo è “liberista” per natura, se per “liberismo” si intende non quella cosa bella che il termine ispira ma l’esercizio pieno e intero del dominio del capitale non solo sul lavoro e l’economia, ma su tutti gli aspetti della vita sociale. Non esiste “economia di mercato” (espressione volgare per indicare il capitalismo) senza “società di mercato”. Il capitale persegue ostinatamente questo obiettivo unico. Il denaro. L’accumulazione per se stessa. Marx, ma dopo di lui altri teorici critici come Keynes, l’hanno capito perfettamente. Non i nostri economisti convenzionali, inclusi quelli di sinistra.
Questo modello di dominio esclusivo e totale del capitale era stato imposto con ostinazione dalle classi dirigenti per tutto il lungo periodo della crisi precedente, fino al 1945. Solo la triplice vittoria della democrazia,a del socialismo e della liberazione nazionale dei popoli aveva permesso – fra il 1945 e il 1980 – di sostituire a questo modello permanente dell’ideale capitalistico, la coesistenza conflittuale dei tre modelli sociali regolati quali sono stati il welfare state della socialdemocrazia a ovest, i socialismi realmente esistenti a est e i nazionalismi popolari al sud. Successivamente, l’indebolimento e poi il crollo dei tre modelli ha reso possibile un ritorno al dominio esclusivo del capitale, definito neoliberista.
Ho associato questo nuovo “liberismo” a un complesso di nuove caratteristiche di ciò che mi è sembrato meritare la definizione di “capitalismo senile”. Il libro così intitolato, pubblicato nel 2001, era fra i pochi scritti che in quell’epoca, lungi dal vedere nel neoliberismo mondializzato e finanziarizzato la “fine della storia”, analizzava il sistema del capitalismo senescente evidenziandone l’instabilità che lo destinava al crollo, precisamente a partire dalla sua dimensione finanzia rizzata (il suo “tallone d’Achille”, come ho scritto).
Gli economisti convenzionali sono rimasti ostinatamente sordi a ogni tentativo di mettere in discussione i loro dogmi. Al punto da esser stati incapaci di prevedere il crollo finanziario del 2008. Coloro che i media dominanti hanno presentato come “critici” non meritano molto la definizione. Stiglitz resta convinto che il sistema quale era – il liberismo mondializzato e finanzia rizzato – può tornare in sella, a patto di qualche correzione. Amartya Sen predica la morale senza osar pensare il capitalismo realmente esistente quale è necessariamente.
I disastri sociali che il liberismo – “l’utopia permanente del capitale”,come ho scritto – non avrebbe mancato di provocare hanno ispirato molte nostalgie del passato recente o lontano. Ma le nostalgie non servono per rispondere alla sfida. Esse sono il prodotto di un impoverimento del pensiero critico teorico che si era a poco a poco vietato di capire le contraddizioni interne e  limiti dei sistemi del dopoguerra, in cui le erosioni, le derive e i crolli sono apparsi come cataclismi imprevisti.
Tuttavia, nel vuoto creato da questi arretramenti del pensiero teorico critico, una presa di coscienza delle nuove dimensioni della crisi sistemica di civiltà ha trovato il modo di aprirsi la strada. Mi riferisco qui agli ecologisti. Ma i Verdi, che hanno preteso di distinguersi radicalmente sia dai Blu (conservatori e liberali) che dai Rossi (i socialisti) si sono rinchiusi in un vicolo cieco, incapaci di integrare la dimensione ecologica della sfida con una critica radicale del capitalismo.
Tutto era a posto dunque per assicurare il trionfo – di fatto passeggero, ma vissuto come “definitivo” – dell’alternativa detta della “democrazia liberale”. Un pensiero misero – un autentico non pensiero – che ignora ciò che Marx aveva detto di decisivo riguardo alla democrazia borghese, che ignora che coloro che decidono non sono coloro che sono toccati dalle decisioni. Coloro che decidono godono della libertà rafforzata dal controllo della proprietà, e sono oggi i plutocrati del capitalismo degli oligopoli e gli Stati che sono loro debitori. Per forza di cose i lavoratori e i popoli interessati non sono altro che le loro vittime. Ma simili sciocchezze potevano sembrare credibili, per un breve momento, per via delle derive dei sistemi del dopoguerra, quando la miseria delle dogmatiche non riusciva più a capire le origini. La democrazia liberale poteva allora sembrare il “migliore dei sistemi possibili”.
Oggi i poteri attuali, che non avevano previsto nulla di ciò, si sforzano di restaurare lo stesso sistema. Il loro eventuale successo, come quello dei conservatori degli anni 20 – che Keynes denunciava senza allora ottenere ascolto – potrà solo aggravare l’ampiezza delle contraddizioni che sono all’origine del crollo finanziario del 2008.
Non è meno grave il fatto che gli economisti “di sinistra” si sono allineati da tempo sulle tesi dell’economia volgare e hanno accettato l’idea – sbagliata – della razionalità dei mercati. Essi hanno concentrato i loro sforzi sulla definizione delle condizioni di tale razionalità, abbandonando Marx – che aveva da parte sua rivelato l’irrazionalità dei mercati dal punto di vista dell’emancipazione dei lavoratori e dei popoli – giudicato ormai “obsoleto”. Nella loro prospettiva, il capitalismo è flessibile, si adegua alle esigenze del progresso (tecnologico e anche sociale), se viene obbligato. Questi economisti di “sinistra” non erano preparati a capire che la crisi che è scoppiata era inevitabile. E sono ancor meno preparati a fronteggiare le sfide che i popoli hanno oggi di fronte. Come gli altri economisti volgari, essi cercheranno di riparare i guasti, senza capire che per riuscirvi è necessario intraprendere un’altra strada, quella del superamento delle logiche fondamentali del capitalismo. Invece di cercar di uscire dal capitalismo in crisi, pensano di poter uscire dalla crisi del capitalismo.
Crisi dell’egemonia degli Stati Uniti
La recente riunione del G20 (Londra, aprile 2009) non ha affatto avviato una “ricostruzione del mondo”. E forse non è un caso che sia stata seguita da quella della Nato, il braccio armato dell’imperialismo contemporaneo, e dal rafforzamento del suo impegno militare in Afghanistan. La guerra permanente del Nord con il Sud deve continuare.
Già si sapeva che i governi della triade – Stati Uniti, Europa, Giappone – perseguono l’obiettivo esclusivo di ripristinare il sistema come era prima del settembre 2008, e non bisogna prendere sul serio gli interventi a Londra del presidente Obama e di Gordon Brown da una parte, quelli di Sarkozy e di Angela Merkel dall’altra, destinati a divertire la platea. Le pretese “differenze” rilevate dai media, prive di reale consistenza, rispondono solo al bisogno dei vari leader politici di farsi valere di fronte alle rispettive opinioni pubbliche sprovvedute. “Rifondare il capitalismo”, “moralizzare le operazioni finanziarie”: molte parolone per evitare le questioni vere. Ripristinare il sistema non è impossibile, ma non risolverà i problemi, ne aggraverà piuttosto la portata. La “commissione Stiglitz” convocata dalle Nazioni Unite, si inquadra in questa strategia di costruzione di un trompe l’oeil. Evidentemente non ci si può aspettare altro dagli oligarchi che controllano i poteri reali e dai loro debitori politici. Il punto di vista che ho sviluppato, ponendo l’accento sui rapporti fra il dominio degli oligopoli e la necessaria finanziarizzazione della gestione dell’economia mondiale – che sono indissociabili – è ben confermato dai risultati del G20.
Risulta invece più interessante il fatto che i leader dei “paesi emergenti” invitati sono rimasti in silenzio. Nel corso di quella giornata di gran circo, solo una frase intelligente è stata pronunciata dal presidente cinese Hu Jintao, che quasi di sfuggita , senza insistere e con un sorriso (ironico?), ha fatto osservare che bisognerà ben cominciare a prendere in considerazione l’ipotesi di un sistema finanziario mondiale non fondato sul dollaro. Alcuni rari commentatori hanno immediatamente fatto il confronto – corretto – con le proposte di Keynes nel 1945.
Questa “osservazione” ci riporta alla realtà: che la crisi del sistema del capitalismo oligopolistico è indissociabile da quella dell’egemonia degli Stati Uniti, ormai allo stremo. Ma chi gli darà il cambio? Certo non l’“Europa”, che non esiste al di fuori dell’atlantismo e non nutre alcuna ambizione di indipendenza, come ha dimostrato ancora una volta l’assemblea della Nato. La Cina? Questa “minaccia”, che i media invocano a sazietà (un nuovo “pericolo giallo”) indubbiamente per legittimare l’allineamento atlantico, è senza fondamento. I dirigenti cinesi sanno che il loro paese non ne ha i mezzi, e loro non ne hanno la volontà. La strategia della Cina si limita a operare per dare avvio a una nuova mondializzazione senza egemonia, cosa che né gli Stati Uniti né l’Europa giudicano accettabile.
Le possibilità di uno sviluppo che vada in questo senso riposano ancora totalmente sui paesi del Sud. E non è un caso che la Cnuced sia la sola istituzione delle Nazioni Unite che abbia preso iniziative molto diverse da quelle della Commissione Stiglitz. Non è un caso che il suo direttore, il tailandese Supachai Panitchpakdi, considerato finora come un perfetto liberista, nel suo rapporto intitolato The Global Economic Crisis del marzo 2009, abbia osato fare delle proposte realistiche e avanzate, nella prospettiva di un secondo momento di “risveglio del Sud”.
La Cina da parte sua ha avviato la costruzione – progressiva e controllata -  di sistemi finanziari regionali alternativi e indipendenti dal dollaro. Iniziative che completano sul piano economico le alleanze politiche del “gruppo di Shanghai”, il maggiore ostacolo al bellicismo della Nato.
L’assemblea della Nato, riunita nell’aprile del 2009, ha confermato la decisione di Washington di non avviare il disimpegno militare, ma invece di accentuarne l’ampiezza, sempre sotto il fallace pretesto della lotta al “terrorismo”. Il presidente Obama usa dunque tutto il suo talento per tentare di salvare il programma di Clinton e poi di Bush di controllo militare del pianeta, unico mezzo per prolungare l’egemonia americana ormai minacciata. Obama ha ottenuto dei risultati facendo capitolare senza condizioni la Francia di Sarkozy – la fine del gollismo – che è tornata nel comando militare della Nato, cosa rimasta difficile finché Washington parlava con la voce di Bush, sprovvista d’intelligenza ma non di arroganza. Per di più Obama è salito in cattedra, come Bush, senza preoccuparsi di rispettare “l’indipendenza” dell’Europa, per invitarla ad accettare l’integrazione della Turchia nell’Unione Europea!
Verso una seconda ondata di lotte vittoriose per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli
Sono possibili nuovi progressi nelle lotte di emancipazione dei popoli?
La gestione politica del dominio mondiale del capitale degli oligopoli comporta necessariamente un’estrema violenza. Per conservare la loro posizione di società opulente, i paesi della triade imperialistica sono ormai costretti a riservare a loro esclusivo beneficio l’accesso alle risorse naturali del pianeta. Questa nuova esigenza sta all’origine della militarizzazione della mondializzazione, che io ho definito come “impero del caos” (titolo di una delle mie opere, pubblicata nel 2001), espressione poi ripresa da altri.
Nella scia del progetto di Washington di controllo militare del pianeta. Conducendo perciò “guerre preventive” con la scusa della lotta al “terrorismo”, la Nato si è autopromossa come “rappresentante della comunità internazionale”, emarginando perciò l’ONU, la sola istituzione qualificata  per parlare a quel titolo.
Naturalmente non si possono confessare gli obiettivi reali. Per mascherarli, le potenze interessate hanno scelto di strumentalizzare il discorso della democrazia e si sono concesse un “diritto di intervento” per imporre il “rispetto dei diritti umani” !
Parallelamente, il potere assoluto delle nuove oligarchie ha svuotato di ogni contenuto la pratica della democrazia borghese. Mentre nel passato era necessaria la negoziazione politica fra le diverse componenti del blocco egemonico necessario per la riproduzione del potere del capitale, la nuova gestione politica della società del capitalismo oligopolistico, con una sistematica depoliticizzazione, fonda una nuova cultura politica basata sul “consenso” (sul modello degli Stati Uniti), che sostituisce il consumatore e lo spettatore politico al cittadino attivo, condizione di una democrazia autentica. Questo “virus liberale” (per riprendere il tiolo della mia opera pubblicata nel 2005) abolisce l’apertura su scelte alternative possibili e vi sostituisce il consenso intorno al solo rispetto della democrazia elettorale.
L’indebolimento e poi il crollo dei tre modelli di gestione sociale evocati prima sono all’origine del dramma. La pagina della prima ondata di lotte per l’emancipazione è stata voltata, quella della seconda ondata non si è ancora aperta. Nella penombra che le separa, si “disegnano i mostri”, come scriveva Gramsci.
Nei paesi del Nord questa evoluzione sta all’origine della perdita di senso della pratica democratica. L’arretramento viene giustificato ricorrendo al discorso cosiddetto “post-modernista”, secondo cui nazioni e classi avrebbero abbandonato la scena per lasciare il posto all’ “individuo”, diventato soggetto attivo della trasformazione sociale.
Nei paesi del Sud la scena è occupata da nuove illusioni: l’illusione di uno sviluppo capitalistico nazionale autonomo iscritto entro la mondializzazione, molto sentita fra le classi dominanti e medie dei paesi “emergenti” e confortata dal successo immediato degli ultimi decenni; o le illusioni passatiste (para-etniche o para-religiose) nei paesi rimasti più indietro.
Più grave risulta il fatto che questo corso degli avvenimenti favorisce l’adesione generale all’a “ideologia dei consumi”, all’idea che il progresso si misuri sulla crescita quantitativa. Marx aveva dimostrato che è il modo di produzione che determina quello del consumo, e non l’inverso, come pretende l’economia volgare. Viene così totalmente persa di vista la prospettiva di una razionalità umanista superiore, fondamento del progetto socialista. Il gigantesco potenziale che l’applicazione della scienza e della tecnologia offre all’umanità intera, e che dovrebbe permettere agli individui e alle società di fiorire pienamente, al Nord come al Sud, viene sprecato per la necessità di assoggettarlo alle logiche dell’accumulazione del capitale. Più grave ancora, i progressi continui della produttività sociale del lavoro vengono associati a uno sviluppo vertiginoso dei meccanismi di pauperizzazione (ben visibili su scala mondiale, fra l’altro per l’offensiva generalizzata contro le società contadine), come Marx aveva ben capito.
L’adesione all’alienazione ideologica prodotta dal capitalismo non colpisce soltanto le società opulente dei centri imperialistici. I popoli delle periferie –nella stragrande maggioranza esclusi dall’accesso a livelli accettabili di consumo – accecati da aspirazioni a un consumo analogo a quello del Nord opulento, perdono la coscienza che la logica di sviluppo del capitalismo storico rende impossibile generalizzare il modello in questione a tutto il pianeta.
Si comprendono allora le ragioni per cui il crollo finanziario del 2008 è stato risultato esclusivo dell’acutizzarsi delle contraddizioni interne caratteristiche dell’accumulazione del capitale. Solo l’intervento di forze portatrici di un’alternativa positiva permette di immaginare un’uscita dal caos prodotto dall’acutizzarsi delle contraddizioni interne del sistema (io opponevo la “via rivoluzionaria” al modello di superamento di un sistema storicamente obsoleto con la “decadenza”). Allo stato attuale delle cose, i movimenti di protesta sociale, malgrado la loro notevole ascesa, restano nell’insieme incapaci di mettere in discussione l’ordine sociale associato al capitalismo degli oligopoli, per mancanza di un progetto politico coerente che sia all’altezza delle sfide.
Da questo punto di vista la situazione attuale è molto diversa da quella che prevaleva negli anni 30, quando si affrontavano forze portatrici di opzioni socialiste da una parte e di partiti fascisti dall’altra, producendo qua la risposta nazista e là il New Deal e i Fronti popolari.
Non si potrà evitare che la crisi diventi più profonda, anche nell’ipotesi di un eventuale successo – non impossibile – del sistema di dominio del capitale oligopolistico. In queste condizioni la radicalizzazione delle lotte non è un’ipotesi impossibile, anche se gli ostacoli restano notevoli.
Nei paesi della triade la radicalizzazione comporterebbe il mettere in agenda l’espropriazione degli oligopoli, il che sembra escluso per il futuro immediato. Perciò non è possibile scartare l’ipotesi che malgrado le turbolenze provocate dalla crisi, non venga messa in discussione la stabilità delle società della triade. Sembra serio invece il rischio di un remake dell’ondata di lotte di emancipazione del secolo scorso, che rimetta in discussione il sistema a partire da alcune periferie.
Una seconda tappa del “risveglio del Sud” (per riprendere il titolo del mio libro pubblicato nel 2007, che offre una lettura del periodo di Bandung come primo tempo del risveglio) risulta oggi all’ordine del giorno. Nella migliore delle ipotesi, i progressi realizzati in queste condizioni potrebbero costringere l’imperialismo ad arretrare, a rinunciare al progetto demenziale e criminale di controllo militare del pianeta. E in questo caso il movimento democratico nei paesi del centro potrebbe contribuire positivamente al successo di questa neutralizzazione. Inoltre il decremento della rendita imperialistica di cui godono le società della triade, prodotto dalla riorganizzazione degli equilibri internazionali a favore del Sud (in particolare la Cina) potrebbe efficacemente aiutare il risveglio di una coscienza socialista. Ma d’altra parte le società del Sud dovranno sempre affrontare le stesse sfide del passato, con gli stessi limiti posti al loro progresso.

Un nuovo internazionalismo dei lavoratori e dei popoli è necessario e possibile

Il capitalismo storico è tutto quel che si vuole, tranne che durevole. Non è che una breve parentesi nella storia. Rimetterlo in causa – cosa che i teorici nostri contemporanei non immaginano né “possibile” e neppure “auspicabile” – è peraltro la condizione imprescindibile dell’emancipazione dei lavoratori e dei popoli dominati (quelli della periferia, l’80% dell’umanità). Le due dimensioni della sfida non si possono dissociare. Non si potrà uscire dal capitalismo solo con la lotta dei popoli del Nord e neppure solo con la lotta dei popoli dominati del Sud. Si potrà uscire dal capitalismo solo quando, e nella misura in cui, le due dimensioni della stessa sfida si articoleranno l’una con l’altra. Non è “certo” che ciò succeda, nel qual caso il capitalismo sarà “superato” dalla distruzione della civiltà (al di là del disagio della civiltà, per usare i termini di Freud) e forse anche della vita sul pianeta. Lo scenario di un possibile remake del XX secolo resterà dunque al di qua delle esigenze di un impegno dell’umanità sulla lunga strada della transizione al socialismo mondiale. Il disastro liberista impone un rinnovamento della critica radicale del capitalismo. E’ la sfida cui oggi si confronta la costruzione/ricostruzione permanente dell’internazionalismo dei lavoratori e dei popoli, in contrasto con il cosmopolitismo del capitale oligarchico.
La costruzione di questo internazionalismo passa necessariamente per il successo dei nuovi tentativi rivoluzionari (come quelli iniziati in America Latina e in Nepal) che aprono la prospettiva di un superamento del capitalismo.
Nei paesi del Sud la lotta degli Stati e delle nazioni per una mondializzazione negoziata senza egemonie – forma contemporaneo dello sganciamento – sostenuta dall’organizzazione delle rivendicazioni delle classi popolari, può circoscrivere e limitare il potere degli oligopoli della triade imperialistica. Le forze democratiche nei paesi del Nord devono pure sostenere questa lotta. Il discorso “democratico” proposto e accettato dalla maggioranza delle sinistre come sono oggi, gli interventi “umanitari” condotti in suo nome, come le pratiche miserabili degli “aiuti”, escludono dalla loro considerazione il confronto reale con questa sfida.
Nei paesi del Nord gli oligopoli sono già visibilmente dei “beni comuni” la cui gestione non può essere affidata ai soli interessi particolari (la crisi ne ha dimostrato i risultati catastrofici). Una sinistra autentica deve avere l’audacia di immaginarne la nazionalizzazione, prima tappa imprescindibile nella prospettiva della loro socializzazione mediante l’approfondirsi della pratica democratica. La crisi in corso permette di immaginare la possibile formazione di un fronte di forze sociali e politiche che raduni tutte le vittime del potere esclusivo delle oligarchie.
La prima ondata di lotte per il socialismo, nel XX secolo, ha dimostrato i limiti delle socialdemocrazie europee, dei comunismi della Terza internazionale e dei nazionalismi popolari dell’epoca di Bandung, l’indebolirsi e poi il crollo delle loro ambizioni socialiste. La seconda ondata, nel XXI secolo, deve trarne le conseguenze. In particolare, bisogna associare la socializzazione della gestione economica con una più profonda democratizzazione della società. Non ci sarà socialismo senza democrazia, ma neppure alcun progresso democratico fuori dalla prospettiva socialista.
Questi obiettivi strategici invitano a pensare alla costruzione di “convergenze nella diversità” (per riprendere l’espressione del Forum mondiale delle alternative) delle forme di organizzazione e di lotta delle classi dominate e sfruttate. E non è mia intenzione condannare aprioristicamente le forme che, alla loro maniera, vogliano riprendere le tradizioni delle socialdemocrazie, dei comunismi e dei nazionalismi popolari, o vogliano abbandonarle.
In questa prospettiva, mi sembra necessario pensare a un rinnovamento dei un marxismo creativo. Marx non è mai stato tanto utile e necessario per capire e trasformare il mondo come lo è oggi, ancora più di ieri. Essere marxista in questo senso significa partire da Marx e non fermarsi a lui, a Lenin o a Mao, come hanno teorizzato e praticato i marxismi storici del secolo scorso. Bisogna rendere a Marx quel che gli compete: l’intelligenza di aver iniziato un pensiero critico moderno, critico della realtà capitalistica e critico delle sue rappresentazioni politiche, ideologiche e culturali. Il marxismo creativo deve avere lo scopo di arricchire senza esitazioni questo pensiero critico per eccellenza. Non deve temere di integrare tutti gli apporti della riflessione, in tutti i campi, compresi gli apporti che sono stati considerati, a torto, come “estranei” dai dogmatici dei marxismi storici del passato.

Nota: Le tesi presentate in questo articolo sono state sviluppate nell’opera La crise, sortir de la crise du capitalisme ou sortir du capitalisme en crise, ed. Le Temps des Cerises, Parigi, 2009.

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